Copertina
Autore Marc Valleur
CoautoreJean-Claude Matysiak
Titolo Sesso, passione e videogiochi
SottotitoloLe nuove forme di dipendenza
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004, Saggi Psicologia , pag. 208, cop.fle., dim. 147x220x14 mm , Isbn 978-88-339-1530-2
OriginaleSexe, passion et jeux vidéo. Les nouvelles formes d'addiction
EdizioneFlammarion, Paris, 2003
TraduttoreIsabella Negri
LettoreCorrado Leonardo, 2004
Classe medicina , psicologia , psichiatria , psicanalisi , giochi
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Indice

  7    Introduzione Dall'effetto nocciolina alla dipendenza

       Sesso, passione e video giochi


 13 1. Essere o non essere dipendenti?

       Una malattia diversa dalle altre, 16
       Domani smetto?, 21

 24 2. Amare da morire

       Si sposarono e vissero felici..., 30
       Passione = dipendenza?, 41
       L'amore-dipendenza, 58
       Il vero amore; una controdipendenza-contraddizione?,
       73

 79 3. Dipendenti dal sesso

       Impulso, compulsione, dipendenza, 83
       La masturbazione: dipendenza originale?, 98

105 4. Dalla passione alla dipendenza: i meccanismi in gioco

       L'estasi e il neurone, 105
       La chimica intima della passioni, 108
       Il logoramento delle passioni, 117
       Le origini psicologiche dell'attaccamento, 124

127 5. Prigionieri del gioco

       Il gioco, una necessità sociale, 129
       La dipendenza delle scommesse e dai giochi d'azzardo,
       132
       Dal flipper a Lara Croft: i videogiochi sono
       pericolosi?, 138
       I dipendenti da Internet, 148
       Gli hacker: dipendenti dal divieto, 156

162 6. La delinquenza, una dipendenza come un'altra?

       Delinquenza o inciviltà? Una valutazione difficile,
       163
       Serial killer: una dipendenza mortale!, 174

194 7. Trattare la sofferenza

       I trattamenti di conversione, 195

205    Bibliografia

 

 

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Pagina 7

Introduzione

Dall'effetto nocciolina alla dipendenza


A tutti è capitato di sorprendersi a mangiucchiare salatini, noccioline o anacardi. Tra amici, con un bicchiere in mano, macchinalmente peschiamo nelle ciotole disposte sul tavolino che troneggia. Improvvisamente avvertiamo una strana sensazione, non di vero e proprio disgusto, ma di «troppo pieno». Dobbiamo senz'altro fermarci, rischiamo di rovinarci l'appetito. Eppure seguitiamo a spizzicare, non resistiamo, continuiamo nostro malgrado, per puro piacere.

Chi ha provato i videogiochi conosce la difficoltà di porsi un limite. Non basta sentire che il tempo scorre, si rimane incollati allo schermo senza riuscire a prestare ascolto alla voce della ragione, senza smettere, pur consapevoli che sarebbe ora di farlo. Abbiamo tante cose da sbrigare, ma è troppo divertente...

Tutto nasce dal piacere e per il gusto del piacere. Poi subentra la difficoltà: fermarsi diventa sempre più arduo. Chi non ha avuto una simile sensazione, cercata e ripetuta, che lentamente scivola nell'abitudine? Un'abitudine che finisce per essere invadente quando svanisce il piacere iniziale. È questo il punto di partenza di alcuni comportamenti di dipendenza, talvolta banali e quotidiani, che può segnare l'inizio di un vero e proprio processo di dipendenza: adottare un determinato comportamento o proseguire con una relazione affettiva più a lungo di quanto si fosse immaginato, senza riuscire a fermarsi.

Ma non avviene bruscamente. Lo slittamento in una «carriera» di dipendenza è progressivo. Non di rado si tratta dell'incontro emotivamente e fisicamente potente con un prodotto, un comportamento o una persona, un incontro che «aggancia» in funzione delle aspettative profonde del soggetto e come risposta a una sua implicita ricerca. Non tutti amano l'alcol o il tabacco né a tutti piace giocare. Gli adolescenti che sperimentano droghe illegali sono molti ma, fortunatamente, pochissimi ne diventano dipendenti. Per qualcuno però l'«incontro» è folgorante, come un colpo di fulmine o come, per un giocatore, la prima vincita di una grossa somma. Tutto il resto passa in secondo piano.

