Copertina
Autore Annejet van der Zijl
Titolo Sonny Boy
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007, Gli specchi della memoria , pag. 240, ill., cop.fle., dim. 13,4x21x2 cm , Isbn 978-88-317-9207-3
OriginaleSonny Boy
EdizioneNijgh & Van Ditmar, Amsterdam, 2004
TraduttoreFranco Paris
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa olandese
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Indice

    9    Il fiume, 1923
   13    Novembre in Olanda
   27    Il mondo di Waldemar
   53    L'ospite
   77    Pensione Walda
   99    Al mare
  121    Rimanere nell'ombra
  151    Gli occhi di Rika
  175    Nord nord-est
  195    Il figlio del peccato
  217    Il mare, 1945

  223    Postfazione

  229    Referenze

 

 

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Pagina 9

IL FIUME, 1923



Waldemar era un nuotatore. Non ancora quindicenne, già copriva agilmente distanze anche di venti chilometri lungo piantagioni abbandonate e tra fitti pontili, da Domburg fin giù alla grande casa di sua madre sul Waterkant, la riva. Questo era il percorso della maratona, riservato ai nuotatori migliori e più resistenti di Paramaribo. Nonché ai più astuti, dato che il fiume Suriname somigliava a un coccodrillo con gli occhi socchiusi: silenzioso ma mortale. Quando Waldemar di mattina s'incamminava per andare a scuola, l'acqua si infrangeva ancora languida contro le sponde del fiume che scorreva ordinato verso il mare seguendo la corrente. Ma quando tornava a casa di pomeriggio poteva osservare le viscere melmose profonde anche metri che splendevano al sole, e gli aironi-sabaku che mangiucchiavano tra le imbarcazioni arenate. E, al calare delle tenebre, il fiume sembrava essere sospinto da un'invisibile forza titanica contro corrente mentre le onde lambivano inattese gli intrecci delle radici dei mandorli lungo il Waterkant.

Il fiume giocava col vento a un gioco insondabile. A volte era accondiscendente, in altri momenti si ribellava ostinato, sì da far increspare l'acqua e trasformarla in un vortice che schizzava da tutte le parti. Un assassino a tradimento, ecco cos'era, e quasi ogni famiglia del Suriname aveva perso un figlio o un nipote temerario in questa arteria vitale della città. Tuttavia i ragazzi continuavano ad andarci, con i loro corpi bruni e slanciati, guizzando in acqua come pesci. Perché tener testa al fiume significava conquistare il mondo – il rispetto agli occhi dei compagni di classe, le occhiatine furtive delle ragazze che la domenica stavano appiccicate le une alle altre nella Oranjeplein con i loro abitini bianchi immacolati.

Waldemar era noto per essere un ragazzo tranquillo, piuttosto riservato. Certo non uno spericolato come il fratello maggiore, ma nemmeno un principino viziato come la sorellina, che si crogiolava fin troppo nella parte della figlia di uno degli uomini più ricchi della colonia. Quando nuotava, però, succedeva qualcosa di prodigioso. Persino i bulli della zona si riversavano in silenzio sul pontile e involontariamente il loro sguardo restava incollato a quella sorprendente interazione tra il giovane e l'acqua. Sembravano giocare l'uno con l'altro, lui e il fiume.

Waldemar non aveva mai paura della voracità del fiume, perché lo conosceva meglio di chiunque altro. Da piccolo passava ore intere seduto a osservarlo dalla veranda di casa, e gli capitava di addormentarsi col rumore delle onde.

E, col passare degli anni, capiva sempre meglio il suo andamento determinato dalla luna e dall'oceano, e la sua tenacia malgrado il disturbo del vento nel completare il ciclo delle maree. I movimenti dell'acqua gli erano familiari quasi quanto i rituali nelle faccende domestiche di sua madre. Sapeva che nuotare era una questione non solo di muscoli, ma anche di rispetto verso il fiume, di adattamento ai suoi capricci e alle sue bizze, consisteva nell'individuare il punto giusto dove nuotare e soprattutto il momento giusto per farlo.

