Autore Chiara Valerio
Titolo Storia umana della matematica
EdizioneEinaudi, Torino, 2016, Supercoralli , pag. 170, cop.rig.sov., dim. 14x22x1,7 cm , Isbn 978-88-06-23006-7
LettoreGiorgia Pezzali, 2016
Classe narrativa italiana , matematica , storia della scienza












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  3  0.  Unisci i puntini

  5  1.  Vite parallele

         Farkas Bolyai, matematico, 1775-1856
         János Bolyai, matematico, 1802-1860

 26  2.  Le dimensioni che contano

         Bernhard Riemann, matematico, 1826-1866

 49  3.  Come perdere al lotto

         Pierre-Simon Laplace, matematico, 1749-1827

 73  4.  Fatale e inevitabile

         Mauro Picone, matematico, 1885-1977

 94  5.  Morti due volte

         Lev Landau, fisico, 1908-1968

111  6.  L'uso umano degli esseri umani

         Norbert Wiener, matematico e cibernetico, 1894-1964

140  7.  In exitu

         Io, 1978 - vivente

163  Nota


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

0. Unisci i puntini


Tutto quello di cui Euclide parla, non esiste.

Non esiste una retta senza spessore, e non esistono circonferenze perfette. L'immaginazione che Euclide, dal III secolo prima di Cristo a oggi, richiede a chi legge i suoi Elementi è piú grande di quella necessaria a seguire le storie degli dèi e degli eroi.

I fregi dei templi greci avrebbero potuto raccontare di parallele, triangoli e figure la cui esistenza coincide e termina con la descrizione grandiosa che Euclide ne ha fatto, cosí come le sirene e gli ippocentauri esistono solo nella mitologia, o nei sogni. Tuttavia, se qualcuno ha giurato di aver visto un ippocentauro - e non era poi tanto grande, assicura Flegonte -, e di essersi fatto legare all'albero della nave per ascoltare, senza morirne, il canto delle sirene, nessuno ha mai incrociato un punto senza dimensione, né si è vantato di averlo visto. Il punto, come Euclide lo definisce, è ciò che non ha parti. Non si può attraccare al punto, afferrare il punto, circumnavigare il punto e nemmeno si potrebbe mettere un punto.

I ragionamenti, i teoremi, le costruzioni e le dimostrazioni di Euclide si applicano solo a queste forme inesistenti e tutte le volte che da quel mondo di perfezione ho disegnato un triangolo o tracciato un segmento, quello che ho fatto - io, come tutti - è stato immaginare. Con esattezza e concentrazione senza mescolare uomini e cavalli, donne e pesci. Una immaginazione che non trasforma ma crea. Che non è metamorfosi, ma invenzione.

Prima di imparare la geometria - io, come tutti - ho immaginato che il mio punto segnato con uno spillo non avesse dimensione, cioè di avere davanti quello di cui avevo bisogno, o che desideravo. Per dimostrare il teorema di Pitagora serve piú immaginazione che a riportare in vita i morti, perché quelli, almeno una volta, ci sono stati. Le rette, i punti, le figure geometriche, mai. Perciò, tutto quello di cui Euclide parla, non esiste. In nessun tempo verbale.

D'altronde i punti, soli o allineati stretti a formare rette o piani, sono gli elementi dell'unica grammatica che, oltre a descrivere e comunicare il mondo, ha permesso di costruire e gestire dispositivi che ci hanno mandato oltre le stelle fisse, e piú in là.

La matematica, e ci penso ogni volta che mi trovo davanti a un disegno su un muro, su un ponte o sull'asfalto di una qualsiasi città, è questa immaginazione che educa all'invisibile, dunque all'amore e ai morti, alle utopie e ai fantasmi e che ci ha portato lontano lontano, nel tempo e nello spazio. È questo esercizio d'immaginazione che ci fa e ci fa rimanere umani e quindi, in fondo, poco importa che tutto quello di cui Euclide parla non esista, se siamo qui.

                                  I veri simboli hanno una lunga vita e, al pari
                                    dei sogni, si adattano a situazioni diverse.

                            O. J. BRENDEL, Classical and Non-Classical Elements.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

I nomi pensati per le nuove geometrie - Bolyai la chiama assoluta, Lobačevskij Pangeometria - raccontano spazi che non appartengono alla natura ma all'uomo, interprete, esegeta e signore della natura stessa. Coincidono la natura e la realtà o la natura è una parte della realtà? Il punto è che se natura e realtà coincidono, non c'è possibilità di altrove e dunque di pensiero. Jànos voleva di piú.

