Autore Ann VanderMeer
CoautoreAA. VV.
Titolo Le visionarie
SottotitoloFantascienza, fantasy, e femminismo: un'antologia
EdizioneNero, Roma, 2019, Not 02 , pag. 536, cop.fle., dim. 14x22x3,4 cm , Isbn 978-88-8056-007-4
OriginaleSisters of the Revolution [2015]
CuratoreAnn VanderMeer, Jeff VanderMeer, Claudia Durastanti, Veronica Raimo
TraduttoreE. Carbè, al., C. Verrienti
LettoreAngela Razzini, 2021
Classe fantascienza , fantasy , femminismo












 

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Indice


Introduzione                                    7
Ann e Jeff VanderMeer


Le parole proibite di Margaret A.              13
L. Timmel Duchamp

Le mie mutandine di flanella                   41
Leonora Carrington

Le madri di Shark Island                       47
Kit Reed

La bandita delle palme                         63
Nnedi Okorafor

Le cinque figlie della grammatologa            69
Eleanor Arnason

E Salomè danzò                                 83
Kelley Eskridge

La sposa perfetta                             101
Angélica Gorodischer

Il trucco della bottiglia                     107
Nalo Hopkinson

Le lacrime della madre                        127
Leena Krohn

La soluzione della mosca                      133
James Tiptree Jr.

Le sette perdite di na Re                     165
Rose Lemberg

La sera, il giorno e la notte                 171
Ottavia E. Butler

Il sonno delle piante                         205
Anne Richter

Gli uomini che vivono negli alberi            215
Kelly Barnhill

Racconti dal seno                             247
Hiromi Gota

L'ascia omicida di Fall River                 259
Angela Carter

L'amore e il sesso tra gli invertebrati       287
Pat Murphy

Quando cambiò                                 303
Joanna Russ

La donna che si credeva un pianeta            315
Vandana Singh

Jestella                                      333
Susan Palwick

I ragazzi                                     363
Carol Emshwiller

Strategie stabili per manager di fascia media 383
Eileen Gunn

La regina mangia la torre                     401
Tanith Lee

Zie                                           425
Karin Tidbeck

Sur                                           435
Ursula K. Le Guin

Paure                                         457
Pamela Sargent

Deviazioni nel cammino verso il nulla         475
Rachel Swirsky

Tredici modi di concepire lo spazio-tempo     483
Catherynne M. Valente

Casa sul mare                                 501
Élisabeth Vonarburg


Postfazione                                   523
Le traduttrici                                533


 

 

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Pagina 7

Introduzione
di Ann e Jeff VanderMeer



Alcune antologie definiscono un canone. Altre sono raccolte preziose o compendi vasti e articolati. Altre ancora, come nel caso di Le visionarie, rappresentano il contributo a una conversazione in costante divenire. Per decenni gli editor hanno proposto antologie che catturassero la potenza della speculative fiction femminista che, attraverso la costruzione di mondi alternativi, ha spesso adottato uno sguardo critico sulla politica, la storia, la filosofia, la scienza, il modo in cui i personaggi creano un mondo e cercano di conferirgli un senso. Il compito si è fatto man mano più arduo con l'incremento del materiale disponibile: sia opere sottovalutate al momento della pubblicazione, sia opere disponibili in lingua inglese grazie a una traduzione. Sembra quasi di assistere a un viaggio nel tempo, laddove i contorni di una corrente o di un periodo passato vanno definendosi con sempre maggior chiarezza.

Il nostro contributo a questa conversazione prende in considerazione la grande fioritura di speculative fiction femminista che va da fine anni Sessanta a tutti gli anni Settanta, quella che ha gettato le basi per una narrativa contemporanea di questo tipo, sempre più ricca e variegata grazie all'apporto di tantissime scrittrici straordinarie, in grado di trasformare una volta per tutte la fantascienza e il fantasy.

Il modo in cui queste donne - Sheldon, Russ e molte altre - sono entrate in dialogo con la comunità fantascientifica ha anche mutato la percezione del pubblico. Sono scrittrici che hanno contribuito a inaugurare uno spazio creativo che ha spinto sempre più donne a prendere in considerazione l'idea di scrivere fantascienza. Non sorprende che questo periodo di grande vivacità coincida approssimativamente con la fioritura del movimento letterario conosciuto come New Wave, che ha creato un suo territorio peculiare in cui campionare sperimentazione e valore letterario. La speculative fiction femminista e la fantascienza new wave hanno spesso condiviso gli stessi interessi e curiosità, e nel sottoinsieme della loro convergenza hanno rappresentato qualcosa di davvero nuovo e differente.

I due decenni successivi possono considerarsi un periodo in cui alcune spinte concorrenziali hanno cercato di promuovere idee contrastanti su cosa sarebbe potuta essere la fantascienza: una sorta di trinceramento e di conservatorismo che si misurava con il tentativo di riedificare gli sfarzi degli anni Settanta. L'ascesa di un umanesimo di stampo prevalentemente statunitense era forse troppo moderato per essere considerato particolarmente progressista o conservatore, mentre l'infusione del cyberpunk ha consentito ad alcune scrittrici una maggior libertà, ma al tempo stesso, almeno agli inizi, questo non poteva essere considerato come uno spazio per la creazione di una narrativa femminista. Si tratta di contraddizioni molti interessanti che appartengono a un periodo che precede sia l'ascesa della terza ondata di femminismo nella comunità fantascientifica, sia quello che ci sembra oggi un attuale rinascimento della speculative fiction femminista.

[...]

Per tutte queste ragioni, vogliamo che quest'antologia sia una sorta di guida introduttiva, il cui contributo specifico è una riconciliazione parziale tra scrittrici di genere e scrittrici più tradizionali, dando spazio, allo stesso tempo, ad autrici che di solito non entrano a far parte di raccolte di questo tipo.

Abbiamo organizzato i contenuti di Le visionarie con un occhio di riguardo verso il modo in cui le storie dialogano tra loro, invece di seguire un ordine cronologico.

Siamo convinti che quest'antologia - la fase di ricerca, la filosofia che vi è dietro e la sua pubblicazione - sia una sorta di viaggio di scoperta che non si esaurisce tra queste pagine. Speriamo che ogni lettore scopra qualche autrice o racconto di cui non era a conoscenza e avverta una mancanza profonda da colmare in futuro, magari attraverso qualche altra raccolta. Vogliamo che il dibattito e le critiche attorno a Le visionarie diventino un mezzo per rendere visibile ciò che è invisibile, e continueremo a usare le nostre antologie per mappare la ricchezza della narrativa femminista del passato e del presente.

Questa antologia, dunque, è solo l'inizio di una serie di nuove esplorazioni, il primo capitolo di un progetto più ampio e ancora più variegato e ricco. In un mondo perfetto, Le visionarie verrebbe accompagnato da altri volumi, ciascuno curato da un interlocutore diverso e con un taglio radicalmente alternativo, in modo da restituire ogni volta una visione singolare su approccio, punto di vista e ciò che si intende per qualità letteraria. Questo, intanto, è il nostro contributo alla conversazione. Speriamo che intrattenga, provochi delle domande e susciti interesse. Ha già aperto nuovi orizzonti a noi che ce ne siamo presi cura.

Ann e Jeff VanderMeer, gennaio 2015

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Pagina 47

Kit Reed
LE MADRI DI SHARK ISLAND


traduzione di
Clara Miranda Scherffig



A Shark Island, durante il giorno le prigioniere sono libere di vagare nel cortile; le mura sono alte e le scogliere ripide. Nessuno evade dallo Chateau D'If Le poche madri che ci provano spariscono per sempre - divorate dai banchi di squali che risalgono il canale o ridotte in brandelli in fondo alla scogliera.

Di notte si aggirano guardie sui parapetti, ma di tanto in tanto i volti delle nostre carceriere cambiano. Siamo noi, loro? Sono loro, noi? A volte siamo noi a marciare con le fascette gialle intorno al braccio - detenute privilegiate, a occhi stretti, complici della nostra stessa reclusione; siamo di pattuglia coi nostri manganelli foderati di pelle, teniamo in riga con severità le altre donne. A meno di non essere noi le prigioniere qui, che osserviamo le guardie dalle alte finestre delle nostre celle.

