Autore Sophie van Llewyn
Titolo Bottigliette
EdizioneKeller, Rovereto, 2020, Vie , pag. 230, cop.fle., dim. 13x18x1,5 cm , Isbn 978-88-99911-90-4
OriginaleBottled Goods [2018]
TraduttoreElvira Grassi
LettoreGabriela Zotica, 2021
Classe narrativa romena












 

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Pagina 11

I bassi della nostra famiglia



Sto facendo i compiti sulla storia del socialismo quando chiama zia Theresa.

«Alina? Tua madre è in casa?» chiede.

«No» dico. «Fa il turno tardi questa settimana, Prima delle otto non torna».

«Bene. Ti passo a prendere tra mezz'ora. Mettiti qualcosa di nero e gli scarponcini». E prima che io possa avere qualcosa da ridire riaggancia.

Mezz'ora dopo, il suono profondo del clacson della sua Volga nera, simile a quello di una nave, mi attira giù di sotto. L'automobile ha forme ben definite, voluttuose. Il soffice manto di neve sul tettuccio mi fa pensare a una donna formosa che indossa un cappello di pelliccia di coniglio. Nella Repubblica socialista di Romania del 1967, questa macchina è una prerogativa dei notabili del partito, come zio Petru.

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Pagina 20

Caro Babbo Gelo,



Lo so che ho vent'anni e sono quasi una donna sposata, ma sono dispostissima a credere ancora in te se tu prendessi in considerazione l'eventualità di portarmi anche una sola delle cose della lista qui sotto. In cambio ti prometto devozione e amore eterno. Predicherò in tuo nome per le strade, anche se è proibito e pur correndo il rischio di essere fermata dalla polizia o dai servizi segreti che poi mi picchierebbero e mi sottoporrebbero all'elettroshock per estirpare tutte le credenze popolari e religiose dalla mia testa. Userei il tuo vero nome, quello che avevi prima del 1948, quando il Partito comunista è salito al potere: Babbo N. Tu portami una di queste cose e vedrai che arriveremo a un accordo sul pagamento. Ti prego. Pure mezza va bene.

Qualunque cosa.


Lista dei desideri:

• Un paio di jeans Levi's.

• Un rossetto, come quello che si mette l'insegnante di pianoforte, di un elegante tono bordeaux.

• Meglio ancora dei primi due, un paio di stivali nuovi. La suola di quelli neri è talmente consumata che quando piove scivolo - sono caduta due volte la settimana scorsa. Non oso immaginare cosa succederà con la neve.

• Ma meglio ancora, un fornello elettrico portatile da usare in camera. Non ne posso più di cucinare ogni cosa utilizzando il riscaldatore a immersione.

• Un aumento, così potrò comprarmi tutte queste cose e mandare un po' di soldi a Liviu, Perché gli stipendi degli insegnanti sono tanto bassi?

• Il mio fidanzato. Aiutalo a finire l'università quest'anno, non il prossimo. Questo mese. Oggi.

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Pagina 33

Prima che inizi la lezione, Alina e i bambini cantano Trei Culori, l'inno nazionale, mentre contemplano ammirati la foto di Ceauşescu. Da sopra la lavagna, l'Amato Leader sorride, li guarda dall'alto come un fratello maggiore,

Niente è cambiato.

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Pagina 55

Citazioni da mia madre (commentate)
PRIMA PARTE



A te non sarebbe mai venuto in mente di fare una cosa del genere! È tutta colpa di Liviu. Te l'avevo detto che non dovevi sposarlo, quell'uomo! Lui e la sua famiglia di rivoluzionari!»

Questa dichiarazione è il modo in cui mia madre ha reagito non appena le ho raccontato l'episodio della rivista.

La sua affermazione era errata sotto molti aspetti:

• Liviu non era in classe quando ho deciso di chiudere un occhio su ciò che stava succedendo.

