Copertina
Autore Anna Vanzan
Titolo Figlie di Shahrazād
SottotitoloScrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2009, Saggi , pag. 216, cop.fle., dim. 14,5x21x1,3 cm , Isbn 978-88-6159-295-7
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe paesi: Iran , narrativa iraniana , storia letteraria , femminismo
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Indice


  1     Prologo

  3 1.  Dall'harem alla scena pubblica: la lenta emancipazione
 29 2.  Coscienza e alfabetizzazione: piccole donne crescono
 45 3.  Il coraggio di essere donna: Forugh Farrokhzād
 63 4.  Censura e repressione: la nascita della letteratura femminile
 85 5.  La Rivoluzione islamica d'Iran e le donne
 99 6.  Esuli e resistenti: Mashid Amirshāhi, Mihan Bahrāmi e Ghazāleh 'Alizādeh
109 7.  Il nuovo corso
119 8.  Tra poesia e prosa: Fereshteh Sāri
129 9.  Tra realismo e allegoria: Farkhondeh Āqā'i
139 10. Letteratura d'impegno e impegno per la letteratura degli altri
147 11. Fra cinema, teatro e letteratura: scrittura e rappresentazione al femminile
157 12. Universale e particolare nella scrittura delle iraniane
165 13. L'implosione della società civile, l'esplosione delle nuove generazioni
175 14. Due poetesse nella tempesta
187 15. Oltre l'Iran: la letteratura delle emigrate
195 16. Scrittrici d'Iran, oggi e domani

197     Bibliografia
205     Approfondimenti bibliografici
211     Indice dei nomi

 

 

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Prologo


La letteratura persiana al femminile sta vivendo una straordinaria fioritura: fra gli imprevisti esiti della Rivoluzione islamica, giunta ormai al suo trentesimo anniversario, vi è una vera e propria esplosione di testi letterari – soprattutto in prosa – scritti da donne che ormai superano, almeno quantitativamente, la produzione degli uomini. Il fenomeno di questa scrittura al femminile non nasce dal nulla: nei ginecei delle famiglie patrizie dell'Iran dell'Ottocento, infatti, è regola invalsa che una fanciulla impari a poetare. Poi, nei primi anni del Novecento, il movimento costituzionalista porterà, tra le molte conseguenze, anche quella di favorire la nascita del movimento femminista, fautore, a sua volta, di un'intensa attività giornalistica da parte delle donne.

La letteratura femminile iraniana contemporanea, scritta in lingua persiana per gli iraniani in patria o per i milioni di esuli in diaspora per il mondo, ha quindi una storia che nasce fondamentalmente a metà del XIX secolo.

Il saggio ripercorre questa storia, illustrandola attraverso brevi brani, liriche ed estratti in traduzione italiana e soffermandosi sui numerosi generi della letteratura persiana contemporanea al femminile, capaci di offrirci una prospettiva nuova su un modello di società islamica post-moderna in cui si intersecano modelli culturali secolari e moderni.

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1. Dall'harem alla scena pubblica: la lenta emancipazione


Prime tracce: poesia e sangue

Fino al XIX secolo abbiamo esigue tracce di letterate persiane, anche se alcune sono riuscite a lasciare segni delle loro vita e della loro opera. Tracce a volte marcate dal sangue, come nel caso di Rabi'eh, figlia del signore della città di Balk (X secolo). Abile sia con la spada sia con la penna, Rabi'eh partecipa alle tenzoni poetiche, evento letterario di moda al tempo, in mezzo ad altri poeti uomini. In una di queste occasioni Rabi'eh dichiara pubblicamente il suo amore per uno schiavo del fratello, ma quest'ultimo, che non ama una simile pubblicità, la fa uccidere mentre si trova nell'hammam. Morendo, Rabi'eh scrive con il proprio sangue sui muri del bagno gli ultimi versi dedicati all'innamorato, nonché un atto d'accusa contro il fratello assassino.

