Copertina
Autore Karine Tuil
Titolo Di sesso femminile
EdizioneVoland, Roma, 2005, amazzoni 27 , pag. 156, cop.fle., dim. 145x205x11 mm , Isbn 978-88-88700-36-6
OriginaleDu sexe féminin [2002]
TraduttoreStefania Ricciardi
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe narrativa francese
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 10

UNA ZITELLA



Il giorno del mio trentesimo compleanno ho scoperto, allibita, che mia madre era mortale: il mistero di famiglia era svelato. Erano le otto di mattina, leggevo nella mia stanza quando lei irruppe all'improvviso urlando — le urla rimanevano il suo unico mezzo di espressione — invocando la buonanima di mio padre e Dio onnipotente perché ero una 'zitella', un 'disonore' — "trent'anni e nemmeno l'ombra di un marito." Avanzava claudicando verso di me — le gambe corte facevano sempre più fatica a sorreggerla — nel suo vestito a fiori protetto da un grembiule ancora macchiato del sangue e del grasso di un pollo appena sbudellato. I capelli, che dalla morte di mio padre non tingeva più, erano quasi trasparenti, e così radi che intravedevo il cuoio capelluto e le scaglie di eczema che lo devastavano: reazione epidermica causata dalle angosce derivanti dal mio stato di single. I tratti del viso sembravano atrofizzati: la vena che le solcava la fronte si era ingrossata, diventando violacea, mentre capillari rossastri erano esplosi all'estremità del naso, a irrigare la sua collera. La pelle era livida come dopo uno schiaffo. Quando mia madre era in preda all'ira — e le accadeva spesso — diventava un'arpia isterica che nessuna parola riusciva a calmare. La mano destra in alto — la mano colpevole, quella che regolava le lancette del mio orologio biologico — e l'altra che impugnava il coltello della carne. Ma non fu la lama a trafiggermi, no: fu il suo rancore. Lo affondava nella mia scatola cranica, scavava — senza anestesia — nel cervello spappolato, lacerava le membrane, sezionava i nervi; e così via, avanti e indietro, a triturare le carni, sbrindellare le arterie, dragare le cavità, mescolare i liquidi. Scandagliava i bassifondi della mia anima nella speranza di estrarne i pensieri più intimi - desideri impuri, sogni proibiti, sensi di colpa — mentre io incatenavo le mie fantasie, le imbrigliavo con forza, diventavo vittima della mia stessa censura. I peggiori nemici della libertà individuale siamo sempre noi stessi. E mia madre raspava, grattava le asperità del mio animo con la sua erre moscia, sputava parole sgorganti da un flusso ininterrotto: "un'ingrata", ecco cos'ero, "un'egoista", "un'incosciente" che viveva "come un uomo". La lama del coltello era così vicina al mio viso che vi scorgevo una me stessa deformata, l'immagine che lo sguardo critico di mia madre mi restituiva. E lei agitava la mano armata appena sotto il mio mento, faceva svolazzare la lama con la destrezza di un macellaio in procinto di tranciare la carotide di un animale. Eppure non avevo paura! Che male poteva farmi? Non desiderava il mio bene? Come potevo privarmi della felicità coniugale? — oh, che gioia portare il cognome di un uomo! — sì, la felicità coniugale! — oh, che gioia portare un figlio in grembo! "Perché Emma, hai trent'anni, vivi sola, stai invecchiando!" Certo, la pelle del mio viso appassirà, lunghe rughe sottili segneranno la mia carne, il tempo circonciderà la mia fronte, suggellerà l'alleanza con la morte, mentre, in fondo al mio bacino, l'utero diventerà fibroso, gli ormoni si sfalderanno, non potrò più avere figli. "Il tempo stringe, Emma, devi sposarti" — sacra ingiunzione che le donne si trasmettono da generazioni. Col tempo avevo imparato a controllare le emozioni, fingevo di ascoltarla, canticchiavo dentro di me una musica abbastanza assordante da coprire le sue grida, ma la mia serenità apparente non la placava, anzi, si sentiva sfidata e la violenza dei rimproveri raddoppiava. Sbraitò: "Come osi infliggermi una vergogna simile! Dio mio, che cosa ho fatto per meritare una figlia così!" quindi, col gesto improvviso di uno scippatore, mi strappò il libro di mano. "Il Libro di Giobbe, ecco cosa legge mia figlia, una figlia di trent'anni!" gridò, scuotendo l'opera con un vigore tale che sembrava tentasse di farne scivolare via le parole, di staccarne le lettere, o forse quel gesto inconsulto era un tentativo di svuotare la mia mente dai pensieri immorali. E mentre lei urlava, io salmodiavo in silenzio le parole bibliche adattandole al femminile: "Perché lei non ha richiuso le porte del mio ventre per nascondere la pena ai miei occhi? Perché non sono morta nel ventre stesso, perché ginocchia per accogliermi, perché seni per allattarmi?" I seni di mia madre, terra soffice nel cui cuore amavo affondare il viso, si ergevano ormai come un baluardo di carne tra lei e me. "Dio mio!" implorò tirando i lembi del suo grembiule, "non potresti concederti letture più allegre?" Lettrice assidua, mia madre era abbonata al "Reader's Digest" e ogni settimana leggeva "Nous deux" con una concentrazione che mi lasciava a bocca aperta: le avventure sentimentali dei suoi eroi di carta, mediocri attori incatenati ai loro ruoli, non erano la migliore valvola di sfogo per la banalità della sua vita quotidiana? Girava intorno a me – il suo corpo esalava effluvi di sangue animale – lanciava i suoi rimproveri con un tono prossimo al grido. Con la voce rauca, inasprita dalle tragedie familiari, martellava:

