Copertina
Autore Eugenio Turri
Titolo Viaggio a Samarcanda
EdizioneDiabasis, Reggio Emilia, 2004 [1962], Passages , pag. 286, cop.fle., dim. 160x230x20 mm , Isbn 978-88-8103-164-1
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe viaggi , paesi: Afghanistan , storia: Asia , geografia
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Indice

  9 Prefazione
 15 Gli odori di Istanbul
 17 Lo stabilimento balneare
 20 La yayla
 23 Il villaggio
 39 Gli uomini di Sungurlu
 42 Il viaggio in città
 48 Le notti di Diyarbakir
 52 Le valli di Senofonte
 56 Il lago Van
 59 Il villaggio di Pelli
 62 Un ricordo di Serse
 81 I nomadi sul lago
 86 Il monastero sommerso
 89 La città morta di Dogubayazit
 94 La fidanzata italiana
113 Avventura sull'Ararat
117 Esfahan come Firenze
123 I turcomanni
129 La corriera del Khorasan
140 La città santa
144 I villaggi fortificati
151 La grande strada dell'Asia
154 Il rettore della madrassah
177 Le mogli dell'agha
182 Sulle piste dei nomadi
194 I nomadi cambiano vita
199 La grande migrazione
204 I falchi di Kabul
208 I Budda di Bamian
227 La vallata felice
230 Yak-kapetà, l'albero solitario
235 L'italiano tra i tartari
237 Sulle strade della Battriana
243 La valle morta
246 I nuovi paesaggi
250 La ragazza tartara
273 Le cupole di Tamerlano

 

 

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Pagina 9

Prefazione

Il viaggio raccontato in questo libro risale al 1958. Cominciava allora in Italia un periodo felice e costruttivo, nel quale l'ottimismo si associava alla convinzione che l'Italia e l'Occidente - l'Occidente ricco e capitalistico - rappresentassero il migliore dei mondi possibili, fungendo da riferimento al resto del mondo, sia ai paesi della sfera comunista (Secondo Mondo), sia al cosiddetto Terzo Mondo. Mezzo secolo è passato e quelle certezze non sembrano più tali, la tripartizione che allora valeva non sembra più adattarsi alla realtà presente. Ma in quegli anni essa condizionava il nostro pensare, il nostro modo di guardare e giudicare i paesi, gli uomini: di tutto ciò vi è pesantemente traccia nelle pagine di questo libro.

Così un viaggio attraverso l'Asia, fino a sfiorare i paesi sovietizzati dell'Asia centrale, con meta Samarcanda, la città simbolica dell'antichità, dell'esotica distanza di tale Asia, poteva essere, nel clima tedioso, ma ormai non più staliniano, della "guerra fredda", un'esperienza importante. Anche se quella meta rappresentava per chi scrive soltanto una tappa sulla via della Seta, aspirazione prima di un progetto di viaggio che ha potuto realizzarsi soltanto vent'anni dopo, con l'addolcirsi del regime politico regnante in Cina, rimasta a lungo impenetrabile nelle sue periferie occidentali. Ma anche la visita ai paesi dell'Asia medio-orientale partendo dalla Turchia e giungendo, attraverso l'Iran e l'Afghanistan, al cuore del continente, itinerario classico di tanti viaggiatori occidentali in ogni tempo, poteva risultare interessante per mettere a confronto, in quegli anni, l'antichità dell'Asia con la modernità in senso industriale di cui l'Occidente era portatore. Soprattutto poteva risultare importante capire come la modernità poteva innestarsi su quell'antichità, su quei mondi logori e polverosi, che avevano avuto splendidi passati, ma ora inermi e impreparati a cogliere le novità del mondo che, in senso capitalistico da una parte, in senso socialista dall'altro, proponevano tecniche e modi di vita diversi a genti rimaste avvinte all'Islam e alle loro più antiche radici culturali, agli strati più profondi delle loro variegate regionalità.

L'importanza che nel racconto è data al nomadismo pastorale e alla vita dei villaggi, quasi sempre villaggi d'oasi, solitari micromondi dove si coglieva l'essenza vera dell'Asia interna, in anni in cui non era ancora esploso l'urbanesimo perturbatore, ha avuto questo significato ed è in tal senso, mi pare, che il libro va letto. Ma c'è anche, nelle pagine, l'attenzione a tutto ciò che di problematico poteva esserci nella modernizzazione in atto che, ovunque imposta dall'alto, non trovava facili riscontri in mondi così chiusi e lontani, avvolti in quella loro atmosfera di asiaticità - asiaticità come antichità, immutabilità, senso del tempo e dello spazio illimitati - che si poteva riconoscere già a partire dalla Turchia kemalista e occidentalizzante. Ovunque però si trovavano una simpatia e una curiosità quasi morbose per il viaggiatore che veniva dall'Occidente, quasi si vivesse una sorta di pax planetaria all'insegna di una riconciliazione religiosa (il nemico era caso mai più che l'Occidente l'atea e incalzante potenza dell'URSS), benché poi simpatia e curiosità venissero spesso attenuate dal ricordo improvviso e fuorviante di aver pur sempre a che fare con un "infedele". Oggi non è certo più così e dopo l'11 settembre del 2001 il viaggiatore occidentale sarebbe avvicinato con sospetto, perché ora, dissoltasi l'URSS, l'unica opposizione con cui entrare in conflitto è quella dell'Occidente, ateo e materialista. Ma le situazioni variavano notevolmente passando da un paese all'altro lungo quella "grande strada dell'Asia" che entra fra i grandi domini dell'Islam.