Chi sono le incarcerate e chi sono, tra di noi, le carceriere?

Chi ha deciso che dovevamo essere internate? Quand'è che siamo diventate di troppo?

Sono stati i nostri figli, sempre eccitati, avidi, a spedirci al fresco, senza più testimoni a dimostrare che non si sono inventati da soli? Mamma, sembri stanca. O sono state le nostre incarnazioni, le versioni nuove e migliorate di noi stesse, le nostre figlie, con i loro sorrisi dolci e morali? Mamma, lascia fare a me.

È il fato che ha voluto metterci in prigione, o è per qualcosa che abbiamo fatto? Oddio, è forse per qualcosa che abbiamo detto, che non ci perdonano? È questo il terrore e il mistero. Perché ci hanno rinchiuso qui, dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro.

Anni di stivali da neve e uniformi per la scuola, e torte sbilenche e lezioni di chitarra, facendo del nostro meglio per non mettergli pressione - tutti quegli sforzi e adesso i nostri giovani corrono liberi e consumano il pianeta mentre noi siamo qui.

Durante il giorno camminiamo e meditiamo. Di notte ci mandiamo messaggi picchettandoli sui tubi con le dita.

Co-rag-gio-Syl-vi-a. Per-se-ve-ran-za-Maud. Ri-vo-lu-zio-ne è vicina. Nuova-detenuta-nel-Blocco-Nove.


A differenza della polmonite, la maternità è una condizione irreversibile.


Come Edmund Dantès, sono amica della mia vicina di cella anche se non l'ho mai vista in viso. Bisbigliamo attraverso la fessura che ho aperto nel corso di mesi - no: di anni, scavando la pietra con le unghie, ingoiando la polvere e spostando il letto davanti al buco per nascondere qualsiasi traccia. La madre ignota e io ci teniamo a galla, anche se, come le nostre guardie, non è sempre la stessa persona.

Quante donne sono entrate e uscite dalla cella di fianco alla mia? Non ci diciamo i nostri nomi. Ma di notte ci inventiamo storie per darci conforto ed elenchiamo i dettagli; cosa abbiamo fatto per loro, per finire al Chateau D'If. Quant'è crudele essere qui.

Ma la nostra vita lavorativa è finita. Cos'altro avrebbero dovuto fare con noi? Le notti sono più fredde della pietra su cui dormiamo e siamo sole e tristi. Se potessimo tornare indietro e cambiare il passato in modo che i nostri figli abbiano ancora bisogno di noi, non lo faremmo.

Non sapremmo come. Dovevamo lasciarli crescere. E ora ci internano per crimini di guerra.

Amiche! Non siamo mai state del colore con cui ci hanno dipinto i nostri figli. Siamo innocenti, vi dico. Innocenti!


Parlano le prigioniere.


REBA: io sono la Dea Madre, maledizione! Si fa come dico io.

Ero prigioniera nella mia stessa casa, completamente schiacciata da tutti e tre: Gerard, il motivo per cui sono diventata madre. Quell'esigente del piccolo Gerry. June la frignona. Tutto il giorno in giro, la storia la sapete, esercitazioni, lezioni, macchinate collettive, facevo tardi la sera a piegare il bucato, e quando finalmente mi buttavo a letto ecco che Gerard mi metteva le mani addosso, va bene, ma poi alzati di nuovo all'alba per svuotare la lavatrice, porta i bambini a scuola andando al lavoro dove gli uomini del mio ufficio legale - uomini con mogli a casa per fare queste cose al posto loro - facevano carriera scavalcando il mio corpo esausto.

E Gerard! Lui mi diceva «le camice inamidate non sarebbero un problema, se solo ti licenziassi». Diceva «la casa è un macello!».

Ti stanchi e basta, dopo un po'. Troppo distrutta per pensare di poter mai diventare socia dello studio legale, mi licenziai. All'inizio era quasi piacevole. Un sacco di tempo per pulire e lavare e piegare e cucinare e rendere la casa carina e portare i ragazzi a scuola, a lezione di pittura, agli allenamenti, un sacco di tempo per stare sdraiata con Gerard che diceva «adesso sì che si ragiona, profumi di buono». Mi piaceva sentire il suo naso sul collo.

Ma poi, quando mi alzavo di nuovo, ero io che dovevo cambiare le lenzuola e stirarle e accompagnare ovunque i ragazzi in macchina, mentre i loro capelli si facevano lucenti, i loro denti bianchi e forti, e loro? Cosa facevano per me? Mi dicevano «ma che ne sai? Sei solo una Mamma».

La vita concepita come l'infinito tubo di una stufa, o forse come un nastro di Möbius. Vuole meno amido sulle camicie e ne vuole di più sui colletti; i bambini dicono fammi un panino, taglialo così, taglialo cosà. Ma non basta, perché poi quando cammini per strada i tuoi figli rimangono talmente indietro che la gente pensa che stanno camminando con qualcun altro; e lui ti mette il naso tra i capelli e dice «non capisco, avevamo così tante cose da dirci prima».

Piangere ti fa brutta, quindi sganci cento dollari da Victoria's Secrets, ma a lui dei tuoi segreti non frega niente; invece di darti i pizzicotti sulle spalle e salirti addosso si gira dall'altra parte e si addormenta, con addosso l'odore di qualcun'altra.

Esatto, mi sono depressa, mi facevo fuori intere confezioni di gelato direttamente dal frigo, trangugiandole mentre stiravo, guardando le telenovele. Gerard si lamentava - i ragazzi bisticciavano, l'immondizia si accumulava perché più fai cose a casa, più ci sono cose da fare. Prova a farti un giro sulla macchina del disordine eterno, ed ecco che l'uomo che ti ha reso madre ti fa: «È così che impieghi il tuo tempo?».

Discussioni su come non si potesse andare avanti così. Discussioni sul non farcela un giorno di più. Oh, ho fatto tutto quello che volevano, sistemato questo, comprato i vestiti ai ragazzi, ma dentro di me tramavo. Ancora un paio di acquisti e sarei stata pronta.

Mi sentivo avvilita, quel giorno, umiliata.

Scesero in cucina la mattina dopo, io indossavo il mantello. «Sono la dea madre, maledizione! Farete quello che vi dico io.»

June faceva i capricci, «non volevo i cereali, volevo le merendine».

Puntai il dito e scagliai un fulmine.

«Dov'è la mia maglietta con l'esoscheletro?», piagnucolava Gerry.

Zac! Non avrebbe mai più frignato.

Arrivò Gerard e si sedette di fronte al piatto senza neanche alzare gli occhi dal giornale. «Cosa c'è da mangiare?»

Lo sfiorai col mio bastone. Faceva tutto il piagnucoloso. «Reba, io ti amo. Cosa ti ho mai fatto?»

«Non abbastanza!» mi alzai e rimbombai su di lui come un tuono. Digrignai i denti e fulmine fu. La mia famiglia mi guardava tremante. «Sono la dea madre, maledizione. E ora questo è il mio regno.»

Crollarono, alla fine, e mi venerarono.

Oh, da quel momento si sono dati da fare, eccome! Ci furono regali per me, dolci; quel piagnucolone di Gerard che mi supplicava per un sorriso. Gestivo tutto con pugno di ferro: prima di andare al lavoro Gerard preparava una colazione calda, puliva e stirava. I bambini sfregavano la vasca e passavano l'aspirapolvere. Il rancio la sera, «non provare a scongelare qualcosa o a metterla nel microonde, Gerard, voglio cucina francese». Mangiavamo bene. Quando si rifiutò, lo spedii nei sotterranei. Cercò di mandare dei massaggi alla casa d'accoglienza degli uomini maltrattati. Chiamai la polizia. Chi avrebbe creduto che uno scricciolo come me potesse fare certe cose a un uomo grande e grosso come Gerard? Si beccò dieci anni.

Dal quel momento in poi regnò la pace: tutto dolce, armonioso, io avvolta da sete e gioielli che i ragazzi compravano facendo due lavori a testa. I colleghi di Gerard mi mostrarono il loro sostegno, «ha reso la tua vita un inferno».

Ma che gioia c'è a governare un regno il cui tuo suddito più abietto è in galera? Mi ritirai nelle mie stanze avvolta da una nuvola di pensieri.