In realtà a nostro parere il confine tra le semplici abitudini invadenti e la dipendenza è labile e fluttuante. Il mondo della scienza e della medicina stabilisce, con eccessive disinvoltura e artificiosità, una separazione tra «autentiche» dipendenze - tossicodipendenza o alcolismo, per esempio -, degne di cure mediche, ricerche statistiche e pubblicazioni scientifiche, e «false» dipendenze - quella dal coniuge o dai videogiochi -, che sarebbero invece il prodotto delle rappresentazioni sociali e della psicologia popolare.

Spesso le pubblicazioni sull'argomento sono di ricercatori che, consapevolmente o no, predicano per la loro parrocchia. Gli psicoanalisti tendono a pensare che tutti i problemi trovino origine nell'individuo, nella sua struttura psicologica e nella sua infanzia. I farmacologi e i neurofisiologi sono invece propensi a evidenziare specificamente le proprietà di alcune sostanze che inducono dipendenza e a esaminare il «potenziale di dipendenza» intrinseco all'oggetto di dipendenza.

Tuttavia, proprio perché la dipendenza si definisce sulla base di un particolare legame tra un soggetto e un oggetto, ci pare fondamentale fare ricorso a strumenti che permettano di studiare la relazione in quanto tale, prendendo in esame le sue tre componenti: il soggetto, l'oggetto e il contesto (familiare, storico e culturale) del loro incontro. A rischio di scandalizzare, non aderiamo al presupposto aprioristico secondo il quale tutte le dipendenze debbano essere classificate come malattie. In qualità di psichiatri e psicoanalisti ci sembra legittimo parlare di dipendenza, ed eventualmente proporre un progetto terapeutico, soltanto quando il soggetto soffre del proprio attaccamento e intende porvi fine ma non vi riesce senza un aiuto. La legittimazione di una problematica in quanto tale, sulla base della quantità di sofferenza e di drammi che comporta, costituisce la motivazione che anima il nostro interesse nei confronti della dipendenza intesa come meccanismo e degli elementi che consentono una definizione del legame come legame di dipendenza.

Ci proponiamo pertanto di mettere alla prova il nostro bagaglio di conoscenze, acquisito nella pratica clinica all'interno di una struttura per il trattamento delle tossicodipendenze, per affrontare alcuni tipi di dipendenza che in Europa non sono ancora ufficialmente riconosciuti. In quali casi la passione amorosa deve essere considerata una malattia? La coppia può rappresentare una forma patologica di dipendenza? Da che cosa si è dipendenti nel caso di dipendenza dal sesso? La passione del gioco, che può diventare compulsiva e invadere l'esistenza di un individuo, deve indurci a diffidare dei videogiochi e a soppesare il rischio dei giovani di rimanere imprigionati in un universo virtuale? I serial killer sarebbero dei tossicomani particolari diventati «dipendenti» da un'esperienza estrema, da un atto più grande di loro?

Ripercorreremo innanzi tutto l'evoluzione del concetto di dipendenza e le definizioni che ci sembrano accettabili. Passeremo poi ad affrontare le relazioni amorose e le forme di potenziale dipendenza che esse possono assumere, cioè la relazione passionale (nella quale l'altro diventa il centro dell'esistenza), «l'amore» trasformatosi in pura e semplice abitudine (dipendenza dalla routine), nonché il fenomeno della codipendenza, che riguarda più in particolare le donne e comporta un legame affettivo con una persona dipendente (dal gioco, dall'alcol ecc.). Le relazioni amorose e passionali meritano particolare attenzione, dato che non esiste un consenso reale su ciò che distingue una relazione amorosa da una relazione di dipendenza.

Tratteremo inoltre questioni più particolari sollevate dalle dipendenze sessuali e i comportamenti rischiosi a esse collegati. Molto diffusa negli Stati Uniti e affrontata dai gruppi dei Sex Addicts Anonymous, in Europa questa «malattia» è oggetto di accesi dibattiti e merita un attento esame poiché pone il problema cruciale del confine tra piacere e sofferenza, tra «normale» e patologico. Affronteremo la questione, assai controversa, dei giochi e in particolare dei videogiochi e di Internet, prima di dedicare qualche riflessione alle dimensioni di dipendenza presenti in alcune forme di delinquenza e alla patologia intrinseca al legame e al processo di dipendenza che in qualche modo culminano nella figura del serial killer. La dipendenza dal rischio spesso accompagna quella dalla routine, come se il movimento di ricerca di libertà a sua volta fosse invischiato nella ripetizione.

Lungo questo percorso, che va dalle dipendenze più diffuse fino alle forme di dipendenza più estreme e fortunatamente rare, incontreremo persone reali o figure mitiche, eroi della cronaca o personaggi dei romanzi che appartengono al nostro immaginario collettivo. Tristano e Isotta incarnano l'amore passionale e fatale, mentre nelle fiabe il matrimonio, che peraltro può esemplificare un legame costrittivo imposto dalla morale borghese, assurge sempre a ideale. La ricerca dell'oggetto ideale - il principe azzurro o la «vera fidanzata» - getta luce sulle difficoltà del rapporto con il coniuge reale, al pari degli amori scandalosi di Romeo e Giulietta, di Tony e Maria in West Side Story o di Bonnie e Clyde.