Se la Turchia usciva definitivamente in quegli anni dal suo sonno rurale ottomano, in qualche misura laicizzata ed europeizzata sotto la dura non effimera sferzata impressa da Atatürk, in Iran lo scià Pahlevi stava promuovendo la "rivoluzione bianca" che, senza vittime, mirava a trasformare, sull'esempio della Turchia, il paese, arretrato e antico, in paese moderno e avanzato facendo leva sulle ricchezze petrolifere. Cominciavano allora i primi esodi dai villaggi verso Teheran, una città che contava allora poco più di mezzo milione di abitanti; vent'anni dopo ne ospiterà 7-8 milioni. Questa epica migrazione, attratta dal miraggio urbano e industriale proposto dallo scià, ha avuto gli esiti drammatici che si conoscono, con le masse di inurbati traumatizzati al trovarsi in un mondo che non era il loro, privi di una cultura che non fosse quella appresa dal mullah del villaggio. Si comprende così perché, nello smarrimento, siano divenuti facili prede del fondamentalismo khomeinista, che li ha portati al martirio in una guerra assurda contro l'Iraq, nella quale si sono immolati ben un milione di giovani. L'ulteriore radicarsi del sentimento religioso e il parallelo rifiuto dell'Occidente hanno trovato in questi fatti non dimenticati le loro motivazioni, così sofferte a livello individuale come nel racconto di un dolente film del regista iraniano Kiarostami.

Diverso discorso, ma non tanto, per l'Afghanistan, paese rimasto incorrotto nel suo isolamento asiatico, che mai aveva avuto diretti contatti con l'Occidente, del quale in quegli anni arrivava da lontano il fiato, con i primi tentativi di importare una cultura innovatrice sia attraverso la costruzione delle prime strade e delle prime industrie, sia con la rimozione, difficile, sempre frustrata in passato, dei costumi e delle tradizioni, ad opera di uomini che avevano guardato, come Amanullah, all'esempio kemalista. Ad esso si agganciava la politica di caute aperture e di equidistanza nei confronti delle due superpotenze dello scià Mohammad Zahir, poi finito in esilio in Italia. Ciò a seguito del colpo di stato che ha segnato l'imporsi del predominio sovietico e dell'invasione che porterà alla guerra di liberazione vinta dai talebani con il sostegno degli americani.

Paese di nomadi, di coltivatori che avevano assimilato l'arte persiana dell'agricoltura irrigua, nei pedemonti e nelle valli dell'Hindukush, non aveva nessun collante storico che lo univa, geograficamente diviso, tribalmente frammentato, riconoscendosi solo nella fede nell'Islam (in maggioranza sunnita). Da una parte, a sud della catena che lo spacca in due, le popolazioni di cultura persiana, gli uomini di lingua pashtu, dalle quali era partito un disegno di unificazione politica già a partire dalla fine del Settecento e che ancor oggi si ritengono gli unici legittimi afghani, a nord le genti turche, legate a quella direttrice turanica che attraversa l'Asia e che ancor oggi rappresenta la più importante saldatura geografico-culturale attraverso un continente, dalla Turchia al Turchestan cinese, la quale forse potrà dare una direzione futura alla storia dell'Asia.

L'Afghanistan, nonostante le turbolenti vicende dell'ultimo mezzo secolo, non è riuscito a trovare una sua propria direzione di marcia, che non sia ancora e sempre quella di restare fedele al proprio immobilismo. Come per una costituzionale incapacità ad uscire fuori dal proprio isolamento centripeto, mentre tutt'intorno il mondo in qualche modo ha ruotato, si è mosso, sia pure in diverse direzioni. La vicenda dei talebani può essere vista in tanti modi, ma nel quadro dell'Asia rappresenta pur sempre un ritorno indietro, o comunque una vicenda di disperazione storica di fronte agli sconvolgimenti, che nel caso dell'Afghanistan non sono stati l'urbanizzazione o il fallimento di una politica di modernizzazione come in Iran, ma il trauma dell'invasione sovietica, contro la quale solo l'accecamento ideologico e religioso poteva servire di fronte a quest'altra perversione storica del Novecento. Negli anni Cinquanta e Sessanta era un paese pacifico, capace di affascinare chi dappertutto in Europa vedeva la montante industrializzazione cambiare società e territori: certe immagini rimandavano ad un mondo di secoli se non di millenni fa, gli uomini autentici, barbuti, bellissimi, sullo sfondo di vallate sfolgoranti nelle oasi inondate dai profumi degli orti e dei giardini. Mentre negli spazi inariditi si muovevano carovane sorprendenti di nomadi in epiche migrazioni stagionali, dando vita a spettacoli di una non dimenticabile bellezza, che forse neanche il mitizzato Bruce Chatwin fece in tempo a vedere. Nei centri urbani le donne, velate nella loro veste-prigione era come se non esistessero; neppure si immaginavano, e se qualcuna di esse audacemente tentava di togliersi il burka rivelava un pallore mortuario, come se fosse uscita da una secolare degenza o da una reclusione fuori dal consorzio civile.

Al di là dell'Amu Darya si entrava in un mondo che aveva eguali tratti di asiaticità, sulla quale era stata imposta una sorta di verniciatura di modernità che, nella sua versione russo-sovietica, non sembrava far presa in modi radicali. Si avvertiva la doppia presenza: da una parte il mondo tradizionale, l'uomo passivo, amante delle ombre, del bazar, l'uomo dei grandi spazi, dall'altra l'organizzazione sovietica, efficientistica in apparenza, in realtà burocratica, vigile, rigorosa, odiosa e di marcata supponenza colonizzatrice. L'opera di trasformazione tuttavia era andata avanti, sia con lo sviluppo di un urbanesimo di stampo nuovo, un po' grigio, che con la ripulitura dei vecchi bazar e di tutto ciò che di fatiscente doveva esserci in quei paesi, che formavano il Sud tropicale dell'URSS, spazio prezioso per l'impianto di attività nuove e impossibili da praticare altrimenti nei climi russi e siberiani.

