Autore Yanis Varoufakis
Titolo Il Minotauro Globale
SottotitoloL'America, le vere origini della crisi finanziaria e il futuro dell'economia mondiale
EdizioneAsterios, Trieste, 2012, Lo stato del mondo , pag. 250, ill., cop.fle., dim. 13,5x21,5x2 cm , Isbn 978-88-95146-55-3
OriginaleThe Global Minotaur
EdizioneZed Books, New York, 2011
TraduttorePiero Budinich
LettoreCristina Lupo, 2015
Classe economia , storia economica , economia finanziaria , economia politica , globalizzazione , paesi: USA , paesi: Grecia , storia: Europa , storia: America









 

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Indice


Ringraziamenti, 13

                    CAPITOLO I

Introduzione
La forza del 2008, 15
Sei spiegazioni di come mai è successo, 18
1.  "Principalmente a causa di un difetto dell'immaginazione
    collettiva di molte persone intelligenti nel comprendere
    i rischi del sistema nel suo insieme, 18
2.  La trappola regolatoria, 20
3.  Irresistibile avidità, 23
4.  Origini culturali, 26
5.  La teoria tossica, 27
    Tre teorie tossiche che sostenevano il modo di pensare
    predominante prima del 2008, 29
6.  Guasto sistemico, 31
La sfida della parallasse, 33
Il Minotauro globale: un primo sguardo, 35
        Box 1.1
Il minotauro di Creta, 37
Note al primo capitolo, 40

                    CAPITOLO II

Laboratori del futuro, 41
Due grandi balzi in avanti, 41
Il segreto di Condorcet nell'Età del Capitale, 43
Il paradosso del successo e delle crisi redentrici, 47
Alzare la posta: crolli, crisi e il ruolo della finanza, 50
Il Crollo del 1929, 52
        Box 2.1
Le crisi prima del 1929, 54
Mida perde il suo tocco: il crollo del sistema aureo, 58
Due folletti combinaguai: i mercati del lavoro e del denaro, 59
        Box 2.2
Quando la ragione si sottomette alle aspettative, 61
Il fantasma nella macchina, 64
Epilogo: l'incubazione del Piano globale, 68
Note al secondo capitolo, 71

                    CAPITOLO III

Il Piano globale, 73
Una notevole opportunità, 73
Bretton Woods, 74
L'opportunità mancata, 76
        Box 3.1
I meccanismi di riciclo: il sine qua non del capitalismo, 79
L'ascesa dei caduti, 83
        Box 3.2
Gli architetti del Piano globale, 84
Il piano Marshall per dollarizzare l'Europa e riabilitare la
    Germania, 87
L'Unione europea e il miracolo giapponese, 90
L'ideologia geopolitica del Piano globale, 94
Le linee politiche interne degli USA durante il Piano globale, 97
Conclusione: l'Età dell'oro del capitalismo, 100
Note al terzo capitolo, 105

                    CAPITOLO IV

Il Minotauro globale, 107
Il tallone d'Achille del Piano globale, 107
Il Piano globale si disintegra, 1o8
Interregno: le crisi del petrolio degli anni settanta,
    la stagflazione e la crescita dei tassi di interesse, 111
Il Minotauro globale, 116
I quattro charisma del Minotauro, 118
Lo status di valuta di riserva, 118
Crescenti costi energetici, 119
Manodopera più economica e produttiva, 120
Potenza geopolitica, 122
Un meccanismo di riciclo delle eccedenze globali estremamente
    particolare, 125
Conclusione: il brillante trionfo del Minotauro globale, 127
Note al quarto capitolo, 129

                    CAPITOLO V

Le ancelle della bestia, 131
L'invidia del Minotauro, 131
        Box 5.1
Chi erano le ancelle? 132
La febbre delle acquisizioni: Wall Street crea dei valori
    metafisici, 133
        Box 5.2
I pii desideri: come le fusioni e le acquisizioni crearono
    valore fittizio, 136
Copertura e leva finanziaria, 138
Un'ideologia dell'economicità per l'Età dell'eccesso:
    l'effetto Walmart, 141
        Box 5.3
Walmart: un'azienda a misura di Minotauro, 144
Case contaminate, denaro tossico: Wall street genera il suo
    denaro privato, 145
La teoria tossica, parte prima:
    la politica economica della percolazione,
    l'economia dell'offerta, 151
        Box 5.4
L'effetto di contropercolazione, 153
La teoria tossica, parte seconda:
    modelli economici e deliri vari, 156
Epilogo: scrivere sul muro, 159
Note al quinto capitolo, 163

                    CAPITOLO VI

Crollo, 165
Torri pendenti, 165
Cronaca di un crollo annunciato: la stretta creditizia,
    salvataggi e la socializzazione di quasi tutto, 166
2007: i canarini nella miniera, 166
2008: L'evento principale, 168
        Box 6.1
I Credit default swap (CDS), 168
Dopo il 2008: le ripercussioni senza fine, 176
La dura verità / I fatti come stanno, 178
Epilogo: lo scivolone verso la "bancarottacrazia", 182
Note al sesto capitolo, 186

                    CAPITOLO VII

Le ancelle colpiscono ancora, 187
Con po' di aiuto dai miei amici: il piano Geithner-Summers, 187
        Box 7.1
Il fallimento ripaga, 188
La versione europea del Piano Geithner-Summers, 192
Mordere la mano che porge aiuto: le ancelle più brutte
    diventano sempre più sfacciate, 195
Il ritorno della governance predatrice, l'economia vacua e la
    curiosa tragedia del fondamentalismo del libero mercato, 199
Epilogo: il peggio di due mondi, 201
Note al settimo capitolo, 203

                    CAPITOLO VIII

L'eredità del Minotauro globale: un pallido sole, le tigri
    ferite, un'Europa evanescente e un dragone ansioso, 205
Il pallido sole: i decenni perduti del Giappone, 205
Tigri ferite: il Giappone, l'America e la crisi
    del Sud-Est asiatico, 211
La Germania d'Europa, 214
I vestiti nuovi del marco tedesco, 218
        Box 8.1
La fuga d'Europa, 220
La riunificazione tedesca e il suo significato globale, 221
Prima come storia poi come farsa: i salvataggi bancari
    d'Europa, 222
La Grecia sostiene i debiti, 225
Gli alpinisti che precipitano e la crisi dell'euro, 227
Per quale motivo l'Europa è titubante quando la crisi potrebbe
    essere risolta in modo semplice e rapido? 228
Il dragone vola e poi sprofonda in preda all'ansia, 231
        Box 8.2
I banchieri d'America, 235
Epilogo: tra la bancarottacrazia dell'Occidente e la fragile
    forza dell'Oriente, 238
Note al ottavo capitolo, 240

                    CAPITOLO IX

Un futuro senza Minotauro?
Protagonisti della storia, 241
La moderazione e i pericoli del successo, 242
Può sopravvivere il Minotauro? 243
Lo stato del gioco globale, 244
Il meccanismo mancante, 245
Note al nono capitolo, 246

Bibliografia, 247


 

 

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Pagina 15

CAPITOLO I

Introduzione

La forza del 2008


Nulla ci rende umani quanto l' aporia: quello stato di intenso disorientamento in cui ci troviamo quando le nostre certezze vanno a pezzi; quando improvvisamente veniamo bloccati in un impasse, incapaci di trovare una spiegazione per ciò che vediamo con i nostri occhi, tocchiamo con mano, udiamo con le nostre orecchie. In quei rari momenti, quando la ragione lotta disperatamente per attribuire un significato ai dati dei sensi, la nostra aporia ci rende umili e predispone la mente preparata a verità che prima sarebbero state intollerabili. E quando l' aporia getta la sua rete abbastanza in là da coinvolgere tutta l'umanità, sappiamo di trovarci in un momento veramente speciale della storia. Il settembre del 2008 è stato appunto uno di quei momenti.

Il mondo era in preda a uno sbalordimento, causato da lui medesimo, che non si era più visto dopo il 1929. Quelle certezze che decenni di condizionamenti ci avevano portato a prendere per scontate erano improvvisamente svanite, insieme a circa 40mila miliardi di dollari di titoli a livello globale, l4mila miliardi di ricchezze familiari nei soli Stati Uniti, 700mila posti di lavoro perduti mensilmente negli Usa, innumerevoli alloggi espropriati ovunque... L'elenco è lungo, quasi quanto i suoi numeri sono insondabili.

L' aporia collettiva fu intensificata dalla reazione dei governi che fino a quel momento si erano tenacemente aggrappati al conservatorismo fiscale, in quanto era forse l'ultima ideologia superstite del XX secolo: cominciarono a versare migliaia di miliardi di dollari, di euro, di yen ecc. in un sistema finanziario che, fino a pochi mesi prima era sulla cresta di un'immensa onda e accumulava favolosi profitti, professando provocatoriamente di aver scoperto la pentola d'oro alla fine di qualche arcobaleno globalizzato. E quando quella reazione si dimostrò troppo debole, i nostri presidenti e primi ministri, uomini e donne con impeccabili credenziali antistataliste da neoliberali si imbarcarono in una frenetica nazionalizzazione di banche, assicurazioni e industrie automobilistiche che avrebbero fatto sfigurare perfino le imprese di Lenin dopo il 1917.

