Copertina
Autore Marco Travaglio
Titolo Uliwood party
SottotitoloFigure e figurine, figuri e fuguracce del primo anno di centro-sinistra-(destra)
EdizioneGarzanti, Milano, 2007, Saggi , pag. 432, cop.fle., dim. 13,7x21x3,2 cm , Isbn 978-88-11-60065-7
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe politica , paesi: Italia: 2000 , destra-sinistra
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Pagina 7

Con la verità si vince meglio


Polemiche per alcuni interventi pubblici di Marco Travaglio molto critici sui Ds e lo scandalo Unipol dopo la pubblicazione, sul «Giornale» berlusconiano, delle telefonate tra Piero Fassino e Giovanni Consorte. Il direttore dell'«Unità» Antonio Padellaro pubblica un editoriale dal titolo Primo, non farsi del male. Travaglio risponde.


Caro Antonio, ho letto il tuo commento Primo, non farsi del male e alcune lettere che mi invitano a «non fare il gioco di Berlusconi». Provo a rispondere a cuore aperto. Partendo da quel che è accaduto nella bellissima serata dell'altro giorno all'Ambra Jovinelli di Roma, dove con Peter Gomez, Furio Colombo, Paolo Flores d'Arcais, Oliviero Beha e Sabina Guzzanti abbiamo presentato Inciucio. Di serate così, per fortuna, ce ne capitano quasi ogni giorno in giro per l'Italia. E puoi ben immaginare da chi è composto il pubblico: elettori del centrosinistra ed ex del centrodestra che non ne possono più di Berlusconi, del suo monopolio televisivo incostituzionale, dell'illegalità legalizzata, della volgarità full time, insomma del regime. Cittadini molto diversi per estrazione politico-culturale, perché almeno un miracolo il Cavaliere l'ha fatto: riunire i nostalgici di Montanelli e di Berlinguer, molti no global e i difensori della costituzione al seguito di Scalfaro. Li ritrovi alle presentazioni dei nostri libri, alle feste dell'Unità, agl'incontri con Santoro e Massimo Fini, sul blog di Grillo, agli spettacoli di Sabina Guzzanti, Luttazzi, Paolo Rossi, Marco Paolini, nelle edicole a comprare «la Repubblica», «l'Espresso», «l'Unità», «Micromega», il «Diario», o il «Corriere» per Biagi, Sartori e Stella. Li rivedi alle primarie, eroicamente in fila per ore al gelo, nonostante i minuetti sulla guerra, le riabilitazioni di Craxi, le astensioni sulla controriforma costituzionale, il «dialogo sulla giustizia», le avance ai vari Lombardo, le porte aperte ai riciclati e agli imputati, gli inciuci sulla Rai. Finché «di là» c'è Berlusconi, voteranno tutti centrosinistra: chi turandosi il naso, chi tagliandoselo, chi trovandosi a suo agio con questo o quel partito, chi sognando una lista Prodi che raccolga un po' di società civile fuori dalla partitocrazia. Ma voteranno. Non ne conosco nemmeno uno che, dallo scandalo Unipol e dagli altri mille inciuci, concluda che «tanto vale tenersi Berlusconi» e, non sapendo quali fili tagliare per disinnescare la bomba, si astenga o voti Berlusconi dal momento che «sono tutti uguali». Anche perché, per quanti sforzi si facciano, eguagliare Berlusconi è impossibile. Nel nostro mondo tutti, ma proprio tutti, sanno esattamente quale filo tagliare: quello azzurro del regime. «Tra il bordello e il manganello, scelgo il bordello», diceva Montanelli nel 2001, «il manganello mi fa paura, il bordello no».