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1. Essere o non essere dipendenti?


Lo sviluppo della società ci sollecita a concepire una visione nuova della sofferenza psichica, o meglio ci impone di ridisegnare i confini tra salute e malattia mentale. L'interesse dimostrato dalla medicina nei confronti dei diversi modi di amare o di giocare, simile a quello per il diabete o per il cancro, non dovrebbe essere scontato. Ma non va da sé neppure il fatto che l'uso di sostanze psicoattive, come l'eroina o la cocaina, rappresenti necessariamente un problema di competenza medica. Tutto sommato, il carattere illecito di una droga non basta per trasformarne l'uso - per quanto invadente, passionale e diventato vitale per il soggetto - in malattia; non più della pericolosità oggettiva del consumo di alcuni prodotti. La guida in stato di ebbrezza o il tabagismo sono veri e propri problemi sociali e di salute pubblica, ma non sono considerati gravi in ambito psicopatologico.

I fautori di approcci rigidamente improntati alla psicologia o alla sociologia interpretano lo sviluppo delle dipendenze come il sintomo di una società di individui sempre più condizionati dalla dipendenza, in primo luogo dalla dipendenza nei confronti della medicina. È tuttavia opportuno prendere atto di una serie di «nuove dipendenze» che, accanto alla depressione, sono innegabilmente le malattie emblematiche della modernità. Da una parte l'«agire eccessivo» del soggetto dipendente, dall'altra l'«impossibilità di agire» del depresso.

Nel caso della dipendenza, ci sembra che l'unico confine attendibile tra normalità e patologia risieda nella richiesta di aiuto da parte del soggetto: egli soltanto può sapere se un comportamento coatto è fonte di sofferenza e se non è in grado di porvi fine da solo. La malattia è innanzi tutto una nozione soggettiva, legata a un intimo sentimento di alienazione provato dal soggetto in balia di un processo che va al di là del suo Sé e sfugge alla sua volontà.

Da alcuni anni il termine addiction si diffonde in Europa come trasposizione dell'uso anglosassone che vede raggruppati le tossicodipendenze, l'alcolismo e, in generale, tutte le forme di dipendenza. La nozione di addiction ha il merito di non porre in primo piano la dimensione biologica, e il prodotto assume minore rilevanza rispetto al comportamento adottato. Gli psicoanalisti sono stati i primi a relativizzare il peso della farmacologia nell'ambito delle dipendenze. Per noi addiction è semplicemente sinonimo di dipendenza.

La tendenza a riunire entità diverse sotto un unico termine generico si va consolidando. Esistono infatti argomenti molto validi a favore dell'adozione del concetto di addiction in senso lato, che includa le tossicodipendenze, l'alcolismo, il tabagismo, il gioco patologico, nonché alcuni disturbi alimentari, l'acquisto compulsivo, i comportamenti sessuali e le relazioni amorose «alienanti»:

- In primo luogo, la parentela esistente tra disturbi diversi connotati dalla ripetizione di un comportamento che il soggetto crede di prevedere e controllare.

- La rilevanza delle intersezioni tra dipendenze diverse. Citiamo per tutte la presenza di alcolismo, tabagismo, tossicomanie o disturbi alimentari che spesso si riscontra nei giocatori patologici.

- Il frequente passaggio da una dipendenza a un'altra: un tossicodipendente può diventare alcolista, poi darsi al gioco patologico e manifestare una tendenza all'acquisto compulsivo...

- Infine, l'affinità degli interventi terapeutici. A questo proposito si rivela particolarmente importante l'attività dei gruppi di autoaiuto, come gli Alcolisti Anonimi, che si fonda sul metodo dei dodici passi (cfr. cap. 7). Sostanzialmente i princìpi alla base dei programmi di recupero e di redenzione morale proposti agli alcolisti, ai tossicodipendenti e ai giocatori compulsivi e adottati da molti di loro sono gli stessi.

La proliferazione dei gruppi di autoaiuto, basati sul metodo dei dodici passi per affrontare ogni sorta di dipendenza da comportamenti specifici - dalla dipendenza da Internet agli acquisti compulsivi - ma adatto anche per le codipendenze (la dipendenza affettiva o familiare da individui alcolisti o tossicodipendenti) e per le dipendenze affettive, probabilmente è la dimostrazione più evidente del posto riservato alle dipendenze nella nostra società.