– Fino a quando hai intenzione di stare sola?

Mi limitavo ad ascoltarla – che cosa potevo risponderle? – mi facevo anch'io la stessa domanda diverse volte al giorno come un carnefice che tenti di estorcere una confessione con la forza: Emma, fino a quando hai intenzione di stare sola? Fino a quando il tuo corpo nel letto troppo grande – sola – la cena davanti al televisore – sola – e le vacanze, terribile prova di solitudine imposta – sola – le feste di famiglia – sola – le spese settimanali nei grandi magazzini – sola – e il peggio, la malattia – sola! sola! sola! a tossire, sputare, piangere, soffrire.

– Fino a quando? – ripeté mia madre.

A meno che non fossi io.

Lasciò il coltello sul tavolo del salone, poi mi si parò di fronte:

– Ma insomma, non sei normale! Tutte le ragazze vogliono sposarsi e avere figli.

– No, mamma, tutte le madri vogliono che le figlie si sposino e abbiano figli.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 40

LE ANTIFEMMINISTE



Sin dal giorno dopo, in ospedale, si distillarono i veleni materni. Mia madre era circondata da due donne la cui unica attività consisteva nel parlare degli altri: si evocava la vita altrui per evitare di pensare alla monotonia e al disastro della propria. Suzanne, l'amica d'infanzia conosciuta da mia madre alla scuola elementare di Algeri, era una donna piccola e bruna le cui misure, che per anni avevano alimentato i desideri degli uomini, ormai ispiravano spavento. Con l'età il suo corpo era rimpicciolito – a sessantuno anni misurava appena un metro e cinquanta; la schiena, come un pony che tira un carrettino, portava dei seni così ingombranti che solo un reggiseno confezionato su misura riusciva a sostenere. Benché si ornasse di stole multicolori, tutto in lei evocava grigiore e tristezza. Quando la incrociavo da mia madre, non potevo impedirmi di pensare alla canzone di Ferré: Avec le temps, avec le temps, va, tout s'en va. La bellezza era cancellata, suo marito si era dato alla fuga, l'unica figlia si era stabilita in Australia. Era stata così bella da giovane, eletta Miss Algeri negli anni '50 da una giuria composta dalla sua famiglia e dai suoi amici. Mia madre mi aveva mostrato una foto di lei a quindici anni, con un vestito di cotone a quadretti blu, ballerine di pelle ai piedi, i capelli raccolti a chignon. Era un'altra Suzanne. I suoi grandi occhi verdi evidenziati dall'eye-liner illuminavano la pelle brunita da ore di esposizione al sole. Sorrideva beata e io indovinavo, in quel sorriso, tutte le promesse dell'avvenire. La Suzanne che avevo di fronte in ospedale contraeva le labbra screpolate, cerchiate di rughe sottili, e in quella smorfia leggevo tutte le delusioni della vita. La seconda amica di mia madre, Lucienne, era una delle sue ex colleghe, sarta come lei; l'aveva incontrata all'epoca in cui lavorava da Chanel. Era una donna alta e bella, vestita con eleganza e in perenne equilibrio su tacchi a spillo di dieci centimetri che, secondo lei, facevano sognare tutti gli uomini, "quei feticisti dei piedi". Il viso, truccato con cura, somigliava a quello di una bambola di porcellana; ne possedeva la fragilità, l'apparente dolcezza. Ma quando parlava, mi veniva un violento desiderio di cavarle gli occhi – questa donna era una temutissima criticona, nota per la propensione a spargere voci, per il senso dell'enfasi e le battute sferzanti. Quanto a mia madre, dalla morte di mio padre aveva cancellato dal corpo ogni traccia di femminilità. Non si truccava