Quale geometria è vera?, domandava il professore di Istituzioni di Geometria superiore durante il corso, camminando avanti e indietro, montando la guardia, come una sentinella, alle truppe dell'insensato che noi studenti rappresentavamo. La risposta era sempre la stessa. Dipende, dipende dall'ordine di grandezza. Non la verità della geometria, ma appunto l'opportunità.

Dipende dalla scala, come per me e Nils Holgersson da bambini.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

Dal padreterno, dal creatore, ricomincia, nel 1902, a cento anni dalla nascita di Jànos, Henri Poincaré che ne La Scienza e l'Ipotesi dedica un capitolo alle geometrie non-euclidee. Le verità matematiche discendono da un piccolo numero di proposizioni evidenti attraverso una catena di ragionamenti impeccabili; esse s'impongono non soltanto a noi, ma anche alla natura stessa. In un certo senso, esse incatenano il Creatore e gli consentono di scegliere unicamente fra alcune soluzioni, relativamente poco numerose.

Poincaré era un buffo signore, molto miope, molto intelligente, atteggiamento famelico e rinascimentale rispetto a tutti i campi della fisica e della matematica. A detta di Einstein, e di altri fisici e matematici meno o pre-mediatici, è stato l'uomo che ha compiuto i primi passi nella teoria della relatività. Nonostante fosse un matematico muscolare, non ha mai lasciato il lavoro come ingegnere minerario, aveva una diffidenza ostile nei confronti dei matematici puri e non credeva alle discipline totalmente deduttive. Poincaré considerava la matematica una materia non esclusivamente deduttiva. Della logica, diceva che serviva solamente a sistemare le cose. Una cameriera, senza mezzi termini. Ne La Scienza e l'Ipotesi analizza la natura degli assiomi dell'aritmetica, della geometria e della meccanica.

Poincaré era interessato ai propri percorsi mentali, era egli stesso un suo oggetto di studio. Il medico e giornalista Edouard Toulouse, massone e frenologo, aveva pubblicato nel 1910 Enquête médico-psychologique sur la supériorité intellectuelle: Henri Poincaré nel quale, studiando la psicologia e la fisiologia di Poincaré, era giunto alla conclusione che, pur diversissimo da Zola (aveva studiato anche lui), la luminosità del suo genio risplendeva limpida, nonostante la sua intelligenza fosse estremamente volontaristica, le sue abitudini ripetitive e lui stesso fosse inamovibile, privo di indole artistica e goffo nei movimenti (cosa che non gli aveva impedito di prendere moglie e fare quattro figli).

Poincaré analizza gli assiomi della geometria, protesta per gli sforzi fatti nei secoli dei secoli per dimostrare il V postulato e poi illustra, molto rapidamente, come lui stesso sarebbe in grado di costruire la geometria iperbolica, la geometria ellittica e addirittura una geometria in cui ogni retta sia perpendicolare anche a sé stessa. Per esempio.

Poi si ferma perché osserva qualcosa che un matematico, anche matematici enormi, non ha mai osservato. Dopo aver definito la matematica non come lo studio degli oggetti ma come lo studio della relazione tra gli oggetti (relazione tra retta e punto per esempio, e la matematica anche da questo angolo è la piú umana delle discipline perché essere umani significa essere in relazione, connettere, tessere relazioni anche sentimentali), Poincaré stabilisce che oggetto della geometria sono gli spostamenti. Che gli assiomi della geometria non sono né a priori (come sosteneva Kant), né conseguenza dell'esperienza, altrimenti la geometria non sarebbe una scienza affidabile. Gli assiomi della geometria sono convenzioni.

Alla domanda dunque se è vera la geometria euclidea, Poincaré risponde che è come chiedere se sia vero il sistema metrico e se dunque, prima, fossero falsi il braccio calabro o il pollice, o se siano vere le coordinate cartesiane o quelle polari. Una geometria non può essere piú vera di un'altra, può essere solo piú comoda. E per Poincaré, l'ultimo kantiano, che come Ivan pensa che il mondo sia stato dato in qualche modo euclideo, ma che al contrario del fratello Karamazov sa di poter concepire altri spazi altre dimensioni e dunque, seguendo il ragionamento di Dostoevskij, di poter raggiungere almeno un Dio (qualsiasi cosa essa sia), scrive che la geometria euclidea è e sarà sempre la piú comoda, perché è la piú semplice. E non solo per le abitudini del nostro intelletto o per l'intuizione evidente che abbiamo dello spazio come euclideo, ma come un polinomio di primo grado sarà sempre piú semplice di un polinomio di secondo grado. Ed è piú comoda perché si accorda sufficientemente con le proprietà dei solidi naturali, corpi che tocchiamo o vediamo e attraverso o sui quali agiamo e mediante i quali stabiliamo le nostre proporzioni. La geometria euclidea si accorda con la nostra idea degli spostamenti dei solidi.

