Copertina
Autore Pedro Ugarte
Titolo Un padre
Edizionezero91, Milano, 2009 , pag. 272, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-95381-13-8
OriginaleCasi inocentes [2004]
TraduttoreSelena Nobile, Manuela Pincitore
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe narrativa basca , narrativa spagnola
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Pagina 5

C'è una sola cosa memorabile nella mia vita: aver avuto un figlio. Tutto il resto non ha importanza dinnanzi a un simile cataclisma. So che molte persone conoscono l'importanza di questo avvenimento ma so anche che l'essere in apparenza un evento abituale, lo trasforma quasi in un aneddoto, in un fatto di costume che adorna, con pieghe somiglianti, la biografia di molti esseri normali e incostanti. Milioni di persone hanno riscattato tutta una vita di affanni e di sventure grazie a questo avvenimento singolare, a questa misteriosa trasmissione della coscienza che la carne perpetua su se stessa, con ostinazione, generazione dopo generazione, estendendo nel corso della storia lignaggi anonimi, segreti, il cui unico fine è di riprodursi, aggiungere un altro anello alla catena, una catena priva di nome certo, che non conserva memoria di se stessa, ma che si perpetra con incredibile ostinazione. Avere un figlio è un miracolo, sebbene questa condizione sia oscurata dalla frequenza, dalla mera statistica che lo trasforma in un fatto casuale e abituale. Avere un figlio è un miracolo complicato dalla burocrazia delle annotazioni dei registri, dal costume di battezzare e di celebrare i compleanni e dalla noiosa litania di parchi pubblici, altalene e scuole. Ad ogni modo, non smette di essere un miracolo e non smette di essere, allo stesso tempo, il compimento di un delitto sconvolgente, perché sai che la tua vita è un passaggio penoso, effimero e probabilmente inutile, eppure, per circostanze mai spiegate, decidi di delegare il suo esercizio e la ripetizione dei tuoi stessi problemi, a individui che moriranno in un futuro molto lontano e dei quali non riuscirai mai a sapere nulla, così come tu non sai nulla di quell'uomo medievale o di quella donna della preistoria alla quale rigorosamente devi quel tuo meccanico sbattimento di palpebre, il ritmo dei tuoi polmoni, la possibilità di pensare in questo momento ciò che stai pensando. Un figlio, d'altra parte, è anche un atto di fede; e se uno concepisce la vita come un patto involontario e prolungato con tutti i tipi di sofferenze, un figlio è anche una sconsideratezza. Non posso sostenerla con completa convinzione, ma ancora conservo la debole speranza che mio figlio arrivi a conoscere una qualche forma di felicità che, per circostanze attribuibili al caso o per mia stessa colpa, a me è stata negata.

Da quel giorno in cui contemplai, attonito, quasi incredulo, come il piccolo corpo di León, quella sostanza disperata e insanguinata, emergeva dalle viscere di Regina (all'inizio con difficoltà, aiutato dal medico ma, dopo, con la vertiginosa facilità con cui scivola tra le mani un pesce viscido), compresi che qualcosa di eccessivamente grande si stava abbattendo su di me. Di fronte a quella responsabilità, tutte le altre si trasformarono immediatamente in qualcosa di insignificante, quasi in una distrazione. Questa nuova responsabilità era enorme ed era totale; conteneva il peso di tutto l'universo; un universo che, a partire da quel momento, mi vedevo obbligato a sostenere sulle mie spalle, con il solo aiuto delle mie forze, affinché non danneggiasse quella fragile creatura.

Quando vidi León per la prima volta, sentii il desiderio di piangere e successivamente mi invase la perplessità di quegli uomini che, sorprendendosi a singhiozzare, se ne vergognano e non si spiegano cosa gli stia succedendo mentre assaporano, increduli, una lacrima salata che, alla fine del suo percorso, bagna le loro labbra. Ho dimenticato la composizione precisa della scena, l'aspetto della sala parto, il colore delle pareti o la voce, forse dolce, forse autoritaria, di ostetriche e infermiere. Ma il ricordo di un colpo al cuore, di una impetuosa scossa, ritorna senza alcuno sforzo ogni volta che penso a quel momento, a come depositarono il corpo di León, sporco, tremante, avvolto in liquidi organici, su un asciugamano sicuramente troppo ruvido per la sua pelle ancora vergine di graffi e di ferite. Lui, allora, appoggiò le braccia e finse o cercò di sollevarsi, sentendo, per la prima volta, il peso del suo corpo, la consistenza della propria identità: una percezione spaventosa che dovette frastornarlo e che, come una pesante catena, si trascina da allora e continuerà a trascinarsi fino al momento della sua morte.

