Copertina
Autore Marco Travaglio
Titolo Per chi suona la banana
SottotitoloIl suicidio dell'Unione Brancaleone e l'eterno ritorno di Al Tappone
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Saggi , pag. 524, cop.fle., dim. 13,8x21x3,4 cm , Isbn 978-88-11-74097-1
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe politica , satira
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Indice


Premessa                              7
Telecamera di consiglio               9
Aridatece la Dc                      11
Scemenzopoli                         13
Non c'è più religione                16
Ultimo avviso                        18
Il telefono, la sua voce             20
Second life                          23
Porca a porca                        25
Museo Egizio                         27
Partito Smemocratico                 29
Bluff trust                          32
Sarkoqui, Sarkolà                    34
Rapine a norma di legge              36
Multifamily Day                      39
Raipolitik                           41
L'Ometto Qualunque                   43

[...]

Angelino giurista per caso          495
I Mastella's                        498
La Ricostituente                    500
Al cittadino non far sapere         502
Visto, si indaghi                   505
Udc, Unione dei Cuffari             507
Abbiamo i palinsesti                509
Sòla profonda                       512
Puttanate                           514


 

 

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Pagina 7

PREMESSA



Si parte dal marzo del 2007: governava, traballando, Romano Prodi. Si arriva al settembre del 2008: sgoverna, anzi risgoverna Silvio Berlusconi. In arte Bellachioma, Cainano, Al Tappone. Qualcuno mi rimprovera di ricorrere troppo spesso a soprannomi, ma è una questione igienico-sanitaria: non ce la faccio più a chiamarlo col suo nome. Però ritengo che sia ancora utile occuparsene, descriverlo per quello che è. E soprattutto raccontare com'è stato possibile che resuscitasse ancora una volta dalle sue ceneri, riesumato e rianimato con la respirazione bocca a bocca (ma anche Porta a Porta) da un centrosinistra che pare, anzi è fatta apposta per lui. Questo libro raccoglie le rubriche – Uliwood Party e poi Ora d'aria uscite sull'«Unità» nell'ultimo anno e mezzo: i dodici mesi finali dell'Unione Brancaleone e i primi sei del Berlusconi III. I primi spiegano i secondi. I secondi non sarebbero stati possibili senza i primi. Perché questa non è tanto la storia di una resurrezione (Berlusconi e Fini, insieme, hanno raccolto alle ultime elezioni 100 mila voti in meno di quelli che avevano collezionato nel 2006, quando avevano perso per un soffio: li ha salvati la Lega). Questa è soprattutto la storia tragicomica del suicidio politico, culturale, esistenziale, forse generazionale di una classe dirigente, quella che ora si fa chiamare Partito democratico e Sinistra Arcobaleno, o qualcosa del genere, e che ha riconsegnato il paese per la terza volta a una barzelletta ambulante. Una classe dirigente al cui confronto Fantozzi e Tafazzi sono due vincenti. Una classe dirigente che ha sempre perso tutte le elezioni (ma ha mandato in prepensionamento l'unico che le elezioni contro Berlusconi le ha sempre vinte, due volte su due), ha sempre fallito tutti gli obiettivi e in un meno di due anni è riuscita a far dimenticare cinque anni di disastri berlusconiani, ma ha deciso – bontà sua – di autoconfermarsi al vertice dei rispettivi partiti, in vista di nuove, appassionanti disfatte. Un centrosinistra berlusconizzato in tutto, fuorchè per la capacità di vincere e convincere. Conosco l'obiezione: il Pd non è uguale al Pdl. Verissimo: come dice Oliviero Beha, è complementare.

M.T.

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Pagina 9

(28-3-2007)

Telecamera di consiglio

Volge al termine, alla Corte d'Appello di Torino, il processo ad Annamaria Franzoni accusata di avere assassinato a Cogne il figlioletto, Samuele Lorenzi.

