Copertina
Autore Göran Tunström
Titolo Il ladro della Bibbia
EdizioneIperborea, Milano, 2006 , pag. n, ill., cop.ril./fle.sov., dim. larxaltxspe cm , Isbn 978-88-7091-148-0
OriginaleTjuven
EdizioneAlbert Bonniers Förlag, Stockholm, 1986
TraduttoreFulvio Ferrari
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe narrativa svedese
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Pagina 11

Fredrik Jonson Lök non aveva mai fatto niente di disonesto perché non aveva mai fatto niente in vita sua. Riteneva che lavorare gli fosse proibito per nascita. Apparteneva alla nobiltà "Dei Nostri" e si atteneva rigidamente alle tradizioni instaurate dai suoi barbari antenati nei lontani boschi del Nord. Era il più giovane dei quattro figli del General Pattume, e l'unico di loro a essersi fermato a Sunne. Quello che gli era rimasto fisicamente più vicino era Gustaf, rinchiuso nella prigione di Karlstad dove fabbricava grucce per abiti per conto del consiglio provinciale. Gustaf era il padre del piccolo eroe della nostra storia, Johan Jonson Lök che in mancanza di genitori fu gettato come uno straccio bagnato in quella che sarebbe diventata la famiglia di Fredrik in tenera età. "Questo al riguardo", come scrive Procopio.

Procopio non era di Sunne. Era nato a Cesarea, in Palestina, alla fine del V secolo, un eccellente storico militare capace di prendersi le sue vendette, dopo che dal suo punto di osservazione, sulle spalle del generale Belisario durante le guerre gotiche, ebbe osservato attentamente la decadenza e la caduta dell'impero romano. "Su questo torneremo in seguito."

Fredrik Jonson Lök, invece, era nato nel comune di Östmark, nel Värmland settentrionale, e aveva osservato la guerra della sua generazione da svariate tazze di water di una compagnia di riservisti, a Karlstad, dove trascorreva il tempo stuzzicandosi i denti. Nessuno può comunque sostenere che abbia abbandonato il suo posto di lavoro, visto che era stato incaricato di occuparsi proprio di quel settore della difesa svedese nell'anno in cui Hitler invase la Norvegia, come non si può sostenere che la difesa svedese risultasse indebolita il giorno che gli fu consentito tornare alle panchine del parco di Sunne.

Fredrik era un conoscitore di tutte le panchine del paese, ma per un certo periodo la sua preferita fu quella all'estremità del Lungolago, proprio dove il Fryken si allarga verso sud e come in un sorriso rivela tutto quanto c'è di bello nel Värmland: prati lungo le rive, colli azzurrini e foreste oscure.

E ora è primavera nella valle del Fryken. I ruscelli del disgelo si fanno strada giù verso il fiume Ler e il lago Fryken. Le schegge di ghiaccio scintillano tra le tenere betulle primaverili, una tonalità violetta fa la sua comparsa ai margini del bosco di Gylleby. Gli anemoni sbirciano fuori, con i loro occhi chiari come figli della gioia appena nati.

Ah, Ida Pripp, se tu avessi preso la strada degli anemoni, invece! Eri in dubbio, in effetti. Eri lì, davanti alle scuole superiori, con i tuoi diciassette anni, il seno teso sotto la maglia di lana, i capelli al vento intorno al volto, sola come al solito, le mani strette intorno ai libri. Te ne stavi lì a giocherellare con la punta della scarpa in una pozzanghera, aspettando che qualcuno ti chiedesse se volevi andare con lui alla pasticceria, cosa che nessuno fece. Né allora né poi. Così eri lì a scegliere tra due solitudini, quella degli anemoni e quella del chiosco di dolci giù in piazza. Ieri hai fatto la strada degli anemoni, ah, se l'avessi fatta anche oggi! Ti aveva dato gioia, no? Hai raccontato ai tuoi genitori che li avevi visti. Eravate a tavola e parlavate di quanto fossero sorprendentemente in anticipo quell'anno, erano anni che non spuntavano così presto, e tuo padre si è ricordato di un altro anno molto precoce, quando aveva la tua età, Ida.