Tuttavia, León è nato due volte. Ed io sono responsabile solo della prima delle sue nascite.

Questa dichiarazione appare complicata, ma ha segnato la vita di tre persone, quelle tre che, per un certo periodo, rappresentarono l'illusione di una famiglia: León, Regina ed io.

Il mio nome è Alberto Durrio. Il mio cognome è quello di uno scultore le cui tracce possono ancora scovarsi in vari punti di questa città. Durrio è la storpiatura locale, perpetrata forse da secoli, di un cognome francese. Qualcuno, evidentemente, venne a vivere tra di noi quando ancora la formalità dei registri non aveva espropriato gli esseri umani della fugacità dei nomi, della possibilità che nuove abitudini e lingue ne modificassero la pronuncia. Tuttavia, nonostante quelle malinconiche statue di Durrio che costellano la città, mai ci fu nella mia famiglia, fin dove si ricordi, un artista rinomato.

Mio padre lavorò tutta la vita come impiegato in banca e le sue abitudini erano quelle di un borghese annoiato: usciva a bere con gli amici della comitiva, andava allo stadio la domenica e manteneva con sua moglie una relazione di civile cortesia, freddezza e lunghi periodi di astinenza.

Mio padre è ancora vivo, ma non è più capace di riprodurre nessuna di quelle abitudini né, tanto meno, quelle altre, più elementari, che sostengono l'identità delle persone. Riposa nel letto di un ospedale, sottomesso dagli infermieri che gli riservano una disciplina abbrutente di pulizia organica e attenzioni di routine (perché anche la pulizia, l'ordine sanitario, possono arrivare ad essere atti di brutalità). È da mesi ormai che non mi riconosce. Arturo ed io, i suoi due figli, ci alterniamo nelle visite, visite che realizziamo puntualmente, con rassegnazione, con docilità filiale, senza speranza, senza nessun effetto pratico, spinti dal dovere morale di non abbandonare nostro padre, di continuare ad essere presenti nella sua vita o in ciò che ancora resta di quella. E torna quindi la percezione del miracolo che significa la vita di León: mio padre sta li, steso nel suo letto terminale, tramutato in una materia inerte e inespressiva. Ma a quella materia adesso profondamente inutile, devo tutto ciò che sono: il gesto delle mie labbra, il movimento tenue di un sopracciglio, la scelta del nome con il quale tutti mi chiamano o l'opportunità stessa che mio figlio sia nato. Comprendo che questo debito enorme è ciò che ci lega ai nostri genitori, e che l'amore risulta essere l'unica risposta permessa di fronte a coloro che ci diedero qualcosa che non può essere ripagato in nessun'altra maniera. Questo amore che gli dobbiamo si trasforma, però, in un peso perché si tratta di un debito impossibile da saldare, perché non ci sarà mai il tempo necessario per farlo, perché nessun prezzo immaginabile potrà mai essere sufficiente.

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Carlos Segura, il mio migliore amico, era uno scrittore domenicale che ciclostilava con cura i suoi racconti e li regalava ai colleghi di lavoro, agli amici e ai parenti. Nella sua prosa grossolana e inesperta non vi era traccia alcuna di letteratura. Diceva di frequentare i classici. Per questo la maggiore ambizione dei suoi scritti risiedeva nelle dediche: "A Miguel de Cervantes", "A Gustave Flauber", "Per Fiodor Dostoevskij". Forse pensava che tali riconoscimenti, sperduti nel mare della storia, potessero aggiungere qualcosa ai suoi destinatari. Quando consegnava a qualcuno i suoi regali così personali, con estrema naturalezza pronunciava frasi come questa: «Ho dedicato questo piccolo racconto a Don Francisco de Quevedo». Altre volte, durante le conversazioni, Carlos parlava di Shakespeare con familiarità, con sconvolgente confidenza: «Il vecchio Will» sussurrava, dolce, nostalgico, come chi ricorda un intimo amico di infanzia. Per Carlos Segura gli abissi del tempo erano annullati da una mitica fratellanza letteraria, come se una segreta filiazione potesse unire intimamente Omero a Dante o a Tolstoj. Non leggeva libri contemporanei e non aveva alcuna intenzione di frequentare circoli letterari. Forse temeva il confronto con le migliaia di scrittori del suo tempo e la scoperta di condividere con loro la volgarità di una mera occupazione.