Il motivo esatto per cui il treno, muovendosi lungo i binari, non poteva collassare all'orizzonte.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 34

Le descrizioni di Flatlandia, sia su carta che su schermo, sono numerose e si sono succedute con continuità fin dalla prima edizione illustrata del romanzo nel 1884. Tuttavia credo che, a oggi, la migliore rappresentazione della cinematica di Flatlandia (anche per il titolo) sia Space Invaders, videogioco Arcade sviluppato da Toshihiro Nishikado nel 1978 (anno della mia nascita). Space Invaders ha una struttura intuitiva. Il giocatore controlla un cannone mobile che si sposta orizzontalmente sul fondo dello schermo e deve abbattere, uno a uno, gli alieni che si avvicinano alla terra seguendo un ampio e ordinato zig-zag che li porterà, se non ostacolati, a raggiungere il fondo dello schermo decretando il successo dell'invasione e dunque la fine della partita. La colonna sonora è una serie di impulsi che seguono il crescendo del ritmo della partita. Space Invaders è una battaglia bidimensionale in un universo bidimensionale, sostanzialmente monocromo, tutti i movimenti che le navicelle e il cannone possono fare sono movimenti piani. Il piano è verticale, ed è lo schermo. Traslazioni e, seppure esistessero, rotazioni, non servirebbero ai fini del gioco. Space Invaders è un buon esempio per il mondo di Flatlandia, nessun giocatore si chiede da dove vengano i proiettili, dove siano stivati i propulsori per i motori, o se esistano casse acustiche in cui gli impulsi sonori facciano eco o cavità di qualsiasi genere dalle quali siano prodotti, nessuno si è mai chiesto se il difensore della Terra fosse un automa, la navicella stessa, o se invece all'interno della navicella bidimensionale ci fosse una sedia bidimensionale nella quale un uomo bidimensionale potesse prendere un posto bidimensionale e sparare, stringendo le mani su una cloche bidimensionale (praticamente Tetris).

Io non voglio dire solo tre nomi, ma tre dimensioni. La realtà di cui scrive Abbott è quella della discussione sui fondamenti della geometria, quindi sulla natura e i modi della conoscenza umana, quindi sulla possibilità della matematica, in quanto linguaggio simbolico, di giungere a un grado di descrizione del mondo superiore a quello delle parole. Tre dimensioni, tre direzioni, tre misure. Questa la trinità di Abbott, scientifica e laica, che consente al libello di un grammatico di essere la migliore risposta ai problemi che si aggiravano nell'Europa continentale dall'inizio dell'Ottocento. Che cos'è la geometria? Il tempo e lo spazio sono assoluti o dipendono dai sensi, e se sí, quanto?


Flatlandia è un racconto fantastico perché è fisiologicamente, meccanicamente e dinamicamente finto. La matematica di Flatlandia non corrisponde a una fisica di Flatlandia. Come si propagano i suoni, come è possibile che occhi bidimensionali posseggano retine sulle quali si fissano immagini o orecchie che, prive di membrane vibranti, provvedano all'equilibrio o alla ricezione di suoni? Le corde sonore non hanno cassa acustica, la gravità, che agisce a Flatlandia, è bidimensionale e incessante, ma anche inutile perché tutti i corpi, poggiati sul mondo piano — e come, se non hanno spessore? —, sono sottoposti a reazioni vincolari delle quali nessuno pare avvedersi. Se a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, a Flatlandia dove trovano posto queste reazioni? Mentre la matematica dei contemporanei di Abbott si occupa della geometria connessa allo sviluppo di alcune branche della fisica (migliorare la cartografia e sistematizzare fenomeni magnetici ed elettrici), Abbott, con un sincero atto di realismo, realismo incredulo, ma realismo comunque, scrive un romanzo nel quale inchioda la matematica alla sua natura di grammatica del mondo.