Bisognerebbe distribuirla nelle università, la requisitoria del sostituto procuratore generale Vittorio Corsi di Bosnasco al processo di Cogne. Soprattutto la parte in cui il magistrato illustra la storia di questo processo celebrato negli studi di Porta a Porta, del Costanzo Show e di Matrix (Mentana aveva solennemente promesso di non occuparsi mai di Cogne: infatti...) e giunto irrimediabilmente deformato nelle aule di giustizia. Dalle parole di questo magistrato all'antica, studiosi e studenti trarrebbero ricchi spunti di riflessione sugli ultimi lasciti del berlusconismo: la televisione giudiziaria e la giustizia televisiva. Grazie a Vespa, a Mentana e all'avvocato Taormina, la signora Franzoni è stata la cavia su cui, per cinque anni, si è sperimentato il modello di difesa berlusconiano su un cittadino comune. Con effetti devastanti per il cittadino comune medesimo (se uno normale prova a difendersi come il Cavaliere, è rovinato), ma soprattutto per quel che resta dell'informazione e della giustizia in Italia. Che poi le requisitorie dei processi d'appello alla Franzoni e a Berlusconi siano arrivate nello stesso giorno, è una di quelle astuzie della storia che portano a credere nella divina provvidenza. Cosa fa Giorgio Franzoni, padre dell'imputata, quando le cose per la sua «Bimba» si mettono male? Ingaggia un avvocato-deputato di Forza Italia, Carlo Taormina. «Voglio sentirgli dire», tuona in una telefonata, «che aprirà un'inchiesta sui carabinieri», cioè sul Ris di Parma che ha il torto di indagare sulla figlia. Poi fa pressione su vari ministri di Berlusconi («Far intervenire il ministro della Difesa», «Nel governo abbiamo appoggi»). Intanto sua moglie telefona alla segretaria del presidente della Camera Pierferdinando Casini: «Mio marito conosce bene l'onorevole». Se Casini solidarizza pubblicamente con Dell'Utri alla vigilia della sentenza, darà una mano anche alla Bimba. Il resto lo fanno le interviste sapientemente dosate in tv e ai rotocalchi, le lacrime a comando («Ho pianto troppo?»), le gravidanze in serie, le foto in bikini col marito in Sardegna o nella piazza del paese, versione baby sitter con bambini, e le orde di tele-fans che sciamano verso il Tribunale di Torino da ogni parte d'Italia, come nelle gite delle pentole e nelle visite alla Torre di Pisa, come i guardoni dei vip in Costa Smeralda. Nel processo così berlusconizzato e lelemorizzato i fatti non contano più nulla. Conta il reality show. L'imputato non è più la mamma rinviata a giudizio e condannata a 30 anni in primo grado per l'omicidio del suo bambino, ma tutti gli altri, puntualmente denunciati da Taormina: i vicini di casa, i pm e il gip di Aosta, il colonnello del Ris, i consulenti della Procura e del Tribunale, i giornalisti non allineati. «Se i giudici non scagioneranno la Bimba, dovranno essere distrutti», annuncia il patriarca Franzoni, mentre il premier Silvio distrugge i suoi definendoli «un cancro da estirpare» e «doppiamente matti» e tempestandoli di calunnie, denunce, ispezioni, procedimenti disciplinari. Come i colleghi avvocati-deputati del Cavaliere, Taormina provvede alla difesa «dal» processo: tira in lungo, denuncia e attacca tutti, da Aosta chiede di passare a Torino, e da Torino a Milano, e alla fine risulta pure lui indagato per certe false impronte lasciate dal suo staff per depistare le indagini. «Questo», dice allibito il Pg, «è uno dei casi più semplici di "figlicidio": le statistiche dicono che sono una ventina l'anno. Perlopiù commessi da madri, raramente da padri. Tanti sono stati rapidamente chiariti e dimenticati. Per questo, dopo cinque anni, ancora ci si domanda se l'imputata è innocente perché non confessa, o perché si teme di ammettere che un delitto così orrendo sia stato commesso da una madre "normale". Ma è il processo che è anomalo: la difesa l'ha imposto come se si venisse dal nulla, come se non ci fossero i fatti, le prove». I fatti, le prove: roba da tribunali, non da televisioni, nel paese che affida le sentenze a Vespa, Palombelli, Crepet, Costanzo; nel paese dove chi racconta il bonifico da 434 mila dollari Berlusconi-Previti-Squillante è un pericoloso eversore. La mamma di Cogne, in un colloquio intercettato, aveva persino confessato («Non so cosa mi è success... cioè, cosa gli è successo»). Ma di quell'intercettazione nessuno, nelle settantatré puntate di Porta a Porta, aveva mai parlato. Sennò il presunto «giallo di Cogne» finiva subito e il baraccone smobilitava già al secondo giorno. E magari, poi, toccava raccontare come Berlusconi e Previti corruppero un paio di giudici, o come Andreotti mafiò per trent'anni. Non sia mai.