più, si pettinava con la punta delle dita, si tagliava le unghie cortissime e le lasciava incolori. I polpastrelli, corrosi dai detersivi che aveva maneggiato per tutta la vita mentre le altre tastavano ciprie costose, presentavano l'aspetto rugoso di una corteccia d'albero. Una volta al mese mia madre immergeva il corpo in un bagno rituale con acqua di sorgente per detergerlo a fondo. Si ciacquava i capelli con l'aceto per eliminare ogni impurità. Puliva il viso mattina e sera con una lozione astringente. Infine, prima di ogni pasto, procedeva alle sue abluzioni. Ogni gesto tendeva a purificarla; così è diventata un essere asessuato. Portava sempre gli stessi vestiti di cotone con motivi floreali svasati all'altezza delle anche, sulle quali poggiava il grembiule da cucina aureolato di macchie di grasso che nessun lavaggio in lavatrice era riuscito a sciogliere. Quando le rimproveravo la sua sciatteria, mi rispondeva: "Truccarmi? Per sedurre chi? Sai che m'importa di piacere a me stessa!" Insieme al marito, aveva sepolto anche i desideri. Tuttavia, fedele al suo ex datore di lavoro, si spruzzava di Chanel N. 5 più volte al giorno. Era la fragranza della sua pelle e il suo profumo intimo. La sua passione per la maison Chanel rasentava la nevrosi. Di famiglia modesta – padre operaio, madre casalinga – mia madre aveva imparato il mestiere di sarta presso un'ex ricamatrice impiegata da Balenciaga, poi era riuscita a farsi assumere – come? – da Chanel. Da quel giorno era vissuta nell'ombra dell'illustre sartoria come una fan, collezionando libri e ritagli di giornale dedicati a Coco Chanel. Dall'età di tredici anni mi costringeva a portare i celebri tailleur, che riproduceva con cura e sui quali cuciva bottoni recuperati da vecchie giacche. Da quando era in pensione passava ore a confezionarmi modelli di alta sartoria, tra cui un vestito da sposa in seta impunturato di perle e ornato da un velo ricavato da un tessuto così fragile che si sarebbe strappato con un semplice sfioramento dell'unghia. Lavorava con una pazienza tale che sembrava partecipasse alla creazione del mondo. L'ammiravo mentre cuciva sfidando i disagi: la vista debole, l'artrosi che le deformava le dita, i dolori lombari; la osservavo contemplare l'opera delle sue mani, realizzava il suo sogno e quello delle sue amiche: il matrimonio. Non ne avevamo mai avuti altri. Educare da madri sottomesse, date in sposa a diciannove anni, si ergevano a paladine della causa maschile. Glorificavano la supremazia degli uomini, lottavano contro l'oppressione femminista, esaltavano la separazione dei poteri: alle donne la cura di vegliare sul buon andamento del focolare domestico, agli uomini l'obbligo di ottemperare ai bisogni della famiglia. Analizzavano le disfunzioni della società secondo criteri stabiliti nel corso degli anni. Così il numero di divorzi aumentava ogni anno "perché le donne lavorano troppo e trascurano i mariti". Gli uomini non cercavano più il matrimonio "perché le donne fanno l'amore sin dalla prima volta". Le ragazze si sposavano sempre più tardi "perché fanno paura agli uomini". I pregiudizi erano radicati così in profondità nella loro mente che un esercito di ferventi femministe non sarebbe riuscito a sradicarli.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 57

Mi si parò davanti e, indicando Paul, disse con tono intriso di orgoglio:

— Guarda tuo fratello, festeggerà presto i sette anni di matrimonio, gli manca solo un figlio e sarà al colmo della felicità.