In realtà la dipendenza è ormai un concetto diffuso. La pubblicità ne ha già recepito l'ambiguità (è una malattia, ma si diventa dipendenti perché l'oggetto di dipendenza è fonte di intenso piacere) e propone, per esempio, slogan come «il gioco che induce la massima dipendenza al mondo», oppure promuove un superalcolico con un paradossale «Non cominciate mai». Gli scienziati esitano a riconoscere questo allargamento di orizzonti, e le «tossicodipendenze senza droghe» o «dipendenze comportamentali» suscitano tuttora divergenze in cui rintracciamo, con un lieve ritardo temporale, i dibattiti che vedono contrapposti, nel campo della tossicomania, i sostenitori degli approcci biomedici e i partigiani degli orientamenti psicosociali.

Molti autori oggi si collocano in una posizione interlocutoria, facendo propria l'idea che queste nuove patologie non meritino un vero e proprio diritto di cittadinanza finché non saranno scoperti dei marcatori biologici - l'ipersensibilità acquisita dei circuiti della dopamina, per esempio - a dimostrazione della loro esistenza al livello più profondo dei meccanismi vitali. La volontà scientifica di mantenere il primato dei dati presunti «esatti» prodotti dalla biologia, rispetto ai dati presunti «deboli» provenienti dalla psicologia o dalla sociologia, rischia di ritardare la presa in carico di sofferenze reali che, per definizione, nascono dalla soggettività e sono preesistenti a qualsiasi obiettivazione. Una forma di dipendenza poco considerata in termini clinici e fenomenologici, come il gioco patologico, difficilmente è riconosciuta in ambito «scientifico».

In effetti è facile valutare sperimentalmente la dipendenza da una sostanza psicoattiva, in particolare con degli esperimenti su animali da laboratorio, mentre nel caso del gioco, al pari di tutte le dipendenze senza droghe, non esiste un dispositivo sperimentale che permetta lo stesso tipo di misurazioni. L'etologia deve ancora compiere dei progressi prima di potere proporre qualcosa, in un ratto, di equivalente alla dipendenza dalle slot machine, dallo sport, dal lavoro o dalle relazioni amorose passionali e distruttive. Non dubitiamo che le ricerche in questo campo si moltiplicheranno e alla fine dimostreranno che l'intensità delle sensazioni provate nelle sequenze di gioco al casinò, o durante le partite ai videogiochi, per non parlare degli slanci amorosi, si traduce in modificazioni tangibili, e probabilmente durevoli, dei «circuiti di ricompensa», cioè delle vie neuronali deputate al piacere e al desiderio. A nostro parere i riferimenti necessari sono, innanzi tutto, di ordine descrittivo e fenomenologico e non devono essere subordinati alla scoperta dei loro fondamenti biologici.


Una malattia diversa dalle altre

Le dipendenze, con o senza l'uso di droghe, non saranno mai delle malattie esattamente come le altre. Esse infatti riguardano i campi dell'attività umana che, in ogni epoca, scaturirono dalla sfera del sacro e della religione prima di diventare il fondamento della morale degli antichi. Il cibo, il sesso, l'alcol e le droghe, il denaro e il rischio furono oggetto di culti e di riti, che a loro volta produssero le prescrizioni e gli interdetti religiosi e imposero l'esercizio dell'autocontrollo, poiché potevano suscitare un desiderio irrefrenabile e passioni impossibili da soddisfare.

Oggi possiamo considerare queste patologie dell'«agire eccessivo» all'estremo opposto dell'«eccesso di rimozione» nevrotico che aveva condotto, alla fine dell'Ottocento, a una riformulazione radicale del modo di pensare la sofferenza psichica, concretizzatasi nell'invenzione della psicoanalisi e dell'inconscio. Conviene peraltro ricordare che il concetto di «tossicomanie senza droghe» nasce in seno alla psicoanalisi, quando nel 1945 Otto Fenichel lo introduce nella sua Teoria psicoanalitica delle nevrosi. Quando chiarisce la differenza tra i disturbi impulsivi, manifestati dal soggetto secondo modalità egosintoniche (in accordo con l'Io), e le ossessioni, che invece si impongono al soggetto che tenta di resistervi, probabilmente questo autore si pone all'origine della tassonomia ufficiale delle malattie mentali in materia di dipendenze.


Definire la dipendenza

Possiamo estendere all'argomento qui trattato una definizione del tossicodipendente proposta nel 1985. Definiremo dipendente «qualsiasi individuo la cui esistenza è tesa alla ricerca degli effetti prodotti sull'organismo e sulla mente da una sostanza più o meno tossica (droga tollerata, vietata, prescritta) o da un comportamento (gioco, condotta alimentare, sesso, Internet, acquisti compulsivi ecc.), pena un intenso disagio fisico e/o psicologico».