Il vaporetto del servizio postale reale delle Indie Occidentali partiva ogni quattro settimane alla volta dell'Olanda. Le bandierine sventolavano sulla nave addobbata a festa, Fort Zeelandia sparava un colpo di cannone in segno di congedo e i passeggeri sul pontile allungavano il collo per intravedere un'ultima volta i loro cari. E Waldemar e i suoi amici si lasciavano trascinare nella scia spumeggiante a bordo di una barchetta per chilometri e chilometri, fino a Fort Nieuw Amsterdam, lì dove il Suriname vorticando confluiva nell'altrettanto imponente Commewijne con la prima apparizione del blu dell'oceano. Lì scioglievano le cime per tornare di nuovo in città pagaiando, dopo aver gridato un ultimo saluto ai passeggeri. E Waldemar si tuffava nell'acqua salmastra e nuotava verso casa. Una bracciata dopo l'altra, metro dopo metro, finché trovava il suo ritmo e fendeva l'acqua con naturalezza. Tutto gli scivolava via e alla fine si ritrovava solo con se stesso, figlio del Suriname, cresciuto col fiume. L'acqua lo portava, era sua amica.

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Pagina 53

L'OSPITE



La terra promessa sulla quale Waldemar e i suoi amichetti avevano fantasticato per anni dondolandosi tra i rami degli alberi di guava si rivelò, dal momento che mise piede a terra, tutt'altra cosa rispetto alle attese. Dovette aspettare ancora a lungo prima di muovere i primi passi sul suolo olandese perché, non appena l'Oranje Nassau attraccò al molo Suriname di Amsterdam, i passeggeri danesi iniziarono a chiamare la polizia a squarciagola. Fecero denuncia di omicidio, perché ritenevano che il medico di bordo non avesse trattato come si conveniva la loro madre e moglie. Il corpo, che nel frattempo versava in avanzato stato di decomposizione, ne era la prova. Per consentire le indagini tutti i passeggeri dovevano restare sulla nave e ci volle ancora quasi una settimana prima che Waldemar venisse portato all'Aja da suo "zio" Dave.

Era un mondo completamente nuovo quello che gli si presentò. Gli alberi erano così spogli che sembravano morti, le strade e marciapiedi sembravano tracciati con una riga e - questa forse era la cosa piu curiosa - i bianchi qui facevano lavori che in Suriname facevano storcere il naso persino alle persone di colore, come la raccolta dei rifiuti e la pulizia delle strade. Tutto era diverso: persino la luna qui stava ferma immobile invece di stravaccarsi come a casa.

Il clima era freddo, e le persone ancor di più. La moglie di David, per esempio, aveva modi stranamente distaccati nei suoi riguardi. Per quanto Waldemar fosse calmo ed educato, Christien aveva da ridire su tutto ciò che faceva. Anche i suoi due figli si comportavano in modo singolare – sembravano avere un po' paura di lui e si nascondevano sotto il tavolo quando provava a giocare con loro. Lo stesso David Millar riusciva a malapena a trovare il tempo di stare un po' con il suo fratellastro. Quelle rare volte che era a casa era facilmente irritabile perché aveva avuto una giornata di lavoro faticosa.

La maggior parte dei surinamesi che arrivavano in Olanda si stabiliva nella disinvolta e cosmopolita Amsterdam, dove si potevano trovare molti connazionali sia nei caffè dei marinai intorno alla Zeedijk che nella zona portuale. Nel frattempo si era formata una fiorente comunità con alcune associazioni indipendenti, come il Sindacato dei lavoratori del Suriname nei Paesi Bassi e l'Associazione Suriname nostro. Ma l'Aja non aveva né l'atmosfera né la vita mondana favorevoli a una rapida integrazione di coloro che provenivano dalle Indie Occidentali. Anche le differenze di classe lo avevano accompagnato nella traversata. I surinamesi agli occhi degli olandesi si somigliavano tutti, erano tutti più o meno neri, ma tra loro i nuovi arrivati continuavano a osservare le rigide differenze che vigevano nella colonia e uno studente di colore non ci pensava proprio a trattare alla pari con un macchinista nero.