Quando ne uscii i sudditi che mi restavano erano cresciuti. June cassiera in un supermercato, Gerry all'università statale. Lei mi accusava di non essere stata presente durante gli esami di ammissione. Lui sbraitava, «mollami mamma. Mi sono innamorato».

Per me erano loro i responsabili delle proprie vite. Per loro, la responsabile ero io.

Un giorno mentre stavo dormendo, mia figlia Junie, ormai grande - la mia piccola Junie - prese il mio bastone e - zac - eccomi qui.

[...]

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Pagina 171

Octavia E. Butler
LA SERA, IL GIORNO E LA NOTTE


traduzione di
Veronica Raimo



Quando avevo quindici anni e stavo tentando di dimostrare la mia indipendenza fregandomene della dieta, i miei genitori mi portarono nel reparto per i malati di Dureya-Gode. Volevano farmi vedere - dicevano - dove sarei finita se non fossi stata attenta. In effetti, ci sarei finita a prescindere. Era solo una questione di tempo: di prima o di poi. I miei esprimevano la loro preferenza per il poi.

Non descriverò il reparto. Vi basti sapere che quando mi portarono a casa mi tagliai i polsi. Feci un bel lavoretto, da antica Roma, una vasca piena di acqua calda. Ci mancò poco. Mio padre si slogò una spalla per sfondare la porta del bagno. Non ci siamo mai perdonati dopo quel giorno.

Lui contrasse la malattia quasi tre anni dopo, appena prima che io partissi per il college. All'improvviso. Non accade spesso così. In genere le persone si accorgono che stanno cominciando a dare di matto - oppure lo notano i loro cari - e si organizzano con gli istituti che hanno scelto. Se qualcuno mostra i segni e si rifiuta di andare, può essere internato per una settimana di osservazione. Non ho dubbi che questi periodi di osservazione abbiano devastato più di una famiglia. Costringere qualcuno ad allontanarsi per un eventuale falso allarme...

Be', è quel genere di cosa che probabilmente la vittima non tenderà a dimenticare o perdonare. Dall'altro lato, evitare l'allontanamento - trascurare i segnali o avere a che fare con un soggetto che sbotta senza preavviso - si traduce inevitabilmente in un pericolo per la vittima. Eppure, non ho mai sentito di nessun altro caso che è andato a finire in modo così tragico come quello della mia famiglia. Di solito le persone fanno del male solo a se stesse quando arriva il loro momento - a meno che qualcuno sia così stupido da trattarle senza i farmaci e le necessarie restrizioni.

Mio padre aveva ucciso mia madre, e poi si era ucciso. Io non ero a casa quando è successo. Ero rimasta a scuola più a lungo del solito, a esercitarmi in vista degli esami. Quando tornai a casa, c'era la polizia dappertutto. C'era un'ambulanza e due uomini stavano trasportando qualcuno su una barella, il corpo era coperto. Più che coperto. Quasi... imbustato. I poliziotti non mi lasciarono entrare. Scoprii solo più tardi cosa fosse successo esattamente. Avrei voluto non scoprirlo mai. Papà aveva ucciso mamma, e poi l'aveva completamente scuoiata. Almeno è così che spero siano andate le cose. Voglio dire, spero che prima l'abbia uccisa. Le ha fracassato qualche costola e danneggiato il cuore. Scavando a fondo.

Poi ha iniziato a lacerare il proprio corpo, infierendo tra pelle e ossa. Era riuscito ad arrivare al cuore prima di morire. Era un esempio particolarmente brutale del genere di cose che spinge la gente a temerci; a mettere nei guai chi tra di noi è sorpreso a stuzzicarsi un brufolo o sognare ad occhi aperti; a generare leggi restrittive, crearci problemi nel lavoro, a scuola, nel trovare casa... La Fondazione per la malattia di Durye-Gode (Durye-Gode Disease, o DGD) ha speso miliardi per dire al mondo che le persone come mio padre non esistono.

Parecchio tempo dopo, quando mi ero ripresa come meglio potevo, partii per il college - l'Università of Southern California - grazie a una borsa di studio del Dilg.

Il Dilg è il rifugio dove cerchi di spedire i tuoi parenti affetti da DGD, quando sono fuori controllo. È gestito da malati di DGD sotto controllo come me, come i miei genitori quando erano in vita. Dio solo sa come fa un malato di DGD sotto controllo a sopportarlo. Ad ogni modo, il posto ha una lista d'attesa chilometrica. I miei mi ci avevano iscritto dopo il mio tentato suicidio, ma era probabile che sarei morta prima che arrivasse al mio nome.

Non saprei dire perché andai al college, a parte il fatto che ero andata a scuola per tutta la mia vita e non avevo idea di che altro fare. Non nutrivo nessuna particolare ambizione a riguardo. Che diamine, lo sapevo cosa c'era ad aspettarmi. Qualsiasi cosa facessi era soltanto un modo di ingannare il tempo; se qualcuno era disposto a investire dei soldi per mandarmi a scuola e ingannare il tempo, che c'era di male?

La cosa assurda è che mi impegnavo molto, prendevo voti alti. Se ti sforzi così tanto per qualcosa che non conta niente, per un po' riesci a dimenticarti quello che invece conta.

A volte ho ripensato all'idea di ammazzarmi. Com'era possibile che avessi trovato il coraggio a quindici anni e non ce l'avessi allora? Due genitori affetti da DGD, entrambi religiosi, entrambi contrari all'aborto come al suicidio. Così si erano fidati di Dio e della medicina moderna e avevano fatto un figlio. Ma come avrei potuto io ripensare a tutto ciò che avevano vissuto e conservare la fiducia in alcunché?

Mi sono laureata in biologia. I non-affetti da DGD dicono che c'è un qualcosa nella nostra malattia a renderci portati nelle scienze: genetica, biologia molecolare, biochimica... Un qualcosa che è terrore. Terrore e una sorta di violenta disperazione. Alcuni di noi prendevano una brutta piega e diventavano distruttivi prima del tempo - sì, avevamo una media di criminalità superiore al dovuto. E altri se la cavavano incredibilmente bene, contribuendo alla storia della medicina e della scienza. Erano questi ultimi a far sì che ci fosse almeno un piccolo spiraglio aperto per tutti noi. Avevano fatto scoperte in campo genetico, trovato la cura per un paio di malattie rare, fatto progressi rispetto ad altre malattie meno rare - compreso, ironia della sorte, alcune forme di cancro. Ma non avevano trovato alcun rimedio per aiutare se stessi. Non era stato scoperto più nulla dopo le ultime migliorie in fatto di alimentazione che risalivano a poco prima della mia nascita. Queste - al pari della dieta originaria - avevano spinto più malati di DGD a fare figli. Avrebbero dovuto rappresentare l'equivalente di ciò che era stata l'insulina per i diabetici, fornirci uno spettro di vita normale o quasi. Forse avevano funzionato per qualcuno, chissà dove. Ma per nessuno di mia conoscenza.

La scuola di biologia si era rivelata un incubo, come sempre. Non mangiavo più in pubblico, non mi piaceva come la gente fissava i miei biscotti - simpaticamente ribattezzati «biscotti per cani» in tutte le scuole che avevo frequentato. Ti saresti immaginato che gli studenti universitari avessero più inventiva. Non mi piaceva che le persone si allontanassero da me quando intravedevano il mio simbolo. Avevo cominciato a portarlo al collo con una catenina che infilavo sotto la camicia, ma se ne accorgevano comunque. Se non mangi in pubblico, se non bevi niente di più intrigante dell'acqua, se non fumi proprio, ecco, se ti comporti così, desti sospetti. Prima o poi, gli altri - vedendo le mie dita e i polsi spogli - avrebbero fatto finta di interessarsi alla mia catenina. Ed era fatta. Non potevo nascondere la targhetta col simbolo dentro la borsa. Se mi fosse successo qualcosa, il personale medico avrebbe dovuto vederlo in tempo per evitare di somministrarmi medicinali adatti a una persona normale. Non dobbiamo evitare solo il cibo comune, ma anche un quarto dei farmaci autorizzati. Ogni tanto escono fuori storie di persone che hanno smesso di esporre il simbolo - probabilmente cercando di sembrare normali. Poi capita che gli succeda qualcosa di brutto. Prima che qualcuno si renda conto del problema, è già troppo tardi. Così portavo il simbolo. E in un modo o nell'altro la gente lo notava o gli veniva riferito da qualcuno che l'aveva visto. «È una di loro!» Già.