Allorché un comportamento invade l'intera esistenza del soggetto, al punto da impedirgli di vivere, è legittimo parlare di dipendenza. L'oggetto della dipendenza diventa centrale, costituisce il fulcro attorno al quale ruota la vita del soggetto dipendente e ne definisce l'identità. Sarà allora un giocatore, un alcoldipendente o un tossicomane, prima di essere un marito, una moglie, un padre o una madre... Una persona dipendente vive unicamente per l'oggetto della sua dipendenza e attraverso di esso. Essere «dipendente» da una telenovela o da un videogioco da console può rivelarsi irrilevante per la maggior parte di noi, ma per altri significa trascorrere giorni e notti a guardare la televisione o a giocare, a scapito della vita sociale e affettiva. Non c'è più nulla che conti. Questo esempio, raro ma reale, mette in luce un elemento che distingue la dipendenza comune da quella comportamentale: il disinvestimento affettivo e sociale.

Nel tentativo di definire la dipendenza dobbiamo tenere presenti due elementi fondamentali: 1. non potere fare a meno di qualcosa (un prodotto) o non potere rinunciare a fare qualcosa (un comportamento), pena un certo disagio. Ciò non sarebbe però sufficiente a definire la dipendenza come malattia. Occorre un secondo elemento, di non lieve importanza; 2. il prodotto o il comportamento in questione diventa il centro dell'esistenza, niente ha valore al di fuori di questa «droga», rappresentata da un determinato videogioco, da una certa persona ecc.

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La biologia delle dipendenze

Per i neurofisiologi l'elemento che giustifica in modo determinante il raggruppamento di dipendenze diverse deriva dall'interdipendenza dei meccanismi cerebrali e dalla rilevanza degli «ormoni cerebrali» (secondo l'espressione di Jean-Didier Vincent). Qualunque sia il sito iniziale di azione di una droga, in effetti è ormai riconosciuta l'esistenza di una «via finale comune» della dipendenza: la via della dopamina e la sua modificazione. L'ipersensibilità acquisita dei circuiti dopaminergici rappresenterebbe la base fisiologica delle dipendenze di ogni tipo. Secondo un orientamento scientista e riduzionistico, numerosi autori (tra i quali Koob e Le Moal) postulano che le dipendenze sono delle «malattie croniche del cervello». Spesso gli individui predisposti alle dipendenze sarebbero alla «ricerca di sensazioni forti» a causa di un basso livello di reattività cerebrale che li costringerebbe a ricevere stimoli più potenti rispetto agli altri individui per ottenere una sensazione equivalente.

Se pur comprendiamo sempre meglio la struttura del cervello, sarebbe utopistico dedurre che il funzionamento cerebrale risulti ormai trasparente. Il cervello ha circa cento miliardi di neuroni disposti secondo circuiti estremamente complessi e tormentati, dato che ogni neurone è collegato molte volte ad altre cellule (neuroni, astrociti ecc.). Le cellule nervose, viventi ma determinate fin dalla nascita nel loro numero, adempiono una precisa funzione, quella di trasmettere le informazioni sotto forma di segnale elettrico finché un neurotrasmettitore incontra un neurone recettore. I circuiti cerebrali possono allora essere descritti molto grossolanamente come circuiti elettrici cablati lungo i quali circolano le informazioni. (Notiamo di sfuggita che nell'Otto e Novecento l'elettricità era considerata la spiegazione ultima del funzionamento dei meccanismi viventi).

All'immagine del «cervello cablato» è opportuno accostare quella non meno rilevante di un «cervello chimico». Il neurone, cellula fissa, funziona soltanto perché crea delle reti, o circuiti, con altri neuroni. La trasmissione dell'informazione tra neuroni si realizza per via chimica: specifiche molecole, i neurotrasmettitori, attivano o inibiscono i neuroni tra loro per mezzo delle sinapsi. In questi minuscoli spazi intercellulari, che separano il neurone (o neuroni) a monte (neurone presinaptico) da quello (o quelli) a valle (postsinaptico), sono rilasciate le molecole di neurotrasmettitori quando arriva la scarica elettrica proveniente dal neurone (o neuroni) presinaptico. Per essere efficaci i neurotrasmettitori rilasciati dal neurone (o neuroni) a monte devono essere compatibili con i recettori presenti sul neurone (o neuroni) postsinaptico. Ciò giustifica il paragone con una chiave e la sua serratura: se la chiave è quella giusta il neurone potrà trasmettere la scarica al neurone successivo. Questa trasmissione chimica è estremamente rapida: un neurotrasmettitore può dare luogo, in un secondo, a dieci liberazioni di vescicole in una sinapsi. Tra i neurotrasmettitori più noti citiamo la dopamina (ritenuta responsabile delle dipendenze), la serotonina, la noradrenalina e l'acetilcolina.

