Copertina
Autore Linda Tucker
Titolo Il mistero dei Leoni Bianchi
SottotitoloI figli del Dio Sole
EdizioneDe Agostini, Novara, 2011, , pag. 448, ill., cop.ril.sov., dim. 15x23,2x4 cm , Isbn 978-88-418-6470-8
OriginaleMystery of the White Lions. Children of the Sun God [2001]
TraduttoreFulvia Zavan
LettoreElisabetta Cavalli, 2011
Classe narrativa sudafricana , natura , paesi: Sudafrica , storia antica , storia: Africa , esoterismo , miti
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Indice


PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE di Credo Mutwa                   7
PREFAZIONE di Adrian Gilbert                                  9
INTRODUZIONE                                                 11
NOTA DELL'AUTRICE                                            15

 1. Timbavati                                                19
 2. Maria, Regina-Leone del Timbavati                        31
 3. I Leoni di Dio: gli esseri con l'identità del leone      45
 4. Il sacerdote-leone d'Africa                              63
 5. Credo: il Verbo dell'Africa                              85
 6. Cacciatore o preda?                                      99
 7. Grandi cacciatori e possenti predatori                  109
 8. I Leoni Bianchi e il Grande Sapere                      125
 9. La genetica dei Leoni Bianchi                           145
10. Il Grande Zimbabwe: dove i leoni vanno a riposare       153
11. Zimba: il santuario del leone d'oro                     163
12. Sacerdoti-leone e sciamani-aquila                       175
13. Il fiume d'oro sotterraneo                              193
14. Il leone alato del Timbavati                            203
15. Giocare con i Figli del Dio Sole                        217
16  Leoni Bianchi e uomini di magia                         225
17. Leone, animale stellare                                 241
18. Dove nascono gli dèi                                    257
19. Leone del deserto, leoni della savana                   275
20. Meridiano nilotico: la sacra terra del Nord e del Sud   289
21. Oro: il sole sotterraneo                                307
22. Tendile, madre del Leone Bianco                         317
23. Trofei di caccia                                        329
24. Leoni Bianchi: i profeti del futuro                     335
25. Ere glaciali e leoni delle nevi                         351
26. Leone di Giuda                                          361

POSTFAZIONE                                                 375
NOTA DELL'EDITORE. LA STORIA DI MARAH                       376
RINGRAZIAMENTI                                              378
NOTE                                                        380
GLOSSARIO                                                   410
BIBLIOGRAFIA                                                414
ELENCO DELLE APPENDICI                                      429
CENNI SULL'AUTRICE                                          433
INDICE ANALITICO                                            434



 

 

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Pagina 19

1.
TIMBAVATI




E ho chiesto alla gente del Timbavati: «Dove sono i vostri Leoni Bianchi? Dove sono i sacri Figli del Dio Sole?». Perché è così che sono chiamati. Non ho mai ricevuto una risposta precisa.

Credo Mutwa



Sebbene in quel momento non ne fossi consapevole, la mia magica avventura ebbe inizio il 10 novembre 1991.

Era una notte senza luna nella savana. Eravamo pochi amici e ce ne stavamo seduti intorno al fuoco del campo, dopo il tramonto, a bere birra Lion e a raccontare storie. Ho il ricordo dei tizzoni ardenti che sparavano scintille nel buio, al centro del boma, come lucciole tra le stelle. Al chiarore del fuoco, la conversazione fluiva leggera e rilassata e sopra di noi, da est a ovest, si estendeva la vasta volta del cielo del Timbavati, scintillante di costellazioni.

Timbavati è un nome talmente antico che gli abitanti di oggi ne hanno dimenticato il significato. Il paesaggio sembra rimasto immutato dai tempi in cui i nostri primi antenati vi hanno messo piede. Esistono ancora segni, nella terra riarsa, dei siti dove nell'antichità venivano fusi i metalli. E lo spirito dei Leoni Bianchi aleggia ancora nella savana.


I Leoni Bianchi sono una realtà storica?