All'inizio del terzo anno, io e altri tre malati di DGD decidemmo di affittare una casa insieme. Ne avevamo abbastanza di sentirci degli appestati ventiquattro ore su ventiquattro. C'era uno studente di inglese che voleva fare lo scrittore e raccontare la nostra storia vista da dentro - il che era già stato fatto una trentina o quarantina di volte. C'era una studenessa di pedagogia speciale che sperava di essere accettata con meno resistenze da parte degli handicappati rispetto ai non-disabili, e una studentessa di chimica che non aveva davvero idea di cosa volesse fare.

Due uomini e tre donne. Tutto ciò che avevamo in comune era la nostra malattia, più una strana miscela di testarda intensità rispetto a qualsiasi cosa stessimo facendo e disconfortato cinismo rispetto a tutto il resto. La gente che sta bene dice che nessuno è in grado di concentrarsi quanto un malato di DGD. La gente che sta bene ha a disposizione tutto il tempo del mondo per concedersi generalizzazioni idiote e deficit di attenzione.

Noi facevamo il nostro dovere, uscivamo ogni tanto a prendere una boccata d'aria, mangiavamo i nostri biscotti e andavamo a lezione. Il nostro unico problema erano le pulizie di casa. Avevamo elaborato uno schema con i vari turni, chi doveva occuparsi del cortile, e compagnia bella. Eravamo tutti d'accordo ma poi - a parte me - nessuno sembrava ricordarsene. Mi ritrovai ad andare in giro per casa a rammentare agli altri di passare l'aspirapolvere, pulire il bagno, tosare il prato... Immaginai che presto mi avrebbero odiato, ma non avevo intenzione di diventare la loro sguattera, né di vivere nella sporcizia. Nessuno si lamentava. Nessuno sembrava nemmeno farci caso. Si limitavano a destarsi dal loro stordimento accademico, pulivano, passavano lo straccio, tosavano l'erba e tornavano a studiare. La sera avevo preso l'abitudine di correre da una parte all'altra ad allertare la gente. Non mi pesava se a loro non pesava.

[...]

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Pagina 287

Pat Murphy
L'AMORE E IL SESSO TRA GLI INVERTEBRATI


traduzione di
Nicoletta Vallorani



Questa storia non è scienza. Questa storia non ha niente a che fare con la scienza. Ieri, quando le bombe sono cadute e il mondo è finito, ho smesso di riflettere scientificamente. A questa distanza dal luogo di esplosione della bomba che ha fatto saltare in aria San Jose, immagino di aver assorbito una dose media di radiazioni. Non abbastanza da uccidermi sul colpo, ma comunque troppe per sopravvivere. Ho soltanto pochi giorni, e ho deciso di passare questo tempo a costruire il futuro. Qualcuno deve farlo.

In realtà, è ciò per cui sono stata addestrata. I miei studi superiori erano nel ramo della biologia: anatomia strutturale, la costruzione del corpo e delle ossa. I miei studi universitari, invece, riguardavano l'ingegneria. Negli ultimi cinque anni, ho progettato e costruito robot da usare nei procedimenti industriali. La necessità di creazioni di questo genere adesso non esiste più. Mi sembra un peccato sprecare l'equipaggiamento e i materiali rimasti nel laboratorio che i miei colleghi hannno abbandonato.

Metterò insieme dei robot e li farò funzionare. Ma non cercherò di capirli. Non li prenderò da parte e non rifletterò sul loro funzionamento interno, non li tormenterò, non li frugherò e non li analizzerò. Il tempo della scienza è finito.


Lo pseudoscorpione, Lasiochernes pilosus, è un insetto simile allo scorpione e molto riservato che costruisce la sua casa nei nidi delle talpe. Prima di accoppiarsi, gli pseudoscorpioni danzano: un minuetto sotterraneo osservato soltanto dalle talpe e da entomologi guardoni. Quando un maschio trova una femmina disposta ad accettarlo, afferra le sue tenaglie e la trascina verso di sé. Se lei resiste, lui si muove in cerchio, rimanendo attaccato alle sue tenaglie e trascinandosela dietro, rifiutando di accettare una risposta negativa. Prova di nuovo, facendo un passo avanti e trascinando verso di sé la femmina con tenaglie tremanti. Se lei continua a resistergli, fa un passo indietro e riprende a danzare. Un cerchio, una pausa per trascinare la compagna riluttante, poi ancora un cerchio.

Dopo un'ora e più di danza, la femmina inevitabilmente soccombe, convinta, dai passi di danza, che i geni del suo compagno si combineranno agevolmente con i suoi. Il maschio deposita un corredo di sperma sul terreno che è stato ripulito dai detriti attraverso la danza. Le tenaglie tremano mentre la trascina in avanti, posizionandola sul corredo di sperma. Alla fine disponibile, lei comprime le sue spore genitali sul terreno e risucchia lo sperma nel suo corpo.

Test biologici permettono di notare che le tenaglie dello scorpione maschio tremano mentre danza, ma non è possibile determinarne il motivo. I test di biologia non fanno ipotesi sulle emozioni, sui motivi, sui desideri. Non sarebbe un procedimento scientifico.

Credo che lo pseudoscorpione maschio sia un animale appassionato. Tra gli aromi quotidiani degli escrementi di talpa e della vegetazione in decomposizione, annusa la femmina e il profumo di lei lo riempie di passione. Ma è intimorito e confuso; un essere solitario, non abituato a socializzare, è infastidito dalla presenza di un altro del suo tipo. È preda di emozioni conflittuali. Il suo bisogno coinvolge tutto, i suoi timori, e la stranezza della situazione sociale.

Ho rinunciato alle pretese della scienza. Faccio ipotesi sulle motivazioni dello pseudoscorpione, sul conflitto e sul desiderio incarnati nella sua danza.


Sistemo il pene sul mio primo robot come se fosse una specie di scherzo, uno scherzo privato, uno scherzo sull'evoluzione. Suppongo di non aver davvero bisogno di dire che si tratta di uno scherzo privato: lo sono tutti i miei scherzi, adesso. Sono l'ultima persona rimasta, per quanto posso dire. I miei colleghi sono scappati, a cercare le loro famiglie, a trovarsi un rifugio sulle colline, a passare gli ultimi giorni correndo in giro, di qua e di là. Non mi aspetto di vedere nessun altro qui intorno in nessun momento. E se lo facessi, probabilmente non si tratterebbe di persone interessate ai miei scherzi. Sono sicura che la maggior parte della gente pensa che il tempo degli scherzi sia finito. Non capiscono che la bomba e la guerra sono gli scherzi più grandi di tutti. La morte è lo scherzo più colossale. L'evoluzione anche.

Mi ricordo d'aver imparato la teoria di Darwin sull'evoluzionismo al corso di biologia del liceo. Anche allora, pensavo che fosse un po' strano il modo in cui la gente ne parlava. L'insegnante ci presentava l'evoluzione come un fait accompli, finito e del tutto concluso. Si confondeva e si districava a fatica attraverso le complesse ipotesi che riguardavano l'evoluzione umana, parlando di Ramapithecus, Australopithecus, Homo erectus, Homo sapiens e Homo sapiens neanderthalensis. Quando arrivava all'Homo sapiens si fermava, e questo era tutto. Il modo in cui la nostra insegnante considerava la situazione prevedeva che noi fossimo l'ultima parola, la cime del mucchio, la fine della linea.

Sono sicura che i dinosauri pensavano la stessa cosa, se avevano la capacità di pensare. Come poteva un essere avere a disposizione qualcosa di meglio di un'armatura rigida e una coda ricoperta di aculei? Cosa poteva chiedere di più?