Detto questo, c'è un grosso «ma»: lo scandalo Unipol è una spada nel costato di ciascuna di queste persone. Che sanno benissimo chi è Berlusconi, come ha fatto i soldi, chi sono i suoi compari, quant'è incapace di governare. Per questo, qualunque cosa faccia, non si meravigliano di nulla e non hanno nulla da chiedergli, se non di levarsi dai piedi al più presto. Ma con i propri rappresentanti sono molto esigenti. Non si accontentano di una generica «diversità». Pretendono il massimo, almeno in quel campo che non è mai trattabile sul tavolo degl'inevitabili compromessi della politica: la questione morale. Che Berlusconi sia invischiato in tutt'e tre le scalate estive (Antonveneta, Rcs e Bnl), lo danno per scontato ancor prima di saperlo. Ma restano allibiti quando i vertici di un partito come i Ds sponsorizzano una scalata con pessime compagnie. Ecco quel che si domanda e mi domanda la gente che incontro ogni giorno. Era proprio necessario difendere gli «immobiliaristi» alla Ricucci & Coppola? Prendere le parti di Gnutti (già condannato per insider trading)? Magnificare Consorte (imputato da due anni con Gnutti per un altro insider su obbligazioni Unipol)? Balbettare su Fazio? Prendersela con i giornalisti che avevano svelato quelle liaisons dangereuses un anno fa, avendo l'unico torto di avere ragione? Potrei continuare, ma mi fermo qui per non gettare altro sale su ferite che purtroppo restano aperte.

Tu scrivi che a sinistra c'è una rincorsa a farsi del male. Ma che deve fare tutta la brava gente che ha già deciso di votare Prodi e lo farà qualunque cosa accada? Deve pure chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie, spegnere la tv, disertare edicole, teatri, librerie e blog per non incappare in qualche giornalista o comico che gli dica la verità? Siamo sicuri che a «farci del male» non sia chi dà scandalo, ma chi lo racconta? Te l'ho detto, Antonio: credo di conoscerla un po' questa gente. Non è come gli elettori di Berlusconi, che certe cose non vogliono neppure sentirle. Sono cittadini adulti e maturi che vogliono sapere e capire tutto di tutti. Di Berlusconi gli abbiamo raccontato (e continuiamo a raccontargli) tutto, mentre i grandi strateghi del centrosinistra ci raccomandavano di «abbassare i toni». Ma ora questi cittadini maturi vogliono sapere anche degli altri, «dei nostri». Non per rivangare gli inciuci del passato, esercizio che sarebbe inutile e anzi dannoso se esistesse una discontinuità fra ieri e domani. Ma per sapere che accadrà stavolta se, come tutti speriamo, la fairy band perderà le elezioni. Quel giorno si ripeterà esattamente la situazione del '96: Prodi al governo, Berlusconi all'opposizione. Entrambi con cinque anni in più, Berlusconi con qualche miliardo e capello in piu e qualche processo in meno. Tutti rimpiangono la buona amministrazione del governo Prodi-Ciampi che ci portò in Europa. Ma tutti ricordano che in due sole materie l'Ulivo, in parlamento, fece disastri: la giustizia e la libertà d'informazione, proprio quelle che stanno a cuore a Berlusconi. Quei problemi restano, incancreniti da cinque anni di regime. E a risolverli dovrebbero essere quanti l'altra volta non lo fecero, non perché se ne scordarono, ma perché non vollero. Ecco: la nostra gente, proprio perché sa che non sono tutti uguali, s'indigna quando vede gli inciuci fra i diseguali. E, proprio perché andrà a votare contro Berlusconi, vuole sapere adesso cosa accadrà dopo su giustizia e informazione. Riusciranno i nostri eroi a liberare la Rai dall'occupazione abusiva dei partiti? Riusciranno a varare un antitrust che tolga al monopolista due reti su tre, come da programma dell'Ulivo '96? Riusciranno a dichiarare incompatibile con la politica chiunque possegga azioni di aziende di comunicazione? Riusciranno a radere al suolo tutte le leggi vergogna (anche quelle votate tra il 1996 e il 2001 da destra e sinistra a braccetto)? Riusciranno a fare funzionare la giustizia anche per i potenti, magari abolendo la prescrizione durante il processo, come in America? Riusciranno a non candidare i condannati, gli imputati e i prescritti? Questo chiede chi si sente bruciato dall'esperienza della volta scorsa: impegni chiari prima di votare, per controllare dopo, giorno per giorno, che vengano mantenuti. La novità è questa: niente più deleghe in bianco. Prima si vota, poi si vigila. Per evitare che Berlusconi vinca anche se perde. Hai presente gli «apoti» di Prezzolini? Ecco, non la beviamo più.

(21/2/2006)

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Fiorani e opere di bene


Resta in carcere a Milano il patron della Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani, arrestato per la scalata illecita all'Antonveneta.