Oggi non è detto che quei paesi, conquistata l'indipendenza, abbiano saputo rifiutare quella presenza russa, affrancarsi dal legame che li ha cambiati. Il marchio della modernizzazione è quello, incancellabile per le estese riconversioni che ha attuato, soprattutto nei modi di produzione, anche se non ha intaccato più di tanto gli uomini, i loro animi. È vero, non ha attecchito il fondamentalismo, ma non è stata messa a tacere la voce che sale dagli strati più profondi dell'anima centrasiatica, dove l'Islam si salda alle rivendicazioni etniche, rinfocolate oggi, più di quanto non si creda, dall'ideale turanico, a suo tempo capace delle grandi vicende di quest'Asia interna, spazio senza confini, o anche spazi, come diceva Rainer Maria Rilke, che confinano con Dio, cioè popolati di uomini che attingono ad un'unica fede possibile, solo e sempre più quella religiosa, priva del greve materialismo laico e consumistico che inquina le città dell'Occidente. Tutto ciò anche se questi stessi popoli non rinunciano facilmente ai vantaggi che la tecnica occidentale può mettere al loro servizio, consentendo anche maggior tempo da dedicare ad agi, ozi e prosternanti rakaat verso Dio.

Certo Samarcanda oggi non è più quella di mezzo secolo fa. È turisticizzata, in larga parte ripulita dei suoi olezzi e delle sue polverose mondezze asiatiche, è assediata di grandi edifici, dispone di squallidi alberghi, al posto dei quieti ostelli per la borghesia zarista rimasti sino a cinquant'anni fa ed ha perduto il sapore di un tempo. La stessa maniera di arrivarci oggi è fuorviante. Vi si arriva da Mosca. Ma la direzione giusta è quella di venirci da sud, dall'Iran o dall'Afghanistan, attraverso Herat o Kabul, dopo aver capito che cosa è stata l'antica civiltà persiana che ha acculturato in origine queste regioni, quale spirito e quali raffinatezze si coltivavano all'ombra delle moschee di Esfahan o di Herat, nei giardini e nei raccolti silenzi delle madrasse, le scuole coraniche. Samarcanda, come Bukhara, Merv, Khiva, Kokand e le altre città del Turchestan come l'intero mondo che gravita su questi cuori urbani sono il riflesso della civiltà persiana, rispecchiano ancor oggi, sotto la vernice russa, staliniana e dell'affarismo liberistico e mafioso d'oggi, la bellezza, sia pure un po' esausta, sfibrata, di quell'antico mondo. In più hanno il fascino di essere perdute, come affogate dentro grandi spazi dell'Asia interna, steppica e pastorale, dove tutto sembra disfarsi al sole e al vento, dove l'aria è sempre carica di polvere che il vento solleva e tiene sospesa nell'aria come una componente inscindibile del paesaggio, come un'opalescenza misteriosa. E dentro quest'atmosfera di polvere, che di sera si arrossa nei tramonti infuocati, scintillano come carapaci iridescenti di coleotteri in putrefazione le cupole delle moschee e dei monumenti in rovina, che danno un fascino unico alle città che si raccolgono nelle fasce verdi dei fiumi centrasiatici.

Questo per quanto riguarda il passato, le sue testimonianze, l'attrattiva di un mondo che non è facile da seppellire perché ciò che si è detto - la polvere, la vastità, le moschee - è costituzionale e incancellabile Genius di queste terre. E sebbene la capitale non sia più Samarcanda, ma qualche città più nuova e dinamica, come Tashkent, è vero purtuttavia che il mito che continua a risuonare sotto i grandi cieli dell'Asia è ancora e sempre quello dell'antica città.

L'attivismo economico sembra improntare oggi la vita e la cultura di questa parte di mondo. Per limitarsi all'Uzbekistan, è esemplare il ruolo che la repubblica ha assunto in quanto produttrice di cotone, la risorsa che i russi già a partire dagli anni Trenta del secolo scorso avevano intravisto come possibile soluzione ai problemi della modernizzazione di questa regione, del suo inserimento nella modernità sovietica. Opere gigantesche di irrigazione, apertura di vasti comprensori cotoniferi hanno redento regioni steppiche intere (si ricordi la famigerata Steppa della Fame) un tempo dominio della pastorizia nomade. I successi sono stati clamorosi e a suo tempo erano stati riconosciuti persin dai tecnici americani. Ma essi, come i russi, guardavano al successo economico e a nient'altro, non agli uomini, alle loro culture, alla loro storia, dimenticando tra l'altro gli effetti perversi delle loro intraprese sull'ambiente. Oggi l'Uzbekistan, ad esempio, è lo scenario di un dramma ecologico che dovrebbe suonare da lezione ai pianificatori d'ogni parte del mondo, spesso troppo sicuri dei loro progetti. Le acque che scendono dalle montagne alimentando l'Amu Darya e il Syr Darya, i due fiumi che sono alla base della ricchezza uzbeka, si disperdono nei comprensori cotoniferi e non giungono più al lago d'Aral, che via via si è ridotto di dimensione, se non è proprio scomparso, lasciando le popolazioni rivierasche in un imprevedibile deserto di disperazione. Di questo dramma i responsabili uzbeki del governo non vogliono sentir parlare, perché ormai ciò che conta è il cotone e le conquiste fatte sotto il regime sovietico sono irreversibili, sono la modernità, la ricchezza che oggi conta. Ma il mondo, anche qui, è in mano all'unico potere che conta ormai, quello economico.

Ma poi l'Asia centrale ha il petrolio e il gas e proprio lo sfruttamento degli enormi giacimenti è alla base dell'attenzione competitrice delle grandi società occidentali a questa parte dell'Asia, delle contese o della guerra degli oleodotti e dei gasdotti, che non è stata estranea all'interessamento degli americani all'Afghanistan, il cui controllo è anche strategico per contrapporsi ad altri espansionismi, da quello cinese a quello turanico. Di questo genere sono ora i drammi dell'Asia centrale, divenuta uno scacchiere importante nel quadro della competizione globale per l'approvvigionamento delle ultime grandi risorse petrolifere del pianeta: cioè drammi generati da guerre economiche che questa parte dell'Asia ha pagato negli ultimi anni non solo con le vittime della guerra afghana, ma forse ancor più con gli sconvolgimenti sociali e i traumi personali e familiari di cui hanno sofferto un po' tutti i paesi, dove il potere staliniano è stato rimpiazzato da poteri nuovi, di dubbia moralità e di portata globale, che tengono lontana per ora ogni ventata fondamentalista islamica.