I Leoni Bianchi sono una razza unica, di cui non c'è traccia nella storia della zoologia: sono considerati una casuale mutazione del leone comune, Panthera leo, capitata per caso nella regione del Timbavati. Tuttavia, la cosa straordinaria è che la loro venuta era stata predetta dagli sciamani delle tribù molto tempo prima che i Leoni Bianchi comparissero effettivamente. Gli indigeni li consideravano gli animali più sacri ed erano convinti che la loro apparizione preannunciasse tempi di grandi cambiamenti per la terra. Fin dalla prima volta che sono venuta nel Timbavati ho percepito l'aura particolare che aleggiava su tutto il territorio al solo nominare i Leoni Bianchi. Dal timore reverenziale che traspariva dalle descrizioni di George Matabula e di suo fratello Jack, entrambi battitori shangaan, i Leoni Bianchi non sembravano essere animali comuni. I battitori credevano che i Leoni Bianchi fossero doni mandati da Dio. D'altro canto c'è chi li considera solo merce che frutta grandi guadagni. Nel breve periodo intercorso dai primi avvistamenti registrati negli anni Settanta, pare che i safari di caccia grossa nella regione del Timbavati ne abbiano provocato l'estinzione.

Più elusivo del leopardo africano, più raro perfino del leggendario leopardo delle nevi dell'Himalaya, di un bianco candido come l'orso polare dell'Artico, il Leone Bianco del Timbavati è una rara avis comparsa dal nulla e poi svanita senza lasciare traccia.


Le fauci della morte

Leonard, ranger e mio amico d'infanzia, faceva parte del gruppo seduto intorno al fuoco. Suo padre possedeva un pezzo di terra nella riserva del Timbavati e Leonard era uno dei pochi fortunati che avevano visto più volte i Leoni Bianchi allo stato brado, durante le sue spedizioni nella regione. Nel corso degli anni ero andata spesso a trovare Leonard nel Timbavati, ma non mi era mai capitato di imbattermi in un Leone Bianco. Ormai ritenevamo fosse impossibile perché, da almeno un decennio, non si era avvistato un solo esemplare nella savana.

Quella sera particolare, mentre eravamo seduti a bere l'aperitivo prima di cena, sentimmo la terra rimbombare molto vicino a noi. Leonard identificò il rumore con un ruggito che proveniva da nord, da un'area del letto prosciugato del fiume Machaton. I leoni del Machaton sono un branco di esemplari fulvi del Timbavati, che si dice siano ancora portatori del gene bianco. La maggior parte dei componenti del gruppo erano nuovi al bushveld e tutti ascoltammo quel ruggito primordiale con riverenza. Leonard ci spiegò che i leoni non ruggiscono quando puntano la preda, per non spaventarla. E, infatti, il ruggito roboante che avevamo appena sentito era il suono archetipo della natura per antonomasia e incuteva terrore, come a ricordare quale fosse il predatore che, in ultima analisi, portava la corona di re degli animali. Poi, all'improvviso, i ruggiti mutarono, si fecero più urgenti e più forti, e questo fece pensare a Leonard che una leonessa del Machaton, in gravidanza molto avanzata, avesse partorito.

«Andiamo!» disse d'impulso.

Eccitati dall'idea di vedere i cuccioli appena nati e dalla stuzzicante speranza, ancorché remota, che uno dei cuccioli fosse bianco, tutti e otto ci issammo dietro a Leonard nella Land Rover aperta che lui usava per andare a osservare gli animali e ci tuffammo nel buio della notte.

La Land Rover aveva due posti bassi davanti, dietro il parabrezza, e tre panche sopraelevate sul retro. Mio marito John e io eravamo appollaiati sulla panca in fondo, proprio sopra le ruote. Il vento mi scompigliava i capelli e mi portava il profumo della savana, che sapeva di qualcosa appena sfornato. Davanti a noi sedeva mia sorella Serena e vicino a lei Andries, il suo ragazzo, un taciturno afrikaner di colore, che festeggiava il compleanno nella pace della savana. Davanti a loro c'erano due turisti al primo safari. Un posto a sedere, in prossimità della ruota anteriore era riservato al battitore, ma George, che conosceva le piste degli animali come il palmo della mano, quella sera non era di turno. Accanto a Leonard, che era al volante, sedeva la moglie, una donna minuta e attraente. Leonard sterzò bruscamente portando la Land Rover fuori dalla strada polverosa, nel bel mezzo del bushveld. Per lui, la savana era il terreno di gioco. L'amava appassionatamente, ma, essendo giovane e un po' impulsivo, cercava ancora di dominarla.

Era il nostro ranger, la guida, e io, a quel tempo, mi fidavo della sua esperienza sul campo e del suo intuito. Non avevo ancora incontrato un modo più armonico e sensibile di entrare in contatto con la natura. Tutti noi fummo contagiati dall'entusiasmo di Leonard mentre la Land Rover, un quattro per quattro, batteva la pista coperta di alti ciuffi d'erba e formicai abbandonati, nella più profonda oscurità.