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Pagina 193

(22-11-2007)

Raiset, uso criminoso

Il quotidiano «la Repubblica» riporra le telefonate intercettate ai piani alti della Rai nell'inchiesta milanese sul crac dell'Hdc, la societa del sondaggista berlusconiano Luigi Crespi.

Chapeau. Nemmeno il più feroce demonizzatore, il più accanito antiberlusconiano poteva immaginare la meticolosità, la scientificità, la capillarità del controllo esercitato su ogni minuto, ogni minimo dettaglio di programmazione Rai dagli uomini Mediaset infiltrati da Silvio Berlusconi nel cosiddetto «servizio pubblico», come emerge dalle telefonate pubblicate ieri da «Repubblica». Intendiamoci: la fusione Rai-Mediaset in un'indistinta Raiset al servizio e a maggior gloria del Cavaliere si notava a occhio nudo e questo giornale [«l'Unità», n.d.r.], da Furio Colombo in giù, l'ha sempre denunciata. Ma le intercettazioni della Procura di Milano, disposte nell'inchiesta sul fallimento del sondaggista del Cavaliere, Luigi Crespi, dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio la privatizzazione della Rai da parte della «concorrenza» e la sua trasformazione in una succursale di Mediaset. Da sette lunghi anni, cioè da quando Berlusconi tornò al governo e occupò militarmente Viale Mazzini, la Rai è cosa sua, un feudo privato da usare per blandire gli amici, manganellare i nemici, ammonire gli alleati appena un po' critici, ma soprattutto per celebrare le gesta del Capo. Tacendo le notizie scomode, enfatizzando quelle comode, parlando solo di quel che vuole Lui. La realtà immortalata dalle intercettazioni del 2004-2005 supera persino l'immaginazione di chi, pur denunciando gli orrori e le miserie del regime mediatico, pensava che ciò che quotidianamente andava (e va) in onda non fosse frutto di un copione scritto ad Arcore, ma dell'eterno servilismo della classe giornalistica italiana, la più vile e conformista del mondo. Invece è tutto pianificato nei minimi dettagli sulla chat line Viale Mazzini-Palazzo Grazioli (o Chigi): persino le inquadrature del Capo ai funerali del papa, i ritardi nell'annuncio dei risultati elettorali negativi, il numero di citazioni a Porta a Porta del sacro nome di Silvio (che, a differenza di altre divinità, va nominato spesso e soprattutto invano, specialmente da Vespa). Non c'è voluto molto per ridurre quella che fu la prima azienda culturale d'Europa e alfabetizzò l'Italia in questa miserabile Pravda ad personam: è bastato sistemare una dozzina di visagisti, truccatori e politicanti berlusconiani nei posti giusti e lasciarne molti di più sulle poltrone precedentemente occupate. Intanto venivano cacciati i Biagi, i Santoro e i Luttazzi, poi le Guzzanti e gli altri della seconda ondata, incompatibili col nuovo corso. «Criminosi». Ma non perché fossero «di sinistra». Perché sono fior di professionisti: con due o tre programmi ben fatti, avrebbero rovinato tutto. Se qualcuno li chiama per pregarli di nascondere i dati delle elezioni amministrative e non far soffrire troppo il Cavaliere, quelli mettono giù. I rimasti, invece, obbediscono ancor prima di ricevere l'ordine. Si spiegano così non solo le epurazioni bulgare e post-bulgare, ma anche lo sterminio delle professionalità, soprattutto nella rete ammiraglia di Rai1, affidata (tuttoggi) al fido Del Noce: uno che, oltre ad aver epurato Biagi, è riuscito a litigare persino con Arbore, Baudo, Carrà e Celentano. Chi ha idee e talento ha più séguito, dunque è più libero e meno censurabile, ergo inaffidabile. I superstiti, invece, sono pronti a qualunque servizio e servizietto. Il papa sta morendo e il Ciampi prepara un messaggio a reti