Questa volta ci aveva proprio convinto. E commosso, anche. Giuliano Ferrara che chiedeva a gran voce la scarcerazione di Gianpiero Fiorani appena arrestato pareva la più classica delle gare di solidarietà, la più tenera delle campagne umanitarie, la più meritoria delle questioni di principio, la più disinteressata delle battaglie garantiste. «Il circo mediatico-giudiziario», scriveva Ferrara il 23 dicembre, «si rimette in moto e chi segnalò le storture del sistema prima versione (Tangentopoli '92) ora può fare altrettanto con il bis (BanCoopoli '05). C'è un signore in carcere che parla perché la galera è usata allo scopo di favorire i canti accusatori di Natale, quando così non dovrebbe essere per legge e costituzione [...] Fiorani fuori, fategli un giusto processo». Toh guarda, ci eravamo detti: il Platinette Barbuto non difende solo i suoi padroni (da Craxi a Berlusconi). Difende pure persone a lui sconosciute, magari un tempo potenti, ma poi rotolate nella polvere. Che bel gesto, che pensiero gentile quello di restituire Fiorani al calore del focolare domestico e degli affetti familiari per il Santo Natale. Ecco, stavamo quasi per versare qualche lacrima, quando abbiamo letto le ultime rivelazioni di Fiorani su un fido di 4,5 milioni di euro gentilmente offerto dalla Popolare di Lodi al «Foglio», il quotidiano edito dalla signora Berlusconi e diretto da Ferrara. Che lo pagassero i contribuenti, grazie ai finanziamenti pubblici propiziati dal finto partito «Convenzione per la giustizia» a suo tempo allestito dal duo Pera-Boato, già si sapeva. Ora sappiamo che lo pagava pure Fiorani. Accidenti: Platinette chiedeva la scarcerazione del suo finanziatore, possibilmente prima che cantasse. Gli è andata male. Gli va sempre male. Tre anni fa stavano per venire fuori le sue prestazioni particolari per la Cia e lui fu costretto a giocare d'anticipo: «Ho fatto la spia a pagamento, embè?». Poi arrestarono Calisto Tanzi e lui, garantista disinteressato, chiese di liberarlo. Anche allora si pensò a un empito di garantismo spontaneo e gratuito, poi Tanzi confessò di avere portato a Ferrara una borsa con mezzo miliardo di lire in contanti. Ferrara ringraziò molto educatamente, prese i soldi e scappò. A questo punto, per fare prima, potrebbe pubblicare sul «Foglio» i nomi di tutti coloro che non gli hanno mai dato soldi, e morta lì. Così sarebbe un tantino più credibile quando chiede conto dei misteriosi 50 milioni di euro passati da Gnutti al duo Consorte & Sacchetti dopo l'uscita da Telecom dei capitani furbettosi.

La fortuna del centrosinistra è che, dall'altra parte, non c'è un solo esponente del centrodestra che possa sollevare con un minimo di decenza la questione morale. Ci fossero De Gasperi ed Einaudi, sarebbe tutt'altra musica. Invece, a chiedere conto di quei sospettissimi 50 milioni, c'è il cavalier Berlusconi. Che non ha ancora spiegato l'origine delle vagonate di miliardi che, in parte addirittura in contanti, confluirono nelle sue finanziarie a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Né la causale del versamento di 23 miliardi di lire da All Iberian a Craxi nel 1990-91, subito dopo la legge Mammì. Né quella dei 434.000 dollari e rotti che il 6 marzo 1991 uscirono dal suo patrimonio personale, passarono dai conti di All Iberian, transitarono per qualche minuto su un conto estero di Previti e di lì uscirono per atterrare morbidamente in un deposito svizzero del giudice Squillante. E non ha ancora chiesto notizie (che si sappia, almeno) a Previti dei 21 miliardi di lire incassati in nero nel '94 grazie ai generosi bonifici della famiglia Rovelli, al termine della causa Imi-Sir. Previti ha parlato di «parcelle» per fantomatiche «consulenze» prestate ai Rovelli, senza peraltro uno straccio di fattura (ora anche Consorte & Sacchetti spacciano quei 50 milioni per «consulenze» prestate a Gnutti, senz'accorgersi che come minimo dovrebbero rispondere di circonvenzione di incapace). Per questo Previti è stato condannato per corruzione giudiziaria in primo e secondo grado e ieri sarebbe arrivata la sentenza definitiva della cassazione se un provvidenziale sciopero degli avvocati non l'avesse rinviata a data da destinarsi. Sciopero contro l'ex Cirielli, ma sì, proprio quella che doveva salvare Previti, il quale riesce ad approfittare persino delle proteste contro una legge ad (suam) personam. Sciopero, come direbbe James Bondi, «a orologeria».