• La famiglia di Liviu era di gran lunga più povera e meno coinvolta politicamente della nostra. Si dà il caso che nessuno dei suoi parenti stretti fosse un membro del Partito liberale né del Partito conservatore o di un qualunque altro partito (a differenza di mio nonno). L'unica colpa del nonno di Liviu era stata quella di aver provato a opporsi alla collettivizzazione (un modo elegante per dire che "il governo comunista gli portava via le terre"). Ragion per cui gli era stato conferito un soggiorno di due anni in una cella sotterranea.

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Pagina 66

La caccia



Ogni martedì pomeriggio, l'uomo in completo grigio si materializza emergendo dalle ombre proiettate dal palazzo di Alina, dal fumo emanato dalla propria sigaretta. Solleva il cappello in segno di saluto e Alina, girandosi dall'altra parte per sottrarsi alla vista della cicatrice che gli taglia in due il sopracciglio, lo invita frettolosamente dentro. Non vuole dargli il tempo di parlare, di srotolare quelle temute parole da qualche oscuro recesso della mente:

«Compagna, mi segua al quartier generale».

Questa frase segnerebbe la fine della sua intrepida fantasia in cui interpreta la parte di un'eroina sconosciuta della Resistenza. Nei sotterranei puzzolenti di muffa, lei finirebbe per consegnare ai servizi segreti la sua allieva, tra sussulti e balbettii e altri suoni bruschi e striduli di cui ha troppa paura per poterli solo immaginare.

A casa sua invece può rabbonire l'uomo dei servizi segreti con i colori caldi dell'appartamento, con la torta, il caffè e i sorrisi che non si riflettono nei suoi occhi spaiati. Ogni lunedì sforna una torta, in modo tale che l'uomo possa sedersi sulla sua poltrona preferita, la sigaretta in una mano, la torta nell'altra, e distendere le gambe. Oggi ha i calzini verde smeraldo. Per Alina è più semplice guardare i calzini che i suoi occhi, azzurri come la lama di un coltello, mentre attende il taglio.

«Compagna, facciamo due chiacchiere, eh?»

Alina annuisce, seguendo con lo sguardo la cenere che l'uomo sparge sul tappeto tessuto a mano.

«Compagna Mungiu, il 15 ottobre Allieva Atanasiu ha portato a scuola articoli di contrabbando. Mi è stato fatto intendere che lei abbia facilitato la fuga della suddetta allieva. È vero?»

«No. Mia nonna aveva un tappeto sulla parete, un arazzo, sa? Un oggetto antico proveniente dalla Francia ben prima che venissimo illuminati dal comunismo».

In questo Paese, fingere di non vedere è un'arte, un'abilità che si impara da giovani. Altrimenti, ecco che si dipana il sentiero delle spie. Ma lui è implacabile.

«Allora perché la figlia di compagno Săpunaru dice che lei ha assistito all'intero episodio?»

«Oh, i bambini non fanno che litigare, non le pare? Di solito non ci bado più di tanto. L'arazzo. I colori sono sbiaditi ma la scena di caccia si vede ancora. In una radura, nel bosco, un gruppo eterogeneo di cani da caccia, cavalieri a cavallo, battitori, tutti all'inseguimento di un cervo terrorizzato».

Ogni volta che arriva l'uomo dei servizi segreti, Alina aspetta che la spada sospesa sopra la sua testa cada e gliela tagli di netto, ma questa non è l'arma preferita dell'uomo. Lui le spreme l'aria fuori dai polmoni, a poco a poco, stringendole il petto con le minacce.

«Compagna, lo sa cosa succede ai dissidenti? Ai loro complici? Me lo dice, compagna?» E poi, in un sussurro, «non lo sa? Suo marito... non le ha raccontato molto a quanto pare».

No, Liviu non le ha raccontato cosa è successo nei sotterranei dei servizi segreti. Dopo tre giorni passati ai "quartieri generali", è tornato a casa con addosso puzza di piscio e sangue. Ha chiuso la porta del bagno e ha lasciato scorrere l'acqua per due ore buone. Quando è uscito se ne è andato dritto a letto. Nel cuore della notte, in un capriccio di luce lunare, lei si è accorta che Liviu aveva tante piccole bruciature sulle piante dei piedi.