Benché le fortune dei Nods nel corso degli anni si fossero assottigliate, a Paramaribo Waldemar apparteneva inequivocabilmente ancora all'élite. Ma qui, all'improvviso, era diventato un povero diavolo nero al centro di tutto quel benessere che lo circondava. Perché se i fiorini raccolti con tanta fatica da tutti i suoi familiari rappresentavano una fortuna a casa sua, qui non bastavano nemmeno a comprare qualche abito più pesante.

Nella famiglia che l'ospitava Waldemar sicuramente non era il benvenuto, ai corsi di preparazione all'università era considerato un estraneo e per la strada un fenomeno da baraccone. A volte la gente lo sfiorava di nascosto per vedere se stingeva e nel tram i bambini lo fissavano come se avessero avuto davanti l'Uomo Nero in persona. Sconcertato, il primo anno lo passò a vagare per le interminabili strade tra i mastodontici palazzi dell'Aja. Nessuno lo conosceva, e sembrava che nessuno avesse voglia di farlo, era diventato schivo e insicuro e soprattutto molto, molto solo.

Persino in estate Waldemar non era riuscito a rimuovere la nostalgia per Paramaribo, la divertente vita nei tropici e il fiume. I colori dei fiori olandesi gli sembravano piatti, e appena l'aria si era intiepidita ecco che l'autunno si annunciava di nuovo. Quando Christien gli disse che doveva traslocare da una cugina che aveva appena aperto una pensione, aveva già perso le speranze di star meglio un giorno. Era di nuovo novembre, lo aspettava un altro inverno e lui non aveva né i vestiti né il carattere per affrontarlo.


Martedì 20 novembre 1928, di mattina, Rika e i suoi figli si sistemarono nell'appartamento al primo piano nel1'Azaleastraat. Quello stesso giorno Waldemar si trasferì da loro. Due settimane e passa dopo il trasloco, in occasione della festa olandese per San Nicola, Rika si fece fotografare insieme alla sua famiglia. L'obiettivo immortalò lo sguardo piuttosto triste dei ragazzi. Strappati via all'isola e ai loro amici, non si erano ancora abituati al nuovo stile di vita. La mamma aveva un'aria severa, ma sembrava comunque più magra e riposata rispetto alle fotografie scattate qualche mese prima. Avere una casa propria le dava una certa sicurezza, tanto più che stavolta poteva occuparsi con il solito calore non solo dei suoi figli, ma anche dell'ospite che con la sua pelle così scura aveva un'aria esotica e nello stesso tempo insolitamente familiare — non foss'altro perché gli preparava da mangiare ogni giorno, gli lavava i panni e gli rifaceva il letto. Trovava che Waldemar fosse troppo magro per la sua altezza, e quindi imparò appositamente per lui a cucinare il riso, che lui mangiava con la salsa che il resto della famiglia metteva sulle patate.

Waldemar rifioriva a vista d'occhio, grazie all'atmosfera che si respirava da Rika, leggermente caotica ma sempre allegra. Gli piaceva l'idea di una grande famiglia e ci sapeva fare con i ragazzi, più di una volta li aveva lasciati a bocca aperta raccontando loro storie sulla terra meravigliosa e calda dalla quale proveniva, dove le foglie restavano sempre attaccate agli alberi, dove non dovevi mai indossare indumenti pesanti e potevi nuotare ogni volta che ne avevi voglia. Quando Rika accendeva la radio, gli brillavano gli occhi e a volte si lanciava con lei in un ballo, per una forma di galanteria. E la sera, quando i ragazzi andavano a dormire, Rika era felice di avere un adulto in casa con il quale poter parlare. Certo, era parecchio più giovane di lei, ma sapeva ascoltare e sembrava sapere il fatto suo. Ed era anche un bell'uomo, non lo si poteva negare, soprattutto ora che stava diventando più robusto e disinvolto.