Ma poi ecco che sceglie la propria vita, il desiderio del primo gelato alla fragola della stagione è troppo forte. Sente già sulle labbra il sapore dell'anno prima e prende la strada che scende al paese, cammina sola tra gruppi di compagni, rinuncia per sempre allo scintillio grigio perla del berretto della scuola tecnica per il sapore di gelato in bocca. Supera saltellando il passaggio a livello e si dirige al Lungolago per mangiarsi in pace il suo gelato. Ida è troppo grassa e il venditore di scarpe Pripp le ha detto che insomma, cara Ida, devi pensare alla tua figura, tutto questo mangiare ti rovina il fisico, già hai la tendenza, guarda tua madre. Le labbra hanno l'acquolina per il buon sapore, e quando trova una panchina sul bordo dell'acqua sono quelle labbra umide a illuminare il volto di Fredrik Jonson Lök e a tentare il suo sguardo solitamente spento. Fredrik ha vent'anni e se ne sta lì seduto con gli occhi vuoti a masticare una caramella.

Ida, ancora convinta di prendere il diploma tra qualche settimana, apre i suoi libri di storia. A Ida piace la storia, le piacciono gli scontri tra il partito dei Cappelli e quello dei Berretti, ha risposto correttamente alla domanda sull'hobby di re Federico di lavorare al tornio le tabacchiere, e non molto tempo fa il professore le ha detto che sicuramente diventerà un'insegnante, come lui. Sei precisa, sei la più diligente della classe e hai la testa per studiare. Per questo ora Ida vuole immergersi più a fondo nell'epoca delle tabacchiere, però le piacciono anche le caramelle, è entusiasta delle caramelle Figaro, delle Läkerol e di quelle al miele, e quando Fredrik Jonson Lök si mette a frugare nella scatola delle caramelle al miele, lì accanto, lei non può fare a meno di sbirciare. Fredrik è timido, si scosta, ma ha la sensazione che qui, a questo punto, si potrebbe magari offrirne una.

Sbirciando lei continua a rimuginare su Cappelli e Berretti, e intanto ascolta il fruscio che viene dalla scatola di caramelle.

Sciabordio di onde. Sbirciatine.

Fredrik Jonson Lök si rifugia nel suo masticare e guarda il lago.

"Studi?"

"Stiamo facendo l'Illuminismo. È un periodo talmente interessante. Non trovi?"

Per via delle caramelle al miele.

"Posso offrirtene una?" gli viene in mente di dire dopo averne trangugiato una consistente quantità.

"Grazie", inspira lei sorridendo. "Dobbiamo riuscire a fare tutto fino alla morte di Gustavo III. Chissà poi perché l'hanno ammazzato! D'accordo che era un despota, però era un despota illuminato."

"Mmmgià, è stata una scemenza, credo. Vai a scuola?"

"Sono all'ultimo anno, prendo il diploma tra un mese", dice lei senza ancora sentire il fiato del destino che le sfiora le guance. "Pensa se mi interrogano in storia. È la materia più bella di tutte. Secondo te?"

Lui la guarda con diffidenza. La vede crescere ai suoi occhi, e i denti che compaiono quando si mette la caramella sulla lingua risplendono bianchi e regolari, non ha mai visto niente del genere. E Ida, come avrebbe più tardi raccontato, rimane "confusa" dal suo sguardo:

"A te non piace la storia?"

"Maledizione, mi piaci tu. Ecco cosa mi piace. Scusa la parola forte."

"Sì, certe parole non mi piacciono, comunque grazie", si morde le labbra, e lui, Fredrik dei Jonson Lök prende in quel momento una delle poche decisioni della sua vita, una decisione a cui non si atterrà affatto: la decisione di non usare mai espressioni che quella lì non approvi.

"E così vai a scuola, cioè."