A differenza delle crisi precedenti, come il crollo delle .com del 2001, la recessione del 1991, il Lunedì nero, il crollo dell'America Latina negli anni ottanta, la frana del Terzo Mondo in una perfida trappola del debito o addirittura la devastante depressione in Gran Bretagna e in parti degli Stati Uniti all'inizio degli anni ottanta, questa crisi non era limitata a una specifica geografia, a una certa classe sociale o a determinati settori. Tutte le crisi che avevano preceduto il 2008 erano, in un certo senso, circoscritte. Le loro vittime a lungo termine non avrebbero mai avuto grande importanza per i poteri reali e anche quando, come nei casi del Lunedì nero, della Crisi della Gestione a lungo termine del capitale (LTCM) e del fiasco degli hedge fund del 1998 o della bolla dei .com di due anni dopo, erano stati i potenti a percepire lo shock, le autorità erano riuscite a intervenire in loro soccorso in modo rapido ed efficiente.

Per contro, il crollo del 2008 ha avuto effetti devastanti sia in ambito globale sia nel cuore della madrepatria neoliberal. Inoltre i suoi effetti continueranno a farsi sentire per molto, molto tempo. In Gran Bretagna è stata probabilmente la prima crisi a memoria d'uomo che abbia veramente colpito le regioni più ricche del Sud. Negli Stati Uniti, sebbene la crisi dei sub-prime sia cominciata negli angoli meno prosperi di quel grande paese, poi si è diffusa in ogni anfratto delle classi medie privilegiate, nei loro quartieri chiusi al pubblico e nei loro sobborghi verdeggianti, nelle università della Ivy League, dove i benestanti convergono per mettersi in fila in attesa degli impieghi migliori dal punto di vista socioeconomico. In Europa tutto il continente riverbera sotto gli effetti di una crisi che non vuole saperne di andarsene e che minaccia le illusioni europee che erano riuscite a rimanere indenni per sessant'anni. I flussi migratori si sono invertiti, gli operai polacchi e irlandesi hanno abbandonato Dublino e Londra per spostarsi a Varsavia e a Melbourne. Perfino la Cina, che notoriamente gode di un vigoroso tasso di crescita nel pieno di una recessione planetaria, è alle prese con una diminuzione della quota dei consumi sul reddito totale e fatica a continuare a fare affidamento sui progetti di investimento statale che stanno contribuendo a gonfiare una bolla preoccupante: due fenomeni che non promettono bene in un'epoca in cui perfino la capacità a lungo termine del resto del mondo di assorbire le eccedenze commerciali del paese è tutt'altro che garantita.

Per aggiungere ulteriori motivi all' aporia generale, i sommi e i potenti hanno fatto sapere che anche loro stavano incontrando difficoltà a cogliere i nuovi sviluppi della realtà. Nell'ottobre del 2008 Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve (la Fed), uno che veniva considerato una specie di mago Merlino dell'ultimo giorno, confessò di aver riconosciuto "un difetto nel modello che avevo ritenuto potesse rappresentare la struttura decisiva funzionante che definisce il modo in cui va il mondo". Due mesi dopo, Larry Summers, ex segretario al Tesoro del presidente Clinton e a quel tempo capo consigliere economico di Obama (capo del Consiglio economico nazionale) riconobbe che "in questa crisi fare troppo poco crea un rischio maggiore che fare troppo". Quando il Grande Mago confessa di aver basato tutta la sua magia su un modello fallato del funzionamento del mondo e quando il decano dei consiglieri economici presidenziali raccomanda di buttare al vento ogni cautela, allora il pubblico "capisce" che cosa c'è in ballo: la nostra nave sta navigando in acque insidiose e non segnate, l'equipaggio è disorientato, il comandante è terrorizzato.

Così siamo entrati in uno stato di tangibile e condivisa aporia. L'ansiosa incredulità ha preso il posto dell'indolenza intellettuale. I personaggi che occupavano le cariche d'autorità sembravano ormai privi d'alcuna autorevolezza. La politica, a quanto pare, veniva decisa lì per lì. Quasi immediatamente un'opinione pubblica disorientata cominciò ad agitare le proprie antenne in ogni direzione possibile, alla disperata ricerca di spiegazioni sulle cause e sulla natura di ciò che l'aveva appena colpita.

Quasi a dimostrare che l'offerta non ha bisogno di sollecitazioni, quando la domanda è copiosa, gli organi di stampa cominciarono a sfornare pubblicazioni. Uno dopo l'altro i libri, gli articoli, i saggi lunghi e perfino i film che venivano immessi nel circuito creavano un flusso di possibili spiegazioni su quello che era andato male. Ma anche se un mondo traumatizzato è sempre gravido di teorie sul proprio stato di malessere, la sovrapproduzione di spiegazioni non garantisce la dissoluzione dell' aporia.

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Pagina 18

Sei spiegazioni di come mai è successo

1. "Principalmente a causa di un difetto dell'immaginazione collettiva di molte persone intelligenti nel comprendere i rischi del sistema nel suo insieme."

Quanto sopra era il succo di una lettera inviata dalla regina Elisabetta II alla Royal Academy il 22 luglio 2009, in risposta a una domanda che la sovrana aveva presentato a una riunione di arrossiti docenti alla London School of Economics: "Perché non vi siete accorti che stava arrivando?". Nella loro lettera, trentacinque dei più autorevoli economisti britannici risposero appunto: "Oops! Abbiamo scambiato una Grande bolla per un Mondo nuovo!". Il nocciolo della loro risposta era che, mentre tastavano il polso e seguivano continuamente i dati, avevano commesso due errori diagnostici affini: quello dell'estrapolazione e quello, ben più sinistro, di cadere preda della propria retorica.

Tutti potevano rendersi conto che i numeri stavano impazzendo. Negli Stati Uniti, il debito del settore finanziario era schizzato da un già consistente 22 per cento del reddito nazionale (PIL) nel 1981 al 117 per cento nell'estate del 2008. Nel frattempo le famiglie americane avevano visto aumentare la loro quota di debito dal 66 per cento del reddito nazionale nel 1997 al 100 per cento di dieci anni dopo. Complessivamente il debito aggregato nel 2008 superava il 350 per cento del PIL, mentre nel 1980 raggiungeva un già dilatato 160 per cento. Quanto alla Gran Bretagna, la City londinese (il settore finanziario in cui la società britannica aveva maggiormente investito, in seguito alla rapida deindustrializzazione dei primi anni ottanta) vantava un debito collettivo di quasi due volte e mezzo il PIL dell'intera Gran Bretagna mentre, come se non bastasse, le famiglie britanniche erano indebitate per una somma che superava il prodotto interno lordo del paese.

Se dunque un'accumulazione di un debito disordinato immetteva nel mondo più rischio di quanto esso potesse sostenerne, come mai nessuno aveva visto arrivare il disastro? Questa era appunto la pur ragionevole domanda della regina. La dolente risposta dell'Accademia britannica indulgeva nei peccati combinati della retorica compiaciuta e dell'estrapolazione lineare. Messi insieme, questi peccati alimentavano la convinzione autogratificante che quella che era avvenuta era una transizione di paradigmi, che avrebbe consentito al mondo della finanza di creare un debito illimitato, benigno, privo di rischi.

Il primo peccato, che assunse la forma di una retorica matematizzata, cullava le autorità e gli accademici nell'illusoria convinzione che l'innovazione finanziaria fosse riuscita ad abolire l'elemento di rischio dal sistema: che i nuovi strumenti consentissero una nuova forma di debito che avrebbe avuto le proprietà dell'argento vivo. Una volta che i prestiti fossero stati erogati, sarebbero stati segmentati a fettine da assortire in pacchetti contenenti diversi livelli di rischio, che poi sarebbero stati venduti in giro per il mondo. In questo modo, spalmando il rischio finanziario, secondo quanto sosteneva la retorica corrente, nessun attore avrebbe dovuto fronteggiare alcun pericolo significativo come quello di rimanere feriti se alcuni debitori andavano gambe all'aria. Era una fede da New Age nelle capacità del settore finanziario di creare un "rischio senza rischio", che culminava nella convinzione che il pianeta potesse oramai sostenere dei debiti (e le scommesse create sulle spalle di questi debiti) che erano di molte volte superiori rispetto al reddito effettivo globale.

Bastava un po' di volgare empiria per mettere a nudo tali convinzioni mistiche: nel 2001, quando la cosiddetta new economy era crollata, distruggendo gran parte del benessere di carta creato dalla bolla delle '.com' e dalle truffe alla Enron, il sistema aveva mantenuto la sua solidità. La nuova bolla economica del 2001 era in effetti molto peggiore di quella dei mutui sub-prime che sarebbe scoppiata sei anni dopo. Eppure gli effetti negativi poterono essere arginati in maniera efficiente dalle autorità (anche se l'occupazione non si sarebbe più ripresa fino al 2004-2005). Se un trauma così grave poteva essere assorbito così prontamente, sicuramente il sistema avrebbe potuto sopportare scosse più piccole, come i 500 miliardi di perdite dei sub-prime tra 2007 e 2008.

Secondo la spiegazione dell'Accademia britannica (che, bisogna riconoscere, è ampiamente condivisa), il Crack del 2008 avvenne perché a quel punto (e senza che se ne rendessero conto gli eserciti degli iperintelligenti il cui compito avrebbe dovuto essere saperla più lunga) proprio quei titoli che erano stati considerati esenti da alcun rischio si erano trasformati nel proprio opposto. Banche come la Royal Bank of Scotland, che dava lavoro a circa quattromila "organizzatori del rischio", finirono ingoiate da un buco nero di "rischio decomposto". Il mondo, secondo questo modo di leggere le cose, pagava il prezzo di aver creduto alla propria retorica e di aver dato per scontato che il futuro non sarebbe stato differente dal passato più recente. Pensando che il rischio era stato ripartito con successo, il nostro mondo finanziarizzato ne aveva creato talmente tanto da esserne praticamente divorato.