(17/1/2006)

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La costituzione è comunista


Polemiche, anche nell'Unione, per un'intervista di Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione comunista, che chiede un tetto antitrust per le reti e la pubblicità di Mediaset.


Dunque è ufficiale. Dire, come fa Bertinotti, che Mediaset «deve dimagrire in pubblicità e reti» non si può. È un «pensiero liberticida» (Schifani, FI), un'«entrata a gamba tesa» (Calderoli, Lega), una «vendetta» (Volontè, Udc), un atto «illiberale» (Berlusconi, FI-Mediaset), «un reato» (Crosetto, FI), una «posizione inquietante e avventurista» (Bondi, FI), una «vendetta contro Berlusconi» (Mentana, Mediaset), un'«idea comunista» (Mastella, Udeur), una «legge contro» (Pecoraro Scanio, Verdi), una «visione punitiva per castigare Berlusconi» (Polito, Dl), un'«ingiustizia per i lavoratori Mediaset» (Rizzo, Pdci, e Fede, Retequattro).

Per carità, è comprensibile che il proprietario di Mediaset, i suoi cari e gli ospiti fissi delle sue tv si stendano come scudi umani a protezione di quanto hanno di più prezioso. Ma che pretendano di difendere il monopolio della tv commerciale e della pubblicità, per giunta incostituzionale, in nome del libero mercato, confondendo la concorrenza col comunismo, è singolare. Il fatto è che proprio quel monopolio, saldato col controllo militare della Rai, ha prodotto il pensiero unico e la paura di chiamare le cose con il loro nome. Una mutazione genetica che impedisce oggi agli uomini del centrosinistra di pensare e dire ciò che pensavano e dicevano tranquillamente dieci o cinque anni fa. Un breve promemoria non guasterà.

La cura dimagrante per Mediaset non è un'idea balzana del compagno Berty. E quanto ha stabilito per ben due volte la corte costituzionale. Il 7 dicembre 1994 la Consulta dichiara illegittima la legge Mammì e intima al parlamento di cambiarla perché viola l'articolo 21 della costituzione: «Il legislatore è vincolato a impedire la formazione di posizioni dominanti nell'emittenza privata e favorire il pluralismo delle voci nel settore televisivo... L'esistenza di un'emittenza pubblica non vale a bilanciare la posizione dominante di un soggetto privato... La posizione dominante data dalla titolarità di 3 reti su 9 assegna un esorbitante vantaggio nella utilizzazione delle risorse e della raccolta della pubblicità». Le frequenze sono limitate e chi possiede 3 reti su 9 (di fatto su 6 o 7) deve cederne una. Il parlamento ha tempo fino al 27 agosto 1996 per provvedere».

Nel '95 si vota un referendum che vorrebbe imporre il tetto antitrust a una sola rete per ogni soggetto privato. Ma, grazie all'ignavia della sinistra in campagna elettorale e al martellante bombardamento pubblicitario delle reti Fininvest, vince il No. Commenta amaro Norberto Bobbio: «Il motivo principale per cui Berlusconi ha vinto il referendum che tendeva a diminuire il suo potere televisivo è stato il fatto stesso che aveva questo potere». Resta però da attuare la sentenza della Consulta. E l'Ulivo nel '96 s'impegna a farlo nella tesi 51 del programma di Prodi: «obiettivo intermedio» la discesa di Mediaset da 3 a 2 reti; «obiettivo finale, consentire a ogni editore di avere un solo canale generalista via etere terrestre e di cedere quelli in più». I leader dell'Ulivo dicono cose ben più spinte del Bertinotti odierno. D'Alema: «Si rimuove la Mammì, si fa tabula rasa, si riparte da zero. E si fa l'antitrust assumendo come base la sentenza della corte costituzionale che dichiara illegittima la proprietà di 3 reti tv da parte di un unico soggetto». Prodi: «La prima cosa che faremo al governo sarà attuare la sentenza della Consulta del '94 che comporta la riduzione delle reti Fininvest via etere da 3 a 2». Con quel programma, il centrosinistra vince le elezioni del 1996 e va al governo. Il ministro Maccanico, nella legge sulle tv, fissa i tetti antitrust al 30% del mercato per la pubblicità in tv e al 20% per le frequenze nazionali disponibili (non più di 2 reti sull'analogico terrestre). Ma poi, fra compromessi e ostruzionismi del Polo, tutto viene rinviato a quando esisterà «un effettivo e congruo sviluppo dell'utenza dei programmi via satellite o via cavo». Espressione quantomai vaga, che lascia tutto come sta. Sine die. Intanto Berlusconi quota Mediaset in Borsa e azzera i debiti, proprio perché Retequattro è sempre lì. Ma, il 20 novembre 2002, la Consulta dichiara incostituzionale pure la Maccanico e impone a Mediaset di dimagrire a 2 reti entro il 31 dicembre 2003. Oltretutto Retequattro è «abusiva»: nel '99 ha perso la gara per le concessioni a trasmettere su scala nazionale. La gara l'ha vinta Europa7 di Francesco Di Stefano, che però non può trasmettere perché le frequenze sono occupate da chi seguita a farlo senza concessione.