«Le donne bianche sono più miti» avevano sentenziato Waldemar e i suoi amici un tempo, e anche se durante il primo anno di permanenza in Olanda aveva seriamente dubitato di tale affermazione, quando si trasferì nell'Azaleastraat iniziò a pensare che tutto sommato forse conteneva un fondo di verità. La sua affittacamere era indubbiamente una donna dolce e affettuosa, talvolta gli ricordava persino la madre che, malgrado i maltrattamenti subiti dal marito e la conseguente, difficile condizione di donna sola, era rimasta cordiale e disponibile con tutti. La voglia di vivere e l'atteggiamento indipendente di Rika assomigliavano a quelli delle donne surinamesi, e anche se era più grande di lui di parecchi anni, restava pur sempre malgrado la corporatura una donna molto attraente — soprattutto adesso che si curava di più e lo guardava con quegli occhi radiosi.

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Pagina 117

Per una volta la piccola storia personale e la Storia con la S maiuscola sembravano in sintonia. Perché il Natale del 1941 segnò una svolta memorabile non solo per Rika ma anche per la guerra. Quando Hitler, l'estate precedente, aveva fatto partire l'operazione Barbarossa, l'imponente campagna contro la Russia, era talmente convinto che avrebbe demolito l'Unione Sovietica con la stessa facilità con cui aveva conquistato l'Europa che non aveva ritenuto necessario neppure dotare le truppe di un equipaggiamento invernale. Ma i russi seguirono con successo la tattica della terra bruciata. Distrussero ogni cosa nella loro lunga ritirata, in modo da costringere l'esercito tedesco ad allungarsi su un territorio molto vasto e ad avere grossi problemi di approvvigionamento. Quando arrivò il crudele inverno russo i tedeschi dovettero affrontare un altro, formidabile avversario e ai primi di novembre del 1941 Hitler, l'invincibile, perse a Mosca la sua prima grande battaglia.

Se il leader dei tedeschi fosse stato un politico di razza, avrebbe potuto decidere di consolidare la propria posizione e concedere un periodo di pace al popolo che lo aveva ciecamente seguito nelle sue guerre. Ma la preponderante sete di vittoria di Hitler gli impedì di prendere atto di quella sconfitta. Dava quasi l'impressione di essere irritato per non aver riportato una rapida vittoria sui russi e di voler mirare, da quel momento in poi, unicamente a mettere a ferro e a fuoco il mondo. La prima vittima del nuovo corso fu il paese che lui aveva prescelto e che aveva osato deluderlo. Il 27 novembre, in un discorso alla radio, disse: «Se il popolo tedesco non è abbastanza forte e pronto a sacrificare il proprio sangue per la sua esistenza, allora deve soccombere e venire distrutto da un'altra forza, più potente... non verserò lacrime per il popolo tedesco».

Il 7 dicembre 1941, di primo mattino, il principale alleato della Germania, il Giappone, sferrò un attacco tanto repentino quanto distruttivo contro la flotta militare americana ancorata a Pearl Harbor. L'America dichiarò guerra al Giappone, Hitler fece lo stesso con l'America e adesso a un tratto nessun continente restava più fuori dal conflitto scoppiato in Europa. Curaçao e il Suriname furono occupati dalle truppe americane, allo scopo di garantire il rifornimento di materie prime indispensabili per l'industria bellica. Il primo ministro Gerbrandy, leader del governo olandese in esilio a Londra, predisse: «Questa guerra sarà vinta con flussi di petrolio e carichi di bauxite».

L'ultimo legame di Waldemar con la sua terra natale era stato reciso e quando i giapponesi, nel febbraio del 1942, invasero le Indie Olandesi si interruppe di colpo anche il contatto con sua sorella Hilda. Ogni sera ascoltava teso, insieme al figlio, le notizie dal fronte comunicate dalla radio inglese, in attesa di nuove sull'invasione alleata nel continente che ormai doveva essere imminente. Ma a Berlino ci si era resi conto della vulnerabilità del lato occidentale dell'impero nazista ed era stato impartito l'ordine di costruire una linea difensiva lunga quasi tremila chilometri lungo la costa del Mare del Nord: il vallo atlantico. Nei Paesi Bassi sarebbero sorte due grandi fortificazioni: una a Ijmuiden e una a Scheveningen. Sulle carte topografiche militari comparve una striscia che tagliava in due la Pensione Walda.