Altre letterate riescono a emergere dal grigio mondo popolato di soli uomini perché rivestono cariche politiche, e quindi, grazie alla loro visibilità sociale, possono imporsi anche come artiste. È il caso di Pādeshāh Khātun (XIII secolo), governatrice di Kerman, nell'Iran sudorientale, che con forza quasi sfrontata declama:

Sono una donna che compie azioni buone
sotto il mio maqna'eh ho una testa adatta al comando
non bastano dei metri di stoffa di maqna'eh per fare di una donna una comandante
non basta un cappello da uomo per fare un capo

(Rajabi 1995, p. 42).

Vi sono iraniane che ricevono addirittura il titolo di "poetesse di corte" o "poetesse laureate", come nel caso di Mahsati Ganjavi (XII secolo); un titolo, pare, meritato per aver improvvisato dei versi magnificanti il suo signore, il sultano Sanjar di Ganja (attuale Azerbaijan iraniano). Ma Mahsati non compone solo laudi per il suo mecenate, affermando invece, con coraggio e indipendenza singolari per l'epoca:

Nessuna forza, neppure le armi possono tenerci
neppure la nostalgia del cuore può contenerci
anche se i riccioli possono avvinghiare come catene
neppure le catene possono tenerci in casa

(Moshir Salimi 1956, 2, p. 267).

Alcune letterate hanno potuto competere con famosi poeti del loro tempo, cimentandosi nelle celeberrime tenzoni poetiche così diffuse nel mondo islamico. Fra queste ricordiamo Jahān Khātun (XIV secolo), anche lei di Kerman. Alcuni di questi nomi ci sono noti tramite le tazkereh, sorta di biobibliografie comuni nell'islam, spesso meri elenchi di nomi di letterati accompagnati da scarne notizie biografiche e da alcuni versi esemplificativi della loro opera. È naturale che sia così, visto che le poche donne che hanno un'educazione tale da permettere loro di poetare all'interno dei ginecei restano quasi sempre anonime — un modo per mantenere il velo intorno a loro — e che, in ogni caso, i loro versi sono tramandati solo oralmente. A salvarsi saranno soprattutto le liriche delle poetesse mistiche, che, come i loro colleghi maschi, hanno contribuito a cementare la tradizione sufi e a corroborare le immagini tipiche della lirica persiana, di cui avremo modo di riparlare. E saranno quasi sempre i sufi — meno legati all'ortodossia che pretende di relegare i versi delle donne al chiuso dell'harem — a trasmettere di cenacolo in cenacolo, di convento in convento, la poesia delle loro compagne di percorso mistico.

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Nel 1978-1979 si consuma un evento epocale: la popolazione d'Iran scaccia il sovrano dal trono e dal paese. Al governo della nazione sale quella che durante il periodo rivoluzionario si dimostra essere, nel bene e nel male, la fazione più incisiva, ovvero quella del "clero" sciita. Per l'Iran si apre il periodo, tuttora in corso, della Rivoluzione islamica, che mira alla totale riorganizzazione della società in chiave islamico-sciita. Dopo essersi liberato dei moderati, quello che si configura come un governo di tipo teocratico instaura un regime basato su una lettura restrittiva e fondamentalista dei principi della religione islamica, che prevede, tra l'altro, la messa al bando di costumi ritenuti corrotti e di matrice occidentale, quali l'uso di alcol, l'ascolto di musica non autoctona e il contatto fra i due sessi se non in condizioni rigidamente conformate. Le donne possono mostrarsi in pubblico solo con i capelli coperti e con abiti non attillati. La censura colpisce duramente ogni manifestazione artistica; l'università, dove era nato il movimento antishāh, viene chiusa per anni per evitare aggregazioni antiregime; gli intellettuali non allineati vengono incarcerati o addirittura eliminati fisicamente, e molti di loro sono costretti a emigrare. Se tutta la società risente di questo clima, le donne, in particolare, vedono improvvisamente minate le libertà e le prerogative faticosamente conquistate. La cultura è gravemente colpita: al di là della censura, infatti, si entra in un'epoca di ristrettezze. C'è penuria di carta e inchiostro, i materiali d'importazione divengono rari a causa della guerra contro il paese condotta dall'Iraq di Saddam Hussein (un conflitto che durerà quasi otto anni) e delle sanzioni lanciate contro l'Iran da alcuni paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti, a loro volta colpiti dal nuovo corso iraniano che distrugge la loro egemonia economica e politica nell'area.