In mezzo secolo, quest'intera Asia descritta nel libro è cambiata, anche nei villaggi più isolati, che allora si sarebbero detti inattingibili da qualsiasi mutamento. E invece anche nei più isolati villaggi anatolici, come ad Alaca Höyük, la modernizzazione è arrivata, con la gente emigrata in Germania e con i rapporti sempre più stretti tra il villaggio e Ankara, tra il villaggio e le città tedesche dove si trovano molti uomini con i loro figli, un tempo poveri köylüler. In Iran i villaggi fortificati sono ormai quasi tutti svuotati, benché circondati da tensioni fondamentaliste un poco stemperate solo dalla voglia di modernità di tanti giovani; in Afghanistan il nomadismo nelle sue forme imponenti e sontuose, descritte nelle pagine del libro, è finito tra i bombardamenti e i massacri delle mine antiuomo. L'Asia, dunque, è stata sepolta nel giro di cinquant'anni? No certamente; non solo si può dire che essa è mutata solo in parte e in superficie, ma nel suo profondo essa cova qualcosa d'altro di non deperibile, qualcosa che può condizionare gli stessi sviluppi futuri dell'Asia, e fors'anche qualcosa che potrebbe offrirsi come lezione a noi stessi, ansanti nella corsa irrefrenabile verso una meta che è più di disperazione che di possibile rinascita: un diverso senso del tempo e dello spazio, che si coglie soprattutto se quest'Asia la si vive percorrendola a piccole tappe, con sofferenza e partecipazione, come è raccontato in queste pagine.

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Gli uomini di Sungurlu


Sungurlu è una tipica cittadina dell'Anatolia. Avrà alcune migliaia di case, due o tre moschee, altrettanti minareti, un bazar, numerose trattorie e case da tè. Arrivo verso sera e in un rozzo alberghetto trovo un letto per trascorrere la notte. Poi vado in giro per le strade.

A quest'ora molti uomini stanno seduti davanti ai locali pubblici con un bicchierino di çay in mano. Quasi tutti hanno i baffi e il berretto in testa. Discutono tra loro e qualcuno gioca alla tavla, una specie di dama. Sembrano tutti contenti che sia sera e soddisfatti di trovarsi lì senza far niente, guardando la gente che passa per la strada.

Per la via si vede raramente qualche donna; passa via furtiva e nessuno ci fa caso. Ha il volto velato, le brache ampie: nulla di attraente. Ogni tanto passano birocci tirati da cavalli con finimenti colorati, campanelli che tintinnano. Non c'è asfalto per le strade, ma buche e qua e là sporcizie, tra cui molto sterco equino. Per l'aria c'è questo odore: di cavalli, di finimenti di cuoio, che io ricordo eguale all'odore che si sentiva al mio paese quand'ero ragazzo.

Di quand'ero ragazzo al mio paese ricordo anche gli uomini seduti nella piazza davanti alla chiesa. Qui c'è la moschea. Anche le strade senza asfalto e piene di polvere mi ricordano il paese dove sono nato al tempo in cui c'era il duce e il fascismo. Anche l'ozio di quest'ora, al calare del sole, quest'ora senza frastuoni, quieta, distesa e inconcludente. La provincia italiana di trenta o quarant'anni fa poteva essere molto simile alla provincia turca di questi anni.

Qualche camion che vedo passare per la strada è vecchio, sferragliante, come i "Fiat" del primo dopoguerra. Gli uomini che camminano con carichi sulle spalle conoscono le fatiche che conobbero quarant'anni fa gli uomini della provincia italiana, statica e morta provincia in attesa dell'avvenire. Vedo della gente che cerca un mezzo per tornare al proprio villaggio e mi sembrano i contadini della provincia italiana che andavano in città per fare le compere al mercato e tornavano verso sera alle loro case nelle campagne e nei paesi.

Mi siedo ai tavoli di una çayhane che si trova proprio dirimpetto alla moschea principale della cittadina. Vedo uomini che entrano, altri che escono, soddisfatti per aver compiuto il loro dovere religioso e per non aver più nulla da rendere alla giornata e ad Allah.

Poi sul minareto appare il muezzin e rivolge il suo richiamo a gola spiegata. Qualcuno degli uomini seduti accanto a me si alza e va alla preghiera. Altri sembrano sordi, hanno l'aria di non aver udito. Oppure sembrano considerare la preghiera come un dovere per uomini di piccola statura sociale, per umili ometti. Trovano la maniera di discorrere e ridere mentre gli altri, da bravi musulmani, si dirigono verso la moschea. Pochissimi sono i giovani che li seguono.

Mi piace guardare questo via vai verso la moschea; mi piace anche perché io non ho l'obbligo di andarci e mi sento libero. Così deve anche sentirsi un uomo accanto a me che mi interpella e, con aria di superiorità rispetto agli altri che mi osservano senza il coraggio di parlarmi, mi dice che la gente oggi non va più nelle moschee come una volta; e fa un gesto come di rassegnazione, per significare che i tempi sono cambiati e che anche senza pregare si campa lo stesso. Mi vengono in mente gli uomini del mio paese che, quando ero ragazzo, non andavano in chiesa ed erano segnati a dito da tutta la gente e dal parroco durante le prediche dal pulpito.

L'uomo che si è messo a parlare con me dice di essere avukat, avvocato. Mi invita nella vicina lokanta a cenare con lui. Il locale è pieno di mosche e dà l'impressione di essere molto sporco. Ci sono piccoli tavoli, sediole traballanti. Subito i garzoni vengono a chiederci che cosa vogliamo. Il mio ospite ordina anche per me, senza chiedermi che cosa gradisco. Poi mi rassicura, ci penserà lui a farmi mangiare bene.