Una riflessione sull'azione delle droghe ha consentito, pochi decenni or sono, di compiere progressi decisivi nella comprensione del ruolo di alcuni neurotrasmettitori nella sfera del dolore e del piacere, e in particolare di isolare dei «circuiti di ricompensa» che rappresenterebbero i circuiti del piacere. In effetti era logico supporre, e tale ipotesi ha trovato conferma, che le sostanze psicoattive (che hanno un effetto sul cervello) si fissano sui siti cerebrali del piacere e del dolore e riproducono così l'azione di neuromediatori naturali. In tali siti - in particolare nelle zone «dopaminergiche» come il nucleus accumbens e le sue proiezioni verso la corteccia prefrontale - si fissano le molecole delle sostanze oppiacee. Gli effetti dell'eroina, come quelli dell'anestesia, noti da molto tempo in campo clinico, si vedono così confermati dalla realtà biologica.

Le droghe probabilmente fungono da chiavi per i recettori del cervello attivando o inibendo taluni recettori in maniera esogena. Partendo dal principio che questi siti cerebrali e questi recettori non esistano soltanto in attesa che l'individuo assuma delle droghe, era logico cercare i neurotrasmettitori che, in natura, presiedono al loro utilizzo. Secrete dal sistema nervoso, tali sostanze (dette anche «ormoni cerebrali») sono presenti nell'organismo e sono attive in quantità molto esigua, ragione che spiega la difficoltà a reperirle e isolarle. Esse sono coinvolte in regolazioni molto diverse quali la motilità intestinale, la pressione arteriosa, la trasmissione del dolore e la sua percezione.

A partire dalla seconda metà degli anni settanta del Novecento fu posta in evidenza la fissazione preferenziale dell'oppio e della morfina su determinate parti del sistema nervoso (siti cerebrali come il nucleus accumbens o circuiti come quelli dopaminergici). Poiché l'iniezione di morfina non è una pratica diffusa tra gli esseri umani, i ricercatori ritennero che questi siti dovessero avere un'utilità ed essere, in natura, stimolati da sostanze endogene. I recettori sono peraltro implicati nella trasmissione del dolore e nelle emozioni. Si è così scoperto che il cervello produceva morfine endogene, le endorfine. Le endorfine, o encefaline, si legano ai recettori sensibili, limitando naturalmente la trasmissione del dolore, ma regolando anche le emozioni, giacché i recettori sono presenti nelle zone cerebrali deputate a questo tipo di regolazione (sistema limbico). Accanto ai meccanismi del dolore e del piacere esistono quelli della vigilanza (con i quali interferiscono gli eccitanti, come le anfetamine e la cocaina), quelli della regolazione dell'umore e indubbiamente i meccanismi dell'attesa, dell'attenzione e della preparazione psicologica a un evento pericoloso o piacevole.

I neurofisiologi isolano i circuiti in funzione dei tipi di neurotrasmettitori: circuiti dopaminergici (che entrano in gioco nel piacere, nell'attesa e nell'attenzione), serotoninergici (nelle depressioni), adrenergici (nella vigilanza e nello stress); le case farmaceutiche cercano di produrre molecole in grado di agire in modo sempre più selettivo su un determinato circuito. Tuttavia è pressoché impossibile ottenere un'azione «pura», dato che spesso ogni sostanza agisce su più circuiti insieme. Esistono dei meccanismi di regolazione grazie ai quali le modificazioni indotte su un dato circuito hanno ripercussioni sul funzionamento del cervello nel suo insieme.

La neuromodulazione che ci interessa riguarda l'1 per cento dei neuroni. I neurotrasmettitori in gioco sono la noradrenalina, la serotonina e la dopamina. La neuromodulazione concerne la reattività dell'organismo rispetto all'esterno - tensione o rilassamento, attesa e attenzione, sensazioni di pericolo o di piacere - e la sua azione è diffusa e non sempre si limita a circuiti ben differenziati sul piano anatomico.