In quella corsa eccitante, ricordo di aver notato che la luce degli abbaglianti aveva puntato verso il cielo e subito dopo al suolo, mentre il fuoristrada grattava sul fondo accidentato.

Poi, all'improvviso, proprio nel momento in cui cogliemmo nell'oscurità lo scintillio degli occhi ambrati di un enorme leone, il veicolo gracchiò e si arrestò in uno scossone.

Qualcuno suggerì di «tirarsi fuori da lì», il tono di voce già leggermente stridulo. I leoni erano troppo agitati e vicini perché ci potessimo sentire tranquilli. Alla luce dei fari scorsi delle ombre e un balenare di occhi in mezzo ai cespugli. Leonard, che conosceva i maschi dominanti del territorio, ne individuò immediatamente uno: Ngwazi, dallo sguardo di fuoco. Dietro di lui, in una nicchia formata dalle radici ricurve di un fico selvatico, vidi il profilo di una leonessa che ruggiva, forse accovacciata tra irrequieti fagottini di pelo, i cuccioli. L'ultimo dei nostri pensieri era sapere se, tra loro, ce ne fosse uno bianco.

Leonard mise in moto per filarcela, e così scoprimmo come mai la Land Rover si era bloccata all'improvviso. In retromarcia, il veicolo sobbalzò violentemente scaraventandoci prima in avanti e poi indietro, per via di un tronco d'albero incastrato sotto l'assale anteriore. Ricordo di aver intravisto il volante girare a vuoto tra le mani di Leonard prima che lui ci spiegasse che non potevamo andarcene: il piantone dello sterzo era rotto. Eravamo bloccati.

Armati di riflettore, binocoli e teleobiettivi avevamo pensato agli animali come a un intrattenimento. Eravamo saltati nella Land Rover, correndo a tutto gas, sconfinando nel territorio dei leoni. I cuccioli erano appena venuti alla luce e, nonostante ciò, non ci era mai passato per la mente che la brutale intrusione nel loro spazio inviolabile avrebbe potuto disturbarli. In quel momento avevamo un unico pensiero: quelle bestie feroci stavano per attaccarci.

Bloccati e indifesi, nel bel mezzo di un branco di leoni inferociti, restammo in attesa.

Lena, la moglie di Leonard, teneva l'unica lampada alimentata dalla batteria della Land Rover. Lui ordinò di spegnere la luce e subito l'oscurità calò su di noi. Erano le otto e un quarto di una sera d'estate. L'ultimo raggio di luce era svanito oltre l'orizzonte.

«Se la batteria si scarica, non ce la faremo mai» spiegò secco Leonard. Fu allora che udii un fruscio alle mie spalle e con un urlo chiesi di far luce. Lena puntò la lampada in basso tra i cespugli e io mi ritrovai a fissare gli occhi fieri di una femmina inferocita. Un rumore a sinistra e il fascio di luce cadde su un altro paio di occhi rapaci. Eravamo circondati.

«Spegni la luce, Lena!». Leonard ripeté l'ordine. «Stai scaricando la batteria. Non ce la faremo a far ripartire il motore!». Per la prima volta percepii una vena di paura nella sua voce.

Quando Lena spense la lampada, piombò un silenzio di tomba.

È difficile rendere la stazza di un leone, visto a distanza ravvicinata. I leoni fulvi illuminati dal fascio di luce erano imponenti. La monumentale criniera dei due maschi, che si apriva a raggiera come un sole cupo alla luce del riflettore, ci rammentò all'istante quanto sia fragile la specie umana. A luci spente, la presenza dei leoni si faceva sentire ancora più allarmante. Tutti noi nella Land Rover fissavamo impotenti nel buio, in cerca l'uno dell'altro.

All'orizzonte le luci del campo brillavano fioche e si prendevano gioco di noi. Era giorno di pausa per il battitore, dunque non ci potevamo aspettare aiuto da quella parte.

Il rumore improvviso di qualcosa che si muoveva spinse Lena a riaccendere il riflettore e io vidi un altro leone adulto accovacciato a meno di dieci metri: gli occhi scintillavano di rabbia. Lo sguardo fisso su di noi, le fauci leggermente aperte, contrasse il ventre per prepararsi a emettere uno di quei ruggiti che fanno tremare la terra, come quello che avevamo udito dal campo, solo che ora noi eravamo circondati. Il suono cominciò basso, dalle viscere, e aumentò fino a farsi un tuono assordante, per poi attenuarsi in una serie di grugniti gutturali. Mi scosse letteralmente dalla testa ai piedi. Perfino la Land Rover aveva tremato e continuava a sferragliare. Mi si era rivoltato lo stomaco e credetti di star male.