unificate? Anziché preoccuparsi che la Rai copra la notizia meglio della concorrenza, i dirigenti berlusconiani pianificano una degna uscita mediatica del Capo, onde evitare che il Quirinale lo oscuri. Il papa muore proprio alla vigilia delle amministrative, distraendo gli elettori cattolici dal dovere di correre alle urne per votare il Capo? Si organizza una serie di «programmi che diano alla gente un senso di normalità, al di là della morte del papa, per evitare forte astensionismo alle elezioni amministrative». Più che un servizio pubblico, un servizio d'ordine a uso e consumo del premier padrone, sempre pronto a disperdere i disturbatori (papa morente compreso) ora coi manganelli, ora con gli idranti. In cabina di regia c'è la signorina Deborah Bergamini, già assistente del Cavaliere, da lui promossa capo del Marketing strategico della Rai, mentre Alessio Gorla, già dirigente Fininvest e Forza Italia, diventava responsabile dei Palinsesti. Deborah, per gli amici «Debbi», non ha ben chiaro il confine tra Rai e Mediaset, anzi considera la Rai una dependance di Mediaset, dunque del governo Berlusconi. Chiama continuamente Mauro Crippa (direttore generale per l'«informazione» delle reti Mediaset), Paolo Bonaiuti (sottosegretario alla Presidenza del consiglio e portavoce del premier) e Niccolò Querci (segretario del Cavaliere e vicepresidente di Publitalia) per concordare le strategie di comunicazione più favorevoli al Capo. Al resto pensano i servi furbi. Mimun, si sa, era in prestito d'uso da Mediaset, dov'è poi morbidamente riatterrato. Non c'è neppure bisogno di dirgli il da farsi: lo sa da sé. E poi – assicurano Debbi e Delnox – fa un ottimo «gioco di squadra con Rossella» (Carlo, allora direttore di «Panorama», molto vicino al premier e dunque alla Rai). Anche Vespa non ha bisogno di suggerimenti. Del Noce telefona a Debbi per avvertirla che «Vespa ha parlato con Rossella e accennerà in trasmissione al Dottore (Berlusconi, n.d.a.) a ogni occasione opportuna». Qualcuno suggerisce che Bruno potrebbe «non confrontare i voti attuali con quelli delle scorse regionali», per mascherare meglio la disfatta del Capo, o magari «fare più confusione possibile per camuffare la portata dei risultati». Ma poi si preferisce lasciarlo libero di servire come meglio crede, perché – dice giustamente Debbi – «tanto Vespa è Vespa». Quello che, in un'altra intercettazione raccolta dalla Procura di Potenza, prometteva al portavoce porcellone di Fini: «A Gianfranco la trasmissione gliela confezioniamo addosso». Piuttosto c'è un problema: Mauro Mazza, troppo amico di Fini per piacere a Forza Italia, farà la prima serata di Rai2 sulle elezioni. Bisogna sabotarlo, perché quello magari i dati non li nasconde. Idea geniale: Deborah parla con Querci «e gli chiede di mettere una cosa forte in prima serata su Canale5», così la gente guarda quella e lo speciale Mazza non se lo fila nessuno. Del resto è un'abitudine, per lei, concordare i palinsesti con Mediaset: più che del marketing della Rai, è la capa del marketing di Berlusconi. Infatti, ancora commossa, commenta così i funerali di Giovanni Paolo II: «Berlusconi è stato inquadrato pochissimo dalle telecamere». Si sa com'è fatto il Cavaliere: «Ai matrimoni», diceva Montanelli, «vuol essere lo sposo e ai funerali il morto». Notevole anche il caso del Festival di Sanremo affidato a Paolo Bonolis (pure lui in prestito d'uso alla Rai, prima di tornare a casa Mediaset): il presentatore è affiancato da un «direttore artistico» che non capisce una mazza di musica, ma si avvale della consulenza di Querci, uomo Fininvest, purché «la cosa non si sappia in giro» (se no la gente capisce tutto).