Com'è prevedibile, emergono alcuni scrittori di regime, ma la maggioranza degli intellettuali prende le distanze dall'establishment, concentrandosi su come sopravvivere e rifondare la letteratura. Fra questi vi è una donna destinata a diventare la capostipite di un folto gruppo di letterate che, nonostante la dittatura, capovolgono una situazione sfavorevole al binomio donne-cultura, trasformando il periodo postrivoluzionario nell'era della letteratura femminile: stiamo parlando di Simin Dāneshvar.


Simin Dāneshvar prima e dopo la Rivoluzione

Figlia di un medico di Shiraz trasferitosi a Tehran negli anni quaranta, Simin Dāneshvar (1921) si laurea in letteratura persiana presso l'università locale. Alternando esperienze radiofoniche e giornalistiche, nel 1948 pubblica la sua prima raccolta, Il fuoco spento (Ātesh-e khāmush), che costituisce anche la prima raccolta di racconti brevi mai pubblicati da una donna in Iran. Non è certo il suo capolavoro, tanto che la stessa autrice si rifiuterà di ripubblicarlo, ma il libro riceve favorevole accoglienza grazie alla sua freschezza e alla sua spinta innovativa. Alcune delle quindici storie che compongono la raccolta sono ispirate ai racconti di un romanziere americano, O. Henry. Pur basate su trame inestricabilmente connesse alla società iraniana del tempo, in esse si intravedono già le linee guida della scrittura di Dāneshvar, per quanto ancora immatura dal punto di vista stilistico: attenzione per i grandi temi umani (amore, vita, morte); contrapposizione tra valori (soldi facili/povertà dignitosa); sensibilità per le questioni sociali. Simin Dāneshvar si inserisce con forza nella nuova tradizione prosastica persiana, di cui Jalāl Āl-e Ahmad, che di lì a poco diventerà suo marito, è maestro indiscusso. Jalāl proviene da una famiglia tradizionale: il padre appartiene al "clero" sciita, ma lui è uomo di grandi aperture, tant'è che una volta sposata, Dāneshvar potrà trascorrere due anni negli Stati Uniti da sola, dedicandosi allo studio delle tecniche narrative grazie a una borsa di studio. Di ritorno in Iran, Dāneshvar si inoltra nel territorio della traduzione e inizia a insegnare all'Università di Tehran, ma la sua carriera all'ateneo viene ostacolata, e di fatto impedita, dalla SAVAK, la polizia che il regime imperiale mette alle costole dei dissidenti. Nel 1962 esce un'altra raccolta, Una città paradisiaca (Shahr i chun behesht). Il racconto breve è ormai il genere letterario preferito dalla generazione di scrittori persiani del dopoguerra: si tratta di uno strumento duttile, che permette di utilizzare una lingua quanto più vicina possibile a quella parlata e di attirare quindi un ampio spettro di lettori grazie all'agile diffusione nelle riviste letterarie (nell'Iran di quegli anni l'alfabetizzazione è ancora privilegio di pochi). Esso, inoltre, è adatto sia a rendere spaccati di vita familiare e quotidiana, sia a descrivere — e per lo più a criticare — le condizioni socioculturali iraniane. A queste tematiche Simin Dāneshvar aggiunge ora una nuova prospettiva, quella di genere. Nei suoi racconti, infatti, appaiono molte donne, elevate loro malgrado al rango di protagoniste: donne malate in pellegrinaggio, serve di colore che si sacrificano per i loro padroni, ma anche donne che dimenticano i figli al mercato per seguire un amore clandestino o attrici costrette ad abortire il figlio concepito con un occasionale ammiratore. Dāneshvar guarda queste donne con un certo distacco, limitandosi a descriverne i movimenti senza esprimere giudizi né manifestare solidarietà. Al tempo stesso, però, offre grande spazio alle figure femminili, fino ad allora mancanti nella letteratura persiana e ridotte al ruolo di comprimarie, rappresentate come eteree e irraggiungibili bellezze o, al contrario, nella letteratura satirica, come orride megere.