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Pagina 303

Joanna Russ
QUANDO CAMBIÒ


traduzione di
Oriana Palusci



Katy guida come una pazza; dovevamo andare a più di 120 chilometri all'ora in quelle curve. Però è brava, è molto brava; infatti, l'ho vista smontare la macchina e rimontarla in un giorno. La gente del mio paese natale, su Whileaway, si dedica in gran parte alle macchine agricole, perciò mi rifiuto di combattere con una vettura a cinque marce lanciata a velocità pazzesca; è contro la mia natura, ma anche nel cuore della notte e sulle curve di una malconcia strada di campagna, quanto può esserla nel nostro distretto, il modo di guidare di Katy non mi spaventava. Il fatto buffo di mia moglie, comunque, è che si rifiuta di maneggiare armi. Si è avventurata per giorni di seguito nelle foreste a nord del 48° parallelo senza armi da fuoco. E questo sì che mi spaventa. Katy e io abbiamo tre figlie in tutto, una sua e due mie. Yuriko, la mia maggiore, dormiva sul sedile posteriore, immersa in sogni d'amore e di guerra da dodicenne: la fuga verso il mare, la caccia nel nord, sogni di persone stranamente belle in luoghi stranamente belli, tutta la roba meravigliosa che passa per la mente quando si stanno per compiere dodici anni e le ghiandole cominciano a funzionare. Uno di questi giorni scomparirà, come tutte le altre, per settimane di fila, per tornare sudicia e orgogliosa, dopo aver ucciso il suo primo puma o sparato al suo primo orso, trascinandosi dietro il corpo di una bestia terribile e pericolosa, cui non riuscirò mai a perdonare quello che ha fatto a mia figlia. Yuriko sostiene che la guida di Katy la fa addormentare.

Per essere una persona che ha combattuto tre duelli, ho paura di troppe, veramente troppe cose. Dissi a mia moglie che stavo invecchiando.

«Hai trentaquattro anni», mi rispose. Laconica fino al silenzio, lei. Accese le luci sul cruscotto: c'erano ancora tre chilometri e la strada continuava a peggiorare. In aperta campagna. Alberi verde elettrico sfilavano nel raggio dei fari e attorno alla vettura. Allungai la mano su un fianco, dove viene inserito il pannello di supporto, e mi misi il fucile in grembo. Yuriko si mosse sul sedile posteriore. Sono all'altezza degli occhi di Katy, del volto di Katy. Lei sostiene che il motore della macchina è così silenzioso che si sente perfino il respiro di chi sta dietro. Yuriko si trovava sola in macchina quando era arrivato il messaggio e si era messa a decodificare con entusiasmo i punti e le linee. (È sciocco montare un ricetrasmettitore ad alta frequenza vicino a un motore I.C., ma quasi tutto, su Whileaway, funziona a vapore.) La mia vistosa e spilungona rampolla era saltata fuori dalla vettura, urlando a squarciagola; quindi non c'era altro da fare che portarcela dietro. Siamo state intellettualmente preparate a questo evento fin dalla fondazione della Colonia e del suo abbandono, ma questo è diverso. È un fatto terribile.

«Uomini!», aveva urlato Yuki, saltando sul tetto della macchina. «Sono tornati! Veri uomini della Terra!»

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Pagina 315

Vandana Singh
LA DONNA CHE SI CREDEVA UN PIANETA


traduzione di
Sara Marzullo



La vita di Ramnath Mishra era cambiata per sempre un mattino, quando, durante la lettura del giornale sulla veranda, rituale che aveva osservato per gli ultimi quarant'anni, sua moglie, poggiando con violenza la tazza di tè, annunciò: «Finalmente so cosa sono. Sono un pianeta».

Il pensionamento di Ramnath era stato fonte di dispiacere per tutti e due. A lui era sempre bastato guardare sua moglie da lontano, riconoscendola come benevolo tiranno della casa e madre dei suoi figli, ormai diventati grandi, ma non aveva mai desiderato una maggiore intimità. Anche Kamala era diventata scontrosa, a disagio per quella vicinanza - la facciata di obbediente moglie indiana era crollata dopo la prima settimana.

Ramnath abbassò il giornale aggrottando la fronte e, pronto a rimproverarla duramente per aver interrotto la sua tranquillità, si era invece trovato a bocca aperta, ammutolito dallo stupore.

Sua moglie era in piedi e si stava sfilando il sari.

Ramnath per poco non era caduto dalla sedia: «Cosa stai facendo? Sei impazzita?». Le balzò addosso, afferrando con una mano un pezzo di stoffa blu del sari e il braccio di lei con l'altra, guardandosi affannosamente intorno per capire se la servitù o il giardiniere fossero nei paraggi, o se i vicini li stessero osservando attraverso i rami della bouganville che riparava la veranda dalla calura estiva. Sua moglie, immobilizzata tra le sue braccia, lo squadrò con aria minacciosa.

«Un pianeta non ha bisogno di vestiti», gli disse con grande decoro.

«Tu non sei un pianeta. Tu sei pazza», rispose Ramnnath. La spinse in camera da letto. Fortunatamente la donna delle pulizie se n'era andata e il cuoco era in cucina che canticchiava stonato al suono della radio. «Aggiustati il sari, santo cielo.» Lei obbedì. Ramnath vide le lacrime luccicarle negli occhi. Avverti una fitta di preoccupazione mescolarsi al fastidio.

«Ti senti male, Kamala? Vuoi che chiami il dottor Kumar?»

«Non sono malata», disse, «ho avuto una rivelazione. Sono un pianeta. Ero un essere umano, una donna, una moglie e una madre. Per tutto questo tempo mi sono chiesta se ci fosse qualcos'altro, qualcosa in più. Ora lo so. Essere un pianeta mi fa bene. Ho smesso di prendere le medicine per il fegato».

«Beh, se tu fossi un pianeta», disse Ramnath esasperato, «saresti un oggetto inanimato che orbita attorno a una stella. Probabilmente saresti dotata di un'atmosfera e ci sarebbero esseri viventi che ti strisciano addosso. Saresti enorme, come la Terra o Giove. Tu non sei un pianeta, sei un essere vivente, una donna. La padrona di una casa rispettabile, che nelle sue mani custodisce l'onore della propria famiglia».

Era fiero di essere riuscito a spiegarsi così bene, perché lei gli aveva sorriso e si era messa a posto i capelli, annuendo. «Devo andare a controllare il pranzo», aveva detto, in un tono di voce normale. Ramnath era tornato a leggere il suo giornale sulla veranda, scuotendo la testa al pensiero di tutte le cose che toccava fare a un uomo. Ma non riusciva a concentrarsi sulle recenti vicende del primo ministro. All'improvviso si rese conto di quanto fosse spaventosa la prospettiva di non conoscere la persona con cui aveva vissuto per quarant'anni. Da dove venivano certe idee così strane? Si ricordò lo scandalo, anni prima, quando una sua prozia era impazzita e si era chiusa dentro il bagno esterno della casa di famiglia e aveva iniziato a urlare come una gru antigone in amore. Alla fine erano riusciti a tirarla fuori, mentre i vicini curiosi affollavano il cortile con frasette di finta empatia e grida di incoraggiamento. Si ricordava di quanto silenziosa fosse diventata dopo che l'avevano aiutata a uscire dalla porta sfondata, di come non avesse dato nessun segnale prima di piegare la testa, apparentemente in atteggiamento di docile resa, e mordere il braccio di suo marito. Era finita in un ospedale psichiatrico a Ranchi. Che tremendo disonore per la sua famiglia, che cosa indegna - una persona impazzita in una famiglia dell'alta borghesia - rabbrividì all'improvviso, mise da parte il suo giornale e andò a chiamare il dottor Kumar. Sarebbe stato discreto, il dottore era un amico di famiglia...

Quando entrò in salotto, vide che era buio - qualcuno aveva chiuso le tende, oscurando la luce del giorno. Disturbato dall'innaturale silenzio - il cuoco aveva smesso di cantare - avanzò a tentoni verso l'interruttore, che era più a portata di mano delle finestre. «Kamala!», la chiamò, irritato nello scoprire che gli tremava la voce.

All'improvviso una delle tende all'altro lato della stanza venne spostata con violenza, provocando un'esplosione di luce che gli ferì gli occhi. Sua moglie stava là in piedi, nuda, girata verso il sole con le braccia spalancate. Iniziò a voltarsi lentamente. Sul viso aveva un'espressione estatica. La luce del sole bagnava quel corpo robusto, le colline e le pieghe della pelle che scendevano sullo stomaco cadente e sulle natiche. Ramnath aveva il volto trasfigurato dall'orrore. Corse verso le tende e le chiuse, le mise le mani sulle spalle rotonde e la scosse: «Sei impazzita. Cosa penseranno i vicini? Che ho fatto per meritarmi questo?».