I suoi scritti, di fattura così elementare, così primitiva, dimostravano un'assoluta incomprensione della materia letteraria ma proprio per questo si salvavano da qualunque critica, da qualunque conflitto personale. In realtà, Carlos Segura era un soggetto straordinario per ragioni molto diverse da quelle che immaginava, era uno di quegli individui che la vita colpisce, miracolosamente, in rare occasioni: Carlos Segura era un uomo felice. L'ammirazione che sua moglie gli dimostrava, l'edizione curata e artigianale di quei racconti ciclostilati e il rispetto che ispirava nei vicini o nei parenti sembravano bastargli per colmare una vita piena di giorni sereni e felici, di giorni rigorosamente e noiosamente uguali. Viveva trincerato in un'autosoddisfazione così pura che lo rendeva assolutamente invulnerabile. Per lo meno in questo, io davvero lo invidiavo.

Carlos poteva parlare del suo ultimo progetto letterario, il cui protagonista era un cane sentenziando: «Gli animali si comportano a volte meglio delle persone». I suoi racconti finivano sempre con quel tipo di sentenze e grandi insegnamenti, la cui ridondanza veniva perfino rafforzata dalla elaborazione di una morale finale, evidenziata con lettere maiuscole scritte in grassetto e sottolineate. Dedicava i suoi libretti rilegati agli amici e lo faceva con una penna d'oro zecchino, tracciando un'epigrafe fatta di eccellenti incastonature. Si intratteneva in quelle occasioni con una responsabilità storica, come se la sua firma in calce siglasse il trattato che mette fine a una guerra centenaria. Poi contemplava la dedica, la ripeteva per sé, in un sussurro, e alla fine consegnava il manoscritto, sempre con movimenti cadenzati, liturgici, guidati da una qualche sorta di trascendenza. E i destinatari della dedica, sorpresi, pensavano che la storia della letteratura universale avesse prodotto un nuovo miracolo, un miracolo del quale senza dubbio avrebbero dato conto, a tempo debito, le tesi dottorali, i manuali scolastici, i saggi redatti nei secoli a venire. Nonostante la sua intimità con i classici, Carlos Segura non praticava nessuna forma di snobismo. Non c'era nulla di difficile o di tormentato nella sua relazione con le parole o con il resto dell'universo. Con la stessa naturalezza con la quale scriveva, giocava con i suoi figli alle altalene del parco. Era comprensivo, leale e sincero, forse aiutato dalle cristalline morali in cui si riassumevano i suoi scritti: «I poveri possono essere più felici dei ricchi», «Ci sono cose nella vita più importanti del denaro», «Ciò che più ammiro non è la bellezza esteriore ma l'altra». Quell'insieme di frasi fatte segnalavano una relazione con il mondo incredibilmente armoniosa e pacifica. La sua anima era un invaso d'acqua quieta, senza mareggiate, senza vortici, senza violente correnti sottomarine. Nella sua famiglia nessuno metteva in dubbio, però, che avesse un autentico talento, e tutti ammiravano il suo modo di dissimularlo, di dedicarsi alle cose semplici della vita: il suo hobby di preparare arrosti e insalate, la sua facilità di stare con i bambini, la sua capacità di trasformare il compleanno di un nonno in una riunione sentimentale, beata, nella quale tutti finivamo per convincerci che era possibile riuscire ad essere migliori aiutando gli altri.

