Copertina
Autore Fabio Vander
Titolo Kant, Schmitt e la guerra preventiva
SottotitoloDiritto e politica nell'epoca del conflitto globale
Edizionemanifestolibri, Roma, 2004, Le esche 30 , pag. 112, cop.fle., dim. 120x170x8 mm , Isbn 978-88-7285-409-9
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe diritto , politica , guerra-pace , filosofia
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Indice


Introduzione                                 9

La politica oltre la guerra: Immanuel Kant  33

La guerra oltre la politica:
le troppe "sorprese" di Carl Schmitt        43

Thomas Hobbes e la "Strategia per la
sicurezza nazionale" del Presidente Bush    63

Indice dei nomi                            109


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



La filosofia è sempre filosofia contemporanea.

Questo saggio è in primis un confronto fra due classici: il teorico della modernità politica, Immanuel Kant e quello della sua crisi, Carl Schmitt, fatti reagire direttamente con i problemi dell'oggi, le res gestae globali di questo inizio di millennio. Un pensiero della realtà che non la insegue, ma la costringe alle proprie domande nel mentre la mette in prospettiva, verificando così la validità della teoria insieme alla necessità per cui la realtà è quella che è.

Un dialogo fra storia e pensiero tanto più urgente di fronte a quell'autentico evento originario del terzo millennio che passa sotto il nome di «september eleventh». Come ha scritto Jacques Derrida «senza dubbio un tale 'evento' richiede una risposta filosofica. O meglio, una risposta che rimetta in questione, nei fondamenti, i presupposti concettuali più essenziali del discorso filosofico».

E in effetti c'è stata una ripresa di riflessione teorica, che ha investito tanto i fondamenti della politica e del diritto, quanto la storia del pensiero, la genealogia dei fenomeni oggi prevalenti. Emanuele Severino ha notato che se secondo Tommaso il cristianesimo derivava dalla filosofia classica e segnatamente da Aristotele, Avicenna diceva lo stesso della religione musulmana; dunque cristianesimo e islam - le religioni oggi più soggette a fenomeni di radicalizzazione anche politica - medesimamente affondano le loro «radici» nella «filosofia greca». Secondo Derrida invece il «paradigma democratico», già avviato a definizione da Platone, Aristotele e il neoplatonismo, «si trasferisce, si traduce in Europa attraverso l'arabo pre- e postcoranico, così come attraverso Roma». In altre parole «la mediazione islamica della filosofia greca» (Derrida pensa in particolare ad Averroè) costituisce uno dei pilastri della nostra modernità politica; per la verità in positivo come in negativo, perché poi la cultura politica araba ha di regola preferito alla Politica di Aristotele, più democratica, il «filosofo-re o monarca assoluto» della Repubblica di Platone.

Un'impostazione, quella di Derrida, condivisa da Amartya Sen, secondo il quale la democrazia ha una «storia globale», non è un'esclusiva del solo Occidente, basti considerare i «legami intellettuali dei greci con gli antichi egizi, gli iranici e gli indiani» e il fatto che sin dall'antichità «alcune delle principali città dell'Asia, in Iran, in Battriana e in India, incorporarono elementi democratici nel loro tipo di governo, in larga misura per influenza greca».

Alcune prime importanti indicazioni di metodo: avviare la ricerca rinunciando a manicheismi e a contrapposizioni di «civiltà» che non possono che alimentare conflitti ed esiziali presunzioni di superiorità, appunto perché la democrazia ha una storia e una prospettiva non meramente occidentali; così come, per altro verso, l'anti-democrazia e il totalitarismo non sono esclusive di «stati canaglia» o culture barbare.

Il saggista tedesco Götz Aly ha ricordato come il fondamentalismo islamico (e segnatamente l'ideologia di Bin Laden) abbia profondi punti di contatto con le dottrine europee che furono alla base del totalitarismo novecentesco. La vocazione al sacrificio e al massacro dei nemici, così tipica del terrorismo fondamentalista, presuppone un «nucleo fondamentale» che non è «niente di estraneo, di incomprensibile» alla nostra cultura europea; lo abbiamo sperimentato nei momenti di svolta e nei periodi di terrore più tipici del '900.