In tutti questi anni, mentre ogni inquadratura di ogni telecamera di ogni programma diurno e notturno di Raiset veniva controllata dai guardaspalle del Padrone, chiunque si azzardasse anche soltanto a ipotizzare che questi signori lavorassero per il re di Prussia, anzi di Arcore, veniva zittito dai «terzisti» e dai «riformisti» come «demonizzatore» e «apocalittico» animato da «cultura del sospetto», incapace di comprendere che le tv non contano per vincere le elezioni; anzi, a parlar male di Berlusconi si fa il suo gioco. Poi veniva querelato e citato in giudizio per miliardi di danni dai Del Noce e dai Confalonieri, sdegnati dalle turpi insinuazioni sulla liaison Rai-Mediaset nel paradiso della concorrenza e del libero mercato. Dirigenti come Loris Mazzetti e Andrea Salerno, rei di aver chiamato censure le censure, sono stati perseguitati dall'azienda con procedimenti disciplinari. L'ultima è piovuta su Mazzetti, per aver partecipato ad Annozero e detto la verità sull'epurazione del suo amico Biagi. Salerno, già responsabile della satira per Rai3 quando c'era ancora la satira, ha preferito togliere il disturbo. Intanto Confalonieri non si perdeva una festa dell'Unità e le quinte colonne berlusconiane facevano carriera in Rai, tant'è che sono ancora tutte lì: Del Noce a Rai1, Bergamini al Marketing, Vespa a Porta a Porta. Tutti straconfermati dalla «Rai del centrosinistra» che non ha ancora trovato uno spazietto per Luttazzi, Sabina, Beha, Massimo Fini. Ancora l'altroieri la sceneggiata di quest'ometto ridicolo che in mezz'ora scioglie un partito e ne fa un altro è stata magnificata a reti unificate come evento epocale, geniale, rivoluzionario, col contorno di alati dibattiti sugli otto milioni di firme ai gazebo, mai viste e mai esistite se non in tv. La sua tv: quella che da anni e anni trasforma un plurimputato, già frequentatore di mafiosi, per giunta piuttosto ridicolo, che basterebbe mostrare per quello che è per suscitare fughe e risate di massa, in uno statista liberale di livello internazionale.