La trascinò in camera e si mise a cercare il sari. La blusa, la sottoveste e il sari erano sparpagliati sul letto. Questo era di per sé inquietante, perché era una donna ossessionata dall'ordine. Si rese conto di non avere idea di come metterle il sari. Vide una vestaglia da notte appesa con cura alla struttura della zanzariera e la afferrò. Sua moglie si dimenava tra le sue braccia: «Ma non hai vergogna? Mettiti questo!» Dopo un po' riuscì a farle indossare la vestaglia, ma era a rovescio. Non importava. Si sedette insieme a lei sul letto.

«Stai qui e non muoverti. Vado a chiamare il dottore. Il cuoco se n'è andato?»

Lei annuì e questo lo rassicurò, anche se lei non ricambiava il suo sguardo. Tornato in salotto, Ramnath esitò, poi, invece di aprire le tende, accese la luce. Era infastidito dal fatto che parte del suo corpo avesse avuto una reazione alla vista di quella nudità e alla lotta. Con risolutezza, mise da parte questi pensieri e andò verso il telefono.

Il dottor Kumar era impegnato in un'emergenza all'ospedale. Ramnath pensò male del suo amico. «Ditegli che mi deve richiamare appena torna - è una questione molto urgente», disse al servo. Sbatté giù il telefono. Tornò nella camera da letto. Sua moglie giaceva distesa, forse si era addormentata.

Per tutto il giorno Ramnath sorvegliò sua moglie. Per l'ora di pranzo si era rimessa il sari e aggiustata i capelli. Il cuoco gli servì uno stufato di ceci con cipolle, cumino, zenzero e peperoncino. C'era anche del riso basmati, che era riservato solo per le occasioni speciali, e piccole melanzane fritte ripiene di pomodoro e spezie. Ramnath, non avendo idea di quali fossero i piatti preferiti della moglie, chiese al cuoco di fare qualcosa che le piacesse, sperando che il cibo la distraesse da quelle follie. Lei piluccò il cibo distrattamente, con lo sguardo sognante. Era palese che la sua testa fosse a chilometri di distanza. Ramnath sentì crescere dentro di sé un moto di rabbia e commiserazione. Cosa aveva fatto per meritarsi questo? Aveva lavorato sodo per oltre quarant'anni, scalando i ranghi del potere fino alle più alte cariche burocratiche dello Stato. Aveva avuto due figli. Adesso pensava che sarebbe stato bello avere una figlia, qualcuno su cui contare in momenti come questo. Passò mentalmente in rassegna le donne anziane della sua famiglia - erano tutte morte o vivevano altrove. Perché diavolo il dottore non lo aveva richiamato?

La giornata di Ramnath ormai era del tutto rovinata. Di sera gli piaceva andare al circolo degli anziani e giocare a scacchi con gli altri pensionati, ma oggi non avrebbe osato allontanarsi da sua moglie. Lei, dal canto suo, parlava solo se interpellata. Da fuori sembrava tranquilla, dava ordini al cuoco e spolverava le fotografie e i soprammobili del salotto, ma ogni tanto la trovava incantata a guardare il vuoto, dentro il suo mondo, con un sorriso sulle labbra. Chiamò di nuovo il dottore, ma quel cretino era passato a casa solo per un attimo, in tiro per una festa, e se n'era andato senza ricevere la comunicazione urgente.

Fu una delle notti peggiori che Rarnnath avesse mai passato. Sua moglie si agitava nel sonno, quasi volesse sfuggire a una forza invisibile che la strozzava, come una nave ormeggiata che tenta di liberarsi. Ramnath stesso era assediato da incubi su pianeti e imponenti donne nude. Si svegliò più volte, guardando con preoccupazione sua moglie che dormiva, i capelli grigi sparsi sul cuscino che le coprivano la bocca mezza aperta. Una ciocca si spostò dalla bocca, mossa dal respiro, e a lui ricordò qualche orripilante creatura vivente. Le scostò i capelli dalla faccia, cercando di non tremare. Alla luce che filtrava dalla finestra, il suo viso assomigliava alla superficie della luna: piena di crateri e voragini, crepato dall'età. Sembrava una sconosciuta.

[...]

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Pagina 363

Carol Emshwiller
I RAGAZZI


traduzione di
Marta Maria Casetti



Dobbiamo fare un altro raccolto di ragazzi. I ragazzi non pensano, non si calmano, non si fermano, non si preoccupano delle conseguenze. Si lanciano per primi nel fumo e nel fuoco e nella mischia. Ho visto uno dei miei figli stare in cima al precipizio per sfidare i nemici. Aveva dodici anni. Non ci sono medaglie ai buonsenso.

Ci prendiamo tutti i ragazzi, senza preferenze. Non ci importa se sono nostri o dei nemici. Si dimenticheranno presto da dove vengono. Ammesso che lo sappiano. Dopotutto, che ne sa un ragazzino di sette anni? Gli dici che la nostra bandiera è la migliore perché è la più bella, che noi siamo i migliori perché siamo i più svegli, e loro ci credono. Gli piacciono le uniformi. Gli piacciono i cappelli con i pennacchi. Gli piacciono le medaglie. Gli piacciono le bandiere, i tamburi e le urla di guerra.

La prima grande prova è raggiungere i loro letti. C'è da arrampicarsi fino alla caserma. Arrivati su, c'è un ponte di corde. Le hanno sentite tutti le storie su quel ponte. Se non lo attraversi devi tornare a casa da mamma. Lo attraversano tutti.

Dovreste vedere le loro facce quando ce li prendiamo. Vogliono essere presi. Hanno visto i fuochi sulle nostre colline. Ci hanno visti marciare avanti e indietro sui nostri altipiani. Quando il vento tirava nella direzione giusta, hanno sentito i nostri corni che suonavano la sveglia e la ritirata, e si sono svegliati e ritirati nei loro letti ascoltando il loro richiamo, o quello che i nostri nemici suonavano dall'altro lato della valle.

All'inizio hanno tutti un po' di nostalgia (le prime notti li senti che cercano di non piangere) ma di solito non vedono l'ora di essere presi. Adorano essere nostri e non delle madri.

Se li lasciassimo tornare a casa si farebbero belli con le loro uniformi e i loro galloni. Lo so perché mi ricordo quando mi hanno dato la mia prima uniforme. Avrei voluto che mia madre e mia sorella mi vedessero. Quando mi hanno preso, io ho lottato, ma solo per far vedere quanto sono coraggioso. Ero felice. Volevo che mi prendessero. Volevo essere uno degli uomini e finalmente lo ero.

* * *

Ogni estate scendiamo a valle per un giorno e ci accoppiamo con le madri, così metteranno al mondo nuovi soldati. Non sappiamo mai quali ragazzi sono figli nostri e diciamo che è una cosa buona, perché così sono tutti figli nostri e ci prendiamo cura di tutti allo stesso modo, come è giusto che sia. Non dovremmo avere famiglie. Interferiscono con i piani di battaglia. Ma qualche volta si capisce chi è il padre. Io so che due ragazzi sono figli miei. Sono certo che loro sappiano che io sono loro padre, che sappiano di essere figli del colonnello. Penso sia per quello che ce la mettono tutta. So che sono figli miei perché sono un ometto piccolo e brutto. So che molti si chiedono come ce l'abbia fatta a diventare colonnello.

(Non facciamo preferenze quando ci prendiamo i ragazzi e non facciamo preferenze quando ci accoppiamo. Quando andiamo nei villaggi io cerco sempre Una.)

MORIRE PER LA TUA TRIBÙ VUOL DIRE VIVERE PER SEMPRE. È scritto sopra l'ingresso del nostro quartier generale. E, sotto, NON DIMENTICARE. Sappiamo che non dobbiamo dimenticare, ma forse abbiamo dimenticato. Alcuni credono che non abbia più senso andare in guerra. Sappiamo solo che noi e i nemici ci odiamo e che commettiamo nuovi crimini orrendi per vendicare quelli passati, ma non sappiamo più come è iniziata questa storia.