Della fisica e dell'integrazione delle scienze, si occupino altri.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 46

A Riemann non interessa il V postulato, il suo approccio al problema non è quello dei Bolyai, Riemann vuole scoprire le possibilità logiche e analitiche legate alla nozione di spazio e, successivamente, elencare quelle esperienze sensoriali che facciano propendere per una nozione o per un'altra. Pure l'interesse di Helmholtz era centrato sulle definizioni di spazio logicamente ammissibili, ma con un percorso parzialmente viceversa, giacché partiva dalla ricognizione delle esperienze che definivano lo spazio come euclideo. I fatti di Helmholtz sono le ipotesi di Riemann. Helmholtz suppone che la nozione di corpo rigido sia equivalente a quella di curvatura costante.

In generale, non è possibile parlare di congruenza se non si possono muovere corpi rigidi o sistemi di punti senza deformazioni e se la congruenza di due grandezze spaziali non sussiste a prescindere da qualsiasi movimento. Dunque.

Alla domanda Quando è vera la nostra concezione del mondo?, Riemann risponde Quando le relazioni tra le nostre rappresentazioni corrispondono alle relazioni tra le cose. Alla domanda Quando è vera la nostra concezione del mondo?, Helmholtz risponde Quando le nostre rappresentazioni sono regolate da leggi meccaniche verificabili sulle e con le cose (...) poiché tutti gli strumenti della nostra intuizione sensoriale sono fatti per uno spazio di tre dimensioni, e la quarta dimensione verrebbe a costituire non un cambiamento di quel che esiste ma una radicale novità, per la nostra stessa struttura corporea non riusciremmo in alcun modo a rappresentarci una quarta dimensione in modo intuitivo.

[...]

La geometria, cioè la teoria matematica dello spazio, non è piú, sia per Riemann che per Helmholtz, lo studio di ciò che è necessariamente vero.

Abbott tuttavia, nonostante la volontà di Riemann di spiegare la teoria e la funzione della curvatura a partire da una rappresentazione geometrica e nonostante la dichiarata impossibilità di Helmholtz a rappresentare una quarta dimensione a causa della nostra struttura corporea, riesce a immaginare infinite dimensioni, senza problemi di formalizzazione, con una sicurezza scientifica che assomiglia a un atto di fede.

La matematica però, al contrario della letteratura, non vive di atti di fede, e nemmeno la fisiologia.

Tuttavia.

Ho creduto che un triangolo iscritto in una semicirconferenza fosse rettangolo.

Ho creduto che due piú due facesse quattro in ogni caso, fortissimamente.

Ho creduto che la parabola fosse una conica con un fuoco all'infinito.

Ho creduto che la serie geometrica di ragione minore di un mezzo convergesse.

Ho creduto che alcune serie avessero una ragione.

Ho creduto, talvolta, di avere anche io una qualche ragione.

Ho creduto, soprattutto, che senza un sistema di vettori linearmente indipendenti non potessi costruirmi uno spazio. E nel teorema di Pitagora.

Ho creduto molto prima di capire. Ascolta papà.

Da ciò deduco che la matematica è un atto di fede fino a un certo punto e la letteratura, per converso, è un atto di fede da un certo punto in poi.

Non ho creduto che Dante fosse sceso all'Inferno e asceso prima al Purgatorio e poi al Paradiso.

Non ho creduto all'ossessione di Achab per la balena.

Non ho creduto che Mrs Dalloway avesse detto che i fiori li avrebbe comprati lei, e poi lo facesse.

Non ho creduto ai biscotti e alle bevande che rimpiccoliscono e ingrandiscono. Né ad Adriano che seppellisce Antinoo in una durata senz'aria dunque senza tempo, o che Sarah Malcolm ti fosse apparsa in sogno. Poi sono stata tutte quelle cose e in quasi tutti quei posti (ma è perché non sono una viaggiatrice). Il verbo si è fatto carne, la carne (talvolta) si è disfatta, io l'ho (sempre) seppellita, e funziona ancora cosí, mi basta leggere.

Da quel punto, che non ha parti, dove finiva la fede della matematica e iniziava quella della letteratura cominciavano tutti i miei disegni di bambina, di adolescente, di adesso.

(...) uno Spazio ancora piú spazioso, una Dimensionalità ancora piú dimensionabile, dove le tue stesse viscere saranno esposte alla vista del povero vagante della Flatlandia, al quale già tanto è stato concesso. Flatlandia finisce al Museo della Specola e alle sue ceroplastiche.