Ora si spera che, oltre alla solita «indagine interna», fiocchino i licenziamenti per giusta causa (con richieste danni per intelligenza col nemico), almeno per chi ha lasciato le impronte digitali nello scandalo, come accadrebbe ai manager di qualunque azienda sorpresi ad accordarsi con la concorrenza. Ma, onde evitare che la scena si ripeta in un prossimo futuro, licenziare i servi di Berlusconi non basta. Occorre una vera «legge Biagi» (nel senso di Enzo) per cacciare per sempre i partiti dalla Rai e stabilire finalmente l'ineleggibilità dei proprietari di giornali e tv. Sempreché, si capisce, la cosa non disturbi il «dialogo per le riforme». E ora, consigli per gli acquisti.

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Pagina 391

(28-5-2008)

Ave, compagno Silvio

Edmondo Berselli osserva su «Repubblica» che «negli ultimi giorni si è assistito a un fenomeno straordinario di conformismo verso il nuovo potere... interi turiboli d'incenso sparsi per celebrare la liturgia del grande ritorno», ennesimo sintomo dell'«ineffabile amore di buona parte delle élite italiane per qualsiasi potere, purché forte e spregiudicato», che «riversa sul centrodestra un'ondata di consenso aprioristico, non condizionato dalla verifica dei risultati attesi. Un consenso "a prescindere"». Berselli ce l'ha con la non-opposizione del Pd (i «diversamente concordi», come li chiama Ellekappa). Ma poi, mentre il Pd si oppone un pochino alla legge salva-Rete4, ecco un editoriale di «Liberazione» dal titolo: «Ma chi se ne frega di Rete4». È il solito benaltrismo dei compagnucci della parrocchietta, non a caso recentemente estinti. Per loro il problema è sempre un altro. Non è il monopolio berlusconiano delle tv, cioè della non-informazione, dell'immaginario collettivo, del senso comune, della scala dei valori e soprattutto dei disvalori degl'italiani. Ma, com'è noto, i problemi sono il modello di sviluppo, la globalizzazione e naturalmente il Chiapas. Credo, anzi temo che chi sostiene questa bizzarra tesi non sia un venduto: credo, anzi temo, che sia in buona fede. Lo temo perché è molto peggio. Chi si dedica con passione agli ultimi della società, ai temi dei salari, del precariato, dell'ambiente, della pace, della laicità, dei diritti civili, dell'antifascismo non ha ancora compreso che su questi fronti l'Italia non farà mai un solo passo avanti proprio perché questi temi – salvo qualche rara oasi di libertà – non appaiono mai in televisione, dunque non diventano centrali nel dibattito politico, giornalistico e culturale, dunque «non esistono». Chi lamenta la scomparsa della classe operaia dalle tv e dunque dai giornali e dalla politica dimentica che essa è frutto del monopolio tv, dei sei-sette palinsesti tutti uguali, della mancanza di pluralismo e di libero mercato nel settore televisivo. La battaglia per spedire Rete4 su satellite e trasferirne le frequenze a Europa7 non è un dispetto a Berlusconi o a Fede. E neppure, soltanto, una battaglia di legalità per rispondere finalmente a due sentenze della Consulta, a una della Corte di giustizia europea e a due procedure d'infrazione dell'Ue (che, fra l'altro, ci costerebbero multe salatissime). È soprattutto una battaglia per aprire il mercato televisivo a un nuovo soggetto. Che non solo ha il sacrosanto diritto di praticare il suo business. Ma porterebbe pure un grande beneficio a tutto il Paese. Se i governi di destra e sinistra dal 1999 a oggi avessero fatto il proprio dovere, assegnando a Europa7 le frequenze necessarie per esercitare la concessione regolarmente vinta (e persa da Rete4), da nove anni i cittadini potrebbero scegliere col telecomando un'emittente in più, oltre alle solite e sempre più simili Rai, Mediaset e La7. Non so che editore sia Francesco Di Stefano, perché nessuno gli ha mai dato modo di mettersi in gioco. Ma, se non è proprio un fesso autolesionista, immagino che avrebbe messo in piedi una tv radicalmente alternativa a quelle esistenti. Per andare a pescare anzitutto in quell'enorme serbatoio di potenziali telespettatori (circa 30 milioni) che oggi tengono il televisore spento. Il suo interesse economico l'avrebbe spinto a dare al pubblico di Europa7 ciò che Rai, Mediaset e La7, legate a filo doppio alla politica, non possono o non vogliono dare. Non avrebbe faticato granché, a inventare un palinsesto e a trovare chi lo realizzasse: avrebbe ingaggiato Biagi, Santoro, Luttazzi, Guzzanti, Fini, Beha, Freccero e altri grandi professionisti più o meno noti, banditi per anni (e, in buona parte, tutt'oggi). Se non l'avesse fatto, avrebbe condannato la sua tv al più cocente fallimento. E giustamente sarebbe scomparso dalla scena, liberando le frequenze per qualcun altro più capace di lui. Se invece l'avesse fatto, avrebbe intercettato una gran voglia di informazione, di satira, di spettacolo diversi da quelli che siamo abituati a subire. E avrebbe fatto fortuna, rubando pubblico e pubblicità ai monopolisti di sempre. Naturalmente è proprio quest'eventualità che terrorizza il partito azienda e il sistema dei partiti, di destra ma anche di una bella fetta del centrosinistra. Ed è per questo che non l'hanno mai lasciato nemmeno provare, riuscendo persino a oscurare lo scandalo Europa7 affinché nessuno ci pensasse. E affinché, nel 2008, qualche compagnuccio mitridatizzato dalla propaganda del monopolio sbuffasse in prima pagina: «Chi se ne frega di Rete4». Missione compiuta.

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Pagina 479

(5-8-2008)