Leonard ci impose la calma. Spiegò che non c'era modo di far avanzare la Land Rover e che il volante non sterzava. Ma, disse, avremmo potuto far marcia indietro e schivare il pericolo.

Lena spense di nuovo la luce e noi aspettammo, con il fiato sospeso, che lui avviasse il motore.

Clic.

Tutti udimmo il suono, ma avevamo bisogno che fosse Leonard a pronunciare le parole, per sorbire il colpo. Con un soffio di voce riconobbe: «Il motore è morto...».

«Hai detto morto?». Era stato mio marito a parlare. Quanto a pessimismo, John è da premio Nobel e lo conoscevo abbastanza bene da sapere cosa stava pensando: questa sarà la nostra ultima notte.

Ma la capacità di John di guardare la vita attraverso il filtro dell'arido spirito accademico portò una nota farsesca nel dramma della realtà. La situazione era davvero assurda. Uno dei turisti se ne uscì con una battuta isterica: «Non possiamo muoverci. Siamo intrappolati in una macelleria a cielo aperto».

Il campo era a forse meno di un chilometro, ma tra noi e la salvezza c'era la morte quasi certa. Leonard si attaccò alla radio, che gracchiò e poi ammutolì.

«Suppongo sia morta anche quella». John aveva usato di nuovo il consueto tono di voce mortifero.

Leonard spiegò che la Land Rover si trovava in un avvallamento e che la radio non riusciva a stabilire un contatto. Stava rimuginando, lo percepivo. La radio non era stata revisionata e, nell'eccitazione del momento, non ne aveva considerato le possibili implicazioni. Questo voleva dire che non c'era modo di chiedere aiuto. Nel tentativo di ragionare in senso costruttivo, spiegò che avevamo ancora mezz'ora di luce della lampada prima che anche la batteria si scaricasse. L'ottimismo scemava dalla sua voce mentre le parole gli uscivano di bocca. Niente radio, niente motore, niente luce, e nessuno che sapesse dove eravamo. C'erano solo i ruggiti feroci a far tremare la terra sotto i piedi e gli inquietanti fruscii tra i cespugli, man mano che i leoni si avvicinavano. Una stella era sorta all'orizzonte, a oriente: Sirio. Brillava di un rosso intenso e spietato. Eravamo spaventati, disperati, in preda al panico, eppure tutti nutrivamo la speranza di uscirne vivi.

Qualcuno propose: «Facciamo una corsa!».

«Per favore, no!» scattò Leonard. «Se corri, i leoni ti sbattono subito a terra».

Qualcun altro venne fuori con quella che pensava fosse un'idea ingegnosa: formare una catena e muoversi insieme, lentamente, come un rinoceronte. Ricordo di aver pensato che fosse un buon piano. Leonard cercò di intervenire, ci ordinò di starlo ad ascoltare e ricordò che i leoni sono predatori notturni.

Improvvisamente, la corrente della marea cambiò direzione. Uno dei turisti si mostrò d'accordo con lui. «Sì!» sbraitava. «Non riusciremo mai ad arrivare al campo di notte. Inciamperemmo e cadremmo!».

«Bene, io resto qui» dissi. «Nella Land Rover siamo al sicuro!». Il turista gridò che non eravamo per niente al sicuro. La Land Rover era scoperta, non c'era niente a proteggerci, neanche un telone. Era in preda al panico, si era alzato in piedi e gesticolava disperato al buio gridando che «qui o lì fuori, il pericolo è uguale».

Leonard gli intimò di sedersi immediatamente. Con tutto quel gesticolare, l'uomo doveva sembrare un bersaglio stuzzicante per i felini. Eravamo davvero ridicoli e avevamo perso completamente il contatto con la realtà. Tanto per cominciare, non saremmo mai dovuti esser lì.

Uno si era alzato e mormorava deciso che avrebbe fatto una corsa.

«No!» ribatté un altro. «Da solo non sei altro che un pezzo dì carne che cammina. O andiamo tutti o non va nessuno».

Quanto a me, non sarei riuscita ad andare da nessuna parte. Avevo le gambe molli.