All'inizio Rika e Waldemar non notarono grossi cambiamenti, anche se aumentavano sempre più i posti di vedetta tedeschi sul lungomare, sulla spiaggia, sul molo e sui tetti dei grandi alberghi. Ma le prenotazioni per la nuova stagione estiva crollarono e Rika, per fronteggiare l'emergenza, fu costretta a vendere parte dei mobili e a chiedere un prestito a uno dei suoi fratelli. «Sono anch'io vittima di guerra» gli scrisse in tono di scuse promettendo che avrebbe restituito i soldi ai primi arrivi di bagnanti con il bel tempo. Ai primi di aprile, però, sia la spiaggia che le dune furono dichiarate zone proibite dagli occupanti. Ciò equivaleva a una condanna a morte sia per Scheveningen che per la pensione.

Anche l'ultima speranza di Rika e Waldemar di poter perlomeno restare sullo Zeekant morì un mese dopo. Il sindaco dell'Aja ordinò di sgombrare trecentonove case situate in luoghi strategicamente sensibili e anche al numero 56 dello Zeekant si presentò un poliziotto con la temuta comunicazione. Il 22 maggio prima delle sei di sera la famiglia Nods avrebbe dovuto consegnare le chiavi di casa alla stazione centrale di polizia. In cambio gli sarebbe stata assegnata un'abitazione temporanea a Rijswijk. In poche settimane piene di confusione e di fretta sparirono la Pensione Walda e tutto ciò che Rika e Waldemar, nel corso degli anni, avevano costruito con tanta fatica e amore. «Qui a Scheveningen fanno tutti i bagagli. Anche mamma trascina grosse valigie» scrisse Jan, che in quel momento alloggiava da lei. Waldemar scattò un'ultima fotografia del figlio in spiaggia, in piedi vicino a un frangiflutti, tremante nella sua giacca troppo grande. Era un giorno di primavera insolitamente freddo e nuvoloso, e il padiglione rotondo alla fine del molo si innalzava dietro di lui come un palazzo marino tra la nebbia. Per uno scherzo del destino anche l'ultima annotazione nel libro degli ospiti, come la prima, fu in tedesco. Fu scritta da un militare acquartierato da loro, che doveva lasciare la pensione come gli altri. «Qui, dalla famiglia Nods, mi sono sentito a casa» scrisse. «Peccato che debba andare via, ma il dovere chiama».

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Pagina 127

La Stevinstraat, dove abitava la famiglia Nods, si trovava ai margini del Belgisch Park, un quartiere in cui durante la prima guerra mondiale si erano stabiliti molti ebrei di Anversa. Ma a mano a mano che i treni viaggiavano in direzione di Westerbork, il loro mondo andava svuotandosi. Le strade erano sempre più abbandonate e sempre più negozi chiudevano i battenti. Dal balcone della loro casa Waldy vedeva regolarmente per strada gruppetti di persone dall'aria afflitta scortati da soldati tedeschi. Si trattava di persone scovate nei loro nascondigli e condotte al quartier generale della "sezione affari ebrei", incaricata di ripulire la capitale dagli ebrei, nella Villa Windekind sulla Nieuwe Parklaan, verso il penitenziario di Scheveningen. Dato il gran numero di partigiani che vi erano rinchiusi, l'edificio era stato soprannominato Oranjehotel. Qualche volta Waldy vedeva facce note tra gli arrestati: amici del padre, colleghi della madre, commercianti da cui avevano fatto acquisti. Un brutto giorno, spaventandosi, riconobbe anche il fornaio Rädler, un tipo sempre di buonumore che spesso insieme a Topsy aveva accompagnato quando faceva i suoi giri con il carro, uno che considerava un amico. Con la barba nera trascurata e gli zoccoli l'ometto aveva un'espressione miserevole.