In questa fase, comunque, l'autrice è soprattutto impegnata a criticare la società iraniana, le disparità sociali, le scarse opportunità per ambo i sessi; nello stesso tempo, nei suoi racconti si affaccia un tema destinato a essere ripreso di lì a qualche anno con maggiore ampiezza e respiro, ovvero l'influsso negativo dell'Occidente sul suo paese. Ricordiamo che il 1962 è anche l'anno della pubblicazione del libro più famoso del marito, Jalāl Āl-e Ahmad: Intossicazione dell'Occidente (Gharbzadeghi) è una tagliente satira degli iraniani che adottano pedissequamente alcuni costumi occidentali — ergo, americani — avulsi dalla culturale locale, quali uno sfrenato consumismo e una falsa idea dell'emancipazione femminile. Simin Dāneshvar accoglie e condivide appieno la teoria del marito, ma la rielabora attraverso un originale e sofisticato prodotto, un romanzo, il primo scritto da una donna iraniana e destinato a divenire il best seller in lingua persiana di tutta l'epoca contemporanea: Lamento funebre (Siavushun, 1969).

Il romanzo, un grandioso affresco dell'Iran durante la seconda guerra mondiale, si svolge nella città natale dell'autrice, Shiraz, luogo pregno di storia e di simboli per gli iraniani, se non altro perché vi sono seppelliti i maggiori poeti della letteratura nazionale, Sa'di e Hāfez. Negli anni fra il 1941 e il 1945 la città, che si trova strategicamente collocata lungo il flusso di rifornimenti tra India, Medio Oriente e Russia, viene occupata dagli inglesi e dai russi, raggiunti poi dagli americani. Il giovane Mohammad Rezā Shāh nulla può fare per evitare l'occupazione tanto militare quanto ideologica (da un lato l'influsso delle idee comuniste, dall'altro l'influenza della religione cristiana, a esse contrapposta). Nel contempo, altre forze si muovono nell'area, comprese quelle tedesche, supportate da gruppi locali contrari all'occupazione alleata, fra cui spiccano alcune importanti tribù come quelle affiliate alla confederazione dei Qashqai. Sono anni difficili, aggravati dalla terribile carestia che colpisce l'Iran fra il 1942 e il 1943; di fronte alle difficoltà esterne e interne, acuite da una dilagante corruzione, le vecchie generazioni si arrendono, rifugiandosi nel consumo dell'oppio, mentre i giovani idealisti combattono. Fra questi c'è Yusof, proprietario terriero giusto e generoso, impegnato nelle attività di resistenza contro gli occupanti ma altrettanto ostile alla corruzione e all'opportunismo di alcuni suoi connazionali. Yusof è sposato con Zari, la vera protagonista del romanzo, attraverso la quale gli eventi vengono raccontati e filtrati. Una donna che da un lato è felice e appagata da un matrimonio d'amore, tre figli e una magnifica casa, ma dall'altro è combattuta tra il desiderio di condividere gli ideali del marito e l'ansia che questi possano far piombare la disgrazia sul suo nido di felicità. Cosa che, di fatto, avverrà. Zari cerca serenità nella vita familiare, ma risente dell'imposizione di un modello di vita che le nega la possibilità di esprimersi per quello che è veramente, di essere indipendente, di perseguire i sogni nutriti da ragazzina, quando frequentava la scuola britannica pensando a un futuro diverso, in cui avrebbe potuto conservare la libertà dell'adolescenza. Zari è una donna normale e a un tempo eccezionale, che riesce a stemperare le proprie frustrazioni sublimandole nell'immenso amore per la famiglia e negli ideali del marito. Alla morte di lui, sarà proprio Zari a raccoglierne l'eredità, portando avanti la causa per cui Yusof è morto, attraverso un primo e forte segnale: la trasformazione del suo funerale in una dimostrazione pubblica.