Abbiamo dimenticato il motivo per cui facciamo la guerra e abbiamo dimenticato anche le nostre madri. I muri della nostra caserma sono coperti di battute sulle madri e immagini di madri. I corpi delle madri sono morbidi. Non riesci a non guardarli. Le chiamiamo «cuscini». Le madri sono «tette» e «cuscini». E, quando siamo tra noi uomini, «tette» e «cuscini» sono i nostri insulti preferiti.

* * *

I villaggi delle donne sono a fondovalle. Sono tanti, più o meno uno ogni ventiquattro chilometri. Ai due lati della valle ci sono le montagne. Dall'altro lato ci sono quelle dei nemici, i Monti Porpora. Da questo lato ci sono le nostre, i Monti delle Nevi. Il clima delle nostre montagne è peggiore. Noi ne siamo orgogliosi. Ci chiamiamo «I Ghiacci», a volte anche «I Fulmini». Pensiamo di essere più resistenti, per via dei ghiacci. Dall'altro lato della valle i nemici hanno meno grotte di noi. Ai ragazzi diciamo sempre che sono stati fortunati a essere stati presi da noi e non dai nemici.

* * *

Quando mi hanno preso, le madri sono salite fino alle caverne per riprenderci. Capita spesso. Alcune avevano delle armi. Ridicole. Mia madre era in prima linea, ovviamente. Credo che l'idea dell'assalto fosse sua. Era fuori di sé dalla rabbia, ma non mollava. Si è lanciata dritta su di me. Mi ha fatto paura. Noi ragazzi siamo scappati in fondo alla caserma, mentre il nostro caposquadra ci proteggeva. Altri uomini coprivano l'entrata. Le madri hanno battuto in ritirata poco dopo. Nessuna è rimasta ferita. Cerchiamo di non fare mai male alle madri. Ci servono per il prossimo raccolto di ragazzi.

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Pagina 435

Ursula K. Le Guin
SUR


traduzione di
Roberta Rambelli



Rapporto della Spedizione Yelcho
al circolo polare antartico, 1909-1910


Sebbene non abbia intenzione di pubblicare questo rapporto, sarebbe bello se un mio nipote, o il nipote di qualcun altro, lo ritrovasse un giorno; quindi lo terrò nel baule di cuoio in soffitta, con l'abitino del battesimo di Rosita e il sonaglietto d'argento di Juanito e le mie scarpe del matrimonio e i finneskos.

La prima cosa necessaria per organizzare una spedizione, il denaro, è normalmente la più difficile da trovare. Purtroppo, neppure in un rapporto destinato a restare in un baule nella soffitta di una casa in un tranquillo sobborgo di Lima oso scrivere il nome del generoso benefattore, l'anima grande senza la cui liberalità la Spedizione Yelcho non sarebbe mai stata altro che un'oziosa escursione della fantasia. Se il nostro equipaggio era il migliore e il più moderno, se le nostre provviste erano abbondanti e ottime, se una nave del governo cileno, con i valorosi ufficiali e gli arditi uomini dell'equipaggio, venne mandata per due volte dall'altra parte del mondo per farci un favore, tutto ciò è merito di quel benefattore del quale, purtroppo, non posso dire il nome, ma verso il quale sarò felice di sentirmi indebitata fino alla morte.

Quando ero poco più di una bambina, la mia immaginazione fu colpita da un articolo pubblicato da un giornale sul viaggio della Belgica che, navigando verso sud dalla Terra del Fuoco, rimase bloccata nel ghiaccio nel Mare di Bellingshausen e per un anno intero andò alla deriva con la banchisa, mentre gli uomini a bordo soffrivano orribilmente per la mancanza di viveri e il terrore dell'interminabile buio invernale.

Lessi e rilessi quel resoconto, e più tardi seguii con emozione le notizie del salvataggio del dottor Nordenskjöld sulle Shetland Meridionali, compiuto dall'ardimentoso capitano Irizar dell'Uruguay, e le avventure della Scotia nel Mare di Weddell. Ma tutte queste imprese non furono altro, per me, che preannunci della Spedizione nazionale antartica britannica del 1902-1904, con la Discovery, e del meraviglioso resoconto di tale spedizione fatto dal capitano Scott. Questo libro, che ordinai a Londra e rilessi mille volte, mi riempì del desiderio di vedere con i miei occhi quello strano continente, l'ultima Thule del Sud, che sta sulle nostre carte e i nostri mappamondi come una nube bianca, un vuoto frangiato qua e là da frammenti di costa, capi dubbi, presunte isole, promontori che forse ci sono e forse non ci sono: l'Antartide. E il desiderio era puro come le nevi polari: andare, vedere... niente di più, niente di meno. Rispetto profondamente i risultati scientifici della spedizione del capitano Scott, e ho letto con interesse appassionato le scoperte di fisici, meteorologi, biologi, eccetera; ma poiché non ho una preparazione in queste scienze, né ho avuto la possibilità di acquisirla, la mia ignoranza mi obbligava a rinunciare a ogni pensiero di arricchire la conoscenza scientifica relativa all'Antartide; e lo stesso posso dire degli altri membri della mia spedizione. È un vero peccato; ma non potevamo farci nulla. Il nostro scopo era limitato all'osservazione e all'esplorazione. Speravamo di andare un po' più lontano, forse, e di vedere un po' di più; se no, andare e vedere, semplicemente. Un'ambizione molto semplice, credo, e sostanzialmente modesta.

Tuttavia sarebbe rimasta meno di un'ambizione, niente altro che un'aspirazione, senza l'apporto e l'incoraggiamento della mia cara cugina e amica Juana. (Non uso i cognomi, nel timore che questo rapporto finisca in mani estranee e che l'imbarazzo o una spiacevole notorietà ricada su mariti e figli ignari, e così via.) Avevo prestato a Juana la mia copia del Viaggio della Discovery; e fu lei che, mentre passeggiavamo con gli ombrellini aperti nella Plaza de Armas dopo la messa, una domenica del 1908, disse: «Bene, se può farlo il capitano Scott, perché non possiamo farlo anche noi?».

Fu Juana a proporre di scrivere a Carlota, a Valparaiso. Tramite Carlota incontrammo il nostro benefattore, e così ottenemmo il denaro, la nave, e persino il plausibile pretesto di andare in ritiro in un convento boliviano, il pretesto che alcune di noi furono costrette a usare (mentre altre dicevano che andavano a Parigi per la stagione invernale). E fu la mia Juana quella che, anche nei momenti più bui, rimase risoluta, incrollabile nella decisione di realizzare il nostro proposito.

E vi furono momenti bui, soprattutto nei primi mesi del 1909... momenti in cui non capisco in che modo la Spedizione avrebbe potuto diventare qualcosa di più di un quarto di tonnellata di pemmican andato a male e di un rammarico eterno. Era così difficile radunare la nostra spedizione. Pochissime di quelle che interpellavamo capivano di cosa stavamo parlando... e tante pensavano che fossimo pazze o malvagie, o l'uno e l'altro! E tra le poche che condividevano la nostra follia, erano anche meno numerose quelle che, all'atto pratico, potevano lasciare i loro doveri quotidiani e impegnarsi in un viaggio di almeno sei mesi, circondato da incertezze e pericoli tutt'altro che indifferenti. Un genitore malato; un marito ansioso assediato dai problemi o dagli affari; un figlio a casa affidato a servitori ignoranti o incapaci; non sono responsabilità da accantonare alla leggera. E quelle che erano disposte a sottrarsi a tali necessità non erano le compagne da noi desiderate in un'impresa che comportava duro lavoro, rischi e privazioni.

Ma dato che il successo coronò i nostri sforzi, perché dilungarmi sugli inconvenienti e i ritardi, sulle astuzie e sulle menzogne cui dovemmo ricorrere tutte? Ora penso con rammarico alle amiche che avrebbero voluto venire con noi, ma non riuscirono in alcun modo a liberarsi... coloro che dovemmo lasciare a una vita priva di pericoli, di incertezze e di speranza.