Forza Israele

L'altra sera, in quella parodia di telegiornale che si fa chiamare Tg1, il ridanciano Attilio Romita annunciava giulivo come quarta notizia del giorno che «prende sempre più piede la moda dell'aperitivo in spiaggia... e allora cin-cin in riva al mare!». In compenso, a una settimana di distanza, si attende ancora un servizio che metta a confronto Italia e Israele in relazione a una straordinaria coincidenza (entrambe le democrazie hanno il premier sott'accusa per corruzione) e a un'altrettanto straordinaria differenza: in Israele salta il premier sotto processo, in Italia saltano i processi al premier. Per legge. Ora, visto che i servi sparsi per giornali e tg hanno raccontato per un mese che il Lodo Alfano «esiste in tutte le democrazie del mondo», il giornalismo anglosassone di cui Johnny Raiotta è maestro (come si può notare dalla camicia bianca) imporrebbe una qualche rettifica. Del tipo: «Gentili telespettatori, vi è stato raccontato che, nelle altre democrazie, il premier è coperto da immunità: bene, siamo lieti di informarvi che non è vero, l'immunità ce l'ha solo il nostro». Lo stesso potrebbero fare i giornali, come il «Corriere», popolato di fans sfegatati di Israele nonché denunciatori indefessi della presunta «anomalia» costituita dai processi a Berlusconi. Invece niente, silenzio di tomba. E dire che, tra il caso Olmert e il caso Al Tappone, c'è un abisso. Il primo avrebbe mille ragioni in più del secondo per restare al suo posto. Olmert non è stato ancora formalmente incriminato, Al Tappone è imputato in seguito a due rinvii a giudizio e a una terza richiesta di rinvio a giudizio. Il reato contestato a Olmert è infinitamente meno grave di quelli contestati ad Al Tappone: nessuna corruzione di testimoni o di dirigenti televisivi, nessuna compravendita di senatori, nessuna frode fiscale, ma una modesta vicenda di finanziamenti elettorali non dichiarati (la miseria di 150 mila dollari ricevuti, secondo l'accusa, dal magnate americano Morris Talsunky). L'indagine a suo carico è nata dopo la sua ascesa alla guida del governo, non prima. I fatti contestati riguardano la sua attività politica, non i suoi affari privati (Olmert non ne ha). Israele, poi, è un paese in guerra da quand'è nato, rischia un attacco dall'Iran e nei prossimi mesi potrebbe giungere finalmente alla pace con i palestinesi. Insomma, almeno per i canoni italioti, non sarebbe stato affatto scandaloso se Olmert si fosse presentato in tv per annunciare che sarebbe rimasto al suo posto per non lasciare senza guida il suo Paese in un momento così delicato. Invece il pensiero non l'ha neppure sfiorato. Con un discorso pieno di dignità e di senso dello Stato, che andrebbe affisso su tutte le pareti del Parlamento e del governo italiani, ma anche al Quirinale, e studiato a memoria dai nostri sedicenti rappresentanti, il premier israeliano ha detto quanto segue: «Sono fiero di appartenere a uno Stato in cui un premier può essere indagato come un semplice cittadino. Un premier non può essere al di sopra della legge, ma nemmeno al di sotto. Se devo scegliere fra me, la consapevolezza di essere innocente, e il fatto che restando al mio posto posso mettere in grave imbarazzo il Paese che amo e che ho l'onore di rappresentare, non ho dubbi: mi faccio da parte, perché anche il primo ministro dev'essere giudicato come gli altri. Dimostrerò che le accuse di corruzione sono infondate da cittadino qualunque. Errori ne ho commessi e me ne pento. Per la carica che occupo, ero consapevole di poter finire al centro di attacchi feroci. Ma nel mio caso si è passata la misura». Parole nobili che, dunque, non sono piaciute al «Foglio» di Giuliano Ferrara. Ammiratore fanatico di Israele, stavolta il Platinette Barbuto commenta incredulo: «La stampa israeliana è terribile, quando ha un pezzo di carne tra i denti è difficile che lo molli. Neppure se si chiama Olmert. Maariv e Yedioth Ahronot hanno pubblicato le deposizioni del premier, parola per parola... Verbali devastanti per Olmert... Dalla procura spiegano che le prove acquisite vanno ben oltre la testimonianza di Talansky... Olmert dovrà testimoniare per la quarta volta». Capite la gravità della situazione? La stampa israeliana fa il suo dovere e pubblica i verbali senza che nessuno chieda una legge per silenziarla. La procura spiega le prove senza che nessuno chieda l'arresto o il trasferimento dei magistrati. Il premier viene convocato per quattro volte dagli inquirenti senza che nessuno strilli all'«uso politico della giustizia». E Olmert si presenta ogni volta dinanzi ai suoi accusatori, anziché rispondere che ha di meglio da fare. Il capo dello Stato israeliano intanto, anziché tuonare contro la «giustizia spettacolo» o salmodiare su presunti «scontri fra politica e magistratura», se ne sta zitto e buono. E, udite udite, sia le opposizioni sia i vertici del partito Kadima (quello di Olmert) premevano da tempo perché Olmert si dimettesse. Roba da matti. In Israele gli oppositori si oppongono senza che nessuno si sogni di accusarli di giustizialismo, dipietrismo o anti-olmertismo. Anche perché Israele non conosce fenomeni come Galli della Loggia, Panebianco, Ostellino, Battista, Romano, Franco & Franchi, Polito El Drito e gli altri trombettieri del Lodo. Che infatti, alla notizia delle dimissioni di Olmert, si son subito messi in ferie.