Nonostante la figura centrale del romanzo sia una donna, le tematiche dominanti sono i problemi legati alla dominazione straniera e all'oppressione sociale. In questa fase, come Zari, Simin Dāneshvar persegue gli ideali della lotta socialista transitati nella letteratura iraniana "impegnata" (lotta socioletteraria in cui sia la Dāneshvar sia il marito sono attivamente coinvolti), secondo i quali amore, famiglia, affetti e interessi personali vanno sacrificati in nome di un ideale sociopolitico superiore alle esigenze individuali. Si tratta di un socialismo "alla persiana", dove anche la religione riveste una precisa funzione, quella di un collante che trae forza da un immaginario coniato nei secoli e attorno al quale tutti gli iraniani si possono riconoscere e unire. Il titolo del libro, Siavushun, si riferisce infatti alla cerimonia funebre per l'eroe iranico preislamico Siyāvush, in qualche modo precorritrice delle cerimonie funebri attorno a cui si raccolgono gli sciiti e che rappresentano un aspetto cruciale dell'identità iraniana (peraltro riscoperto e ampiamente impiegato dai fautori della Rivoluzione islamica, come vedremo). Quasi anticipando una modalità che dieci anni più tardi diverrà una vera e propria bandiera dei rivoluzionari – ma anche sintomatica di un fermento politico di resistenza al regime dello shāh sempre più ammantato di simboli sciiti –, Simin Dāneshvar fa culminare catarticamente il suo romanzo nella scena del funerale di Yusof, nuova incarnazione dell'eroe-martire sciita Hossein, il giusto e offeso per antonomasia. Con un'ironia intrisa anche di tristezza, il finale del libro anticipa la parabola della vita coniugale di Simin Dāneshvar: di lì a pochi mesi dalla pubblicazione del suo romanzo, infatti, il marito morirà, passando il testimone del suo impegno sociopolitico e letterario a lei, proprio come Zari assume su di sé la causa rivoluzionaria del marito Yusof.

Siavushun riceve un'accoglienza a dir poco strepitosa, non solo in Iran, dove viene venduto in centinaia di migliaia di copie, ma anche all'estero, dove viene tradotto in una quindicina di lingue (esistono ben due versioni solo in inglese!). Nelle due decadi successive, il libro sarà ristampato diverse volte, confermandosi come il maggior successo letterario in lingua persiana di tutti i tempi. Simin Dāneshvar viene consacrata quale stella di prima grandezza nell'ambito del romanzo, genere nuovo per l'Iran (la parola per esprimere questo genere letterario viene infatti identificata con il francesizzante rumān). Sebbene questo tipo di narrazione fosse già in via di sperimentazione a partire dalle prime decadi del Novecento, Simin Dāneshvar surclassa ogni altro scrittore iraniano, compreso il marito.

Il successo di Siavushun è dovuto a molti fattori, tra i quali il fatto di far assurgere a storia nazionale le vicissitudini di una famiglia iraniana: non solo ogni iraniano/a si può identificare con Yusof/Zari, ma il libro è carico di riferimenti alla storia, alla società, alla cultura, alla religione e alle abitudini quotidiane degli iraniani. Il tutto è collocato in una trama plausibile e avvincente, che si snoda fino alla drammatica conclusione anticipata – e nel contempo sospesa dalla scrittrice – in una tragedia familiare nella quale, però, gli iraniani trovano la forza di alimentare la propria vita. È un realismo complesso, che non indugia nel particolare folcloristico, sebbene estremamente ricco di riferimenti alla cultura materiale, pungente nella sua critica sociopolitica ed elegiaco nelle descrizioni. La lingua, semplice e agile ma stilisticamente perfetta, accompagna con naturalezza la narrazione inframmezzata da dialoghi che attingono al parlato quotidiano.

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13. L'implosione della società civile, l'esplosione delle nuove generazioni


La fine della presidenza di Mohammad Khātami e la successiva elezione di Mahmud Ahmadinejād (giugno 2005) hanno comportato profondi cambiamenti nella società e nella storia dell'Iran. La mancata scelta di un candidato progressista a favore di un esponente del fronte oltranzista che, seppur laico, è più rigido e fondamentalista di molti esponenti religiosi, è dovuta anche e soprattutto alla delusione di molti elettori che avevano sperato in un radicale cambiamento della politica iraniana sotto la presidenza Khātami. Bollando affrettatamente le riforme intraprese dallo statista inturbantato come opere di superficiale maquillage, molti elettori disertano le urne o si lasciano incantare dalle dichiarazioni di Ahmadinejād, che promette sia di rivitalizzare l'economia languente sia di ridurre corruzione e sperequazioni a vantaggio delle classi deboli e dei giovani.