Già prima del 1914, dice Aly richiamando Hannah Arendt, si era diffuso, tramite ad esempio movimenti come il «panslavismo» e il «pangermanesimo», un «borioso pseudo-misticismo» che si rivoltava contro il mondo moderno, il razionalismo, il materialismo, gli idoli posticci e corruttori della vita borghese, ecc. Per capire la «Weltanschauung» di Bin Laden, sostiene Aly, più che leggere il Corano occorre leggere «gli scritti di Ernst Jünger», le cui estetizzanti invettive contro la repubblica di Weimar sono del tutto simili agli strali di Bin Laden contro i paesi arabi moderati «pronti al compromesso». Per la cultura fondamentalista come per quella europea totalitaria il «nemico» è sempre corrotto, sfruttatore, totale, autentica «Hassfigur», figura degna di odio, la cui «putrefazione» può essere solo fonte di «piacere».

Tesi confermata anche da John Gray, pensatore inglese della scuola di Isaiah Berlin, secondo il quale per quanto i «fondatori» di Al Qaeda si presentino come «i rappresentanti di una tradizione indigena», in verità «hanno reinterpretato l'islam alla luce del pensiero occidentale contemporaneo»; nella forma organizzativa centrata su un'avanguardia, Gray vede «legami con l'ideologia bolscevica», mentre l'«attacco al razionalismo contiene echi di Nietzsche». Specularmente esiste un'apocalittica occidentale che si sbaglierebbe a considerare scomparsa con il medioevo; proprio oggi negli Stati Uniti «il Partito Repubblicano deve molto - specialmente in termini di fondi - ai gruppi fondamentalisti cristiani. Parte della spinta a riformare il Medio Oriente viene dalla convinzione dei fondamentalisti cristiani che una conflagrazione enorme realizzerà le profezie bibliche di un conflitto catastrofico nella regione. Nella misura in cui riflette questo tipo di pensiero, la politica estera americana è essa stessa fondamentalista».

Una seconda importante indicazione di metodo: i problemi del presente sembrano rimandare ad un'anima scura dell'Occidente come dell'Oriente che, per nulla scongiurata dalla fine dei totalitarismi novecenteschi, sembra oggi trovare nuovi alimenti e nuove forme di manifestazione apocalittiche e messianiche.

L'epoca dei totalitarismi non è finita con il 1989.

In questo senso alla filosofia spetta oggi di porre a tema «il problema del rapporto (a cui non si presta ancora attenzione) tra la tecnica, di cui anche l'islam si serve, e lo sviluppo che ha portato il pensiero filosofico dalla teologia greca al nichilismo contemporaneo», cioè alla distruzione di tutti i «valori», di tutti gli «scopi», di ogni senso del divenire, ridotto a caos in cui l'unica legge è quella del più forte. L'età della tecnica e il nichilismo moderno e contemporaneo sono inintelligibili senza partire da una prospettiva di lungo momento, consapevole delle scansioni decisive della storia della filosofia.

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Ecco subito il problema di oggi: come passare dalla morsa fra «hyperpuissance» americana e «iperterrorismo», ad un assetto civile delle relazioni internazionali?

Kant senza dubbio presuppone l'originarietà del bellum omnium contra omnes, dove gli stati «sono naturalmente in uno stato non giuridico [c.m.] (come dei selvaggi senza legge)» e dove regna «il diritto del più forte», cioè il diritto del non-diritto. Ciò detto, così è formulato il problema capitale: come rendere legale uno stato che è «in sé estremamente ingiusto»? e che è tale anche qualora non ci sia in actu una guerra o l'aggressione manu militari di uno sull'altro? Kant sa bene - lo abbiamo visto già nella citazione dalla Pace perpetua - che bellum manet anche quando pugna cessat e che proprio questa ostilità immanente allo «stato di natura» rende gli stati «costretti ad uscirne», ma sa anche che per uscire dalla summa injuria di questa condizione, come notava sempre nella Pace perpetua, «è necessario fondare una federazione secondo l'idea di un contratto sociale originario».