Durante i primi anni dell'occupazione i Paesi Bassi erano rimasti abbastanza passivi, ma adesso che gli uomini olandesi e gli ebrei venivano trascinati a migliaia rispettivamente in Germania e nell'Europa dell'est cresceva la resistenza. Come funghi spuntarono dappertutto nel paese cerchie di persone che fornivano un rifugio sicuro, giornaletti illegali e squadre di pronto intervento. Alla fine del 1942 i vari focolai di resistenza regionali si unirono per formare l'Organizzazione nazionale per l'aiuto ai clandestini che in un primo momento si proponeva di sostenere i clandestini olandesi. Ma quando dopo la primavera del 1943 fu chiaro che ogni ebreo ancora libero correva enormi pericoli ci si concentrò maggiormente su questo gruppo. Crebbe in maniera esponenziale la richiesta di nascondigli. L'organizzazione cercava simili "rifugi" soprattutto nella cerchia delle persone con profonde convinzioni religiose e la possibilità che Waldemar e Rika, attraverso la chiesa cattolica, fossero inseriti in questa rete clandestina era molto alta.

I Nods erano in effetti candidati ideali: avevano una famiglia piccola e una casa grande, avevano sempre avuto ebrei tra i loro amici e conoscenti e, inoltre, sapevano bene come alloggiare degli ospiti. Per di più, già prima della guerra, erano noti per la loro disponibilità e la quantità di tempo ed energia che dedicavano al prossimo. Waldemar aveva ereditato dalla propria cultura un innato senso dell'ospitalità, in Rika era una questione di carattere, e stando insieme tale caratteristica si era accentuata ancor di più. In generale non erano i coniugi con dei problemi quelli che decidevano di offrire rifugio a qualcuno, perché la sofferenza non sempre purifica, l'amore invece sì.

Per Rika, che per gran parte della sua vita da persona adulta aveva gestito con molto piacere una pensione, in un primo momento accogliere persone che si nascondevano fu una sorta di sbocco logico, che faceva appello alla sua esigenza di aiutare gli altri e al suo senso della giustizia, e poi era anche un bel modo per arrotondare un po' le entrate. Perché, come scrisse nel gennaio del 1943 a uno dei suoi fratelli, insieme alla pensione aveva perso anche il benessere prebellico:

Ho il denaro contato, grazie a Dio non ho debiti, ma devo fare economia. Per fortuna tutto quadra e viviamo felici e contenti. Non ho niente da rimproverarmi, capita, la guerra ha fatto ricco te e povera me. Rimetto tutto nelle mani di Dio e ogni mattina saluto il nuovo giorno con rinnovato coraggio e forza. E affronterò fiduciosa ogni guaio.

Le famiglie ospitanti ricevevano carte annonarie e spesso anche un rimborso per ogni clandestino accolto, che poteva ammontare a quarantacinque fiorini al mese per gli olandesi e sessanta per gli ebrei – una somma non insignificante dato che un salario mensile di centocinquanta fiorini era considerato discreto.

E all'inizio Waldemar e Rika non avevano la sensazione di fare qualcosa di terribilmente pericoloso. La Pensione Walda aveva sempre avuto molti clienti tedeschi, che si erano rivelati persone civili e cortesi. Il terrore messo adesso in mostra dal regime nazista lo consideravano come il disperato colpo di coda di un gatto costretto in un angolo, qualcosa che di sicuro non riscuoteva il consenso della parte benpensante del popolo tedesco. Così in un primo momento questa loro attività illegale tradiva molto dilettantismo. Henk, una volta che era passato a trovare la madre nella Stevinstraat, aveva visto con spavento che dalla strada si vedeva benissimo il retro della loro radio clandestina nel bovindo. Ma Rika lo aveva rassicurato, dicendogli che era troppo pessimista. Quando Henk, poco dopo, vide nelle camere al piano di sopra dei letti in disordine e delle posate usate e chiese, sorpreso, di chi fossero, la madre gli rispose con altrettanta disinvoltura che nella casa vivevano dei clandestini. Adesso non c'erano, erano andati a prendere del pesce al porto.

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