Giunta alla fine del suo mandato, invece, la presidenza di Ahmadinejād si caratterizza come un periodo di grandi tensioni interne ed esterne; queste sono dovute soprattutto alle esternazioni del presidente nei confronti di Israele e dell'Olocausto, che egli nega, nonché alla sua posizione in merito allo sviluppo dell'energia nucleare, fortemente voluta per evitare l'inevitabile crisi energetica in un paese di ormai 70 milioni di abitanti, la cui economia si regge in gran parte sullo sfruttamento delle risorse petrolifere. Molte potenze, però, temendo che la corsa al nucleare nasconda la volontà di dotarsi dell'atomica, inaspriscono le già pesanti sanzioni nei riguardi del paese, con inevitabili e negative conseguenze sulla popolazione, vessata da un regime che inasprisce la sua morsa rendendo difficile qualsivoglia manifestazione di libera volontà. La popolazione, infatti, si sente fiatare sul collo da un sistema che la controlla in ogni suo movimento, ammantando con assurde norme religiose regole esclusivamente volte al controllo della società. I giovani e le donne sono i gruppi sociali che maggiormente risentono della morsa dittatoriale: i giovani di meno di trent'anni, ovvero il 65 per cento della popolazione, vengono controllati nella loro attività studentesca, fermati per strada se il loro vestiario non si conforma agli stretti canoni del regime, multati se sorpresi a riprodurre musica straniera.

Le donne, ormai agguerrite e istruite (oltre il 60 per cento della popolazione studentesca universitaria è formata da ragazze), non intendono però abdicare. Alcune scelgono la strada dell'associazionismo per far valere i propri diritti, altre usano l'arte, in particolare la letteratura, per protestare e infiammare l'opinione pubblica, altre ancora coniugano l'impegno sociopolitico a quello letterario. I giovani e le donne sono in realtà la vera atomica che attende solo l'occasione giusta per scoppiare.


Femminismi d'Iran

La società civile in generale e le donne in particolare sviluppano continue strategie di sopravvivenza e di lotta. Non a caso, quello che ora viene definito "femminismo islamico" è nato in Iran proprio agli inizi degli anni novanta. Si tratta, in sostanza, della convinzione che il Corano contenga al suo interno proposizioni di equità di genere e di giustizia sociale; aderendo a questo presupposto, le donne sentono pertanto di poter chiedere giustizia e diritti senza uscire dalla cornice islamica. Questa posizione comporta, come necessaria conseguenza, la rilettura e la reinterpretazione delle norme coraniche e della shari'a, favorendo una nuova ermeneutica delle fonti sacre in chiave femminista. È evidente il fascino che una siffatta posizione può esercitare in contesti dove le donne si sentono spesso rimproverare di voler adottare usi e costumi di stampo occidentale e, in quanto tali, estranei e avulsi (se non addirittura antitetici e avversi) alla cultura autoctona, cioè islamica.

In Iran, comunque, le donne aderiscono a movimenti e a singole idee in modo fluido, incuranti di confini precisi, vuoi per strategia politica vuoi per convinzione. Il proliferare di gruppi "femministi" islamici e laici (sebbene la quasi totalità non si riconosca sotto alcuna etichetta, né "islamica" né "femminista") all'interno del paese è la riprova dell'incapacità della società iraniana – componente femminile inclusa – di incanalare la propria lotta in una forma sistematica e organizzata. Ciononostante, nel movimento delle donne vi è un ben delineato filone femminista, che si esprime, fra l'altro, con una propria letteratura.