Le mie stesse viscere, per un'altra dimensione ancora.

                                                    La configurazione fa l'uomo.

                                                       E. A. ABBOTT, Flatlandia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 125

Del 1951 è il primo romanzo del Ciclo della Fondazione nel quale Asimov introduce la psicostoria — o psicostoriografia —, disciplina che prevede, secondo un modello statistico, il comportamento e il futuro degli uomini e grazie alla quale Hari Seldon, il piú grande psicostoriografo che abbia calcato il suolo dei mille universi di cui il mondo è fatto, riesce a prevedere la prossima ventura crisi globale e cerca di sventarla radunando su un pianeta, Terminus, ai confini della galassia, un gruppo di scienziati che dovranno occuparsi di compilare l'Enciclopledia Galattica e conservare le conoscenze accumulate, durante un interregno di barbarie. Seldon, come l'ultima fata della Bella addormentata (sempre lei) non può annullare il maleficio, ma solo alleviarlo ed è certo di riuscire a ridurlo da trentamila a mille anni. In questo interregno la scienza sarà solo un dispositivo. Le scienze tutte saranno ridotte, dall'incapacità di comprenderne i significati e i principi, a mera tecnologia. Il nostro contemporaneo, praticamente.

I sacerdoti di questo mondo barbarico sono i fisici, gli scienziati, perché gli unici in grado di ripristinare i reattori nucleari. E l'energia nucleare manda avanti il mondo. Sia Wiener che Asimov raccontano e discutono delle differenze tra una prima rivoluzione delle macchine (la macchina a vapore che sostituisce gli schiavi e dunque libera l'uomo), e la seconda rivoluzione delle macchine (la presenza della macchina nel quotidiano assoggetta l'essere umano che, non comprendendone il funzionamento, non si preoccupa di valutare le decisioni prese dalla macchina e le affida la scelta tra il bene e il male). Per entrambi la soluzione, o l'argine, è lo studio, la consapevolezza che la scienza, ridotta a mera tecnologia, è una forma religiosa che ammette solo persecuzione e penitenza e che non ha giorni di festa, ma solo martiri.

Giorgio Agamben , prendendo le mosse dal giurista romano Trabazio, in Che cos'è un dispositivo? scrive Profano si dice in senso proprio ciò che, da sacro e religioso che era, viene restituito all'uso e alla proprietà degli uomini. Si può definire religione, in questa prospettiva, ciò che sottrae cose, luoghi animali o persone all'uso comune e le trasferisce in una sfera separata. Tuttavia quello che viene trasferito in una sfera separata non è una cosa, non è un oggetto, non è un animale, non è un luogo e non è nemmeno una persona, è un linguaggio, la conoscenza scientifica. Edison che trasferisce l'anima di Alicia Clary in Hadaly è uno strumento della religione tecnologica di cui Lord Ewald è adepto fervente.

Wiener , per colpa o in virtú dei metodi educativi del padre, è stato uno studioso precoce. E un lettore avido, la sua formazione è stata miscellanea, e la matematica, l'ultimo gradino di uno studio vorace e curioso. Da bambino - scrive Wiener - dicevo di voler fare il naturalista, come altri dicono di voler fare il pompiere, io invece L'architetto, l'architetto in Danimarca, perché mi piacciono i tetti spioventi. Era appassionato e studioso di zoologia, lo aveva frenato, nella sua voglia e possibilità di conoscenza, la dissezione. Il primo sintomo o anelito di un pacifismo che si compirà nel rifiuto categorico di lavorare per l'esercito americano - ragione per cui Wiener è stato sotto i riflettori da bambino e da anziano, ma nei trent'anni di mezzo un oscuro professore di Matematica del MIT. Oscuro professore che tuttavia, oltre la fiorente aneddotica a posteriori sulle bizzarrie comportamentali, il modo di parlare, la capacità di esprimersi correntemente in dodici lingue ma di non essere comprensibile in alcuna di esse, aveva chiamato nel suo laboratorio William Siddis, il giovane genio che tuttavia era stato consumato - come la falena della conoscenza nel racconto dei Brentano fatto da Ludovica Koch (sempre lei) - alla fiamma dell'archetipo del bambino prodigio. Wiener, come tutti quelli molto intelligenti e che hanno letto molti libri, era un uomo tenero. Si preoccupava che i suoi studenti avessero una solida formazione classica, oltre che tecnica, perché pensava che mitologia e letteratura fossero un'esigenza spirituale degli esseri umani, e senza, non c'erano che timore e sgomento. L'attenzione, l'acutezza, la preoccupazione nel rapporto con le macchine che imparano e con la tecnica che viene consegnata priva della possibilità, anche grossolana, di comprenderne il funzionamento, o il principio, gli venivano dalle storie prima che dai numeri. Era convinto che il mondo non fosse un nido comodo per l'umanità ma un luogo vasto e largo, dove fosse possibile sfidare gli dèi con la coscienza di esserne sempre puniti. Forse anche per questo, gli scritti di Wiener hanno il tono delle profezie che si avverano.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 138