2. La trappola regolatoria

Il prezzo dei limoni è determinato dai mercati, che lo fissano con il minimo di interferenze istituzionali, dato che i compratori sanno riconoscere un limone buono quando gliene viene venduto uno. Lo stesso non si può dire delle obbligazioni o, men che meno, degli strumenti finanziari sintetici. Gli acquirenti non possono assaggiare il "prodotto", tastarlo per valutarne il grado di maturazione o per annusarne il profumo. Si devono basare su un'informazione esterna, istituzionale e su regole ben definite che sono delineate e controllate da autorità disinteressate e incorruttibili. Questo, si presume, era il ruolo delle agenzie di rating del credito e degli organismi regolatori dello Stato. Indubbiamente entrambe queste categorie di istituzioni si sono dimostrate non solo inadeguate, ma colpevoli.

Quando per esempio un' obbligazione garantita da ipoteca (CDO, acronimo di collateralized debt obligation), un titolo cartaceo che combina tante fettine di molti diversi tipi di debito, veniva etichettato con una tripla A e offriva un rendimento dell'1 per cento superiore a quello dei titoli del Tesoro americano, il significato era duplice: l'acquirente poteva stare tranquillo che l'acquisto non era un imbroglio e, se era una banca, poteva trattare quel pezzo di carta come qualcosa di indistinguibile da (e non una virgola più rischioso di) quella somma di denaro contante che occorreva per comprarlo. Questa finzione aiutava le banche a raggiungere rendimenti mozzafiato, e ciò per due ragioni:

1. Se le banche si tenevano strette le CDO recentemente acquistate (si ricordi che le autorità equiparavano una CDO classificata AAA al suo controvalore in denaro contante) non dovevano neppure includerle nei loro calcoli di capitalizzazione. Questo significava che avrebbero potuto utilizzare liberamente i depositi dei loro clienti per acquistare CDO classificate AAA, senza intaccare la propria capacità di fare nuovi prestiti ad altri clienti e ad altre banche. Le CDO erano, in effetti, strumenti per aggirare proprio quelle regole che erano state progettate per salvare il sistema bancario da se stesso.

2. Un'alternativa al conservare le CDO nei caveau delle banche era di impegnarle presso una banca centrale (p. es. la FED) come garanzia collaterale per i prestiti, che le banche potevano poi usare come preferivano: per prestare ai clienti, alle altre banche o per comprare ancora più CDO per se stesse. Il particolare cruciale a questo proposito è che i prestiti garantiti dalla banca centrale impegnando i CDO classificati AAA comportavano i miserabili tassi di interesse fissati dalla banca centrale. Così quando i CDO maturavano con un tasso di interesse dell'1 per cento superiore a quanto pretendeva la banca centrale, gli istituti di credito potevano trattenere quella differenza.

La combinazione di questi due fattori faceva sì che emettere CDO fosse un buon affare, e al punto che le società finanziarie erano indotte a:

a) emetterne tanti quanti era fisicamente possibile fare;

b) prendere a prestito il maggior quantitativo possibile di denaro per comprare i CDO di altre finanziarie;

c) tenere enormi quantità di questi titoli sui propri libri contabili.

Ma questo, ahimé equivaleva a un invito a stampare denaro in proprio! Non c'è da stupirsi che a Warren Buffet bastasse un'occhiata ai tanto favoleggiati CDO per definirli WMD (armi di distruzione di massa). Gli incentivi erano incendiari: più le istituzioni finanziarie prendevano in prestito per comprare i CDO classificati AAA, più soldi facevano. Il sogno di avere un bancomat in soggiorno si era avverato, perlomeno per le società finanziarie private e per coloro che le gestivano.

A fronte di questi fatti, non mi è difficile arrivare alla conclusione che il crollo del 2008 fu l'inevitabile risultato di aver affidato a dei bracconieri il ruolo di guardiacaccia. Il loro strapotere era clamoroso e la loro immagine di maghi postmoderni capaci di far apparire per incanto nuova ricchezza e di inventare nuovi paradigmi non rischiava di essere messa in questione. I banchieri pagarono le agenzie di rating affinché concedessero la classificazione di AAA ai CDO che essi emettevano; le autorità regolatrici (tra cui la banca centrale) prendevano questi giudizi per oro colato e i giovani rampanti che erano riusciti ad accaparrarsi un lavoro poco pagato con una delle autorità regolatrici cominciarono ben presto a progettare di spostarsi alla Lehman Brothers o da Moody per fare carriera più in fretta. A tenere d'occhio tutti costoro c'era uno stuolo di segretari del Tesoro e di ministri delle Finanze che o avevano prestato servizio per anni da Goldman Sachs, Bear Stearns oppure speravano di entrare nel cerchio magico dopo aver lasciato la politica.

In un ambiente che echeggiava degli schiocchi di tappi di champagne ed era illuminato dai riflessi di sfavillanti Porsche e Ferrari, in un paesaggio in cui torrenti in piena di titoli bancari esondavano su terre già ubertose (potenziando ulteriormente il boom del mercato immobiliare e creando nuove bolle da Long Island e dall'East End londinese fino ai sobborghi di Sydney e ai grattacieli di Shanghai), in quell'ecologia di ricchezza di carta che sembrava autoriprodursi a piacere, sarebbe stato necessario un atteggiamento eroico, incosciente, per dare mano alle campane d'allarme e porre domande scomode, per mettere in dubbio la pretesa che i CDO classe AAA erano esenti da qualsiasi rischio. Anche se qualche agenzia regolatrice o un trader o un banchiere inguaribilmente romantico avesse lanciato l'allarme, sarebbe stato ben presto zittito e, dopo aver fatto una penosa e tragica figura, sarebbe stato portato via dalle acque di scolo della storia.

Già i fratelli Grimm avevano raccontato la favola di quella pentola magica, ispirata a primi sogni dell'industrializzazione, che, come una cornucopia automatica, soddisfaceva, inarrestabilmente, tutti i desideri. Ma era una favola cupa e ammonitoria quasi a voler dimostrare che quei sogni industriali avrebbero potuto trasformarsi in un incubo. Infatti verso la fine della favola la pentola miracolosa impazziva e finiva per inondare il villaggio di pappa d'avena. La tecnologia si ritorceva contro i suoi utilizzatori, un po' come l'ingegnoso Dottor Frankenstein inventato da Mary Shelley aveva visto rivoltarsi contro di lui la propria creatura. Analogamente, i bancomat virtuali creati da Wall Street, dalle agenzie di rating creditizio e dalle agenzie regolatrici che erano in combutta fra loro, inondarono il sistema finanziario di una pappa d'avena dei giorni nostri, che finì per soffocare l'intero pianeta. Quando poi, nell'autunno del 2008, i bancomat smisero di funzionare, tutto quel mondo che si era assuefatto alla pappa d'avena sintetica rimase bruscamente bloccato.




3. Irresistibile avidità

"È la natura della bestia" suona la terza spiegazione. Gli esseri umani sono creature avide e fingono di essere civili. Non appena se ne presenterà la minima opportunità, ruberanno, saccheggeranno e opprimeranno. Questa cupa visione della nostra specie non lascia spazio neppure per un briciolo di speranza che i prepotenti più illuminati possano accettare delle regole che bandiscono la prepotenza. Giacché, anche se lo facessero, chi gliele farebbe rispettare? Per tenere a bada i prepotenti, occorrerebbe una qualche sorta di Leviatano dotato di poteri straordinari. Ma anche se ciò fosse possibile, a chi toccherebbe tenere a freno quel Leviatano?

Tali sono i ragionamenti di una mente neoliberale, che portano all'inevitabile conclusione secondo cui le crisi possono essere mali necessari, sicché nessun accorgimento umano può prevenire le catastrofi economiche. Per qualche decennio, a cominciare dai tentativi di regolamentare le banche compiuti dal presidente Roosevelt dopo il 1932, la soluzione del Leviatano divenne ampiamente accettata: lo Stato poteva e doveva svolgere il proprio ruolo hobbesiano per tenere a freno l'avidità e mantenerla in equilibrio in maniera opportuna. La legge Glass-Steagall del 1933 è forse l'esempio più citato di quel fervore regolatorio.

Tuttavia gli anni settanta videro un graduale ritrarsi da questo approccio regolatorio verso il ripristino di una concezione fatalista secondo cui la natura umana avrebbe trovato sempre il modo di sbaragliare le proprie stesse migliori intenzioni. Questo "rientro nel fatalismo" coincise appunto con un periodo in cui il neoliberismo e la finanziarizzazione stavano rialzando le loro poco lungimiranti teste. Ciò comportò un ritorno al vecchio fatalismo: il potere sovrastante del Leviatano, seppur necessario per tenere a bada i prepotenti, soffocava la crescita, sottoponeva a vincoli l'innovazione, metteva i freni alla finanza inventiva e in tal modo costringeva il mondo a viaggiare con una marcia bassa proprio quando le innovazioni tecnologiche offrivano il potenziale per catapultarci verso piani più elevati di sviluppo e di benessere.

Nel 1987 il presidente Reagan decise di sostituire il presidente della FED Paul Volcker (nominato sotto la presidenza Carter): la sua scelta cadde su Alan Greenspan. Qualche mese dopo i mercati valutari conobbero la loro peggiore giornata a memoria d'uomo, il famoso "Lunedì nero". L'energico intervento di Greenspan gli guadagnò la reputazione di uno che era capace di fare ordine con efficienza dopo un crollo del mercato valutario. Sarebbe riuscito a ripetere più e più volte quello stesso miracolo fino a quando, nel 2006, andò in pensione.