Si china in avanti perché lei non veda l'improvviso rigonfiamento dei pantaloni.

"Puoi interrogarmi. Su Arvid Hom. È diventato il capo del partito dei Berretti dopo aver partecipato alla campagna del re sulla Poltava, inoltre ha preso la guida degli affari di stato in opposizione al partito dei Cappelli, che era un partito guerrafondaio e voleva andare all'attacco contro il pericolo russo."

A Fredrik gira la testa, la guarda fisso.

"E tu? Stai anche tu dalla parte dei Berretti?"

"Io la penso come te, io... È una fott... non si fa mica così!"

"Cosa? E hai imprecato di nuovo, quasi."

"Sì sì..." Agita la mano in un gesto come se in qualche modo volesse racchiudere la tempesta di parole che lei ha rovesciato fuori, ma il gesto va a spegnersi vicino alla scatola di caramelle, si insinua nel suo spazio protettivo e rimane per un po' lì a riprendere fiato. Nel frattempo emette un rutto e sembra guardare dentro di sé.

"Una cosa è certa. Tu sei maled... bella."

"Ma tu non devi imprecare così. Perché se no quasi cancelli quello che dici. Come ti chiami?"

"Lo sai benissimo chi sono."

"No, non lo so."

Un'ombra però l'attraversa.

"Sei...?"

"Sì, certo", risponde lui. "Ma non sono cattivo."

"Non ho detto questo."

"No, no."

Si rinserra nelle parole e si fa un gran silenzio. Ida in un primo momento si sente delusa perché lui non chiede chi sia lei, poi ha l'impressione che Cappelli e Berretti si fronteggino nel suo petto studiandosi, e la prende una grande angoscia che di lì a poco comincino a battersi, sa che c'è il rischio di una guerra civile. Re Federico non partecipa alle riunioni del Consiglio, e per la sua firma si fa uso di un timbro. Ha anche un'amante sedicenne di nome Hedvig Taube. Ida l'ha letto sull' Enciclopedia per la famiglia. Il corpo le si fa caldo. Ai figli di Hedvig vennero assegnati titoli nobiliari, i Berretti erano contrari a quella relazione, mentre i Cappelli la vedevano di buon occhio.

"Non ti ho fatto diventare triste, vero?" gli domanda, perché a Ida non piace far diventare triste la gente. E Fredrik, che non ha mai sentito prima quella parola detta a quel modo, trasalisce e dice che sì, ecco...

"Un po' tristi ci si sente."

E gli sembra che nel pronunciare quella parola ci si debba abbandonare un po' o tendere la mano, così ripete: "Abbastanza triste", e protetto da quelle parole posa la mano sopra quella di Ida, e Ida pensa che se uno è così gentile bisogna accarezzarlo sulla guancia.


Devono essere state carezze ben strane, perché già qualche settimana dopo Ida cominciò a vomitare. Il signore e la signora Pripp, fuori dal bagno, si guardavano l'un l'altra, e dietro di loro c'era il figlio, venuto per il fine settimana da Karlstad dove frequentava il Liceo classico, e fu proprio lui, Kurt Pripp, non appena capì dall'agitazione dei genitori quel che era successo, ad assumersi il gravoso compito di forzare la porta del bagno, afferrare la mano di Ida, trascinarla fuori e darle uno schiaffo che la fece cadere sul tappeto in un lago di vomito e lacrime.

Kurt Pripp era un ragazzo con i forti muscoli mascellari sempre in movimento sotto la pelle, era ben pettinato e di aspetto severo e gia da qualche anno aveva sentito la vocazione di farsi prete e servire Dio. Anche il calcio che tirò alla sorella grassa distesa a terra era un messaggio dell'Altissimo, di cui lui non era che l'umile strumento.

"Prostituta, feccia!" citò scostandosi il ciuffo dalla fronte. Poi lanciò ai genitori uno sguardo addolorato. "Fuori dalla nostra casa!" aggiunse rafforzando con l'esile voce la propria autorità.