Ultima puntata: nel dicembre 2003, allo scadere dell'ultimatum della Consulta, il governo Berlusconi salva Rete-quattro dal passaggio su satellite con l'apposita legge Gasparri. Ciampi però la rimanda indietro. Allora si provvede, in zona Cesarini, col decreto salva-Retequattro e con la Gasparri 2. I berluscones agitano due spauracchi: l'oscuramento di Emilio Fede (come se non potesse traslocare su Canale5 o su Italia1) e il licenziamento di «migliaia di lavoratori» (che in realtà sarebbero poche centinaia, e potrebbero essere ampiamente assorbiti da Europa7, che legalmente dovrebbe trasmettere sulle frequenze di Retequattro). Ora gli stessi argomenti farlocchi echeggiano anche a sinistra. Chi non accetta il sistema Mammì-Maccanico-Gasparri e invoca due sentenze della Consulta è un comunista. Ma chi l'ha detto che Berlusconi ha perso le elezioni?

(26/4/2006)

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Angelo Panegrigio


È finita ingloriosamente la campagna d'estate del professor Angelo Panebianco a sostegno di una «zona grigia» e soprattutto franca per i servizi segreti dell'Occidente, onde consentire loro di sequestrare o torturare i sospetti nella lotta al terrorismo che lui chiama «jahadista» (e che invece, semmai, è «jihadista»). Nessuno, a parte uno svogliato Platinette Barbuto sul «Foglio», l'ha ripresa. In compenso, sullo stesso «Corriere» che l'aveva ospitata, Claudio Magris l'ha letteralmente polverizzata. In casi simili, sarebbero subito accorsi al salvamento Galli della Loggia e Ostellino. Stavolta, invece, niente. Silenzio financo da Feltri e Borghezio, che devono averla trovata un po' eccessiva. Così, rimasto solo al mondo, il professor Panebianco ha dovuto precipitosamente rinculare. Ha fatto come i bambini: ha detto che lui scherzava. Non diceva sul serio. La sparava un po' grossa per provocare la discussione, ecco tutto: «Il mio vero argomento non riguardava la liceità o meno della tortura per sventare stragi. Era solo un'ipotesi di scuola per fare scandalo». In futuro, il «Corriere» pubblicherà in neretto le frasi che quel mattacchione del professor Panebianco scrive per burla, onde aiutare i lettori a distinguerle da quelle scritte sul serio.

Va anche riconosciuto che il professor Panebianco è molto sfortunato. Proprio mentre lui lamentava che l'Italia, unica fra le democrazie occidentali, dà retta ai «neofiti della legalità» su quel «feticcio» che sarebbe lo stato di diritto (inventato da Bin Laden per scannarci meglio), la Corte suprema americana condannava le intercettazioni indiscriminate disposte da Bush in funzione anti-terrorismo. È la stessa Corte che ha appena dichiarato illegali i metodi di Guantanamo. Figurarsi le risate dei supremi giudici statunitensi se sapessero dell'ultima «provocazione» del professor Panebianco sulla tortura buona e la zona grigia.