Greenspan era stato scelto dai risoluti neoliberal di Reagan non malgrado bensì proprio a causa della sua radicata convinzione che i meriti e le capacità della regolamentazione erano sopravvalutati. Greenspan era sinceramente perplesso sulla possibilità che qualsiasi istituzione statale, inclusa la FED, sarebbe mai riuscita a tenere sotto controllo la natura umana e a imbrigliare efficacemente l'avidità senza nel contempo, sopprimere la creatività, l'innovazione e, in ultima istanza, lo sviluppo. La sua convinzione lo indusse ad adottare una ricetta semplice, che improntò di sé il mondo per diciannove anni buoni: dato che nulla tiene a freno l'avidità umana come gli inflessibili padroni dell'offerta e della domanda, lasciamo che i mercati funzionino come vogliono, ma che lo Stato rimanga sempre pronto a intervenire per mettere a posto le cose quando si verifica l'inevitabile disastro. Come un genitore indulgente che permetta ai suoi bambini di cacciarsi in ogni sorta di guai, si aspettava di vedere arrivare dei guai, ma pensò che fosse meglio tenersi da parte, sempre pronto a entrare in azione, a dare una ripulita dopo una festa movimentata o a curare le ferite e le ossa rotte.

Greenspan si atteneva alla sua ricetta (e al modello del mondo che essa presupponeva) in ogni circostanza e frangente che gli si presentasse. Quando le cose andavano bene, stava a guardare, senza far quasi niente, a parte pronunciare, di quando in quando, un sibillino discorsetto d'incoraggiamento. Poi, quando qualche bolla scoppiava, irrompeva aggressivamente, abbassava precipitosamente i tassi d'interesse, inondava i mercati di denaro contante e generalmente faceva tutto quello che occorreva per riportare a galla la nave sul punto di affondare. La ricetta sembrava funzionare bene, perlomeno fino al 2008, un anno e mezzo dopo il suo pensionamento d'oro. Poi smise di funzionare.

Va detto, a sua discolpa, che Greenspan confessò di aver frainteso il capitalismo. Se non altro per questo mea culpa, la storia dovrebbe trattarlo con gentilezza, perché ci sono pochi esempi di uomini famosi che sono desiderosi e capaci di uscirne puliti, specialmente quando quelli che un tempo erano i loro favoriti continuano a scaricare le responsabilità. In effetti il modello del mondo di Greenspan, da lui stesso rinnegato, continua a essere vivo e vegeto, pronto a tornare in primo piano. Aiutato e favorito da una Wall Street alla riscossa che intende impedire a qualsiasi costo ogni serio tentativo di regolamentare il suo comportamento dopo la crisi del 2008, è tornato in auge alla grande il punto di vista secondo cui la natura umana non può essere irreggimentata senza con ciò stesso mettere a repentaglio la nostra libertà e la nostra prosperità a lungo termine. Come un medico negligente e irresponsabile il cui paziente sia sopravvissuto per pura fortuna, la classe dirigente di prima del 2008 insiste a farsi dichiarare innocente sulla base del fatto che di fatto il capitalismo, dopo tutto, è sopravvissuto. E se qualcuno di noi continuasse a insistere ad affibbiare loro qualche responsabilità della catastrofe del 2008, perché allora non incolpare la natura umana? Dopo tutto un'onesta introspezione rivelerebbe in ognuno di noi una parte colpevole e oscura. L'unico peccato che Wall Street ha confessato è di aver proiettato quel lato oscuro su una superficie molto più grande.




4. Origini culturali

Nel settembre del 2008 gli europei si specchiavano con soddisfazione sulla superficie dello stagno, scuotendo il capo nella compiaciuta convinzione del fatto che gli anglo-celti, alla fine, stavano per riuscire a far valere i propri meriti. Dopo anni e anni in cui avevano dovuto sorbirsi lezioni sulla superiorità del modello anglo-celtico, sui vantaggi dei mercati del lavoro flessibile, su quanto fosse vano pensare che l'Europa potesse conservare una generosa rete di previdenza sociale nell'era della globalizzazione, sulle meraviglie di una cultura imprenditoriale aggressivamente atomistica, sulle stupefaccenti magie di Wall Street e sulla brillantezza della City londinese dopo il Big Bang, la notizia del Crollo, con tutto lo spettacolo terrificante di luci e suoni che veniva irradiato in tutto il mondo, riempì il cuore europeo di un'ambigua mescolanza di Schadenfreude e paura.

Naturalmente non ci volle molto prima che la crisi migrasse in Europa, trasformandosi in qualcosa di ben peggiore e più minaccioso di quanto gli europei si fossero mai aspettati. Ciò nondimeno la maggior parte degli europei resta persuasa che il Crollo abbia radici culturali angloceltiche. Accusano di tutto il fascino che i popoli di lingua inglese provano per il possesso di una casa a qualsiasi costo. Trovano difficile accettare un modello economico che genera prezzi immobiliari insensati ed espone i non-proprietari di casa che pagano un affitto al massimo dei rischi (perché si sono messi alla mercé dei locatori) e viceversa esalta i presunti proprietari di casa (che sono assai più indebitati con i banchieri).

Gli europei, come del resto anche gli asiatici, si sono accorti delle oscene dimensioni relative del settore finanziario angloceltico, che è cresciuto per decenni a spese dell'industria e perciò si sono convinti che il capitalismo globale era caduto nelle mani di pazzoidi. Di conseguenza, quando il tracollo ha avuto inizio proprio in quei luoghi e in quelle sedi (gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il mercato immobiliare e Wall Street) essi non hanno potuto fare a meno di sentirsi riscattati. Tuttavia, mentre il senso di riscatto degli europei ha subito un tremendo colpo dalla crisi dell'euro che è seguita, gli asiatici possono permettersi una maggiore dose di autocompiacimento. In effetti in gran parte dell'Asia il Crack del 2008 e i suoi postumi vengono chiamati la "Crisi dell'Atlantico settentrionale".

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5. La teoria tossica

Nel 1997, il premio Nobel per l'economia è stato assegnato a Robert Merton e a Myron Scholes per aver elaborato "una formula pionieristica per valutare le opzioni su azioni (stock option)". "La loro metodologia" annunciava trionfalmente il comunicato stampa del comitato del premio "ha spianato la strada alle valutazioni economiche in molti ambiti. Ha generato anche nuovi tipi di strumenti finanziari e ha facilitato una gestione più efficiente del rischio nella società". Se solo lo sventurato comitato del Nobel avesse saputo che nel giro di pochi mesi la tanto lodata "formula pionieristica" avrebbe provocato una spettacolare batosta multimiliardaria, il crollo di uno dei principali hedge fund (il famigerato LTCM, in cui Merton e Scholes avevano investito tutta la loro fama) e, naturalmente, il suo conseguente riscatto da parte dei contribuenti statunitensi, tanto affidabili quanto obbligati a sostenerlo!

Eppure la vera causa del fallimento del LTCM – che non fu altro se non una prova generale del più grande crollo del 2008 – era abbastanza semplice: enormi investimenti che si basavano sull'inverificabile assunto che si possa stimare la probabilità di eventi che secondo il proprio modello sono stati classificati non solamente improbabili ma, di fatto, non teorizzabili. Accogliere un assunto logicamente incoerente nelle proprie teorie è già di per sé abbastanza grave: ma giocare d'azzardo con le fortune del capitalismo mondiale sulla base di questo assunto rasenta l'azione criminale. Dunque come è possibile che quegli economisti siano rimasti impuniti? Come hanno fatto a convincere il mondo e il comitato dei Nobel che avrebbero potuto stimare la probabilità di eventi (come una sequenza di dichiarazioni di insolvibilità da parte dei debitori) che secondo i loro modelli sarebbe dovuta essere imponderabile?

La risposta sta più nell'ambito della psicologia delle masse che nell'economia stessa: gli economisti hanno rietichettato l' ignoranza e l'hanno rivenduta con successo come una forma di conoscenza provvisoria. Poi i finanzieri hanno costruito nuove forme di debito che rietichettavano l'ignoranza e hanno innalzato piramidi sull'assunto che il rischio fosse stato rimosso. Più erano gli investitori convinti, più soldi faceva chiunque fosse coinvolto, tanto migliori erano le posizioni degli economisti che volevano mettere a tacere chiunque osasse contestare gli assunti soggiacenti. In questo modo la finanza tossica e la teorizzazione dell'economia tossica divennero processi che si rafforzavano a vicenda.

Mentre i Merton del mondo finanziario rastrellavano premi Nobel e accumulavano favolosi profitti senza scomporsi, le loro controparti che erano rimaste nei grandi settori economici stavano sostituendo il "paradigma" della teoria economica. A differenza di tanto tempo fa, quando gli economisti più avanzati si dedicavano al lavoro di spiegare le cose, la nuova tendenza era quella di rietichettarle. Copiando la strategia dei finanzieri di far passare l'ignoranza per conoscenza provvisoria e l'incertezza per un rischio esente da rischi, gli economisti rietichettarono la disoccupazione di cui non si capiva l'origine (p. es. un tasso del 5 per cento osservato che rimaneva stabile) come tasso naturale di disoccupazione. Il bello della nuova etichetta era che d'un tratto la disoccupazione appariva naturale e che per questo motivo non aveva più bisogno di spiegazioni.