Il venditore di scarpe Pripp, che se ne stava con le mani dietro la schiena, riprese ora ad agitarle.

"Adesso però calmati, Kurt. È pur sempre nostra figlia."

"È la nostra vergogna, non è vero mamma?" E Kurt prese la mano di sua madre e la strinse forte, e lei gli nascose il volto nel petto piangendo amaramente:

"Come hai potuto, Ida, fare una cosa del genere a tua madre!"

"Ma era così bello. E io invece no."

"Raccatta le tue cose e vattene", strillò Kurt. "Tu mi hai... tu mi hai insozzato!" Il che in effetti era vero: il suo pullover era sporco di vomito, se lo strappò di dosso, lo scagliò contro Ida e corse a chiudersi in camera sua a pregare.

Il venditore di scarpe si inginocchiò accanto alla figlia e si mise a carezzarle la guancia.

"La mia piccola Ida, la mia povera, piccola Ida."


Fu così che Ida Pripp venne strappata alla scuola e portata davanti all'altare della canonica, in abito bianco e velo. Alle sue spalle c'erano da un lato Torsten Pripp con sua moglie, e dall'altro il padre di Fredrik, detto General Pattume, con la sorella Cordelia.

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Gli uffici del Comune si trovavano all'interno del Castello, un bell'edificio in legno di quattro piani che si ergeva sulla Storgatan. Dalle colonne della veranda si poteva vedere la panchina sotto i tigli di Beerman, gli avvisi sulla bacheca nera delle serate da ballo del sabato, le esibizioni delle celebrità e le partite di calcio a Kolsvik.

Ed era proprio in direzione della panchina che stava guardando il poeta di Sunne, Bertil Dahlén. Nella sua vita da civile lavorava come impiegato agli uffici comunali, nella speranza di avere presto una promozione, visto che si era diplomato con buoni voti. Era alto e magro, sempre vestito di grigio e con un cappello grigio di feltro. Nelle stagioni più fredde indossava sopra il vestito un cappotto che gli dava un aspetto molto aristocratico e da persona facoltosa. Il naso affilato, le guance scarne e la ben proporzionata rotondità del mento inducevano le signore a voltarsi a guardarlo, meravigliate che, ormai trentacinquenne, fosse ancora scapolo.

Dahlén passeggiava in modo particolarmente dignitoso: le mani dietro la schiena, squadrava le persone che gli venivano incontro. Sollevava con eleganza il cappello, inchinava leggermente il capo e proseguiva per la sua strada verso o da la villa della madre, dove, ai rari inviti al caffè che ancora lei organizzava, si dava da fare come cortese assistente conversando sul tempo sempre così variabile.

Un vero e proprio giro di amici all'epoca non l'aveva. "Frequento già tutto il giorno un'utenza piuttosto diversificata che si rivolge agli uffici del Comune per differenti questioni." E poi, appunto, c'era la poesia. "Una poesia non è cosa che si butti giù così durante una pausa caffè."

Entrare nella villa dei Dahlén era, come abbiamo detto, un privilegio riservato a pochi. Rappresentava il passaggio a una condizione più elevata, madre e figlio si erano infatti trasferiti lì da Stoccolma quando Bertil aveva sette anni, e si poteva ancora percepire l'aria della grande città nel loro modo di essere.

Ma perché scriveva le sue poesie sotto pseudonimo? "È per me di estrema importanza marcare la differenza tra il funzionario e il poeta dentro di me. Due anime si combattono nel mio petto." Come si faceva allora a sapere che era lui, l'impiegato comunale, l'autore di quelle poesie sull'alternarsi delle stagioni che comparivano sull' Araldo del Frykdal? Perché il suo pseudonimo era Erik Dahlén, e perché per trovare un altro Dahlén sull'elenco telefonico bisognava andare a cercare nel distretto di Lysvik, e che quei Dahlén non scrivessero poesie lo capiva chiunque fosse stato al mercato. Del resto bastava domandarglielo: "Mmmsì, quelle poesie sono solo frammenti di un'opera più ampia a cui sto lavorando, e che richiede tempo per essere portata a termine."