Ma, si sa, questi americani hanno la vocazione a farsi del male. Masochismo puro. Allora prendiamo Israele, l'unica democrazia al mondo a essere in guerra (convenzionale e non) fin dal giorno della sua nascita. Sarà ammessa, almeno lì, una zona grigia a base di torture e sequestri di persona a fin di bene? Niente da fare. Sarà senz'altro una toga rossa come i colleghi americani, ma sentite che cosa dice il presidente della Corte suprema di Israele, Aharon Barak, nella lectio doctoralis tenuta nel 2002 all'Università di Tor Vergata: «La lotta al terrorismo non può esser condotta al di fuori della legge, deve necessariamente avvenire nel rispetto della legge... È così che ci distinguiamo da coloro che consideriamo terroristi. La lotta al terrorismo è la guerra di una nazione che osserva la legge e dei cittadini che la rispettano contro chi la infrange. Non è semplicemente una guerra dello stato contro i suoi nemici; è anche una guerra della legge contro i suoi nemici... Molti dicono che i tribunali non dovrebbero occuparsi di controllare la legalità degli interventi antiterrorismo. Ma è inaccettabile: il controllo giuridico rispetto alla legalità della lotta al terrorismo può rendere più difficile tale lotta nel breve termine. Tuttavia fortifica e rende più solido il popolo nel lungo termine. Lo stato di diritto è un elemento centrale della sicurezza nazionale. In ultima analisi, non indebolisce la democrazia, ma la rende più forte. E giova alla lotta al terrorismo... Il ruolo dei tribunali è quello di garantire la costituzionalità e la legalità della lotta al terrorismo».

Questo Barak, giudice costituzionale d'Israele da 27 anni, sarà per caso un amico di Bin Laden o un «neofita della legalità»? Parrebbe di no. Eppure lo stesso Barak, parlando nel 2003 alla Brandeis University americana, aggiunse: «I detti romani per cui "in guerra le leggi tacciono" e "quando parlano le armi le Muse tacciono" sono sbagliati. Ogni guerra - al terrorismo o a qualsiasi altro nemico - viene condotta in base a regole e leggi. Lo stato deve sempre agire in base a una legge. Non ci sono buchi neri. E la legge ha bisogno delle Muse, in modo ancora più urgente quando sono le armi a parlare. Abbiamo bisogno delle leggi e dei diritti umani soprattutto in tempi di guerra. Quando una democrazia combatte contro il terrore, non tutti i metodi impiegati dai suoi nemici le sono consentiti. Talvolta una democrazia deve combattere con una mano legata dietro la schiena... Così negli Usa dopo l'11 settembre e così nel mio Israele, da molto tempo bersaglio del terrorismo».

Concetti analoghi esprimeva un intellettuale italiano qualche anno fa: «Uno stato è garantista quando non usa alcuna forma di tortura». E ancora: «Se sceglie di abbandonare, almeno in parte, i princìpi della società aperta, diventando più chiuso e autoritario, l'Occidente può accrescere la sua sicurezza, ma corre il rischio di regalare ai nuovi barbari la vittoria su un altro terreno: accettando di diventare un po' come loro, perdendo quella superiorità morale che, pur con i suoi mille difetti, possiede in quanto terra delle libertà, rispetto a ogni altro sistema socio-politico esistente, per non parlare delle spaventose utopie totalitarie che i nuovi barbari propongono». Un «neofita della legalità»? No, Angelo Panebianco, «Corriere della Sera», addì 30 agosto 1999 e 18 settembre 2001.

(19/8/2006)

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Pagina 276

Scontro di civiltà


Come volevasi dimostrare, negli ultimi quindici anni l'Italia non era spaccata fra destra e sinistra, ma tra mascalzoni e persone perbene. E le prime due categorie non coincidono sempre con le seconde, anche se non era mai capitato, nemmeno nei tempi più bui della Prima Repubblica, che per cinque anni un governo proteggesse un tale esercito di ladri e spioni. C'è il caso del sequestro di Abu Omar a opera della joint venture Cia-Sismi, che incredibilmente anche l'attuale governo ha deciso di coprire col segreto di stato (o meglio, con la «bugia di stato», per dirla con Claudio Fava, l'unico esponente dell'Unione che si batte contro quella plateale violazione dei diritti umani, e non a caso è stato spedito a Strasburgo). C'è la centrale di spionaggio e disinformatija Sismi del leggendario Pio Pompa, braccio destro del direttore del servizio militare Nicolò Pollari, scoperta in via Nazionale a Roma, da cui partivano i dossier-bufala per screditare e «disarticolare» anche «con azioni violente» magistrati perbene, giornalisti perbene e politici perbene, comprensibilmente invisi al governo Berlusconi. Collaboravano alle grandi manovre politici e giornalisti venduti (ma qualcuno lo faceva anche gratis: come diceva Victor Hugo, «c'è gente che pagherebbe per vendersi»). Uno, il prode Renato Farina in Betulla, pubblicò un dossier-patacca per dimostrare che Prodi, dall'Europa, aveva autorizzato i rapimenti Cia.