Merita, a questo punto, soffermarci un po' più a fondo sull'elaborata frode degli economisti: ogni volta che non erano in grado di spiegare le deviazioni osservate del comportamento umano dalle loro previsioni, essi a) definivano tale comportamento "fuori dall'equilibrio" e poi b) assumevano che fosse casuale e che poteva rientrare ottimamente nel modello in questi termini. Finché le "deviazioni" erano sommesse, i modelli funzionavano e i finanzieri ne traevano profitto. Ma quando subentrava il panico e cominciava l'agitazione nel sistema finanziario, le "deviazioni" potevano rivelarsi tutt'altro che casuali. Naturalmente i modelli crollavano, insieme ai mercati che essi avevano contribuito a creare.

Qualsiasi indagatore equanime di questi episodi deve concluderne, in base alla convinzione di molti, che le teorie economiche prevalgono nel modo di pensare delle persone influenti (nel settore bancario, negli hedge fund, nella FED, nella BCE o Banca centrale europea e un po' ovunque) non erano altro che forme, sottilmente velate, di frode intellettuale, che fornivano le foglie di fico "scientifiche" dietro alle quali Wall Street aveva cercato di nascondere la verità riguardo alle sue "innovazioni finanziarie". Esse si presentavano con nomi altisonanti, come l'ipotesi del mercato efficiente (EMH, Efficient market hypothesis), l'ipotesi delle aspettative razionali (REH, Rational expectation hypothesis) e la teoria del ciclo economico reale (RBCT, Real business cycle theory). In verità queste erano tutt'al più teorie che non avrebbero potuto vantare altro che un'impressionante diffusione sul mercato, grazie a una complessità matematica che era riuscita per troppo tempo a occultarne le debolezze.




Tre teorie tossiche che sostenevano il modo di pensare predominante prima del 2008

EMH: Nessuno può fare soldi sistematicamente tirando a indovinare sul mercato. Perché? Perché i mercati finanziari escogitano il modo di far sì che i prezzi correnti rivelino tutta l'informazione nota disponibile in ambito privato. Alcuni attori del mercato reagiscono in maniera esagerata alle nuove informazioni, altri reagiscono troppo poco. Per questo, anche quando tutti sbagliano, il mercato ottiene la risposta giusta. Una teoria davvero degna di Pangloss!

REH: Nessuno dovrebbe aspettarsi che una qualunque teoria dell'azione umana possa fare previsioni accurate a lungo termine se quella teoria presuppone che gli esseri umani la fraintendano sistematicamente oppure la ignorino del tutto. Per esempio supponiamo che un brillante matematico debba elaborare una teoria del bluff a poker e che ci insegni a usarla. L'unico modo in cui la teoria potrebbe funzionare per noi è che i nostri avversari non abbiano alcun accesso alla teoria oppure la fraintendano. Perché se i nostri oppositori fossero anche loro a conoscenza della teoria, ognuno potrebbe usarla per stabilire quando stiamo bluffando, sbaragliando così ogni intento di bluffare. Sicché alla fine noi preferiremmo abbandonarla e lo stesso farebbero gli altri. La REH parte dal presupposto che tali teorie non possano prevedere bene il comportamento perché la gente leggerà il mondo attraverso di esse e finirà per violare le loro prescrizioni e previsioni. Senza dubbio tutto ciò suona radicalmente antipaternalistico. La teoria presume che non possa essere fatta molta luce sulla società da parte di teorici che sono convinti di capirla di gran lunga meglio dell'uomo della strada. Si noti però che la teoria ha una punta di veleno nella coda: affinché la REH sia coerente, dovrebbe essere vero che gli errori della gente (quando prevedono qualche variabile economica, come l'inflazione, i prezzi del grano, il prezzo di qualche derivato o azione) sono sempre casuali, vale a dire esenti da qualsiasi regolarità, correlazione o teorizzabilità. Basta pensarci un momento per cogliere che l'adozione della REH, specialmente quando adottata insieme alla EMH equivale di fatto a non aspettarsi mai recessioni né tanto meno crisi. Perché? Perché le recessioni sono, per definizione, eventi sistematici, dotati di una schematicità. Per quanto possano risultare sorprendenti quando sopraggiungono, si svolgono con un decorso dotato di una certa schematicità, in cui ogni fase è correlata in alto grado con quella che l'ha preceduta. Dunque come fa un sostenitore della EMH-REH a reagire quando vede e sente con ogni chiarezza la sequenza "recessione-crack-tracollo finanziario"? La risposta è: rivolgendosi alla RBCT per una spiegazione confortante.

RBCT: Questa teoria ritrae il capitalismo prendendo come punto di partenza la EMH e la REH, e lo rappresenta come una Gaia ben funzionante. Se lasciata a se stessa, essa rimarrà armoniosa e non cadrà mai in una condizione spasmodica (come quella del 2008). Potrebbe certo essere "attaccata" da qualche shock "esogeno" (proveniente da un governo che si intromette, una FED capricciosa, sindacati inviperiti, produttori di petrolio arabi, extraterrestri ecc.) a cui deve reagire per adattarsi. Come una Gaia benevola che reagisce a un grande meteorite che l'ha colpita, il capitalismo reagisce in modo efficiente ai traumi esogeni. Può passare qualche tempo prima che le onde d'urto vengano assorbite e ci possono essere molte vittime nel processo ma, ciò nondimeno, il modo migliore per affrontare la crisi è di lasciare che il capitalismo se la veda con essa, senza essere sottoposti a ulteriori traumi inflitti da funzionari governativi che vogliono primeggiare e dai loro compagni di viaggio (che fanno finta di ergersi a difesa del bene collettivo ma mirano a tutelare le loro priorità).

Per riassumere, i derivati tossici si fondano sull'economia tossica che, a sua volta non è stata altro che un delirio dettato da ben precise motivazioni, ma in cerca di una giustificazione teorica: e la trova in trattatelli fondamentalisti che ammettono i dati di fatto solo quando essi possono essere accordati alle esigenze della fede nel profitto. Nonostante le loro etichette altisonanti e l'apparenza tecnica, i modelli economici erano solo versioni matematizzate della toccante superstizione secondo cui i mercati la sanno lunga, sia in tempo di tranquillità sia nei periodi tumultuosi.

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6. Guasto sistemico

E se né la natura umana né la teoria economica fossero responsabili del Crollo? Se questo non fosse avvenuto per via dell'avidità dei banchieri (anche se la maggior parte di loro sono avidi) né perché costoro impiegano teorie tossiche (anche se indubbiamente lo fanno), bensì perché il capitalismo è prigioniero di una trappola che esso stesso ha costruito? E se il capitalismo non fosse un sistema "naturale", bensì piuttosto un particolare sistema con una certa propensione al guasto sistemico?

La sinistra, che ha come suo profeta originario Marx, ha sempre avvertito che il capitalismo, in quanto sistema, tende a trasformare noi in automi e la nostra società di mercato in una distopia che ricorda Matrix. Ma quanto più esso si avvicina a raggiungere questo traguardo, tanto più esso si avvicina al momento della rovina, proprio come il mitico Icaro. Così, dopo il Crollo (e a differenza di Icaro) si rialza, si scrolla la polvere di dosso e si avvia nuovamente a compiere lo stesso percorso.

In questa spiegazione finale del mio elenco appare come se le nostre società capitalistiche fossero progettate per generare crisi periodiche che diventano sempre più gravi quanto più allontanano il lavoro umano dal processo di produzione e il pensiero critico dal dibattito pubblico. A coloro che mettono sotto accusa l'avarizia, l'avidità e l'egoismo degli uomini, Marx rispondeva che essi seguono un istinto sano ma guardano nella direzione sbagliata: il segreto del capitalismo è nella sua propensione alla contraddizione: nella sua capacità di produrre simultaneamente una massiccia ricchezza e un'intollerabile povertà, magnifiche nuove libertà accanto alle peggiori forme di schiavitù, scintillanti automi meccanici e perverse forme di sfruttamento del lavoro umano.

La volontà umana, in questo modo di interpretare i fatti, può apparire oscura e misteriosa; tuttavia nell'età del Capitale è diventata più un derivato che un motore primario. Perché è il Capitale ad aver occupato il ruolo della forza primaria che dà forma al nostro mondo, ivi compresa la nostra volontà. La motivazione autoreferenziale del capitale si fa beffe dell'umano volere, sia di quello dell'imprenditore, sia di quello del lavoratore. Per quanto inanimato e privo di intelletto, il Capitale, stenogramma che sta per macchine, denaro, derivati resi sicuri e tutte le forme di ricchezza cristallizzata, si evolve rapidamente come se fosse in affari a proprio stesso vantaggio, usando gli attori umani (banchieri, capufficio e lavoratori in ugual misura) a mo' di pedine del proprio gioco. In maniera non dissimile dal nostro subconscio il Capitale instilla illusioni nelle nostre menti, soprattutto l'illusione che, nel servirlo, noi diventiamo degni, eccezionali, potenti. Ci sentiamo fieri di avere un rapporto con esso (sia come finanzieri che "creano" milioni in un giorno o come datori di lavoro da cui dipendono una moltitudine di famiglie, ovvero come lavoratori che hanno accesso privilegiato a un macchinario rilucente o a meschini servizi che vengono negati agli immigrati illegali), perdendo di vista il fatto tragico che è il Capitale, in effetti, a possedere tutti noi e che siamo noi a servirlo.