Carlos Segura era anche un impenitente organizzatore di riunioni familiari. Grazie a costanti e generosi inviti, noi – due o tre coppie di amici sposati – andavamo regolarmente a casa sua con il nostro rispettivo esercito di bambini. I pranzi erano uno sconcerto di grida e urla, di gente che andava e veniva portando cose, un intenso traffico di piatti con olive, patatine fritte o prosciutto di seconda scelta. Sul tavolo si confondevano le bottiglie delle bibite in formato familiare con le pappine che consumavano i piccoli. In quelle riunioni non c'era nulla che somigliasse al riposo o a qualche remota forma di tranquillità, ma Carlos e Rosana, sua moglie, facevano in modo che una tumultuosa e disordinata allegria si sovrapponesse al caos tribale. Dopo la merenda, Carlos si prendeva cura dei bambini e organizzava per loro concorsi e gare. Riusciva a far sì che i piccoli, ipnotizzati, gli obbedissero ciecamente. Era in quel momento che le mogli finalmente si sentivano liberate da tutti gli obblighi che noi uomini imponevamo loro con la nostra particolare inerzia. Formavano un cerchio, aprivano una bottiglia di spumante e fumavano, ridevano, parlavano delle loro cose. Ed era anche in quel momento che noi uomini, lontani dal tumulto dei bambini, facevamo lo stesso e trovavamo qualche argomento che potesse suscitare l'interesse di tutti: il prezzo delle assicurazioni auto, le aspettative lavorative, perché avremmo avuto altri figli o perché, per noi che già li avevamo avuti, ci sembravano una penitenza già sufficiente. Quelle riunioni domenicali, disordinate, rumorose ma al tempo stesso malinconiche (malinconiche come qualunque cosa che si è soliti fare le domeniche pomeriggio) erano possibili grazie ai progressi economici di Carlos e Rosana. I nostri amici stavano tirando su quattro bambini, ma non era questa l'unica virtù che conservavano delle numerose famiglie d'altri tempi. Carlos e Rosana si sottomettevano a costanti restrizioni personali per la loro prole, per la loro futura prosperità. Facevano un'economia propria dei tempi del dopoguerra, si rifiutavano di uscire la sera o di fare qualunque spesa che consideravano superflua. Lo stesso Carlos, nonostante i suoi interessi letterari, aveva pochi libri in casa e si accontentava di andare nelle biblioteche pubbliche per frequentare i suoi amici, i classici. Diceva di non potersi permettere di comprare dei libri perché doveva pensare ai suoi piccoli. In pratica, del vero scrittore non aveva nemmeno quell'egoismo irriducibile di chi potrebbe scrivere un romanzo di mille pagine, assorto, assente, su una tormentata scrivania da lavoro, mentre la sua famiglia sopporta privazioni oltre l'uscio della porta.

Carlos e Rosana erano due laboriose formiche che andavano arricchendo poco a poco i magazzini sotterranei della colonia familiare. Contabilizzavano con cura le spese della casa, si preoccupavano di conservare i vestiti dei figli maggiori affinché i piccoli li ereditassero. Vivevano in quella visione comunitaria e fraterna dell'economia, profondamente solidale, che sorge, in realtà, solo quando le risorse sono scarse. Solo quando la sopravvivenza lo esige, gli esseri umani accettano di buon grado una qualche sorta di socialismo intuitivo. La famiglia di Carlos e Rosana era una specie di abnegata comune, immersa nei più semplici piaceri della vita e nella modesta previsione di ogni tipo di penuria. Per molti anni noi, amici della coppia, avevamo riso di quell'esistenza così rigorosa, piena di rinunce e di sacrifici; ciò vuol dire che ridevamo delle auto di seconda o terza mano che comprava Carlos o dei vestiti fuori moda di Rosana. Ridevamo del fatto che rinunciassero ad andare fuori durante le vacanze o ad uscire per andare con altre coppie in qualche ristorante. Sopportavano di buon grado perfino le nostre battute, consci del fatto che la loro fosse una missione più alta: portare avanti la loro numerosa famiglia.

Ci sono però certi peccati veniali (magari lo fossero stati anche gli altri) che si trasformano in una immediata penitenza, perché sta di fatto che Carlos e Rosana, tempo dopo, ci presero di sorpresa: abbandonarono il loro appartamento in città e comprarono una villetta a schiera in periferia. Ma, nel loro nuovo stato, non ci fu superbia né petulanza, e nessuno di quei sentimenti che senza dubbio abbondava nei loro nuovi vicini, trionfatori di terza classe, beneficiari delle ultime briciole di una prosperità che scendeva a cascata da molto più in alto, dai consigli di amministrazione fino alla loro volgare sistemazione di impiegati, ispettori o vice.

Carlos e Rosana erano dediti alla virtù eroica e umile del risparmio perseguendo l'obiettivo della loro vita: offrire il meglio ai loro figli e, in questo caso, offrirgli alcuni metri quadri di giardino.

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León non menzionò mai coscientemente l'esperienza all'interno della casa in fiamme ma durante la notte il suo sonno si trasformò in un'agitazione continua, piena di convulsioni e soprassalti. Si svegliava spesso ed esigeva tra i gemiti la presenza di sua madre, mai la mia. Tutte le notti c'era un momento in cui arrivava fino alla nostra stanza un lamento quasi impercettibile che l'udito di Regina doveva amplificare fino a trasformarlo in un grido d'angoscia. Regina era dotata di quell'intuizione con la quale le madri percepiscono la più piccola alterazione dei loro piccoli, un allarme che si fa strada attraverso le porte, i muri, i corridoi, la notturna opacità dell'inconscio. Quindi si alzava, si risvegliava a fatica dal sopore e, con gli occhi pesanti di sonno, correva al fianco di León. In quelle occasioni non tornava più nel nostro letto: restava a tranquillizzare il bambino, lo accarezzava, lo cullava. Se io mi avvicinavo più tardi alla porta socchiusa la sua risposta era sempre la stessa: un sussurro precipitoso che esigeva che me ne andassi.