Solo un espresso patto politico porta oltre la «guerra infinita» ovvero oltre il Naturzustande. Questo patto originario fonda poi lo «jus publicum civitatum», una condizione di parità fra gli stati che per altro non abbisogna affatto di un potere superiore internazionale, né di un 'superstato' egemone. Già nella Pace perpetua aveva scritto che una unione di stati è meglio sia della guerra continua dello «stato di natura», sia della «loro fusione ad opera di una potenza che si sovrapponga alle altre e si trasformi in una monarchia universale [Universalmonarchie]».

Resta vero poi che anche nella condizione di legalità, interna e internazionale, sarà possibile la «guerra» (ché Kant non è un utopista), ma sempre in un quadro giuridico e di garanzie, mai come atto dispotico, come «esecuzione arbitraria da parte dello Stato delle leggi che esso stesso ha dato» (tipico atto dispotico è infatti l'arrogarsi la potestà legislativa da parte dell'esecutivo, esautorando il parlamento). In altre parole lo stato potrà solo dare esecuzione ad una dichiarazione di guerra non decisa dall' esecutivo, ma dal legislativo, espressione diretta della sovranità popolare.

Dunque la rifondazione della politica (dopo la guerra «continua») deve intanto partire dalla separazione dei poteri e poi dal riconoscimento dei diritti del «cittadino», che non è soltanto un «mezzo» ma «nello stesso tempo un fine in sé». Perciò egli, «come membro del potere legislativo», deve sempre intervenire nella decisione politica, deve cioè «potere, per mezzo dei suoi rappresentanti, dare la propria libera approvazione non soltanto per la guerra, ma ancora per ogni dichiarazione di guerra in particolare».

Questa è, letteralmente, democrazia, cioè potere del popolo e solo «sotto questa condizione, che ne limita il potere [c.m.], lo Stato può esigere dal cittadino un servizio così pericoloso come il servizio militare».

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Come visto Kant era stato chiaro nel precisare che lo «stato di natura è esso stesso uno stato d'ingiustizia», è ingiusto come tale, perciò «è uno stato da cui si deve uscire per entrare in uno stato legale», il che in primis significa individuare ed eliminare il «nemico ingiusto».

Invece lo «stato di natura» de-naturalizzato di Schmitt, con la pretesa di salvare guerra e sopraffazione ma senza «nemico ingiusto», è semplicemente aporetico. La sua critica dell'ideologia è ideologica (infatti per eliminare il «nemico ingiusto» non basta definirlo «giusto» d'ufficio, così si può solo 'normalizzare' il nazismo).

Mentre Kant fonda la politica dopo la guerra, Schmitt fonda la guerra (totale) come unica alternativa alla crisi della politica. Non «la politica oltre lo stato», ma il nazismo, cioè l'anti-politica, l' homo homini lupus (e senza che si possa neanche chiamare lupo il lupo), oltre la politica.

Schmitt, ripeto, mistifica il senso della fondazione della politica moderna operata da Kant, al punto da considerarlo il primo artefice della «soppressione normativistica del diritto internazionale interstatale europeo». In pratica la crisi dello «jus publicum Europaeum» comincerebbe con Kant, il suo astratto «normativismo» ovvero la sua astratta morale, autorizzerebbero differenze ideologiche («giusto», «ingiusto», ecc.) fra gli stati, che sarebbero divenute tipiche dei totalitarismi novecenteschi e che invece erano state negate dai primi giuristi moderni, dai quali «la questione del bellum justum viene nettamente distinta da quella della justa causa», cioè dalle motivazioni ideologiche che possono muovere uno stato alla guerra. Un atteggiamento «relativistico e agnostico», pseudo-oggettivo, che l'anti-razionalista e decisionista Schmitt accetta pro domo sua, perché gli serve appunto per ribadire che il concetto proto-moderno (ovvero pre-kantiano) di guerra «non discrimina più tra i belligeranti a seconda del diritto o del torto insiti nella causa della guerra»; dove il concetto-chiave è: «non discriminante».

Dunque: tornare a prima di Kant per liberarsi dalle ideologie moderne (rectius dalla modernità come ideologia) e così tornare ai 'bei tempi' della pari dignità fra gli stati.