Osservai mio fratello. Una luce smorta, simile a quella diffusa da un lampione in un vicolo, emanava dai suoi occhi. Grandi occhiaie oscuravano ancor più uno sguardo nel quale scorgevo solo il riflesso di un animo tormentato.

— Non è vero Paul? Non sei felice? — insisté mia madre.

Paul non rispose. Eravamo disposti a triangolo nel centro della stanza. Feci un passo verso Paul affinché i tre lati fossero uguali, ricreai la geometria familiare. Senza nostro padre, il quadrato si era trasformato in triangolo; in alto, la figura spigolosa di nostra madre ci dominava.

— Paul, sei felice, non è vero? — ripeté lei.

— Sto per divorziare, mamma.

— Cosa?

— Hai capito bene. Io e Julia abbiamo deciso di divorziare.

— Ma non è possibile!

— Sì. Abbiamo già avviato le pratiche.

Così destabilizzata, mia madre diede il via alla sua logorrea.

— No, ti proibisco di divorziare si tratta solo di una crisi passeggera hai mai sentito parlare della crisi del settimo anno tutte le coppie l'attraversano e anche tuo zio il fratello di tuo padre ha rischiato di divorziare quindici anni fa era così magro allora non aveva ancora avuto la sua malattia e ti assicuro che non andava più d'accordo con la moglie sapessi litigavano per ore dalla mattina appena svegli fino alla sera s'insultavano dappertutto e di continuo e gli dicevo oh sì gli ricordavo che il primo anno di matrimonio si baciavano dappertutto e di continuo ma tuo zio rispondeva che aveva dimenticato tutto tuo padre diceva che era l'Alzheimer coniugale nessuno riusciva a riappacificarli hanno consultato medici e avvocati e anche un sessuologo e alla fine tuo padre gli ha detto è la crisi del settimo anno aveva sentito dire che mieteva molte vittime ogni anno quasi come l'influenza e del resto è un virus bisogna aspettare che passi io credo che...

— Basta! — gridai.

Mia madre si zittì. Paul mormorò con tono laconico:

- Ho incontrato un'altra.

Mia madre sciorinò subito il suo questionario: "Come si chiama? È ebrea? Che fanno i suoi genitori? Dov'è nata? Quanti anni ha? Cosa fa? Sa cucinare? Soffre di malattie congenite? È sterile?" Non appena ebbe finito, si lasciò cadere su una sedia emettendo un rantolo che racchiudeva tutte le sue angosce. Eppure non era ancora al colmo della delusione. Mio fratello rispose alle domande, ma ogni risposta rischiava di farla svenire. Perché la nuova compagna di mio fratello si chiamava Christina Rinner. Era tedesca. I suoi possedevano una macelleria a Berlino, città dov'era nata. Esercitava la professione di avvocato presso lo stesso studio di mio fratello. "Il seguito" disse mia madre "non m'interessa. Che potrà mai cucinare, se non carne impura? La sua origine è la peggiore delle malattie congenite! Quanto a un'eventuale sterilità, sarebbe un dono del cielo, perché la vostra discendenza sarebbe maledetta!"

Io non reagii. Da noi la parola 'tedesco' era tabù. Non la pronunciavamo mai. Alle medie, al momento di scegliere la seconda lingua (avevo scelto l'inglese come prima), avevo optato subito per lo spagnolo; ho studiato il latino e il greco ma il tedesco mi era proibito - lingua morta, maledetta. Mia madre rifiutò perfino di mandarmi a Berlino con la mia classe in occasione del tradizionale viaggio d'istruzione, rimasi da sola a Parigi: "Puoi scoprire il mondo intero se lo desideri" disse per consolarmi, "ma non la Germania." Mia madre rivisitava alla sua maniera il precetto talmudico secondo il quale le colpe dei genitori ricadono sui figli fino alla quinta generazione. Così urlò a mio fratello:

— Ma perché diavolo hai scelto una tedesca? Esistono decine di nazionalità nel mondo, allora perché scegliere una tedesca?