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Il gioco, una necessità sociale


Per il gioco vale ciò che è vero per tutte le dipendenze, siano esse amorose o sessuali: è indispensabile conoscerne i ruoli e le funzioni «normali», sia sul piano sociale sia su quello individuale, per capire il fenomeno della dipendenza. In una prospettiva sociologica è opportuno insistere sul fatto che la maggior parte dei giocatori - che si tratti di gioco d'azzardo, di videogiochi o di giochi di ruolo - non sono né patologici né problematici. Lo stesso gioco d'azzardo, che può dare luogo a una malattia di dipendenza ufficialmente classificata, rientra innanzi tutto nel novero delle attività ricreative e rappresenta un'attività necessaria tanto per l'equilibrio sociale quanto per quello psicologico degli individui.

Roger Caillois, autore del volume I giochi e gli uomini: la maschera e la vertigine, che ha ampiamente contribuito a fare del gioco materia degna delle ricerche più serie in campo sociologico, considera i giochi apparentemente disordinati dei bambini insieme ai giochi regolati degli adulti, tra i quali i giochi d'azzardo ecc. Ebbene Caillois propone del gioco una definizione divenuta ormai un riferimento consolidato anche per i ricercatori di altre discipline che lavorano sull'argomento. Si tratta di un'attività:

- libera e volontaria, fonte di gioia e divertimento;

- separata e accuratamente isolata dal resto dell'esistenza, generalmente svolta entro precisi limiti di tempo e di spazio;

- incerta;

- dotata di regole precise, arbitrarie, irrecusabili (nei giochi di finzione, non regolati, il «come se» funge da regola);

- fittizia, cioè accompagnata da una specifica consapevolezza di realtà parallela (gioco di finzione e gioco regolato sono in qualche modo due categorie che si escludono a vicenda);

- improduttiva: questa connotazione tiene conto dell'esistenza della posta, delle scommesse, dei pronostici, in breve dei giochi d'azzardo, ma secondo l'autore una semplice transazione finanziaria tra giocatori all'interno dello stesso ambiente non equivale alla produzione.


Per Caillois e i sociologi, ma anche per Freud e gli psicoanalisti, il gioco non si contrappone alla serietà quanto piuttosto alla realtà. Il gioco è un'«altra scena», dotata di un tempo e di uno spazio propri, in cui il soggetto si sottrae ai vincoli del principio di realtà. In termini sociologici, quindi, la realtà che si contrappone al gioco è quella delle costrizioni imposte dal lavoro e dalle gerarchie, dalla famiglia e dalle responsabilità. Troppo spesso però si confonde il gioco con la futilità, la facilità, la pura e semplice distrazione, bollandolo con una connotazione negativa che rievoca il «divertimento» pascaliano. Eppure chi gioca lo fa con grande serietà e concentrazione, e molte attività ludiche richiedono sforzi e capacità paragonabili a quelli necessari per praticare alcune attività sportive o certi mestieri.

L'immagine di leggerezza spiega senz'altro perché in Francia il gioco patologico, anche nella sua forma più conosciuta di dipendenza dai giochi d'azzardo, non sia tuttora considerato come una malattia in senso proprio. Un numero troppo esiguo di organi decisionali istituzionali e di uomini politici immagina che il gioco possa costituire una posta in gioco molto alta per la sanità pubblica. In termini di rappresentazione sociale gli studiosi della materia, indipendentemente dal loro ambito di ricerca (sia esso storico, sociologico o psicologico), sono più o meno assimilati al loro oggetto di studio e necessariamente passano per individui divertenti ed estrosi...

Caillois propone una classificazione dei giochi molto nota, che viene utilizzata in tutte le discipline che affrontano la questione (sociologia, economia, psicologia ecc.):

L' agon (termine greco che significa lotta, combattimento) rappresenta l'ambito dei giochi competitivi.

La mimicry (termine inglese che designa il mimo, il camuffamento, il teatro ecc.) è la discriminante dei giochi di ruolo e di imitazione.

L' ilinx (termine greco per designare il vortice) identifica i giochi di vertigine, di sensazione pura.

L' alea (termine latino che designa la «sorte» dei romani) è il campo dei giochi d'azzardo, cioè i giochi con finalità di guadagno.


Tra gioco e realtà sociale sussiste un nesso molto particolare di esclusione reciproca: in sostanza il gioco si contrappone alla realtà sociale come il sacro si contrappone al profano. Sempre secondo Caillois, se il gioco esce dalla sua cornice e tracima nella realtà, produce delle forme derivate che egli definisce «degenerazioni» del gioco e che, se considerate in un'ottica medica o psicologica, possono causare delle patologie, o meglio delle dipendenze. In questo senso è legittimo chiedersi se l'ebbrezza, cioè la vertigine ricercata nell'assunzione di sostanze stupefacenti o di alcol (forme paradigmatiche della dipendenza), non riguardi una degenerazione dell' ilinx, oppure se le forme di dipendenza dai video giochi non siano correlate alla degenerazione della mimicry, che produrrebbe una confusione tra il personaggio mimato e la persona reale, anziché alla degenerazione dell' agon, diffusa nella società attraverso tutte le forme di competizione inutile (tuttavia l'eccesso di competitività si ritrova nella genesi di alcune forme di dipendenza dai giochi di strategia che contemplano delle classifiche).