Il 17 agosto 1909, a Punta Arenas, in Cile, s'incontrarono per la prima volta tutti i membri della Spedizione: io e Juana, le due peruviane; Zoe, Berta e Teresa, venute dall'Argentina; e le nostre cilene, Carlota e le sue amiche Eva, Pepita e Dolores. AIl'ultimo momento avevo ricevuto la notizia che il marito di Maria, a Quito, s'era ammalato, e lei era costretta a restare ad assisterlo; perciò eravamo nove, non dieci. Anzi, eravamo già rassegnate a partire in otto, quando, al cader della notte, l'indomabile Zoe arrivò a bordo di una piccola piroga degli indios: il suo yacht aveva subito un'avaria mentre entrava nello Stretto di Magellano.

Quella sera, prima di partire, facemmo conoscenza; e mentre consumavamo una cena nell'abominevole locanda del porto di Punta Arenas, concordammo che se fosse insorta una situazione di pericolo urgente, tale che un'unica voce dovesse venire obbedita senza discussioni, l'onore poco invidiabile di parlare con quella voce sarebbe toccato prima a me; se fossi stata impossibilitata, a Carlota; e in terzo luogo, a Berta. Poi le altre brindarono a noi chiamandoci «Inca Suprema», «La Araucana» e «Terzo Ufficiale» tra risa e applausi. Così come andarono le cose, con mio piacere e sollievo, le mie qualità di «capo» non furono mai messe alla prova; noi nove risolvemmo tutto concordemente dall'inizio alla fine senza che nessuna desse ordini; e solo due o tre volte vi fu il ricorso a votazioni a voce o per alzata di mano. Certo, discutevamo molto. Ma, del resto, avevamo tempo per discutere. E in un modo o nell'altro, le discussioni finivano sempre con una decisione che permetteva di agire. Di solito, almeno una brontolava per la decisione, a volte amaramente. Ma cos'è la vita senza mugugni, e l'occasione di poter dire a volte «io ve l'avevo detto»? Come si potrebbero sopportare i lavori di casa, o la cura dei bambini, e soprattutto i rigori della traversata dell'Antartide in slitta senza brontolii? Gli ufficiali (come scoprimmo a bordo della Yelcho) hanno il divieto di brontolare; ma noi nove eravamo e siamo, per nascita e educazione, inequivocabilmente e irrevocabilmente membri dell'equipaggio.

Sebbene la rotta più breve per raggiungere il continente meridionale, consigliataci in origine dal capitano della nostra nave, fosse quella che portava alle Shetland Meridionali e al Mare di Bellingshausen, oppure alle Orcadi Meridionali e al Mare di Weddell, decidemmo di dirigerci verso ovest e verso il Mare di Ross, che il capitano Scott aveva esplorato e descritto, e dal quale il coraggioso Ernest Shackleton era ritornato proprio l'autunno precedente. Quella regione è più conosciuta di qualunque altra parte della costa dell'Antartide, e sebbene tale conoscenza non fosse grande, serviva a dare una certa garanzia per la sicurezza della nave, che non volevamo mettere in pericolo. Il capitano Pardo s'era dichiarato completamente d'accordo con noi dopo aver studiato le carte e l'itinerario che ci proponevamo; e perciò l'indomani mattina facemmo rotta verso ovest, uscendo dallo Stretto.

Il nostro viaggio intorno a una metà del globo fu protetto dalla fortuna. La piccola Yelcho procedette allegramente tra venti e bufere, salendo e scendendo le onde dei mari dell'Oceano Australe che corrono ininterrotti intorno al mondo. Juana, che aveva avuto a che fare con i tori e con le assai più pericolose mucche nell' estancia della sua famiglia, chiamava la nave «la vaca valiente», perché tornava sempre alla carica. Quando ci passò il mal di mare, apprezzammo molto il viaggio, sebbene a volte ci sentissimo oppresse dalla gentile ma autoritaria protezione del capitano e degli ufficiali, i quali pensavano che fossimo «al sicuro» solo quando eravamo chiuse nelle tre minuscole cabine messe cavallerescamente a nostra disposizione.

Vedemmo il primo iceberg molto più a sud di quanto ci aspettassimo, e lo salutammo brindando a cena con champagne Veuve Clicquot. Il giorno dopo entrammo nel pack, la fascia di banchisa di iceberg staccatisi dal ghiaccio della terraferma e dai mari gelati dall'inverno antartico, che in primavera si spingono verso il nord. La fortuna continuava a sorriderci; la nostra piccola nave a vapore, che con lo scafo non rinforzato non era in grado di aprirsi la strada tra i ghiacci, procedeva senza esitare nei tratti liberi, e il terzo giorno superammo il pack, nel quale le navi a volte hanno lottato per settimane prima di venire costrette talora a ritornare indietro. Davanti a noi si estendevano ormai le acque grigioscure del Mare di Ross e, più oltre, all'orizzonte, lo scintillio remoto, il candore riflesso dalle nubi della Grande Barriera di Ghiaccio.

Entrando nel Mare di Ross un po' a est della longitudine 160° ovest, giungemmo in vista della Barriera nel luogo dove la spedizione del capitano Scott, trovando un'immensa muraglia di ghiaccio, era scesa a riva e aveva lanciato il pallone all'idrogeno per effettuare ricognizioni e fotografie. La faccia torreggiante della Barriera, e gli strapiombi ripidi e le grotte azzurre scavate nell'acqua, erano tutti come nella descrizione, ma l'ambiente era cambiato; anziché uno stretto varco c'era un'ampia baia, popolata da bellissime e terrificanti orche che giocavano e lanciavano spruzzi nel sole di quella fulgida primavera australe.

Evidentemente masse di ghiaccio di parecchi ettari si erano staccate dalla Barriera (che, almeno per gran parte della sua immensa estensione, non poggia sulla terraferma ma galleggia sull'acqua) dopo che la Discovery era passata nel 1902. Questo poneva in una luce nuova il nostro piano di piazzare il campo sulla Barriera stessa; e mentre discutevamo le alternative, chiedemmo al capitano Pardo di portare la nave più a ovest, lungo la faccia della Barriera, verso l'Isola di Ross e lo Stretto di McMurdo. Poiché il mare era calmissimo e privo di ghiacci, fu lieto di accontentarci e, quando avvistammo il pennacchio di fumo del monte Erebus, partecipò ai nostri festeggiamenti... con un'altra mezza cassa di Veuve Clicquot.

La Yelcho gettò l'ancora nell'Arrival Bay, e noi andammo a riva con la lancia della nave. Non so descrivere la mia emozione quando misi piede a terra, su quella ghiaia brulla e fredda ai piedi del lungo pendio vulcanico. Provavo euforia, impazienza, gratitudine, reverenza, familiarità. Sentivo, finalmente, di essere arrivata a casa. Otto pinguini di Adelia vennero immediatamente ad accoglierci con molte esclamazioni di interesse non esenti da disapprovazione. «Dove diamine siete state? Perché ci avete messo tanto? La Baracca è qui, da questa parte. Da questa parte, prego. Attente alle rocce.» Insistettero perché andassimo a visitare Hut Point, dove era ancora parzialmente in piedi la grossa struttura eretta dal capitano Scott, che appariva esattamente come nelle fotografie e nei disegni del suo libro. L'area circostante, tuttavia, era disgustosa... una specie di cimitero di pelli di foca, ossa di foca, ossa di pinguino e rifiuti, presieduto dagli skua che gridavano come pazzi. I nostri accompagnatori attraversarono quel mattatoio con la più grande tranquillità, e uno mi scortò personalmente fino alla porta, anche se non volle entrare.

L'interno della baracca era meno ripugnante, ma molto tetro. Le casse delle provviste erano accatastate in modo da formare una specie di stanza nella stanza; non sembrava affatto come l'avevo immaginata quando gli uomini della Discovery avano messo in scena i loro melodrammi e i loro spettacoli canori nella lunga notte invernale. (Molto più tardi venimmo a sapere che Sir Ernest aveva risistemato un po' tutto quando era stato lì un anno prima di noi.) Era sporco, e c'era un gran disordine. Una lattina di tè da una libbra era aperta. Tutto intorno c'erano scatolette di carne vuote; c'erano molte gallette sparse al suolo, e una quantità di escrementi di cane... gelati, naturalmente, ma questo non migliorava molto la situazione. Senza dubbio gli ultimi inquilini avevano dovuto andarsene molto in fretta, forse in mezzo a una tormenta. Comunque, avrebbero potuto chiudere la lattina di tè. Ma la cura della casa, l'arte dell'infinito, non è un gioco per dilettanti.

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