Poi c'era la banda Telecom di Tavaroli & C.: anche loro spiavano e dossieravano giornalisti, magistrati e politici, ma solo quelli perbene. Dunque, anche Prodi. Dunque, meglio sorvolare. Poi, è notizia di ieri, c'erano settori «deviati» delle Fiamme gialle e dell'agenzia delle Entrate che hanno spiato i conti di vari personaggi, compresi Prodi e la moglie (almeno 128 volte), senza cavarne un ragno dal buco (altrimenti «il Giornale» e «Libero» ci avrebbero informati in tempo reale). «Deviati», poi, si fa per dire, essendo altamente improbabile che dei semplici impiegati e marescialli prendano iniziative tanto gravi senza coprirsi le spalle: avevano al governo uno dei più illustri evasori fiscali che la storia ricordi, ma spiavano Prodi per trovargli qualche bottone fuori posto. Infine abbiamo le telefonate dei vari Mancini & C., incriminati per il sequestro di Abu Omar, che cercavano sponde nel solito Gianni Letta, ma anche nel centrosinistra, compresa la cosiddetta «sinistra radicale», e immancabilmente ne trovavano.

Fino a ieri ci veniva autorevolmente e trasversalmente spiegato che il pericolo per la privacy viene dai giudici cattivi che fanno le intercettazioni legali e dai giornali che legalmente le pubblicano. Chissà se ora cambierà qualcosa. Anche perché la lista dei nemici del Sismi da «destabilizzare», «disarticolare», «neutralizzare», «ridimensionare» è piuttosto interessante. Comprende politici come Violante, Visco, Veltri, Arlacchi e Leoluca Orlando, direttori come Flores d'Arcais, magistrati come Caselli, Borrelli, Bruti Liberati, gli interi pool di Milano e Palermo (gestione Caselli) vari pm romani, baresi, napoletani. Quel grande precursore di Totò Riina aveva dato la linea fin dal '94: «Il governo Berlusconi si deve guardare dai Violante, dai Caselli, dagli Arlacchi». Più o meno le stesse cose aveva poi ripetuto il Cavaliere, senza nemmeno versargli il copyright.

Ma è una vera fortuna che quell'elenco esista e sia venuto alla luce. Dimostra che l'Italia dei mascalzoni le persone perbene da cui guardarsi le ha individuate tutte, o quasi. Curiosamente, si tratta delle stesse persone perbene che ampi settori «dialoganti» e «riformisti» del centrosinistra attaccano da anni come «demonizzatori», insultano come «giustizialisti», isolano come «estremisti», accusano di «esagerare» e di «girotondare». La destra più putrida del mondo sa bene chi sono i suoi nemici. La sinistra, non tutta e non sempre. Quando Gherardo Colombo, uno dei «disarticolandi», disse che gli inciuci bicamerali erano figli del ricatto e che la P2 non era mai morta, mancò poco che lo arrestassero: qualcuno ora gli chiederà scusa? A mano a mano che si scoprirà il doppiofondo del quinquennio berlusconiano, la parola «regime» usata dai noti demonizzatori dell'«Unità», di «MicroMega», di «Repubblica», dell'«Espresso», di «Diario», ma anche da Montanelli, Biagi, Sartori, Sylos Labini, Barbara Spinelli, potrebbe rivelarsi un leggiadro eufemismo. Ma non facciamoci illusioni. Nessuno si scuserà con chi ha avuto il torto di avere ragione.

(27/10/2006)

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Compagni un caz


Una delle espressioni più divertenti del gergo politichese è «sinistra radicale». Sul significato di «sinistra» non c'è qui lo spazio per interrogarsi. Ma l'aggettivo «radicale» dovrebbe indicare intransigenza ferrea, tetragona fermezza sui princìpi, allergia assoluta ai compromessi sui valori fondamentali. Ora: qualcuno può seriamente affermare che uno solo dei leader solitamente etichettati come «sinistra radicale» corrisponda alla descrizione?