Ma la guerra è sempre stata «discriminante». In tutti i giuristi che Schmitt presenta come teorici della guerra ideologicamente «agnostica», da Baltasar Ayala, a Grozio e Vattel, in verità l'elemento discriminante (ideologico, religioso, ecc.) era indubitabilmente centrale, tanto che Schmitt li accusa di «confusione»; anche l'innegabile eccezione della «guerra giusta» (cioè ideologizzata) di tutta Europa contro il 'reprobo' Napoleone viene relativizzata con riferimento alla «restaurazione» (che per altro si ammette durò fino alla prima guerra mondiale), che avrebbe ricondotto il continente alla normalità (cioè alla mancanza di discriminazioni, che sarebbero tornate nel '900 per colpa di americani e sovietici).

La verità è che Schmitt - mettendo seriamente a rischio la sua credibilità - cerca di porre il diritto e la storia moderna sul letto di Procuste del suo progetto ideologico (inventandosi una modernità «agnostica», tradita dalla discriminazione contro la Germania).

Lo stesso destino tocca a Kant, che abbiamo visto accusato di «confusione» proprio come Grozio e Vattel. Lo scandalo riguarderebbe una volta di più il suo concetto di «nemico ingiusto» (autentica ossessione di Schmitt) che sarebbe tutto centrato su motivi ideologici, sull'accusa criminalizzante rivolta al nemico, considerato portatore di «cause» indegne, di un'ideologia inumana, ecc. In un passo molto intenso Schmitt scrive: «una guerra preventiva [Präventivkrieg] contro un simile nemico sarebbe ancor più di una guerra giusta. Sarebbe una crociata [Kreuzzug]». La somiglianza con i problemi di oggi è effettivamente sconcertante; i termini sono gli stessi: «guerra preventiva», «guerra giusta», «crociata», per non dire della criminalizzazione del nemico. Solo che Schmitt incredibilmente attribuisce la responsabilità (di aver riproposto le discriminazioni ideologiche) a Kant, quando invece l'atteggiamento criminalizzante è irrefutabilmente dei totalitarismi (con le insidiose odierne propaggini).

«Guerra preventiva» e «crociata» sono estranee alla modernità politica, al contrario sono peculiari dei suoi nemici: ieri i nazisti, oggi i terroristi fondamentlaisti e quella parte dell'Occidente che da sempre tradisce il suo senso più proprio.

Accade quando al cospetto dei cosiddetti «stati-canaglia» si teorizza non solo la «guerra giusta», ma anche un diritto di reazione che addirittura «non ha limiti», cioè massimamente arbitrario. Non aver limiti significa infatti che la guerra è legittima anche in quanto «preventiva», cioè anche prima che l'aborrito nemico abbia materialmente compiuto atti contro di noi. E una guerra simile può ben essere definita una «crociata»; come effettivamente disse nel 2001, dopo gli attentati terroristici alle Twin Towers e al Pentagono, il Presidente americano George W. Bush (affermazione poi corretta, per non inimicarsi i paesi arabi moderati) e a più riprese il capo terrorista Osama Bin Laden, che ha definito gli anglo-americani impegnati in Iraq «crociati infedeli». Del resto, al di là della propaganda, è stato notato che l'odierna war to terrorism presuppone uno scenario che «ricorda quello delle crociate, ai tempi in cui la cristianità occidentale si ribellò all'egemonia dell'Islam. Dietro al conflitto di religione, le crociate furono promosse e sostenute da forze economiche che permisero all'Occidente di far arretrare l'Islam e cominciare la propria marcia verso l'egemonia mondiale». E quella di oggi altro non è che una nuova crociata per l'egemonia mondiale.

Dunque aveva ragione Schmitt a dire così? La profondità del suo sguardo profetico non è in discussione, l'errore è però, ripeto, nel considerare Kant l'anticipatore di questa tendenza (da Hitler a Osama), laddove invece ne è il negatore più tempestivo, colui che già sul finire del '700 intuiva cosa sarebbe successo se dallo «stato di natura» non si fosse trovato il modo di «uscire», ritornando alla politica.

Schmitt realizza un esiziale rovesciamento. Qualcosa che colpisce al cuore l'essenza della politica moderna, garantendo un futuro all'impolitico totalitario anche dopo il 1989. La sua liquidazione di Kant - centrata sul fatto che le modalità di individuazione del «nemico ingiusto» sarebbero ideologiche e arbitrarie - è non solo sbagliata sul piano scientifico, ma pericolosa su quello pratico, teorico e culturale.