Dopo tanti anni, tuttavia, se ancora mi pare che Eva futura di Villiers abbia anticipato gli aspetti neurofisiologici degli studi cibernetici intrapresi da Wiener e le intenzioni, mi sembra di vedere, con una certa chiarezza, che l'interesse di Wiener non fosse quello di mimare l'uomo attraverso le macchine, ma di sviluppare un linguaggio, sempre piú preciso, efficace, condiviso, con il quale l'uomo e le macchine potessero dialogare. Le macchine di Wiener non sostituiscono l'uomo, lo aiutano a liberarsi delle azioni che, potendo essere compiute da una macchina, macchinizzano dunque disumanizzano gli uomini che le compiono. Le sue macchine, come per esempio la protesi uditiva per i sordi totali, riportano l'uomo in una condizione di normalità, intesa come piena coscienza e capacità dei sensi.

L'origine della storia rimonta al diciassettesimo secolo, pare. Si vuole che un rabbino avesse costruito, seguendo certe istruzioni della Cabala andate perdute, un uomo artificiale - il cosiddetto Golem - perché lo aiutasse a suonar le campane della sinagoga e facesse ogni sorta di lavori pesanti. Non ne sarebbe però uscito un uomo davvero, ma solo un essere animato da un'oscura e semicosciente vita vegetale, e anche questo soltanto durante il giorno e in virtú di un magico bigliettino che gli veniva messo dietro i denti, onde si alimentasse alle spontanee energie dell'universo. E quando una sera, prima della preghiera consueta, il rabbino dimenticò di togliergli dalla bocca il sigillo, il Golem sarebbe caduto in un delirio furioso, aggirandosi nell'oscurità delle strade e distruggendo quanto gli capitava sottomano. Alla fine il rabbino gli si sarebbe gettato contro, riuscendo a strappare il pezzo di carta dalla bocca del Golem, che sarebbe piombato di schianto senza vita al suolo. Di lui non restò che il corpiciattolo d'argilla.


Le schede forate delle prime macchine calcolatrici (e della Monna Lisa di papà), i rulli d'ottone bugnati dei carillon (passione di mia madre, come le palle di vetro con la neve), i linguaggi di programmazione e persino, o prima di tutto, le lettere impresse sulla fronte terrosa e terrea del Golem provano che senza il linguaggio le macchine rimangono ferme, immote, e con le parole sbagliate distruggono.


                            È stato, credo, spesso sottolineato come una gallina
                            non sia che il modo che ha un uovo di fare un altro
                            uovo.
                                                  SAMUEL BUTLER, Life and Habit.


                            Come parla? come parla? come parla?? Le parole sono
                            importanti.
                                                                   NANNI MORETTI

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 149

Ci sono libri che intersecano ossessioni. O forse, prendendo la faccenda da un altro canto, i lettori ossessivi, categoria alla quale mi ascrivo, incrociano in tutti i libri che possiedono uno spazio narrante, una qualche declinazione dell'ossessione. Le ossessioni non sono tutte uguali, alcune sono perenni, altre momentanee, alcune sono costitutive, altre fronzoli. Io ne ho di tutti i tipi. Ma una delle ossessioni risalenti e costitutive, di quelle che hanno nome e indirizzo, riguarda la certezza fideistica che i libri salvino la vita, ma non la vita generale astratta, il quotidiano volta per volta. Questa ossessione risiede nelle orecchie - per quanto io non abbia un udito abbastanza sottile per i metri poetici - e io leggo con le orecchie, e cerco di scrivere con le orecchie. I libri salvano la vita perché aiutano a vivere meglio. Vivere meglio significa avere la capacità di raccontare le possibilità, anche i punti di vista svantaggiati. Se hai letto molti libri, questa cosa delle possibilità dal punto di vista svantaggiato ti viene piú facile.

| << |  <  |