La situazione si era trasformata in una commedia dell'orrore. Mi sarei messa a ridere, se non avessi avuto lo stomaco contratto per la paura. Solo pochi minuti prima eravamo turisti che trascorrevano un weekend nella savana per divertirsi con gli animali selvatici. Ora eravamo noi il loro trastullo.

Non ho mai sperimentato un terrore così acuto come quella notte. Mai più provato niente di simile, neppure lontanamente. Sembra che il terrore condiviso da tutti amplifichi la paura del singolo.

«E se sparassimo un colpo in aria?» suggerii col fiato mozzo.

«Ci sono solo quattro colpi e potrebbero servirci» disse Leonard.

«Oh no!». Udii un gemito di sgomento venire da John, raggomitolato vicino a me.

Nel gruppo, il disaccordo era tale che appena qualcuno avanzava una proposta, un altro lo zittiva subito. Eravamo esausti e confusi. Schiacciato in un angolo sul fondo della Land Rover, John alzò a mo' di scudo sopra la testa il coperchio di polistirolo della cassetta delle bibite. «A qualcuno va di bere?» suggerì allegramente, mettendo in luce il lato farsesco della situazione, malgrado il terrore. Silenzio.

«Nessuno vuole una Lion chiara?» domandò Leonard con lo stesso tono gioviale che aveva usato John.

La vasta distesa della savana, brulicante di occhi invisibili, fremeva silenziosa.

Qualcuno saltò fuori con la brillante idea di stenderci sotto la Land Rover, fuori dalla portata visiva, al che udii John chiedere in tono ironico chi mai si sarebbe prestato a restare sui margini.

La paura cresceva. L'idea dei leoni che ci annusavano e allungavano la zampa, come il gatto col topo, era oltremodo agghiacciante. Agli ultimi bagliori della preziosa luce vidi che uno dei leoni maschi si era messo a girare in cerchio.

Leonard ci ordinò di «sedere immobili» e ci rassicurò dicendo che aveva in mano il fucile e sarebbe andato tutto bene, ma non suonava granché convincente. Avvertivamo tutti che stava perdendo il controllo della situazione.

«Non senza la luce!» sbottò qualcuno nervosamente. «Non saremmo nemmeno in grado di intravedere il leone prima che ci salti addosso!».

In qualità di esseri umani, il terrore ultimo e più ancestrale non può essere altro che venir sbranati da un animale feroce, e ora noi stavamo vivendo proprio quell'incubo. Eravamo in quel fatidico posto da meno di venti minuti e già avevo compreso cosa intendessero per eternità i prigionieri del braccio della morte. A peggiorare la situazione c'era la consapevolezza che la paura di Leonard fosse ben motivata. Se lui, fra tutti, non avesse tenuto i nervi ben saldi, che ne sarebbe stato di noi?

La testa mi batteva come un tamburo. Le stelle si erano cristallizzate lassù, sopra di noi, e il calore della notte africana era sudore freddo sui nostri corpi. Avevamo esaurito tutte le possibilità.

Riti di passaggio

Poi, d'un tratto, al culmine dell'isteria generale, il dramma cambiò di tenore. Dall'oscurità emerse lentamente una presenza fantasma, a prima vista simile a un animale a quattro teste, che si dirigeva verso di noi. Io ero ormai sopraffatta da un senso di stordimento e pensai che si trattasse di un'allucinazione. Al buio, riuscivo a distinguere solo delle forme. Per prima veniva una donna anziana, che in seguito scoprii essere Maria Khosa, una sciamana shangaan. Circostanza del tutto improbabile, sulla schiena portava un neonato. La seguivano una ragazzina africana e, per ultimo, un ragazzo dagli occhi grandi. Camminavano come in stato di trance, tenendosi l'un l'altro.

Siamo salvi!, fu il mio primo pensiero. Sembrava un miracolo. Finalmente i soccorsi! Sentii un'esplosione di gioia, che si spense non appena mi resi conto che quella ciurma strampalata non avrebbe potuto fare niente per salvarci. Pensai che i nuovi arrivati erano un ulteriore fardello che si aggiungeva al nostro: altra carne da macello. Passo passo, si avvicinarono lentamente, si issarono sulla Land Rover senza dire una parola e si sedettero in mezzo a noi, come fantasmi. Fissavano con uno sguardo vacuo il buio che avevano appena attraversato, la distesa dov'erano i leoni.