Il filosofo tedesco Schopenhauer rimproverava noi uomini moderni per il fatto di esserci illusi pensando che le nostre credenze e le nostre azioni siano soggette alla nostra coscienza. Nietzsche rincarò la dose affermando che tutte le cose in cui crediamo, in un momento o nell'altro, non riflettono la verità bensì il potere di qualcun altro su di noi. Marx trascinava in questo quadro anche l'economia, rimproverando noi tutti per aver ignorato la realtà che i nostri pensieri sono stati presi d'ostaggio dal Capitale e dalla sua pulsione ad accumulare. Naturalmente, benché il capitale segua la sua ferrea logica, esso si evolve senza discernimento. Nessuno ha progettato il capitalismo e nessuno può civilizzarlo ora che sta andando a pieno regime.

Essendosi semplicemente evoluto senza il consenso di alcuno ci ha rapidamente liberato da forme più primitive di organizzazione sociale ed economica. Ha generato macchinari e strumenti (materiali e finanziari) che ci hanno consentito di prendere il controllo del pianeta. Ci ha dato il potere di immaginare un futuro senza miseria in cui le nostre vite non sono più alla mercé di una Natura ostile. Eppure nello stesso tempo, proprio come la natura ha generato Mozart e l'HIV impiegando lo stesso meccanismo indiscriminato, anche il Capitale ha prodotto forze catastrofiche dotate di una tendenza a spargere la discordia, la disuguaglianza, la guerra su scala industriale, il degrado ambientale e, naturalmente, le voragini finanziarie. In una sola volta ha generato, senza armonia né ragione, prosperità e crisi, sviluppo e privazione, progresso e arretratezza.

Dunque il Crack del 2008 potrebbe essere nulla più della nostra periodica opportunità di capire fino a che punto abbiamo permesso che la nostra volontà venisse soggiogata dal Capitale? È forse stato un urto che ci ha consentito di svegliarci e prendere coscienza che il Capitale è diventato una forza a cui dobbiamo sottometterci, un potere che ha sviluppato "un'energia cosmopolita, universale che infrange qualsiasi limite e si pone come unica politica, sola universalità, solo limite e unico vincolo"?




La sfida della parallasse

Un bastone semisommerso nell'acqua appare spezzato. Quando lo si muove avanti e indietro l'angolo cambia e ogni posizione diversa fornisce una prospettiva differente. Se poi, per giunta, l'acqua del fiume scorre dolcemente, muovendo il bastone di qua e di là, sia la "realtà" del bastone "spezzato" sia la nostra comprensione di esso sono in un continuo fluire. I fisici si riferiscono a questo fenomeno chiamandolo la parallasse. Lo riporto qui per formulare la semplice constatazione che molte diverse osservazioni riguardo al Crack del 2008 possono essere sia esatte sia fuorvianti.

Con questo non si intende negare la realtà oggettiva del bastone (che non è affatto spezzato) né quella del Crollo e dei suoi postumi, la Crisi. Si intende semplicemente osservare che punti di vista diversi possono generare osservazioni "vere" eppure tralasciare di svelare la verità elementare riguardo al fenomeno che stiamo studiando. Quello di cui abbiamo bisogno è qualcosa che va al di là di una varietà di possibili spiegazioni e prospettive da cui cogliere la realtà del bastone. Abbiamo bisogno di un salto teorico, come quello che compie il fisico, che ci consenta di elevarci al di sopra delle osservazioni non valutabili prima di posarci in un punto di vista concettuale da cui il tutto risulta perfettamente sensato. Questo "salto" è ciò che io chiamo "la sfida della parallasse".

Affrontare il Crack del 2008 è come affrontare la sfida della parallasse nella sua forma più impegnativa. Chi potrebbe negare, in modo credibile, che gli economisti e coloro che gestiscono i rischi abbiano valutato male questo momento decisivo del rischio sistemico? Sussiste forse qualche dubbio che Wall Street e il settore finanziario nel suo insieme si siano ingrassati a forza della propria subdola voracità, di pratiche che rasentano il crimine e grazie a prodotti finanziari che qualsiasi società decente avrebbe dovuto mettere al bando? Le agenzie di rating del credito non erano casi da manuale di conflitto di interessi in azione? L'avidità non veniva salutata come il nuovo valore dominante? Gli organismi di regolamentazione non avevano fallito in maniera spettacolare nel resistere alla tentazione di stare "dalla parte giusta", al fianco dei banchieri? Le società anglo-celtiche non erano forse più inclini di altre alla furberia culturale del neoliberalismo? Non facevano forse da testa di ponte per diffondere la convinzione che la parola "scrupoli" non significava nulla e che l'interesse privato era l'unica via e l'unica motivazione? Non è forse vero che il Crack del 2008 colpì il mondo sviluppato più a fondo di quanto avesse fatto con le cosiddette economie emergenti? C'è qualcuno in grado di confutare la semplice proposizione che il capitalismo ha una straordinaria capacità di farsi lo sgambetto da solo?

Come nel caso di una semplice parallasse ottica, in cui tutte le prospettive sono ugualmente plausibili, a seconda del punto di osservazione, anche qui ciascuna delle spiegazioni elencate poc'anzi mette in luce aspetti importanti di quello che è accaduto nel 2008. Eppure ci lasciano tutte insoddisfatti per via di una tormentosa sensazione di aver tralasciato qualcosa di importante e del fatto che, anche se abbiamo scorto molte manifestazioni cruciali del Crollo, la sua quintessenza continua a sfuggirci. Che cosa è realmente accaduto? Come è possibile che stuoli di osservatori del mercato sinceramente motivati, tecnicamente iperpreparati non se ne siano accorti? Se non sono state l'avidità e la sfrenatezza, la morale traballante e l'ancor più traballante normativa ad aver provocato il Crollo e la Crisi che ne è seguita, che cosa può essere stato? Se l'aspettativa marxista secondo cui le contraddizioni interne del capitalismo torneranno sempre a emergere è una spiegazione fin troppo semplice degli avvenimenti che hanno portato al 2008, qual è il nesso mancante nel nostro caso?

La mia risposta evocativa è: il Crack del 2008 ha avuto luogo quando un animale chiamato il Minotauro globale è stato ferito in maniera fatale. Finché governava il pianeta, il suo pugno di ferro era implacabile, il suo dominio spietato. Ciò nondimeno, finché si trovava in uno stato di salute discreto, manteneva l'economia globale in uno stato di disequilibrio bilanciato. Era uno stato che offriva un certo grado di stabilità. Ma quando cadde preda dell'inevitabile ed è crollato in uno stato comatoso nel 2008, ha sprofondato il mondo in una crisi latente. Finché non troveremo modi per vivere senza quella creatura mitologica, la radicale incertezza, la prolungata stagnazione e il riacutizzarsi di un'accentuata insicurezza rimarranno all'ordine del giorno.




Il Minotauro globale: un primo sguardo

Nel 1991 il crollo del comunismo vide la conclusione di una tragedia con le classiche implicazioni: una fatale inversione (peripeteia, come l'avrebbe chiamata Aristotele) che cominciò quando le nobili intenzioni dei socialisti rivoluzionari furono usurpate per la prima volta da fanatici assetati di potere, per cedere in seguito a un insostenibile feudalesimo industriale che portava con sé solo vittime e farabutti. Per contrasto, il Crack del 2008 aveva l'aria di una sequenza di eventi preclassica, più mitologica e quindi più brutale. È per questo motivo che questo libro adotta un titolo che allude a un periodo precedente all'invenzione del genere tragico.

Avrei potuto intitolare questo libro L'aspirapolvere globale, un termine che coglie abbastanza bene la principale caratteristica della seconda fase del dopoguerra che iniziò nel 1971, con un'audace decisione strategica da parte delle autorità statunitensi: invece di ridurre i deficit gemelli che si erano andati accumulando verso la fine degli anni sessanta (il deficit del bilancio del governo USA e il deficit commerciale dell'economia americana), i più importanti decisori della politica americana decisero di aumentare ambedue i deficit intenzionalmente e con generosità. E chi avrebbe pagato i conti? Semplice: il resto del mondo! Come? Grazie a uno tsunami permanente di capitale che sarebbe corso incessantemente attraverso i due grandi oceani per finanziare i deficit gemelli dell'America.

I deficit gemelli dell'economia USA operarono per decenni come un aspirapolvere gigante, assorbendo i beni in eccedenza e il capitale degli altri popoli. Anche se tale "disposizione" era l'incarnazione del più grossolano disequilibrio immaginabile su una scala planetaria, che richiedeva quello che Paul Volcker descrisse efficacemente come "l'ingresso della disintegrazione controllata nell'economia mondiale", ciò nondimeno fece sorgere qualcosa che rassomigliava un equilibrio globale: un sistema internazionale di flussi finanziari e mercantili in grado di creare una parvenza di stabilità e di crescita costante.

Le principali economie mondiali del surplus (cioè Germania, Giappone e, in seguito, Cina), alimentate dai deficit gemelli dell'America, continuavano a sfornare merci che gli americani continuavano a trangugiare. Quasi il 70 per cento dei profitti raccolti su scala globale da questi paesi venivano poi ritrasferiti indietro negli Stati Uniti, sotto forma di flussi di capitale diretti a Wall Street. E che se ne faceva Wall Street di quei flussi di capitali? Li trasformava istantaneamente in investimenti diretti, azioni, nuovi strumenti finanziari, crediti, di forma vecchia o nuova e, ultimo ma non meno importante, in un "simpatico piccolo bonus" per gli stessi banchieri. Attraverso questo prisma, tutto sembra più motivato: l'ascesa della finanziarizzazione, il trionfo dell'avidità, la diminuita importanza degli organismi di regolamentazione, l'egemonia del modello di crescita anglo-celtico. Tutti i fenomeni che hanno caratterizzato quell'epoca improvvisamente appaiono come meri sottoprodotti dei massicci flussi di capitale necessari per alimentare i deficit gemelli degli Stati Uniti.