— Il caso, mamma. Ho incontrato Christina a New York, non a Berlino.

— E tua moglie?

— Non c'è più niente tra noi — rispose mio fratello con gli occhi bassi.

— Andiamo bene! Gli ebrei non vogliono più essere vittime! Sono pronti a tutto per mostrare la loro superiorità al popolo tedesco. O mio Dio! Se la riconciliazione dei popoli passa per la sessualità, dove andremo a finire?

Paul lasciò che il mento della mamma urtasse contro il suo torace.

— Ti rendi conto del male che ci fai! Una tedesca! Come oserai associare la parola 'Christina' a 'Blum'? È come accoppiare una cagna con un uomo!

A quelle parole mio fratello scoppiò in singhiozzi. Un uomo piangeva, io avevo la sensazione di assistere a una violenza, ero testimone impassibile di un'aggressione, non mi muovevo, mi limitavo a fissare le lacrime che gli scendevano sulle guance.

— Basta così! — esclamai afferrando mia madre per un braccio.

Poi, voltandomi verso mio fratello, gridai:

— Come puoi essere così vigliacco? Devo essere io a prendere le tue difese, a utilizzare le tue armi, il tuo discorso giuridico?

Paul non disse una sola parola, si limitava ad asciugarsi il viso con un movimento della mano. Professionalmente era formidabile nel dibattimento, ma nella sfera privata si rivelava un mediocre oratore. Mia madre sembrava sconvolta da quelle lacrime che scorrevano, ma non osava fare un gesto verso di lui. Avanzai fino a lei, e con un tono deciso che non avevo mai avuto l'audacia di associare alla mia voce, presentai la nostra difesa:

— In tutti gli anni in cui abbiamo vissuto accanto a te, tu hai attentato alla nostra vita privata, moltiplicando le intrusioni nelle nostre faccende sentimentali. Violazione del diritto all'immagine: non ci hai forse scattato delle foto per poi mostrarle alle tue amiche o a semplici conoscenti? Violazione del segreto di corrispondenza: non hai forse aperto la nostra posta e letto i miei diari? Violazione del diritto alla libera circolazione: non ci hai forse impedito di uscire quando lo desideravamo?

Mio fratello alzò la testa:

— Dimentichi la discriminazione nei confronti delle donne — aggiunse singhiozzando.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 108

LA VISITA PREMATRIMONIALE



Bisognerebbe sempre diffidare degli uomini che vivono in casa dei genitori. Purtroppo avevo fiducia in Théodore, pensavo — a torto — che un delinquente letterario non potesse essere pericoloso. E accettai l'invito a cena dai suoi, cioè da lui. I Gerszterkorn abitavano in un villino di mattoni rossi nascosto in una scialba strada della periferia parigina. Sul portone, una targa di metallo segnalava: "Attenti al cane!" Non appena la vide, mia madre fece per indietreggiare, aveva una paura matta degli animali domestici.

— Guarda! — esclamai, indicando i portoni delle case vicine. — Hanno tutti la stessa targa. È una misura di sicurezza.

Emise un sospiro di sollievo, afferrandomi per un braccio.

— Sii gentile, fa' i complimenti alla padrona di casa, mangia tutto quello che ti viene servito — mi raccomandò.

Annui, girando la maniglia della porta.

— E soprattutto — mormorò mia madre — non dimenticare mai questa regola: non parlare né di religione, né di politica.

Ravviò la ciocca di capelli che mi cadeva negligentemente sugli occhi, controllò la resistenza dei bottoni della mia giacca e le pieghe dei pantaloni. Si umettò l'indice destro di saliva, poi lo sfregò sulla mia guancia per cancellare una traccia di rossetto. Infine indietreggiò di tre passi, mi squadrò, indugiò un istante sulla mia pettinatura prima di concludere: "Perfetto!". Pigiai immediatamente il dito sul bottone del campanello, sentimmo urla isteriche accompagnate da esplosioni di voce dall'altro lato della porta.

— Che succede? — sussurrai a mia madre.

Fece spallucce nello stesso istante in cui il viso di Geneviève Gerszterkorn appariva nella strombatura della porta.

— Benvenuta! — esclamò.