"Un'opera più ampia." A Dahlén sembrava che tutta la sua vita fosse concentrata in quelle parole. Lui sapeva con esattezza quanto ampia sarebbe stata quell'opera: come un ponte che collegasse Sunne a Stoccolma avrebbe fatto risplendere il suo nome su tutta la Svezia, il suo vero nome: Bertil Dahlén. Con l'aiuto della poesia si sarebbe liberato dell'impiegato dentro di sé. Gli otto, dieci brevi componimenti che aveva fatto detonare sull' Araldo del Frykdal avevano l'unico scopo di preparare il popolo alla sua metamorfosi.

Illuminavano, anche se ancora piuttosto debolmente, il suo volto quando, le mani dietro la schiena, si lasciava contemplare durante la pausa pranzo da pedoni e ciclisti. Fingeva di essere immerso nelle Profondità del Pensiero. Il modo migliore per creare quest'effetto era tenere lo sguardo fisso sulle tegole del tetto dell'Hotel Nilsson. Naso e mento avrebbero dovuto formare esattamente lo stesso angolo quando, al giungere del momento, si sarebbe fatto fotografare e immortalare. A Sunne ci si sarebbe ricordati di lui. "Pensa, era chiaro già allora" era la frase che poneva con tenerezza nell'intimo di chiunque gli passasse accanto. Sorrideva un po' divertito. Sollevava il cappello. Assaporava una risata dentro di sé.

"Un'opera più ampia" avrebbe trattato "dei problemi di una piccola comunità". Alle superiori aveva letto di qualcuno che era diventato famoso in quel modo. A poco a poco intendeva mettere sotto la lente di ingrandimento questi esseri umani, l'architettura, la natura... in realtà aveva già fatto qualcosa del genere. Nella sua poesia dedicata alla primavera intitolata Poesia dedicata alla primavera aveva inserito allodole, fiori di mandorlo e la limpidezza del cielo di marzo. Alcuni conoscenti di sua madre avevano osservato che era un po' presto per le allodole e i fiori di mandorlo, ma questo non faceva che evidenziare quell'ottusità, quella mancanza di fantasia che era sua intenzione mettere a nudo.

E poi: gli uomini sulla Panchina.

Era rischioso, in quanto funzionario e con un cognome così impegnativo, andarsi a sedere tra quei bevitori, ma non doveva appunto porsi al di sopra di convenzioni di quel genere? Si trattava del destino della poesia. A differenza di come aveva proceduto nella creazione di Poesia dedicata alla primavera... ora avrebbe affrontato la sua materia a partire dalle basi. Osservò Fredrik Jonson Lök, lo zingaro di Torvnäs, portarsi una bottiglia di birra alla bocca. Era una giornata calda, la sete la si poteva capire, ma l'effetto era volgare. Dahlén sapeva anche per esperienza che nella borraccia di plastica tra Jonson Lök ed Egon Black, quello di Göteborg, era contenuta una bevanda ancora più chiara. Non era la prima volta che li teneva sotto osservazione.

Dahlén trotterellava avanti e indietro sulla veranda. Il tesoriere del Comune uscì:

"Ah, ecco, il poeta è qui a creare."

A Dahlén piaceva questa frase, aveva imparato a trasalire, come staccandosi da uno spazio segreto:

"Scusa, che cos'hai detto?"

"Niente, niente. Non voglio disturbare lo spirito creatore, faccio solo un giro fino alla posta. Torna pure alle tue meditazioni."

"Non sono poi così distaccato dalla realtà, in questo momento. È su quel Jonson Lök e sui suoi compagni che sto riflettendo. Siamo noi a pagare per tutto quello che bevono?"

"Non credo, credo che sia il venditore di scarpe. E Black lavora, di tanto in tanto, non l'hai visto quando si è arrampicato sul campanile? È stato lui a dipingere il tetto. Quando non è sbronzo è il migliore..."