Femminismo radicale e letteratura: Nushin Ahmadi Khorāsāni

Quasi tutta la letteratura femminile iraniana ha caratteristiche "femministe", se con questo termine intendiamo la proposizione generale che tende al conseguimento di maggiori diritti ed equità a favore delle donne. Come abbiamo visto, però, le letterate aderiscono a quest'istanza in modi diversi e personali. Decisamente in chiave femminista (o femminista radicale) si pone invece Nushin Ahmadi Khorāsāni (Tehran, 1969), figura di spicco del movimento delle donne negli ultimi dieci anni. Dopo aver fondato insieme al marito la casa editrice Touse'eh a metà degli anni novanta, Khorāsāni persegue una carriera che coniuga da una parte editoria e scrittura e, dall'altra, impegno civile e politico. Con la sua casa editrice pubblica un'antologia di racconti brevi, Donne senza passato (Zanān-e bi gozashteh, 1998), e Donne all'ombra dei patriarchi (Zanān zir-e sāyeh-ye pedarkhānandeh, 2001), una raccolta di scritti su tematiche femminili, apparsi dapprima in riviste nazionali. Contemporaneamente, Khorāsāni avvia la pubblicazione di una rivista, "Jens-e dovvom" (Il secondo sesso), dove trovano spazio considerazioni sul femminismo internazionale, articoli dedicati a personalità del mondo femminile globale e – questo l'aspetto più interessante – saggi e interviste dedicati a donne che hanno fatto la storia del femminismo iraniano del XX secolo. Si tratta di un recupero di importanti documenti, volto alla valorizzazione della storia del femminismo in Iran, nonché di un'abile operazione tesa a dimostrare come il femminismo non sia un fenomeno avulso dalla storia del paese, ma sia anzi ben radicato e, soprattutto, di matrice locale.

Il collegamento con il femminismo internazionale è sottolineato anche da una piccola serie di agende annuali stampate da Khorāsāni, dove trovano posto cammei di celebri iraniane e femministe di tutto il mondo, a riprova della volontà dell'attivista di Tehran di internazionalizzare il movimento.

La censura non tarda a mettere gli occhi sulla rivista e a farla chiudere. Nushin Ahmadi Khorāsāni smette di stamparla privilegiando la versione on line, ma dopo un po' è costretta a cambiare il nome in "Badjens", termine ironicamente provocatorio che significa "furfantello", ma anche "cattivo genere" – inteso, per l'appunto, come genere femminile. A mano a mano che l'attività di Khorāsāni si fa più mordace nei suoi interventi pubblici e nei suoi scritti, anche "Badjens" deve cambiare nome, assumendo prima quello di "Zanestān" ("Il luogo delle donne") e in seguito quello di "Madraseh-ye feminism" ("Scuola di femminismo"). Fra il 2005 e il 2006, proprio nel momento in cui la morsa del potere contro la società civile si fa più serrata, Khorāsāni si mette a capo della campagna "Un milione di firme" (Yek miliun hemzā), tesa a raccogliere consensi per chiedere al parlamento di modificare il diritto di famiglia. La battagliera femminista si serve di internet e della lingua inglese per pubblicizzare la campagna, raccogliendo adesioni in tutto il mondo ma attirando anche su di sé e sulle altre attiviste l'ira del regime. Khorāsāni e le altre donne sono periodicamente incarcerate e rilasciate, in un continuo andirivieni volto a logorare l'opposizione, che, invece, resiste strenuamente.

Gli scritti di Nushin Ahmadi Khorāsāni sono soprattutto saggi, articoli impegnati e partecipati di femminismo attivo, con qualche rara eccezione nel campo della narrativa. Ricordiamo per esempio il racconto La strada per l'esame (Masir-e emtehān), dove la giovane Yāsamin lotta contro una serie di circostanze avverse (dalla contrarietà della famiglia ai vari incidenti di percorso) per superare un test di ammissione all'Accademia di belle arti. L'autrice manipola con grande maestria la tensione, sviluppandola nella protagonista e nel lettore fino alla catarsi finale, quando Yāsamin, a cui è stato chiesto di saper piangere a comando sulla scena teatrale, scoppia in un vero e irrefrenabile pianto e dà sfogo a tutto il dolore per le avversità capitatele.

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