Appeso bene in vista su una parete del locale c'è il ritratto di Ataturk, lo stesso che si vede in quasi tutti i locali pubblici in Turchia. Il grand'uomo è ritratto con la sua ben nota espressione di uomo dalla volontà ferrea che si sente profeta, di uomo consapevole della propria grandezza e con una punta di affiorante paternalismo. Ha gli occhi freddi e acuti, la fronte aggrottata, le sopracciglia folte, la bocca tesa, con labbra sottili, senza sorriso. Un viso estremamente serio e incapace di ironia. Veste all'europea, col farfallino bianco al collo della camicia.

È il padre dei turchi, l'uomo che sognava di cambiare in pochi anni il suo popolo, di indurlo a smettere di andare nelle moschee, di frequentare locande sordide, di perdere tempo in ozio sui marciapiedi e nelle çayhane, di umiliare le donne. Nella vecchia e sudicia lokanta, simile a com'era forse cinquant'anni fa, si avverte la presenza di quel ritratto; ma poiché è soltanto l'immagine di un uomo morto, tutto quello che si vede intorno, qui nel locale e nella cittadina, sembra quasi un inconsapevole oltraggio al suo sogno.

Il garzon della trattoria ci porta da mangiare. È un giovanotto rapato a zero, con baffi neri e folti. Una specie di lottatore, muscoloso. Fa questo mestiere di portare piatti e bicchierini fragili di tè ai clienti; un mestiere da donne. Penso che se in Turchia le trattorie e le case da tè sono così sporche è perché non ci lavorano le donne. Lo faccio osservare all' avukat. Dice che non è vero, le donne non sanno far da mangiare, e poi sono anche più sporche degli uomini. Lui di donne ce n'ha due, ma a mangiare viene sempre alla lokanta: le sue mogli non riescono mai a mettersi d'accordo e anche quando decidono di fare tutte e due la stessa cosa ne vengono fuori dei piatti sgradevoli. Dicendo così affonda avidamente la forchetta in un blocco di kebab semisommerso in un intingolo grasso e giallo. Poi si pulisce la bocca col dorso della mano. Sembra un lupo affamato. Molti uomini che entrano nel locale lo salutano con deferenza, ma lui non ha tempo da perdere e si limita ad accennare il suo saluto con la bocca piena.

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Ad un certo punto finiscono le case e si è nel bel mezzo della steppa, un giallo e piatto tappeto bruciato, oltre che dal sole, dal sale del vicino Mar Caspio. Nelle secolari variazioni di livello di questo grande mare interno, infatti, la superficie delle acque si estese in un passato non tanto lontano parecchie decine di chilometri oltre le rive attuali. Dopo una corsa veloce attraverso una steppa sempre più inaridita, con la mia auto inseguita da un bianco polverone, vedo un uomo che guida un gregge di pecore. Porta sul capo un grande berrettone di pelo profondamente calcato che gli conferisce un aspetto tra misterioso e brigantesco; indossa una tunica colorata e calza scarpe di corda con lunghi cordoni avvolti intorno alla caviglia. L'uomo solleva appena il capo per guardare la macchina che passa. Poi riprende la posizione di prima e continua a camminare, seguendo il gregge che lo precede, come se null'altro al mondo lo riguardasse se non quel suo camminare di qua e di là nella solitudine incollato alle sue bestie, simile a un piccolo sovrano circondato dal suo inseparabile corteo. È come una simbiosi realizzatasi tra due specie diverse e mi fa pensare ai tirannosauri della preistoria che si accompagnavano sempre fedelmente alle mandrie di diplodochi, come ombre, ma dei quali poi si saziavano in rispetto a una legge biologica impietosa ma naturale.

Dopo qualche chilometro trovo un grande accampamento di yurte, le grandi tende semisferiche turco-mongole che sono indice ormai di terre asiatiche, di spazi senza confine, e subito dopo arrivo a Pahlevi Dezh, ultimo centro persiano prima del confine. Mi rivolgo al locale capo della polizia per chiedere il permesso di spingermi più avanti. È un ometto gentile che mi ospita a casa sua per offrirmi il tè. Mi chiede il passaporto e il foglio concessomi dal governo di Teheran per entrare nella zona. Fa i necessari controlli e poi mi affida a un soldato che mi accompagnerà nel mio giro.

L'ufficiale giustifica questo provvedimento dicendomi che le steppe battute dai turcomanni non sono sicure e poi perché il confine con l'URSS è troppo vicino e non si sa mai che cosa possa accadere.

Il mio custode è un giovanotto di pelle scura, ha una divisa kaki sdrucita e polverosa, com'è sempre e dappertutto la divisa militare dei paesi depressi dell'Asia. Il soldato, che sorride ad ogni mia domanda per lui incomprensibile, porta a tracolla un fucile di fabbricazione russa. È felice della missione affidatagli. Partiamo subito e dopo venti minuti di corsa arriviamo al Sad-e-Iskander, la cosiddetta "diga di Alessandro". Si tratta di un'antica e colossale muraglia difensiva, simile alla Muraglia Cinese, lunga alcune centinaia di chilometri, fatta costruire nel XVI secolo dai re persiani per contenere le invasioni dei turcomanni, dei mongoli e di tutte quelle orde che tentavano di invadere e conquistare le terre verso sud-ovest. Dell'antica muraglia non resta quasi più nulla: un ammasso di ruderi che corre senza fine dalla riva del Mar Caspio verso est, e che a vederla di lontano, per gli effetti della rifrazione, appare come un'immensa catena di montagne ineguali, qua e là fatuamente sospesa nell'aria.

Il mio accompagnatore si sforza di spiegarmi, con gesti da sordomuto, che il sad è stato costruito con mattoni di argilla, perché da queste parti è impossibile trovare pietra da costruzione. Aggiunge che, siccome l'acqua nella steppa mancava e d'altra parte l'acqua salata del Mar Caspio era inutilizzabile, gli antichi costruttori avevano usato tuorli d'uovo a milioni per impastare l'argilla. Per rendermi convinto di questa storia il soldato raccoglie un pezzo di mattone e mi fa notare come, effettivamente, il colore sia proprio giallo-uovo. Mi scappa da ridere perché so come nascono queste leggende popolari, queste bugie grandiose. Il soldato sembra offeso della mia incredulità.