Allorché si affronta la questione della dipendenza è opportuno insistere sulla definizione di Caillois, secondo la quale la libertà è un elemento costitutivo della pratica del gioco. Il giocatore può e deve fermarsi quando lo desidera, uscendo agevolmente dallo spazio ludico per reintegrare, non appena necessario, quello della realtà. Una costrizione ludica (l'impossibilità di non giocare), come quella descritta in alcuni casi di patologia infantile, o una produzione fantasmatica incontrollata (la difficoltà o l'impossibilità di porre fine alle fantasticherie), che non può essere arrestata su decisione del soggetto, non appartengono all'ambito del gioco «autentico» delineato da Caillois.

La passione del gioco è eccesso e dismisura nella funzione del gioco normale e indispensabile, che si tratti dei giochi infantili o delle attività ricreative degli adulti. L'impossibilità di fermarsi spontaneamente è quindi ciò che definisce la dipendenza: l'instaurarsi di una dipendenza dal gioco, in tutte le sue forme, segna la fine del gioco.

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7. Trattare la sofferenza


Molti libri destinati al grande pubblico si propongono di fornire delle ricette per restare in buona salute, trovare la felicità, curare delle malattie, dimagrire o «trovare se stessi», «realizzarsi» attraverso diverse discipline o metodi di risveglio spirituale. Senza dubbio concepite e pubblicate con le intenzioni più lodevoli, queste opere di psicologia divulgativa hanno avuto il grande merito di offrire ad alcune persone gli strumenti per evidenziare le cause della sofferenza che nascondevano a se stessi, e di dimostrare alle donne vittime di violenza e agli uomini alla costante e compulsiva ricerca di sessualità, per esempio, che non erano i soli a patire simili comportamenti. Spesso però queste «guide» contribuiscono a creare - tanto quanto a guarire - le malattie che pretendono di evitare. Il rischio di aggravare dei problemi e di trasformare in malattia quel che spesso è soltanto una particolarità o un momento esistenziale è reale.

Lo sviluppo di forme di trattamento delle sofferenze psichiche alternative a quelle «ufficiali» dimostra che la psichiatria istituzionale gode di una cattiva immagine, che la psicoanalisi si è eccessivamente arroccata nel dogmatismo e che gli specialisti si invischiano in inutili beghe. Tuttavia lo screditamento dei discorsi ufficiali non dovrebbe giustificare ogni genere di programma di recupero di natura settaria o igienista. Se le diete, le discipline di vita o di risveglio spirituale curassero le malattie, basterebbe abbandonare la medicina e fare della morale. In generale, è più sano pensare che nessuna malattia sia «giusta» o «meritata»: i fumatori non cercano di avere un cancro. In compenso, sono coinvolti nel loro tabagismo, sebbene i meccanismi della dipendenza operino in modo tale che non sia semplice smettere, compreso quando lo si è deciso o si crede di averlo deciso.

Il campo delle dipendenze è particolarmente vulnerabile a tutte queste obiezioni, dato il posto molto peculiare, fortemente determinato dalla cultura e dalla storia, delle «malattie» esaminate, cioè dei comportamenti più o meno adottati dal soggetto, talvolta negati talaltra rivendicati.

Concetti come quelli di dipendenza dalla relazione o dipendenza sessuale, a nostro parere, meritano di essere studiati o riconosciuti. Lo stesso vale per la dipendenza dal gioco, di cui non dobbiamo più dimostrare l'esistenza, ma che oggi, con i videogiochi, assume forme nuove nei ragazzi e negli adulti. Tuttavia, perché le malattie di dipendenza siano riconosciute dalla società e al suo interno, è innanzi tutto necessario che le persone che ne soffrono accettino di considerarsi «malate». Negli Stati Uniti questa tendenza è talmente diffusa che ogni nuovo fenomeno di dipendenza origina un gruppo di mutuo soccorso su modello degli Alcolisti Anonimi, che si prefigge come compito ultimo quello di individuare e soccorrere chiunque possa avere analoghe difficoltà. Ai legami che uniscono il soggetto al suo oggetto di dipendenza tali gruppi cercano di sostituire altre forme di legame e di socializzazione, che a volte rivestono la forma di una «religione privata» e diventano una risposta alle sofferenze.

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