Ricordo di aver notato come sulla scena fosse calato un silenzio diverso. Ma il nodo allo stomaco mi diceva: va peggio di prima. Proprio come John, stavo aspettando cupamente la fine. Non cercai nemmeno di capire che cosa ci facessero lì i nuovi venuti, né come avessero fatto ad arrivare. La donna si era seduta vicino ad Andries e gli altri si erano accovacciati nei posti di fronte a lei. Tutto quel che rammento è il contrasto curioso delle due figure che mi stavano di fronte: lui aveva le spalle ampie e ricurve, lei avvizzite e salde.

Credo che in cuor mio sapessi che ciò di cui avevamo bisogno era un atto di puro eroismo.

Un istante dopo, nella sfortunata Land Rover sperduta in mezzo alla savana africana, Andries parlò per la prima volta. Come animato da uno spirito nuovo, il ragazzo che festeggiava il suo compleanno si sporse davanti a Maria, afferrò il giovane dai grandi occhi neri e disse: «Kom, laat ons waai! [Vieni, andiamo!]».

Prima di inabissarsi nella notte — il suo piano era di cercare di raggiungere il campo e di ritornare a salvarci con un altro veicolo — Andries guardò per un attimo mia sorella Serena. Poiché lei mi rivolgeva la schiena, non potei vedere la sua espressione. Ma mi è rimasta impressa quella di lui, fiera e decisa, mentre, porgendole il fucile, diceva: «Miskien het jy dit nodig [Potresti averne bisogno]».

Doveva aver pensato che il ragazzo gli avrebbe fatto strada per ritornare al campo. Lasciò con noi Maria, il neonato e la ragazzina. Restammo seduti come paralizzati nella Land Rover, troppo sconvolti per parlare, mentre le due figure sparivano nell'oscurità. Se i leoni li avessero attaccati, avremmo sentito il loro ultimo grido, un pianto sommesso, lo scricchiolio delle ossa? Mi sforzavo di non pensare. Cosa si prova a essere divorati?

Stranamente l'isterismo si stemperò d'improvviso nella notte. Trattenevo il respiro e pregavo. D'un tratto, nell'immobilità percepii una strana calma, che non avevo mai conosciuto prima di allora. Non c'era modo di capire come fossero esattamente posizionati i leoni. Erano piombati nel silenzio. Speravo che gli altri non stessero ripensando alle parole di Leonard: «I leoni non ruggiscono quando puntano la preda».


Andries attraversò il buio fitto di leoni e arrivò al campo sano e salvo. Prese l'altra Land Rover e ritornò a salvarci.

Quella notte, mentre eravamo a letto, ancora carichi di adrenalina da smaltire, Ngwazi, il leone maschio dominante, si inoltrò quatto quatto nel campo, come per sottolineare la sua sovranità. Il giorno dopo, Leonard ne scoprì le tracce sulla sabbia. Ci svegliammo tutti con un senso di pesantezza e con i muscoli doloranti, fatta eccezione per Andries che era fresco come una rosa.


Si dice che i gatti abbiano sette vite. Se questo vale anche per gli esseri umani, sono certa che, in quella notte senza luna, tutti coloro che si trovavano nella Land Rover ne hanno persa una. Di sicuro ognuno di noi, a partire da una simile esperienza, ha guardato alla morte sotto una luce del tutto diversa.

Serena finì per sposare Andries, l'eroe cuor di leone del momento. Andries si era veramente comportato da eroe. Da quel giorno è stato soprannominato "l'Eroe" e questa storia non solo costituì il fulcro del discorso di John al matrimonio di Serena e Andries, ma anche lo spunto di suggestivi racconti nel corso di molte cene a venire. Il che dimostra come tutti noi non avessimo minimamente colto il ruolo dell'altro eroe della vicenda: Maria, la sangoma, la donna-medicina che pareva aver calmato i leoni inferociti e che aveva camminato in mezzo a loro per raggiungerci.

La mia vita, da allora, non è più stata la stessa. Ero andata spesso nel Timbavati prima dell'incidente, ma da quel momento in poi il luogo acquisì nuova energia per me. L'esperienza era stata così estranea al mio modo usuale di percepire la realtà che non feci alcun tentativo di analizzarla. Sorprendentemente, solo tre anni più tardi, dopo una lunga malattia che mi aveva indotto a rivedere completamente il mio sistema di valori, fui finalmente pronta a prendere in considerazione le implicazioni dell'atto di coraggio di Maria.

Nel 1994 ritornai nel Timbavati con uno scopo diverso. Ero decisa a incontrare la donna-medicina e ad ascoltare la sua versione dei fatti. Forse, fino a quel momento, semplicemente non ero stata pronta a conoscere la verità.

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