Era una piccola donna bionda dal viso infantile costellato da lentiggini che si erano mescolate a qualche macchia di vecchiaia. Una lunga treccia oscillava all'altezza delle reni. Portava un vestito di cotone rosa pallido e, ai piedi, calzerotti da casa con il tallone dello stesso colore. Aveva appena aperto la porta quando un cagnetto, un vecchio animale di razza imprecisata, saltò su mia madre, guaendo.

— Ah, avete un cane! — esclamò lei.

— Una cagna — precisò Geneviève Gerszterkorn.

Benché non avesse mai sopportato gli animali — invocava ogni sorta di motivo: il disgusto, l'allergia, la paura di essere morsa — mia madre non fece commenti sgradevoli quando la cagna le graffiò i collant, addirittura osservò con gioia:

— Com'è carina! Ah, se avessi avuto un cane, avremmo potuto fargli fare dei cuccioli!

Crescete e moltiplicatevi! La sua riflessione mi confortò nell'idea che si fosse assegnata una missione divina: accoppiare animali ed esseri umani.

— Entrate! Entrate! — esclamò Geneviève Gerszterkorn.

Seguii mia madre ma fui assalita da un forte odore di cavoli associato a effluvi di trementina, l'aria era irrespirabile, le finestre chiuse: come potevano sopportare di restare reclusi in quel luogo nauseabondo? Mia madre mi guardò pizzicandosi il naso. Geneviève Gerszterkorn ci aiutò a togliere i cappotti.

— Sedetevi lì! — disse, indicandoci un divano in tela giallastra sul quale la cagna aveva lasciato traccia delle sue unghie e dei suoi bisogni.

Il salotto era un'ampia stanza scura dalle pareti sbiadite. Decine di oggetti — caraffe di cristallo e di peltro, statuine di porcellana, cornici, matrioske, libri polverosi — ingombravano i tavolini di legno. I mobili erano male assortiti al punto che sembrava di entrare nel deposito di un rigattiere. Il padre di Théodore covava i suoi oggetti con lo sguardo, neanche si trattasse di altrettanti figli. Rimase piantato nel mezzo del salotto, intrappolato nel suo esile scheletro in cima al quale oscillava la testa. Dei bei boccoli candidi gli incorniciavano il viso solcato da rughe profonde: di tutti i mobili, sembrava lui il più antico. Ci invitò a sederci. Mia madre si apprestava ad affondare il suo ampio deretano nella tela soffice, quando Théodore fece irruzione nella stanza. Indossava una camicia color vinaccia e jeans consumati alle ginocchia. Dallo sguardo luminoso di mia madre, capii che l'aveva sedotta. Per fortuna fece a meno di stringerle la mano — a volte il mancato rispetto delle convenienze sociali genera conseguenze felici. Ci sedemmo senza smettere di osservarci reciprocamente; si trattava di valutare i nostri interlocutori, cercando di leggere nei loro pensieri il giudizio che ci riservavano. Era un esercizio pericoloso, poiché dovevamo conversare e al tempo stesso interpretare, così, mentre discutevo con Geneviève Gerszterkorn (scambiavamo qualche banalità sulla fortuna di possedere un animale da compagnia), la scrutai minuziosamente: non era bionda naturale, alla radice i capelli erano brizzolati; le sopracciglia erano state completamente depilate e rimpiazzate da semplici tatuaggi marroncini. Estirpai dalla sua mente i commenti che stava formulando nei miei confronti: "Una donna affascinante, anche se troppo magra, non certo all'altezza di mio figlio e forse un po' troppo vecchia per lui. Ha bei capelli neri che purtroppo sarà costretta a tagliare nel giro di qualche anno" e concluse: "Vada pure per il matrimonio!" Mi voltai verso mia madre: era elegante nel suo vestito di seta nero orlato di pizzo, la sentii esprimere il suo parere sulla qualità della vita a Parigi, mentre leggevo nei suoi pensieri le prime impressioni su Théodore: "È un uomo affascinante anche se troppo magro, non certo all'altezza di mia figlia e forse un po' troppo vecchio per lei. Ha bei capelli neri che purtroppo perderà nel giro di qualche anno" e concluse: "Vada pure per il matrimonio!" La mente di Gilbert Gerszterkorn era insondabile. Quanto a Théodore, immagazzinava le citazioni nel cervello senza lasciarvi penetrare un solo pensiero che fosse suo.

| << |  <  |