Luomo alza la voce mentre i suoi occhi le perlustrano lo stretto spazio fra i seni, la porzione di coscia che ora può vedere. La gonna si è sollevata mentre lei si agitava.

«Non si è mai chiesta perché non le ha raccontato niente?»

«Mi è sempre sembrata un po' una sproporzione». Le trema la voce, come ai suoi allievi quando recitano una poesia che non hanno mandato bene a memoria. «La caccia, intendo. Tutti quei cacciatori per un solo cervo. Mia nonna aveva dato un nome a quell'arazzo. La chasse? No, non era questo. Non mi-»

«Compagna, lei non è collaborativa. Sta cercando di distrarmi. Le ho fatto una domanda molto semplice».

«No, no, non ho visto niente! Perché non mi crede?»

Alina ha una voce acuta e le lacrime agli occhi. Lui le ghermisce la mano tremante.

«Voglio che ci rifletta bene questa settimana. Magari qualcosa le tornerà in mente».

Molla la presa e si alza per andarsene ma le loro dita si toccano quando lei gli porge il cappotto, e quando lui si china per prendere il cappello il naso le sfiora i capelli. Le loro spalle si urtano nel momento in cui lui si avvia verso la porta. Alina sa che se si mettesse a gridare nessuno la sentirebbe.

«È battue» dice lui senza voltarsi.

«Prego?»

Rimangono fermi nello stretto corridoio e l'odore virile di lui le provoca un senso di soffocamento.

«La parola che non ricordava. È battue».

«Sì, certo. Battue. Battuta».

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Mia madre mi ha chiesto: Cosa ci fai a casa? Non dovresti essere a scuola? Hai messo lo zucchero nel caffè?

Le ho chiesto: Cosa ci fai tu a casa mia quando sai che dovrei essere a scuola? Come hai fatto ad aprire la porta?

Lei ha detto: Lo sai che a me il caffè piace amaro.

Ho detto: Allora non berlo, sperando quasi che non lo bevesse.

Lei l'ha ingollato come se fosse vodka, tutto d'un fiato, contorcendo la faccia una volta finito.

Ha detto: Mi accontento delle briciole che mi lascia mia figlia. Ora potrei avere un caffè per favore? Amaro.

In cucina, mi sono seduta e ho aspettato, tremante.

Lei ha iniziato a urlare: Alina! Alina!

Sono tornata in salotto e l'ho vista nel bel mezzo del suo rimpicciolimento. Prima che raggiungessi la poltrona dov'era seduta, mia madre era della grandezza di un neonato. Le ho tolto freneticamente i vestiti per paura che soffocasse. Quando ho finito, era alta quanto due diti medi. Forse più cicciottella. Nuda, fredda, impaurita, grinzosa e piccola.

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Beni in bottiglia



La luce nella stanza dell'interrogatorio ha una sfumatura verdognola, proprio come la bile che le risale in bocca. Alina deve mandarla giù, più e più volte, lasciando uno stradone bruciante dietro di sé. Le succede ogni volta che non mangia per un giorno intero, ma questo è il tempo che ci impiega una squadra di uomini a smontare una Dacia in cerca di denaro o gioielli nascosti. Qualcosa che potrebbe essere utile per loro nel caso, mai sia!, cercassero di scappare a Ovest. Ti è concesso di abbandonare la patria solo per andare in Paradiso, ma comunque il governo comunista non ci crede, nel Paradiso. La polizia di frontiera non crede che Alina e Liviu stiano andando in Germania per farsi una vacanza. E non sanno che non troveranno in lei il più grande segreto che si porta appresso. Giace nel posto a cui appartengono i segreti in tutte le storie d'avventura - sepolto nel bosco.