In un punto della diga dove meglio si vede lo spessore del muro, ci sono due uomini che lavorano. Cavano mattoni rimasti in buono stato per usarli come materiale costruttivo. Fanno un lavoro, mi spiegano loro stessi, che per secoli e secoli hanno fatto tutti gli abitanti della zona, compresi gli uomini di Pahlevi Dezh e di Gorgan, le cui case sono tutte costruite con i mattoni della muraglia. È per questo che della vecchia imponente costruzione è rimasto così poco. In definitiva, a questo e a nient'altro è servita la mastodontica opera dei re persiani, perché, a quanto si sa, sempre e comodamente le orde turche hanno varcato quell'argine.

Poi, lasciata la diga, andiamo in un villaggio di yurte per far visita a Tewagh Norghalypor, il capo dei turcomanni della zona. Ho con me un biglietto di presentazione datomi da un grosso personaggio di Gorgan, un tale che tra l'altro vende trattori italiani fabbricati a Treviglio, e dipendente dall'agenzia commissionaria di Teheran.

Nell'accampamento, simile però a un villaggio, tutti lavorano. Alcuni cammelli stanno acquattati all'ombra delle capanne. Gruppi di donne lavorano attorno a grandi tappeti. Indossano vesti variopinte, portano grandi veli rossi sul capo. Quando mi vedono nascondono la faccia. Ma poi, appena sono passato, sento levarsi dai gruppetti piccole risa soffocate. Mi volto di colpo e mi accorgo che le donne mi stanno osservando col velo sollevato e ridono di me.

Mentre il soldato va in cerca del capo osservo il villaggio. Vedo che accanto alle yurte ci sono piccole casette in mattoni, costruzioni sussidiarie dove questi nomadi semisedentari mettono gli arnesi, oppure adibite a stalle e pollai. Naturalmente sono fatte con i mattoni del sad vicino. Alcuni bambini, nudi, mi vengono vicino e mi osservano con curiosità. Sono sudici, spettinati e pieni di mosche. Uno si mette a piangere quando cerco di accarezzarlo. Arriva di corsa una donna e lo trascina via borbottando verso di me parole che mi sembrano insulti.

Poi arriva il capo. È un uomo anziano, di alta statura. Ha il volto serio, sembra afflitto da qualche grossa preoccupazione. Mi invita a seguirlo nella sua tenda. Prima di farmi entrare mi precede per ordinare alle donne di ritirarsi: le vedo sgattaiolare fuori e nascondersi in una casetta di mattoni accanto. Nella tenda, che l'uomo chiama guddegmeh, vi sono bellissimi tappeti distesi per terra. All'interno la costruzione sembra più spaziosa di quanto non paia dal di fuori. Dalle pareti di canne messe a traliccio filtra molta luce, mentre il tetto, coperto di pelli di cammello, è scuro e affumicato. In mezzo c'è un samovar e alle pareti si vedono appesi vestiti e altre cose.

Seduto sui tappeti un po' in disparte v'è un altro uomo, particolarmente suggestivo d'aspetto. Ha una lunga barba sotto la gola e porta avvolto sul capo un grande turbante giallo. Mi saluta con dignità e mi sorride con grande dolcezza. C'è in lui qualcosa che ispira fiducia, come se, anche senza parlarci e intenderci a parole, esistesse un punto di incontro magari lontano ma sicuro nel nostro modo di pensare.

Tewagh Norghalypor esce e di lì a poco entra insieme a un giovane molto alto, dall'aria timida e seria: è suo figlio. Parla un poco d'inglese. Imparato a scuola a Gorgan. Mentre parlo con lui il padre esce e va a prendere i dolci per l'ospite: caramelle, biscotti e infine il tè. Guardandomi intorno vedo appeso alla parete un bellissimo berretto di pelo turcomanno e lo osservo con curiosità. Chiedo se è possibile acquistarne uno. Il figlio accenna di sì e manda subito a chiamare un uomo, il fabbricante, che dopo pochi minuti arriva con una decina dei più bei copricapi che ha in vendita. Ne scelgo uno di astrakan nero con picchiettature bianche e, soddisfatto, pago i soldi richiesti all'uomo. I miei ospiti sono contenti di vedere che apprezzo tanto il mio berrettone, il mio telpegh, come essi lo chiamano, e ridono quando lo metto.

Poi, mentre il soldato che mi accompagna è fuori, i miei ospiti rispondono a qualche mia domanda. Mi accorgo però che non sono molto loquaci, forse hanno paura. Mi fanno capire che loro in Iran non si trovano nella loro patria e che di là dal confine, in terra sovietica, hanno i loro parenti, i loro fratelli, la loro nazione.

In Persia vi sono giunti cinquant'anni fa quando i sovietici imperversavano nel Turchestan (nome che designava allora tutta la vasta regione dell'Asia centrale abitata da turcomanni, kirghisi, uzbeki e tagiki). Tewagh Norghalypor, seppure giovane a quel tempo, dice di ricordarsi bene del terrore che avevano sparso in quelle terre i vari commissari sovietici e si ricorda bene anche di quel Frolov, passato poi alla storia per le sue efferatezze, che ad Askhabad aveva trucidato senza pietà i ricchi proprietari e altra gente ribelle. Molti turcomanni allora s'erano dati alla guerriglia, s'erano fatti basmací, anche perché la vita del guerrigliero alla macchia era congeniale con la vita di certe tribù turcomanne dedite da secoli alla razzia e alla guerra.

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Yak-kapetà, l'albero solitario


Stamattina ho noleggiato un cavallo per guadare il fiume Surkh che scorre a occidente di Baghlan e andare sui monti solitari che ospitano i villaggi di yurte di nomadi kirghisi. Pago per il cavallo pochi afghani. Da queste parti chiedere in prestito un cavallo è come da noi chiedere in prestito una bicicletta; ce ne sono così tanti e tanto diffuso è il loro uso che se ne servono persino le donne quando devono andare al mercato.