Chiaramente "l'aspirapolvere globale" avrebbe fornito una descrizione accurata del tema di questo libro. Tali sue umili origini riconducibili al mondo degli elettrodomestici potrebbero costituire un punto di demerito dal punto di vista commerciale ma non dovrebbero dequalificarlo di per sé. Comunque, a un livello più simbolico, quel titolo non si sarebbe potuto ricollegare con gli aspetti drammatici, quasi mitologici, del progetto internazionale a cui tutti abbiamo dovuto fornire la nostra forza lavoro prima dello sciagurato 2008: un progetto troppo instabile per sopravvivere in perpetuo ma, nello stesso tempo, un progetto che contribuì a mantenere la tranquillità globale per decenni, fondandola su un flusso costante di tributi dalla periferia all'impero centrale: tributi che sostennero il rafforzamento reciproco dei deficit gemelli degli USA e della domanda globale di beni e di servizi da parte delle nazioni del surplus.

Queste erano le caratteristiche di una bestia mitologica globale che ha ruggito dagli anni settanta fino a poco tempo fa. Sono tratti che si convengono di più, credo, alla metafora del Minotauro che a una riferibile alle pulizie domestiche.


Box 1.1
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Il minotauro di Creta

Il Minotauro è una figura mitologica tragica. La sua storia è intrisa di avidità, di giustizia divina, di vendetta e di molta sofferenza. È anche il simbolo di una particolare forma di equilibrio politico ed economico che riunisce in sé paesi enormemente diversi e remoti: un precario equilibrio geopolitico che è crollato con l'abbattimento della bestia, dando luogo a una nuova era.

Secondo la versione più diffusa del mito, il re Minosse di Creta, il più potente sovrano del suo tempo, chiese a Poseidone un bel toro come segno di grazia divina, impegnandosi a sacrificarlo in onore del Dio. Dopo che Poseidone lo ebbe esaudito, Minosse decise sciaguratamente di risparmiare l'animale, che lo aveva colpito per la sua bellezza e imponenza. Gli dei, che non si lasciano commuovere da una buona scusa quando si tratta di infliggere un'orribile punizione, scelsero un castigo interessante: avvalendosi delle particolari arti di Afrodite, indussero la moglie di Minosse, la regina Pasifae, a sentirsi attratta dal toro. Usando diversi dispositivi ideati da Dedalo, leggendario artefice al servizio del re, la regina riuscì a farsi fecondare dal toro e il risultato di quel breve incontro fu il Minotauro: una creatura per metà umana e per metà taurina (il nome Minotauro equivale a "toro di Minosse", dal greco tauros, "toro").

Quando il Minotauro crebbe, diventando sempre più irrequieto, Minosse diede ordine a Dedalo di costruire un labirinto, un immenso tortuoso sotterraneo in cui il Minotauro veniva tenuto prigioniero. Non essendo in grado di nutrirsi con il cibo degli uomini, l'animale doveva essere sfamato con carne umana. Questo offrì a Minosse un'eccellente opportunità per vendicarsi degli ateniesi, il cui re Egeo, un miserabile fallito, aveva fatto uccidere il figlio di Minosse dopo che il giovinetto aveva vinto tutte le competizioni e i tornei alle gare Panatenaiche. A conclusione della breve guerra contro Atene, Egeo venne costretto a inviare sette giovinetti e sette fanciulle illibate affinché venissero divorate ogni anno dal Minotauro (ovvero ogni nove anni, secondo un'altra versione). Così, secondo quanto racconta il mito, venne istituita una pax cretana su tutte le terre e i mari conosciuti, sulla base di un regolare tributo straniero che manteneva ben pasciuto il Minotauro.

Al di là del mito, gli storici suggeriscono che la Creta minoica fosse la potenza economica e politica egemone di tutta la regione egea. Le città-stato più deboli, come Atene, dovevano pagare regolarmente tributo a Creta, come segno di sottomissione. Questo tributo si sarà basato sulla consegna di adolescenti che dovevano essere sacrificati da sacerdoti muniti di maschere taurine.

Tornando al regno del mito, il Minotauro venne finalmente ucciso da Teseo, figlio del re Egeo di Atene, il che segnò l'emancipazione di Atene dall'egemonia cretese e l'alba di una nuova era.

Egeo acconsentì a malincuore che suo figlio salpasse alla volta di Creta per compiere quella pericolosa missione. Chiese a Teseo di assicurarsi che, prima di tornare al Pireo, sostituisse le vele nere della partenza con altre bianche, per segnalare al padre in attesa che la missione era riuscita e che Teseo stava tornando vittorioso da Creta. Ma purtroppo, ebbro di gioia per essere riuscito a sconfiggere il Minotauro, Teseo dimenticò di issare le vele bianche. Quando vide le vele nere da lontano, pensando che il figlio fosse morto tra le grinfie del Minotauro, Egeo si gettò a precipizio nel mare sottostante, che per questo motivo prese il nome di Mar Egeo.

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Una breve scorsa del mito antico (v. Box 1.1) conferma la sua adeguatezza come raffigurazione di una potenza a cui nulla si oppone, una forza stabilizzata e sorretta da un tributo unilaterale: una sovranità egemonica che proietta la propria autorità oltre il mare e si atteggia a custode di una pace che giunge assai lontano e del commercio internazionale, in cambio di quel regolare tributo che continua a nutrire la belva tenuta prigioniera al suo interno.

Nel nebuloso mondo del mito greco, la bestia era una creatura triste, disarmata, incattivita, e il tributo era costituito da giovinetti il cui sacrificio preservava una pace conquistata a duro prezzo. Per porre fine al suo regno un principe coraggioso, Teseo, aveva dovuto compiere un brutto gesto: trucidare il Minotauro e dare così inizio all'era post-cretese. Nel nostro mondo, tanto più complicato, non è stato necessario alcun eroismo del genere. La parte della bestia è stata recitata dai deficit gemelli dell'America e il tributo ha assunto la forma del reddito di beni e capitale. Quanto alla fine del nostro Minotauro globale, è arrivata all'improvviso, senza che alcun agente fisico sferrasse il colpo intenzionalmente. La ferita potenzialmente letale è stata inflitta dal crollo vigliacco, spontaneo del sistema bancario. Anche se il colpo è stato altrettanto drammatico e ha messo fine, senza ombra di incertezze, alla seconda fase del dopoguerra del capitalismo globale, la nuova era è ostinatamente restia a mostrare il suo volto. Finché non lo farà, rimarremo tutti nello stato di aporia che è stato evocato dal 2008.

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Epilogo: l'incubazione del Piano globale

Le crisi regolari perpetuano il passato rafforzando crisi che sono cominciate molto tempo fa. Per contrasto, le Crisi con la C maiuscola sono la campana a morto del passato. Funzionano come laboratori in cui viene incubato il futuro. Ci hanno dato l'agricoltura e la rivoluzione industriale, la tecnologia e il contratto di lavoro, i germi assassini e gli antibiotici. Una volta che hanno colpito, il passato cessa di essere un predittore affidabile del futuro e il nuovo mondo è già nato.

Nel corso degli ultimi tre secoli circa, il mondo è cambiato rapidamente e in modo irresistibile. La mercificazione è cominciata quando i contadini sono stati estromessi dalle loro terre avite, che venivano recintate nelle enclosure. Più tardi lo stesso meccanismo accelerò quando la forza lavoro dei contadini espropriati venne contenuta all'interno delle mura delle fabbriche. Quando poi la manodopera umana fu integrata con la forza lavoro del vapore e dei telai meccanici, cominciò a sgorgare un fiume inarrestabile di beni economici, che si diffusero per i quattro angoli del pianeta. Da allora la mercificazione ha preso d'assalto il mondo. Oggi i suoi tentacoli si sono spinti fin nel microcosmo, brevettando genomi e proclamando che gli organismi ibridi sono "proprietà" di qualcuno. A tempo debito, privatizzerà anche la Luna e i pianeti, forse anche il Sole e le stelle. Eppure l'intervento più significativo nel funzionamento della società è avvenuto molto tempo addietro.

Fin dall'inizio la mercificazione ha dato origine a un'inversione del ciclo produzione-distribuzione. Mentre in passato la produzione aveva sempre preceduto la divisione del raccolto tra coloro che lavoravano per produrlo e le potenti élite che lo reclamavano sulla base di qualche convenzione socialmente stabilita, la mercificazione della terra e del lavoro comportava che la quota dei lavoranti venisse pagata in anticipo (sotto forma di salari). La distribuzione, dunque, aveva inizio ancor prima che fosse avvenuto il raccolto.

È difficile sopravvalutare l'effetto di questa inversione. Essa stabilizzava le società basate sul mercato, di recente creazione e simultaneamente le destabilizzava. Introduceva una nuova versione del segreto di Condorcet, che stabilizzava infinitamente il nuovo ordine e infondeva nel capitalismo neonato la potenziale dinamite che va sotto il nome di finanza. E se questo non era abbastanza, vi aggiungeva due folletti dispettosi e uno spaventoso fantasma per soprammisura.

La disponibilità della finanza, come avrebbe scoperto con rincrescimento il dottor Faust, esalta i momenti di crescita e rende intollerabili quelli di depressione. Inoltre il fantasma della manodopera umana gratuita infesta le società di mercato generando una perversa dinamica che, con il pretesto del profitto tenta, di meccanizzare l'attività umana, salvo farci scoprire che più essa ci riesce e meno valgono i prodotti così realizzati.