È pressappoco un giorno che sono trattenuti al confine, e Alina immagina i minuscoli pugnetti della madre battere contro la parete di vetro che potrebbe rivelarsi la sua bara. Mai avrebbe immaginato che sarebbe passato così tanto tempo prima di poter fare la chiamata che l'avrebbe messa in salvo.

Sebbene sia qualcosa che non dovrebbe fare, Alina si copre la faccia con le mani e comincia a pregare.

La sera prima di partire, lei e Liviu erano andati nel loro posto prediletto per i picnic, nel bosco vicino al monastero. Avevano scavato una buca con le mani e con due cucchiai. È lì che avevano calato la boccetta di profumo contenente la madre, piano piano, per non svegliarla. Si era addormentata in macchina - Alina l'aveva tenuta d'occhio attraverso il vetro rosato trasparente. Per uno strano caso, Alina aveva pensato alla favola di Biancaneve, malgrado sapesse che non ci sarebbe stato nessun principe a dare alla madre il bacio che le avrebbe ridonato la vita.

L'aveva deposta nella buca, non distante dal punto in cui insieme a zia Theresa aveva seppellito il nonno, e si era fatta tre volte il segno della croce, come buon auspicio.

Poi, mentre si dirigevano verso il confine, il silenzio tra lei e Liviu era più fitto del buio. Dal finestrino Alina riusciva a distinguere solo i contorni ombrosi degli alberi su un lato della strada, niente più.

«Non capisco perché non potevi lasciarla a Theresa» aveva detto Liviu, squarciando il silenzio.

«Te l'ho detto. Non se la sarebbe mai presa. Ormai la chiamo quando arriviamo in Jugoslavia e le dico dove trovare mamma».

«Perché dopo che passiamo il confine? Perché non glielo dici adesso, o tra poco?» aveva chiesto Liviu, tamburellando le dita sul volante.

Alina aveva scosso la testa. «No, no. Figurati, mai e poi mai la toccherebbe. Piuttosto ci farebbe tornare indietro».

«È strana la tua famiglia» aveva detto lui. «Perché non se la prenderebbe? Nemmeno per il tuo bene?»

«Non corre buon sangue tra loro, lo sai» aveva risposto Alina. E si era domandata cosa sarebbe successo alla madre se lei e Liviu avessero avuto un incidente durante la fuga, se la loro auto fosse finita tra le braccia di quelle sagome nere sul ciglio della strada. «Poi ti racconto, promesso» aveva proseguito Alina. «Dopo che passiamo il confine»,

«Allora come fai a essere sicura che Theresa andrà a prenderla?» aveva detto Liviu, voltandosi a guardarla. I suoi occhi avevano un che di feroce e tagliente, come se riflettessero la luce del cruscotto.

«Guarda la strada» aveva detto lei. «Zia Theresa ci andrà a prenderla. Se mia madre muore, la responsabilità è sua».

«Ah sì?»

Alina preferiva non pensarci. Aveva avuto poca scelta - la polizia di frontiera avrebbe ispezionato ogni bottiglietta che avrebbe trovato nella sua borsa o in macchina. Sarebbe stato impossibile far sparire la madre mentre attraversavano il confine.

Un tonfo contro la finestra interrompe Alina mentre recita il Padre nostro per la quinta volta. Poi un altro, e un altro ancora; ora Alina li distingue per quello che sono. Non tonfi, ma l'impatto delle gocce di pioggia sul vetro rigato.

Pioggia. Pioggia. Alina si stacca dalla sedia, cade in ginocchio e comincia a singhiozzare. Le lacrime scorrono per la prima volta quel giorno dopo essere state a lungo trattenute nell'angolo.

«Dio, ti prego, no, la pioggia no. La pioggia no».

Appoggia la fronte umida sul pavimento freddo e lurido, lasciando dietro di sé speranze infrante, rimpianti e altre secrezioni corporali.

Alina si era rifiutata di fare un segno nel punto in cui avevano nascosto la madre - sosteneva che avrebbe attratto inutili attenzioni. Per cui, solo un mucchietto di terra più fine avrebbe indicato dov'era. Ma non se pioveva.

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