Per un po' costeggio il fiume verso sud e, arrivato in un'ansa dove le acque sono basse e tranquille, lo attraverso. Poi mi fermo per fare un bagno nell'acqua limpida e fresca. Riprendo il cammino risalendo il versante opposto della valle, nudo e stepposo. Per strada incontro un drappello di cavalieri uzbeki, bellissimi, con il turbante al vento, e assai simili, immagino, all'avanguardia di una di quelle orde mongole che un tempo si scatenavano in queste stesse regioni; passano lasciando sospeso nell'aria un denso polverone.

Dopo una mezz'ora di trotto giungo sulla cima di una collina da cui scorgo, in lontananza, tutto disteso entro una conca riparata, un villaggio di yurte. Si presenta, visto nella solitudine spaventosa, come i villaggi kirghisi illustrati dalle riviste di geografia di cinquant'anni fa, o come quelli che si trovano nelle descrizioni di Sven Hedin, l'esploratore europeo che sei secoli dopo Marco Polo più profondamente si addentrò in queste regioni.

Appena mi avvicino alle prime capanne alcuni uomini mi vengono incontro: as-salamaleikum mi dicono alla maniera musulmana, con un leggero inchino e portando la mano sul cuore. I loro visi denunciano subito caratteri mongolici: occhi sottili, cranio largo, complessione massiccia, statura piuttosto piccola. Tra di essi vedo però qualche tipo con tratti iraniani, tagiki. La varietà dei loro caratteri sembra rispecchiare un po' tutte le vicende umane avutesi nel corso dei millenni in Asia centrale. Vestono il chapan a strisce colorate, calzano chumush di cuoio, alti come stivaletti, o larghi al collo del piede e con la punta rivolta all'insù. Mi rivolgo a loro in turco, lingua che sicuramente essi conoscono in qualcuna delle sue numerose varianti dialettali, e chiedo il nome del villaggio: «Yakkapetà», mi rispondono.

Un uomo, che mi sembra il più sveglio e disincantato, mi spiega il significato di quel nome. Mi racconta che, fuggiti cinquant'anni prima dalle regioni di Samarcanda e giunti in Afghanistan, si erano insediati in questo posto, dove non c'era nulla, tranne un albero, un albero solitario, yak-kapetà.

Altri uomini intanto accorrono dalle altre yurte e mi guardano curiosamente, ma standosene lontani, quasi diffidenti. L'uomo col quale parlo e riesco a farmi intendere dice di chiamarsi Yusuf, ed entra subito in confidenza con me. Mi fa capire che vorrebbe un posto allo zuccherificio di Baghlan, ma non riesce ad ottenerlo, anche perché la loro situazione in Afghanistan non è ancora ben definita, non hanno la cittadinanza. «Siamo pastori», mi dice, «come eravamo pastori in Uzbekistan; ma là avevamo pascoli e campi nostri che poi ci sono stati tolti dai russi».

Nel villaggio ci sono molte yurte non ancora erette. Le donne stanno lavorando per mettere insieme lo scheletro, che verrà poi rivestito di stuoie fatte di giunchi e pelo di cammello. Mentre le osservo, Yusuf mi spiega che alcune famiglie sono arrivate quella notte stessa dalla montagna dove vanno a vivere durante l'estate. Poi mi faccio condurre in giro per l'accampamento.

Grossi cani abbaiano furiosamente e alcuni cercano di mordermi nonostante i miei accompagnatori li tengano a bada. Le donne che lavorano attorno alle yurte hanno vestiti colorati di rosso e portano sul capo la grande tiara di tipo mongolo. Davanti al copricapo, in corrispondenza della fronte, portano attaccate medaglie per ornamento. Al di sopra portano un fazzoletto rosso o bianco che serve da velo. Si girano da un'altra parte quando mi avvicino, oppure si coprono col velo; ma mi accorgo che mi osservano di sbieco con un occhio, un piccolo occhio umiliato.

Yusuf mi fa entrare nella sua yurta, che lui chiama kapà, «la mia kapà». Appena varcato l'uscio una donna, probabilmente sua moglie, esce fuori di corsa, quasi spaventata. Mi fa sedere su un bel tappeto e mi prepara il tè. La kapà è spaziosa, accogliente; dentro ci sono pochissime cose: alcuni cuscini, qualche indumento appeso alle pareti, una cassetta di legno che probabilmente custodisce gli oggetti di valore della famiglia. Fuori, non lontano dalla capanna, vi è un piccolo granaio dove viene immagazzinato il grano acquistato durante l'estate dai contadini con i soldi guadagnati vendendo bestiame.

Yusuf, come ogni capo-famiglia, ha parecchio bestiame: capre, montoni e una cammella, che adesso sono al pascolo. Tutto il bestiame del villaggio viene portato al pascolo collettivamente, e pure collettivamente si fanno le vendite ai mercati di Baghlan. Ogni uomo è addetto a un lavoro particolare, ma non c'è un capo. C'è solo un uomo molto vecchio, un certo Ahmed, il più vecchio di Yak-kapetà, e perciò il più rispettato. Ha visto molte cose ed è stato perfino a Bukhara al tempo in cui pochi erano ancora i russi nell'Uzbekistan. In URSS la loro condizione era assai diversa e, mi racconta Yusuf, avevano un padrone, un khan molto ricco e potente al quale sottostavano insieme con numerosi altri gruppi di famiglie, scioltisi poi quando il capo fu fatto sparire dai bolscevichi. Così oggi essi, pur vivendo ancora insieme come un tempo, non hanno padroni né capi e nessuno ha proprietà. Questo li costringe a vivere esclusivamente di pastorizia sfruttando gli aridi pascoli di proprietà dello Stato, molto lontani dai luoghi coltivati.