Se si vuole davvero contrastare la «guerra preventiva» occorre trovare l'antidoto proprio in Kant, nella politica classica. Fuori di questa prospettiva c'è solo la degenerazione dell'Occidente, il prevalere della sua anima nera: anti-politica, anti-razionale, anti-umanistica. E di questa Schmitt è sicuramente il più insidioso e più consapevole teorico.

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Anche per lo stato maggiore americano è chiaro che «military alone» non può bastare («tanto che non si può parlare di vittoria in Iraq») e che occorrono sforzi «anche sui fronti politici ed economici». Un generale non può dire più che questo, ma i termini di fondo sono incontrovertibili: occorre ripensare il rapporto fra guerra e politica. Si tratta sicuramente di una frattura entro l'ideologia neocons, mentre torna al centro il problema classico della politica.

E proprio questo problema abbiamo cercato di tenere fermo in questo saggio, ragionando della possibilità di un'alternativa alla via militare, verso quella che Ralf Dahrendorf ha chiamato «Innenweltpolitik», una politica interna del mondo che, distinta da quella di ogni singolo stato e dalla stessa politica internazionale classica, appannaggio dei soli stati nazionali, veda invece coinvolti una pluralità di soggetti: dalle istituzioni internazionali, alle unioni regionali, alle organizzazioni non-governative, all'opinione pubblica. Al riguardo Guido Rossi ha notato che la crisi del diritto pubblico moderno richiede, parafrasando Schmitt, un «nomos globale etico» oggi interpretato in prima istanza da «movimenti» e «organizzazioni non governative». Tutto ciò indubbiamente va poi strutturato politicamente, «la sfida è verso la creazione di nuove norme che regolamentino anche le frange negative della globalizzazione rappresentate in primo luogo dal terrorismo». Ebbene al fine di saldare in modo nuovo valori e politica, conclude significativamente Rossi, «non conosco percorso diverso da quello indicato da Kant 'per la pace perpetua'».

E invece oggi insieme alla pace è in crisi la civiltà stessa del diritto. La legislazione speciale statunitense contro il terrorismo sembra precisamente comportare «una trasformazione epocale del concetto di legittima difesa, riportato ad uno stadio pregiuridico», dove il processo penale non è più teso all'accertamento delle responsabilità, con tutte le garanzie connesse, ma alla mera coercizione del nemico perché fornisca informazioni e collaborazione. Il caso di Guantanamo, cioè dei detenuti talebani e fondamentalisti detenuti dagli Stati Uniti in condizioni di mera afflizione, al di fuori di ogni tutela e diritto riconosciuto, è la riprova più patente della «regressione nella definizione e risoluzione dei conflitti, da una dimensione giuridica ad una pregiuridica», mentre abbiamo visto come secondo Gray, con la guerra al terrorismo «gli Stati Uniti e altri regimi liberali si stanno trasformando in Stati di sorveglianza hobbesiani».

Del resto l'allarme viene dagli stessi Stati Uniti. Uno dei maggiori leaders democratici, il già candidato Presidente Al Gore, ha sostenuto in un discorso alla American Constitution Society, che oggi in America «Democracy Itself is in Grave Danger». E la crisi dipende proprio dalla gran quantità di potere che il Presidente Bush ha assunto su di sé da quando ha enfatizzato il suo ruolo di «Comandante in capo», con conseguente alterazione della «careful balance between the executive, the legislative and the judicial branches of governement». Tutti questi stravolgimenti degli equilibri democratici derivano direttamente dal fatto che Bush ha dichiarato l'America «in a permanent state of war», al che Gore ha obiettato che in verità «la sfida maggiore per la nostra democrazia non è il terrorismo ma il modo in cui noi rispondiamo al terrorismo, non la guerra, ma come noi gestiamo le nostre paure e come perseguiamo la sicurezza senza perdere la nostra libertà».

E prova di questo «grave pericolo» per la democrazia e il diritto, sono proprio le torture perpetrate a Guantanamo come in Iraq; Gore denuncia senz'altro «atrocities», «war crimes», «legal monstrosity», arriva anzi a parlare di «Bush Gulag»; aberrazioni inevitabili quando si abbandona il concetto di guerra come «lawful violence», violenza legittima, per la massima «the best law is no law».

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