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Pagina 495

(28-8-2008)

Angelino giurista per caso

Angelino Jolie, incredibilmente ministro della Giustizia, in un'intervista al «Giornale» della ditta, ha voluto confermare la denuncia della collega Gelmini sulle scuole del Sud che produrrebbero solo somari. Lui infatti ha studiato ad Agrigento. Come il suo spirito guida Al Tappone, dice di ispirarsi a Falcone: «Stavo rileggendo proprio in questi giorni l'intervista del giudice a Marcello Padovani». Ora, Marcello Padovani non esiste, dunque è altamente improbabile che Falcone gli abbia mai rilasciato un'intervista. Esiste invece Marcelle Padovani, corrispondente del «Nouvel Observateur» dall'Italia. Resta da capire che cosa diavolo stia leggendo Angelino Jolie. Forse un apocrifo prestatogli da un altro Marcello: Dell'Utri, noto bibliofilo pregiudicato. La sua riforma della Giustizia, rivela Angelino al genuflesso direttore del «Giornale», si propone anzitutto «la parità di accusa e difesa di fronte a un giudice che sta sopra le parti e non ha alcun collegamento con esse». Come se gli avvocati, pagati dai loro clienti per farli assolvere anche se colpevoli, fossero paragonabili ai pm, che devono cercare la verità processuale per far condannare i colpevoli e assolvere gli innocenti. Poi, aggiunge Jolie, va «riformulata l'obbligatorietà dell'azione penale» con «criteri di priorità fra i reati in base all'allarme sociale che essi creano». Forse intende affidare i criteri di priorità alle regioni o ai comuni, visto che i reati allarmanti in Barbagia non sono gli stessi a Corleone o in Aspromonte o nel centro di Milano. Senza contare l'assurdità di prevedere come reato comportamenti che poi si decide di non punire. «È vietato, ma si può». All'italiana. Il presunto ministro pare atterrato poche ore fa da Marte: parla di giustizia come se fosse il primo a occuparsene, quasi che negli ultimi 15 anni non fossero state approvate circa 150 «riforme della giustizia». Quasi tutte votate anche da lui e dal suo partito. Le carceri scoppiano? L'indulto – dice – «non è servito a nulla». Ma va? Infatti lui, due estati fa, lo votò. E poi lo chieda a Previti, se non è servito a nulla. Ma ecco l'idea geniale per sfollare le carceri: braccialetto elettronico ed espulsione dei detenuti immigrati. Forse non sa che il braccialetto elettronico fu sperimentato 8 anni fa da quell'altro genio del ministro Enzo Bianco, dopodiché si scoprì che i detenuti il braccialetto se lo sfilavano col taglierino e se ne andavano a zonzo senza controlli. In ogni caso, non è male l'idea di certi parlamentari che vanno alla Camera o al Senato col braccialetto al polso. Quanto alle espulsioni, forse il ministro ignora che gl'immigrati condannati sono quelli che più spesso rientrano in Italia, assistiti dalle organizzazioni criminali. Bella sicurezza. Ma ecco un'altra idea geniale, suggerita dall'autorevole Mario Giordano: «La responsabilità civile» dei giudici, che «non c'è mai stata» perché il referendum del 1985 è stato «tradito». Balla colossale: già oggi, per legge, il magistrato che sbaglia per dolo o colpa grave paga in proprio. Diverso il caso del magistrato che giudica sufficienti le prove per arrestare o condannare un tizio che altri giudici di grado superiore ritengono insufficienti: questo non è errore giudiziario, altrimenti non si troverebbe più nessuno disposto ad arrestare o condannare. Angelino trova inaccettabile che «chi sbaglia paghi in qualsiasi settore tranne che in magistratura». Potrebbe chiedere informazioni ai giudici Metta e Squillante, arrestati dai loro colleghi per le tangenti che incassavano da Previti e Berlusconi. I magistrati, quando si scopre un collega che ruba, lo arrestano. I politici, quando si scopre un collega che ruba, lo coprono e lo promuovono. Jolie è addirittura «disponibile ad ascoltare» l'idea della Lega e di Dell'Utri per l'elezione dei pubblici ministeri. Ecco: gli aspiranti pm si candidano, fanno campagna elettorale nei rispettivi partiti e vengono eletti se trovano abbastanza elettori. Magari fra i loro futuri imputati. Oppure potrebbero candidarsi a pm direttamente gli imputati: in certe regioni d'Italia, hanno ottime possibilità di farcela. Dopodiché, auguri all'imputato extracomunitario che incappa nel pm leghista con toga verde. Ma auguri anche all'imputato padano che incappa nel pm siciliano di Rifondazione comunista. Come antidoto alla presunta politicizzazione dei pm, non c'è davvero male. In due pagine di intervista, Angelino Jolie dimentica di spiegare come intenda ridurre i tempi dei processi, che tutti gli italiani ritengono il primo e unico problema della giustizia. Ma questo è comprensibile. Per Al Tappone e gli altri politici imputati, la giustizia è ancora troppo rapida. Bisogna rallentarla un altro po'.

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