Chiedo a Yusuf se si trova bene in Afghanistan. Scuote la testa e mi invita a guardar fuori: «Non c'è niente, non c'è un filo d'erba, neppure l'acqua, che bisogna andare a prendere alla sorgente lontana». D'estate, secondo l'uso di tutti i nomadi e seminomadi di questa regione settentrionale dell'Afghanistan, vanno su nelle alte vallate dell'Hindukush, negli stessi luoghi dove giorni prima, passando, ho visto numerosi accampamenti di yurte. Lassù trascorrono i mesi estivi e alla fine di settembre, come ora, scendono e tornano alla loro sede invernale. Domando a Yusuf se posso rimanere al villaggio fino a domani. Soltanto allora mi chiede se sono almand, un tedesco che lavora alla fabbrica di Baghlan. «Memleket Italya», «vengo dall'Italia», rispondo. Ma questo nome non gli dice nulla. Si mostra spiacente di non potermi ospitare nella sua kapà, ma io gli faccio capire che potrò sistemarmi benissimo di fuori, in qualche angolo riparato. Scuote la testa. Poi va da un uomo di un'altra kapà e rimane là a lungo a discutere. Tutti e due contenti e sorridenti alla fine vengono a dirmi che potrò dormire in una capanna che le donne stanno costruendo e che sarà finita prima di sera. Un giovanotto dà del fieno al mio cavallo e lo lega a una delle apposite mangiatoie di fango che si trovano nel villaggio. Ho modo così di assistere alle piccole vicende quotidiane della comunità.

Il mattino si destano prestissimo e subito gli uomini governano i cavalli mentre le donne preparano il most, lo yogurt. Dopo la mungitura delle capre i pastori radunano le greggi e si avviano verso la montagna, mentre gli altri strigliano e preparano i cavalli per andare a Baghlan ad assistere al mercato e per vendervi, se del caso, una parte dei loro prodotti, yogurt, formaggio, lana e bestiame. Già alle nove del mattino al villaggio si trovano soltanto le donne e i pochi uomini che si dedicano a lavori artigianali, che riparano e confezionano scarpe, che preparano i paletti nuovi per le capanne, che aggiustano le mangiatoie o che devono attendere alla nascita degli agnellini. Alcuni uomini proprietari di cammelli si guadagnano qualcosa a Baghlan e nei centri vicini facendo trasporti per conto terzi, e rimangono assenti da Yak-kapetà anche per delle intere settimane.

La giornata delle donne è anche più intensa di quella degli uomini, che spesso anzi non sanno che cosa fare. Dopo i lavori mattutini si recano alla fonte con le ghirbe di pelle per rifornirsi d'acqua; se non hanno un asino se le caricano sulle spalle e questa è una delle più grosse fatiche, anche perché la sorgente è lontana. Lavate e pulite le suppellettili, alcune si mettono al lavoro attorno al telaio, altre preparano il pane. Questo viene cotto in appositi forni all'aperto: i pani vengono schiacciati sulle pareti calde del forno e quando, ormai cotti, si staccano da soli, sono già pronti; con un uncino le donne li raccolgono tutti sporchi di cenere ma odorosi.

Alla lavorazione del tappeto attendono sei o sette donne e in questi giorni ne stanno tessendo uno cominciato, mi dicono, in primavera. Il guadagno della vendita verrà poi suddiviso tra le varie famiglie che vi hanno collaborato sia con il lavoro manuale, sia mettendovi lana e colori. Le donne in genere non stanno mai senza far niente e anche nei momenti di riposo esse filano la lana, attorcigliandola rapidamente su piccoli fusi; è un lavoro che fanno con estrema naturalezza e quasi lo si direbbe un vizio, un tic nervoso. Durante il giorno i bambini stanno sempre con le donne e i più grandicelli si accompagnano ai pastori sulla montagna.

Quando nel pomeriggio gli uomini stanno per arrivare, il villaggio si anima, si desta dal suo sopore, dalla sua solitudine. I cani abbaiano e le donne si accingono a tornare un'altra volta alla sorgente a prendere acqua se la scorta del mattino è finita. Già si scorgono le greggi che scendono dai declivi dei monti, lentamente, quasi indugiando, immerse in nuvole di polvere. Dalla strada di Baghlan si vedono arrivare gli uomini a cavallo e, tra poco, tutti si ritroveranno tra le capanne. Poi le donne preparano la cena, quasi sempre riso condito con grasso di montone e, più frequentemente, formaggio e yogurt con pane. Qualche volta però gli uomini arrostiscono dei pezzi di montone; ciò capita, mi spiegano, specialmente in autunno, cioè all'inizio dell'inverno, quando si prevede che la pastura, acquistata dai contadini e raccolta in grandi mucchi nel villaggio, sia scarsa. Si preferisce uccidere le bestie più sofferenti. Una certa disponibilità di carne si ha quando vengono uccisi i piccoli agnellini appena nati per ricavarne la pregiata pelle di karakul che offre alla gente del villaggio i proventi maggiori. Spesse volte anche a Yak-kapetà si usa uccidere le pecore partorienti per estrarre il nascituro la cui pelle, tenera e appena spuntata, ha un valore doppio e anche triplo di quella normale. Naturalmente la maggior parte della carne viene portata al mercato di Baghlan, come pure le pelli conciate di karakul.

Appena le greggi sono rientrate, gli uomini provvedono alla mungitura aiutati dalle donne. Si governano i cavalli e gli asini e, quando tutto è finito, gli uomini riposano e mangiano. Stanno seduti davanti alla kapà dell'amico o del vicino e chiacchierano, mentre le donne si ritirano prestissimo nella capanna. Quando le sere sono particolarmente calde le sedute serali si protraggono sino a tardi e qualche volta si canta. Un giovane, che è il musico del villaggio, suona vecchie canzoni su una sorta di violino a due corde tese su un rudimentale telaio di forma rettangolare. Qualche uomo accompagna il suono con un canto a bassa voce, con gravità ed impegno.

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