"È difficile a credersi."

"Lasciali stare, non fanno del male a nessuno. A volte sei troppo zelante."

"Uno vuol fare del proprio meglio."

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Entrando in quella casa, Johan compiva un passo oltre la soglia che l'avrebbe separato per sempre da quella parte umiliata della sua personalità che fino a quel momento aveva mostrato a Fredrik. Era sul punto di trovare la propria strada.

Avanzò a tastoni nel buio, cercando l'interruttore, e quando la luce fluì su di lui si ritrovò tra i caldi vapori di una giungla.

La sua conoscenza di interni era limitata alla topaia di Torvnäs e alle decorose case di Torsten Pripp e di Reminiscenza Grigia, con l'argenteria ben lucidata sulle tovaglie bianche e le poltrone non sfondate disposte su tappeti d'imitazione. Ora ne aggiunse un altro alla sua collezione.

Quello che Johan si trovava di fronte era l' Evoluzione: la carta da parati dipinta a mano dall'Airone stesso, che si innalzava dall'ingresso su su lungo le scale fino all'atrio del piano superiore. Era la parte visibile dell'opera cui l'Airone aveva dedicato la vita intera. Giù in basso brulicavano lucertole preistoriche e forme primitive di vita. L'uccello archaeopteryx si librava su pesanti ali sopra ad alcuni plesiosauri e a un tyrannosaurus rex. Lungo la scala si affollavano elefanti e rinoceronti, la testa di un uomo-scimmia spuntava tra i tronchi, un neanderthaliano combatteva contro un maschio di mammut. Più in alto una tribù di uomini della pietra si era raccolta intorno a un falò, mentre nell'atrio un uomo dell'età del bronzo soffiava in un corno luccicante. Il vertice della creazione era l'Airone stesso: era lì, in piedi, accanto all'ingresso del suo studio con un basco sul capo e una tavolozza nella mano sinistra. Era raffigurato in cima a una collina, con gli aeroplani e i treni dell'epoca moderna alle sue spalle. Johan lo guardò negli occhi, e quanto più osservava il dipinto tanto più chiaramente distingueva l'ombra di un sorriso sulle labbra dell'artista.

Johan voleva entrare nel calore del dipinto. Lì accanto a lui c'era un altro mondo. E come cercando un vero ingresso in quel mondo si ritrovò nello studio dell'Airone. La luce dell'atrio illuminava una scrivania e scaffali carichi di libri che arrivavano fino al soffitto. Davanti agli scaffali c'erano un tavolino e due poltrone, in mezzo alla stanza una stufa. Spense la luce in atrio e accese la lampada della scrivania: una tenue luce rossastra si diffuse nella stanza. Si rannicchiò davanti alla stufa elettrica e le sue mani si riscaldarono lentamente.

In una casa come quella dovevano esserci dei soldi. I cassetti della scrivania però erano chiusi. Le scatole sul secrétaire contenevano penne e gomme da cancellare, graffe e spille da balia. In uno degli scompartimenti estraibili, tuttavia, trovò tre biglietti da dieci nuovi di zecca, infilati in un album di fotografie. Johan se li passò tra le punta delle dita. Li mise sotto la luce della lampada. Li dispose uno accanto all'altro sul ripiano della scrivania. Quanti Special! Fredrik avrebbe avuto indubbiamente di che saziarsi. No, lui e Hedvig avrebbero avuto di che saziarsi. Socchiuse gli occhi, piegò la testa e osservò le banconote. Avrebbero messo Fredrik a tacere. Ne sarebbero bastati due per metterlo a tacere.

Il calore salì nel corpo di Johan. Si guardò intorno con occhi nuovi, che si posarono sulle copertine dei libri dai colori diversi. Nomi strani, come Enea Tattico, Filone, Plutarco, Senofonte erano in verde, mentre Apuleio, Sant'Agostino, Cesare, Cicerone, Orazio, Virgilio erano in rosso. Ci passò sopra con il dito. C'era un'etichetta con scritto Culture fluviali, un'altra Grecia antica. Una terza Flora e fauna. Giù in basso Miti e fiabe. Johan prese uno dei libri. Si intitolava Parzifal, sulla copertina c'erano un cavaliere e una donna con lunghi capelli biondi accanto a un cavallo coperto da una gualdrappa ornata di nappe.