«Sta per addormentarsi. Vai, torna a letto.»

Percepivo nell'oscurità i movimenti sbrigativi di una mano che mi ordinava di andare via. Ogni volta che io aprivo appena la porta e chiedevo di León, sembrava che lo avessi messo in un pericolo imminente, proprio quando stava sul punto di addormentarsi o lo aveva appena fatto, o come se la mia presenza interrompesse un sonno duramente preparato da sua madre, dopo ore di nenie e canzoni modulate a voce bassa. Il riposo di León era la cosa più importante, così io scomparivo, sicuro che la voce di Regina, le sue dolci parole, i suoi sussurri, avrebbero immerso nostro figlio in un sonno caldo e sicuro. Alla fine si addormentavano entrambi, abbracciati sul letto della camera di León, e se io tornavo a fare capolino, rimanevo a guardarli, come se la mia veglia somigliasse a quella delle sentinelle, come se in qualche modo la mia esclusione da quel sonno condiviso fosse anche necessaria affinché il bambino o entrambi riposassero in pace. Compresi che qualcosa era cambiato in modo irreparabile nella nostra casa. Regina prestava a León un'attenzione quasi ossessiva, desiderando riparare a un'antica negligenza. La certezza che c'era stato un giorno in cui avremmo potuto perderlo per sempre prefigurava adesso future minacce e le imponeva la missione di scongiurare inediti pericoli. Per questo Regina dormiva poco, la sua permanenza nel nostro letto era un fatto fugace, un piccolo intervallo tra il momento di andare a letto e il primo gemito che arrivava fino a noi quando León era disturbato dagli incubi. Regina aveva deciso di ungersi a una sorta di santità, assumere il sacrificio di consacrare tutto il suo tempo a nostro figlio, forse torturata dal ricordo di quel giorno in cui né lei né io fummo in grado di aiutarlo. Certo questo significò un'altra cosa: finì per allontanarsi da me. Non tornò mai più ad alludere a quel vecchio progetto di avere un altro figlio. Di fatto, ci sfioravamo appena. A volte, durante le notti fredde nelle quali sentire il suo corpo tra le lenzuola svegliava il desiderio, io mi avvicinavo, avvinghiavo le mie gambe alle sue, le davo dolci baci sulle guance e cercavo i suoi seni con le mani. Ma bastava un sussurro di León, lì in lontananza, la certezza che si era svegliato o che lottava per farlo, affinché Regina allontanasse le mie braccia e corresse un'altra volta verso la sua stanza. Si era impossessato di lei lo spirito di una femmina tenace, un animale votato ciecamente alla sopravvivenza di suo figlio. Non c'era tempo per l'amore, come non c'era tempo per altre cose. Il ricordo di quel pomeriggio in cui fummo sul punto di perderlo scatenava dentro di lei un pesante senso di colpa, una colpa il cui peso non voleva nemmeno condividere: io a volte cercavo di parlare di questo, di chiederle cos'era cambiato tra noi, ma Regina aveva deciso dì conservare i suoi sentimenti in un baule a doppio fondo, in un luogo profondo e nascosto al quale mi era proibito accedere. La vita tra noi due si risolveva adesso nella convivenza imposta dalle occupazioni domestiche, dagli accordi per preparare la cena, per fare il bagnetto a León, per fare la spesa, per lavare o pulire la casa. Vivevamo in mezzo a una premeditata restrizione dei sentimenti, in cui non c'era una parola pronunciata con un tono più alto di un'altra, né espressioni cattive, né tensioni esplicite: non c'era nient'altro che non fosse occuparsi di nostro figlio, proteggerlo da tutti i pericoli che lei riusciva a immaginare, per quanto fantasiosi fossero. Una matematica di lavori e di orari sì era sovrapposta adesso a sensazioni precedenti, quando quella stessa quotidianità, quelli stessi orari, erano stati animati da intense illusioni condivise. La spesa quotidiana, le commissioni, la cura della casa, erano state in precedenza un'opportunità per saperci felici, orgogliosamente portati alla libera scelta di abitudini tranquille e ordinate. Ora, tutte quelle cose erano solo obblighi ingrati che compivamo in silenzio, con rigorosa efficacia, percependo tra noi l'esistenza di un grosso muro trasparente.

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