Sull'indulto, a parte i Comunisti italiani (e Di Pietro, che però di sinistra non è), nessuno ha trovato da ridire all'estensione del bonus di 3 anni di pena ai reati dei colletti bianchi, agli scambisti di voti con la mafia, agl'imprenditori che ammazzano i lavoratori con l'amianto o con condizioni di sicurezza inesistenti. Sulle leggi vergogna che hanno creato una giustizia di classe, non risultano iniziative clamorose perché si torni a punire il falso in bilancio e si cancelli l'ex Cirielli che garantisce la prescrizione a chi può permettersi un avvocato di prima classe. Sulle morti bianche nelle fabbriche e nei cantieri, non si segnalano aut-aut al parlamento per costringerlo a istituire finalmente la responsabilità delle aziende, già prevista per i reati finanziari. Sulla trasparenza del mercato, in attesa di superare l'attuale «modello di sviluppo» nei prossimi sei o sette secoli, si potrebbe trarre lezione dal caso dell'«immobiliarista» Danilo Coppola appena arrestato, che peraltro faceva quel che in Italia fanno tutti gl'imprenditori e i finanzieri: usava società off-shore nei paradisi fiscali, le intestava a camerieri rumeni, autisti cingalesi, giovanotti lituani, prestanomi di Kabumbulu (Congo). È vero che, facendo le stesse cose, Berlusconi è diventato il padrone d'Italia, ma forse una sinistra radicale degna di questo nome potrebbe invocare qualche regola un po' più stringente, possibilmente prima che il signor Coppola o i suoi prestanomi Fernando Warnakulasuriya Dinush Sanjey Kumar e Misha Mulongo diventino presidenti del consiglio. Invece, silenzio. Possibile che i nostri rivoluzionari, che s'indignano ogni due per tre e si macerano in interminabili crisi di coscienza per qualunque cosa accada a distanza di sicurezza di non meno di tremila chilometri, non abbiano nulla da dire sulle tante vergogne che accadono a due passi da loro (e da noi)?

Per esempio: la promozione con tutti gli onori dei re- sponsabili delle deviazioni del Sismi, a base di dossieraggi illegali, violazioni della privacy, sequestri di persona, giornalisti a libro paga, piani golpisti per «disarticolare» anche «con la violenza» magistrati, politici e giornalisti nemici del regime. Il generale Niccolò Pollari e il fedelissimo Pio Pompa, entrambi rinviati a giudizio per il sequestro di persona di Abu Omar, sono stati premiati: il primo è diventato consulente della presidenza del consiglio e consigliere di stato (cioè giudice amministrativo di secondo grado); il secondo, capodivisione del ministero della Difesa. Dalla sinistra radicale, silenzio di tomba.

Nessuno stracciamento di vesti neppure quando il governo ha sollevato conflitto di attribuzioni dinanzi alla Consulta contro i giudici di Milano, accusandoli di aver violato un segreto di stato che, semplicemente, non esiste. Vedremo quanti cadranno in crisi di coscienza quando Mastella annuncerà, in piena continuità con l'ottimo predecessore Castelli, il no del governo alla richiesta di estradizione per i 26 agenti della Cia coinvolti nel sequestro di Abu Omar.

Silenzio di tomba anche sulla scomparsa della pur blanda riforma Gentiloni dai 12 punti del governo Prodi-bis e sulle incredibili proposte «riformiste» per cambiare la costituzione e «rafforzare il premier» (Berlusconi già si lecca il trapianto).

Il raddoppio della base di Vicenza senza consultare i vicentini è certamente uno scandalo, ma dal punto di vista della pace nel mondo è piuttosto marginale, posto che le basi Usa in Italia sono 54. Quanto accade in Afghanistan è molto allarmante, ma non sarà il nostro governo a decidere quando ritirare le truppe: saranno i talebani a decidere quando metterle in fuga (dovettero darsela a gambe i 100.000 dell'Armata Rossa, figurarsi i 30.000 dell'Armata Brancaleone).

Nell'attesa, ci sarebbero 45 militari morti e 513 malati per l'uranio impoverito delle varie «missioni di pace»: a parte l'impegno di alcuni parlamentari (Franca Rame e pochi altri), la loro sorte non pare proprio in cima ai pensieri della sinistra radicale. A questo punto potremmo smettere di chiamarla «radicale». Già «sinistra», certe volte, è un termine francamente eccessivo.

(07/03/2007)

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