Re Grandin d'Angiò era morto lasciando due figli. Il maggiore avrebbe ereditato il regno del padre, il minore, Gamuret, partì in cerca di avventura e di fortuna. Avrebbe trovato entrambe. Viaggiò a lungo, Gamuret, di terra in terra. Si mise al servizio di molti principi potenti, e ovunque venivano lodati la sua bellezza, il suo coraggio e la sua forza. Nei tornei capitava di rado che venisse battuto, e non meno successo aveva quando l'uso delle armi da giocoso si faceva serio, e partiva in battaglia contro i nemici del suo signore...


Cinquanta pagine più tardi, Johan si risvegliò alla vita, sconvolto e nuovo: la luce di un altro mondo si era diffusa nella sua testa. Strane immagini lo attraversavano, sentiva il mormorio di ruscelli che si facevano strada tra le rocce, vedeva falchi che si levavano in volo verso le nubi e sentiva il profumo delle mele. Il profumo rimase anche dopo che si fu riscosso e tornò del tutto lucido, e ne scoprì l'origine: sul ripiano della finestra dell'alcova erano posate lucide mele avvolte nella carta velina, frutti invernali dalla lenta maturazione. Di mele ce n'erano anche nel loro miserabile giardino, ma i frutti di quegli alberi erano guastati dai vermi, avevano un gusto aspro e cattivo. Mele come queste Hedvig non le aveva mai viste!

Rimise il libro al suo posto e si avvicinò alle mele. Erano sane, lisce, e Johan capì che l'Airone aveva raccolto qui le più belle per goderne al suo ritorno. Ne prese una delle più grosse — non la più grossa — e se la infilò in tasca. Prese il denaro. Era riuscito a procurarsi quel che Fredrik voleva, e anche di più. Poteva tornarsene a casa. Ma ormai c'era riuscito, no? Era finito, passato. Consegnare il denaro l'avrebbe esposto a mille domande. L'importante era averlo dimostrato a se stesso.

Rimise i soldi nel secrétaire. Cancellò le impronte immaginarie. Spense la stufa e la lampada.

[...]

Lungo e difficile fu quell'inverno per chi non aveva accesso alla casa dell'Airone. Ogni giorno si rinnovava la neve sulle impronte che attraversavano il giardino e si spingevano fino all'ingresso della cantina. Cadeva fitta sulla piana tra il paese e Torvnäs, il lago era coperto da uno spesso strato di ghiaccio, e raramente il plumbeo grigiore dei brevi pomeriggi era rotto da un raggio di sole. Così angusto era il mondo esteriore, e così vasto quello interiore per chi sapeva dove trovarne le Chiavi!

Quasi ogni sera Johan si intrufolava nella casa dell'Airone, accendeva la piccola lampada sul tavolino, accendeva la stufa e cercava un nuovo libro. Visitò le piramidi d'Egitto e i giardini pensili di Semiramide. Salì sul faro di Alessandria, percorse le piste del Sahara e attraversò l'Atlantico a bordo del Mayflower. Si riposò in giardini giapponesi, in India diede la caccia alle tigri in compagnia dei maharajah.

Come non comprendeva tutti i fiori del prato, così non comprendeva nemmeno tutto quel che leggeva. Mangiava, avrebbe detto in seguito. Mangiava conoscenza. E le muffe che attaccavano i funghi erano interessanti come la storia dell'estinzione dei dinosauri; il profeta Zoroastro, sulle vette della Persia, lo affascinava come le pietre runiche dell'Uppland, perché le parole stesse avevano sapore e odore, e spesso aveva l'impressione di essere sul punto di esplodere per tutta la conoscenza che si riversava in lui.

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