Il risultato di queste particolari caratteristiche delle società di mercato, del capitalismo, è consistito in un considerevole progresso, costellato di centinaia di crisi: alcune piccole, altre dolorose. La prima Crisi vera e propria ha impiegato il suo tempo a colpire. Ha aspettato l'ascesa delle grandi società e la concomitante alba della finanziarizzazione su vasta scala. Quando queste importanti istituzioni (Edison, le banche di Wall Street ecc.) sono diventate attori di primaria importanza e hanno propalato la buona novella della "fine della miseria", sull'umanità è calato il 1929, sfracellando tutte le sue ambiziose aspettative. È stato come se il cielo fosse crollato.

Dopo la vittoria di Roosevelt nel 1932 e nonostante i suoi valorosi sforzi per il New Deal, la Grande Depressione ha continuato tenacemente a fare sentire la sua stretta. I progetti sociali, le nuove regolamentazioni imposte alle banche, i grandi programmi pubblici a favore dell'impiego, i tentativi per aiutare i proprietari di immobili sotto pressione a salvare le loro case, l'offerta di assistenza sanitaria, la previdenza sociale, tutte queste misure hanno dato sollievo, ma non hanno fatto cambiare sostanzialmente le cose così come si pensava. In effetti ancora nel 1938 si scatenò una seconda crisi, una che era quasi altrettanto grave di quella del 1929. Se non fosse stato per la carneficina della Seconda guerra mondiale, il Crollo del 1929 avrebbe continuato a fare sentire la sua stretta fin negli anni quaranta inoltrati.

La guerra liberò le finanze di Stato da tutti i vincoli politici. Il governo spendeva denaro come se non ci fosse un domani, il debito federale raddoppiò, ma il ciclo del pessimismo autoavverantesi era stato spezzato. In effetti il paradosso della profezia venne debellato nelle sale delle decisioni ben prima che i tedeschi e i giapponesi venissero messi alle corde sul campo di battaglia. Le vecchie fabbriche vennero ripristinate e rimesse in condizioni di produrre, nuove fabbriche vennero innalzate sui campi verdeggianti, l'innovazione raggiunse la sua apoteosi, la produzione aumentò fino a sfondare il tetto, gli affari si svilupparono alla grande. Peccato che milioni dovessero morire prima che la politica potesse consentire al governo di agire opportunamente e in pieno.

Quando la guerra cominciò a perdere la quantità di moto che aveva accumulato e la pace sembrava a portata di mano, i funzionari statunitensi vennero colti dal panico. Per esorcizzare la paura che a guerra finita la Crisi (durante la quale si erano ben guardati dall'intervenire) potesse rialzare la sua orrida testa, si rimisero al lavoro. Pianificarono il più lungimirante progetto ingegneristico socioeconomico che la storia umana ricordi. È quello che io chiamo il Piano globale.

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In questo contesto è utile pensare al Piano Marshall come alla prima pietra delle fondamenta del Piano globale. Anzi, quando il Piano Marshall cominciò a perdere colpi nel 1951, la fase numero 2 del progetto americano per l'Europa stava appunto cominciando: l'integrazione dei suoi mercati e della sua industria pesante. Quella seconda fase sarebbe stata chiamata Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA), precorritrice dell'Unione europea di oggi. Così come veniva concepita dai fautori del New Deal, questa nuova istituzione avrebbe ben presto fornito lo spazio vitale di cui aveva bisogno l'industria tedesca per risorgere nel suo ambiente economico immediato.




L'Unione europea e il miracolo giapponese

Agli studenti dell'integrazione europea si insegna che l'Unione europea nacque sotto forma della CECA. Quello che è meno probabile che essi vengano a sapere è il ben custodito segreto che furono proprio gli Stati Uniti a invogliare, a spingere, a minacciare e a blandire gli europei affinché costruissero quell'istituzione.

Tecnicamente parlando la CECA era un mercato comune per il carbone e l'acciaio che avrebbe dovuto collegare la Germania Ovest, la Francia, l'Italia, il Belgio, il Lussemburgo e l'Olanda. Non solo esso comportava l'abbattimento di tutte le barriere doganali interposte fra questi paesi per i prodotti del carbone e dell'acciaio, ma oltre a questo era provvista di legami sovraistituzionali il cui scopo era di regolamentare la produzione e i livelli dei prezzi. Di fatto, malgrado la propaganda sostenesse il contrario, le sei nazioni formarono un cartello del carbone e dell'acciaio.

Leader europei come Robert Schuman (un promotore della creazione della CECA) sottolineavano l'importanza di questa convergenza, dalla pertinente prospettiva di evitare un'altra guerra europea e di forgiare un minimo presupposto di unione politica. Creare un'industria pesante condivisa, principalmente tra Francia e Germania Ovest, avrebbe, secondo la convinzione di Schuman, abolito le cause di conflitto e nello stesso tempo avrebbe privato i due paesi dei mezzi con cui perseguirlo.

Fu così che la Germania si vide per la prima volta riaprire le porte e la Francia accettò a poco a poco la reindustrializzazione del vicino, dando luogo a una svolta indispensabile per il Piano globale dei fautori del New Deal. In effetti è indiscutibile che, senza la guida degli Stati Uniti, la CECA non avrebbe mai visto la luce. Contrariamente alla versione autogratificante degli europei (secondo i quali l'unificazione europea fu un sogno europeo reso reale grazie alla diplomazia europea e alla ferrea volontà di lasciarsi alle spalle il violento passato del continente), la realtà è che l'integrazione europea fu una grandiosa idea americana che venne messa in pratica dalla diplomazia americana al più alto livello. Il fatto che gli americani che la portarono a compimento avessero arruolato al servizio della loro causa politici illuminati come Schuman non cambia in alcun modo la realtà degli eventi.

C'era un solo politico che vedesse le cose con altrettanta chiarezza: il generale Charles de Gaulle, futuro presidente della Francia, che si sarebbe scontrato con gli Stati Uniti negli anni sessanta, al punto da far uscire la Francia dall'ala militare del trattato per l'Organizzazione del Nord-Atlantico (NATO). Quando venne formata la CECA, de Gaulle la denunciò sulla base del fatto che stava creando un'Europa unita sotto forma di un cartello restrittivo e, più importante ancora, che era una creazione americana, sottoposta all'influenza di Washington e più adatta a servire il suo piano globale che a fornire un solido fondamento per una Nuova Europa. Per queste ragioni de Gaulle e i suoi successori si espressero al parlamento francese contro la formazione della CECA.

Volgiamoci ora al secondo pilastro che avrebbe dovuto sostenere il dollaro, stavolta dall'altra parte dell'emisfero settentrionale. Il ripristino del Giappone come potenza industriale si dimostrò meno problematico per i rappresentanti del New Deal di quanto lo fosse stata la Germania.

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Le linee politiche interne degli USA durante il Piano globale

La paura che la fine della Seconda guerra mondiale provocasse l'inizio di un nuovo periodo di declino diede ai fautori del New Deal l'energia di perseguire due soluzioni. La prima l'abbiamo considerata con un certo dettaglio: dollarizzare il mondo al fine di creare una domanda estera per le esportazioni dell'America. Il secondo insieme di indirizzi polititici riguardava l'economia domestica e comprendeva tre principali fonti di stimolo, guidate dal governo:

• il programma dei missili balistici intercontinentali

• le Guerre di Corea e del Vietnam

• La Nuova Frontiera del presidente John F. Kennedy e, più importante ancora, la Grande Società del presidente Lyndon Johnson.

I primi due programmi di spesa rafforzarono in modo sostanziale le imprese statunitensi e le tennero in gioco in un momento in cui il loro governo stava uscendo dal sentiero battuto per occuparsi dei capitalisti stranieri. I maggiori benefici, naturalmente, andarono a favore di società in certo qual modo collegate a quello che il presidente Dwight Eisenhower (pur essendo egli stesso un famoso comandante dell'esercito) definì con disprezzo l' establishment militare-industriale (MIE). Il MIE e il trattamento privilegiato di cui esso godeva da parte dell'esercito contribuirono vigorosamente allo sviluppo del complesso dell'elettronica del computer e dell'aeronautica (ACE), una realtà economica in gran parte separata dal resto dell'economia statunitense, ma centrale rispetto alla sua crescente potenza.

Sebbene l'impatto del Piano globale sull'economia interna americana fosse positivo, esso fu disuguale. Questo è evidenziato dal fatto che certi segmenti dell'economia non collegati alla MIE o all'ACE non ripresero mai il passo né con la Germania e con il Giappone né con il resto dell'economia USA. Il fatto che non fosse lo scopo principale di Washington di sostenere apertamente le società americane (anche se era sicuramente uno dei suoi scopi) si può ricavare dalla spregiudicatezza con cui il governo degli Stati Uniti introdusse, ogni volta che gli sembrava appropriato, severe normative che in definitiva discriminavano contro le multinazionali americane, pur di perseguire la sua priorità suprema: il rafforzamento delle zone del marco tedesco e dello yen mediante il potenziamento dell'industria tedesca e di quella giapponese.

La disparità con cui la prosperità era distribuita all'interno degli Stati Uniti, in un'epoca di crescenti aspirazioni (non tutte legate al reddito) provocò significative tensioni sociali. Queste tensioni e la loro graduale dissoluzione diventarono gli obiettivi dei programmi di spesa della Grande Società negli anni sessanta. Prima il presidente Kennedy e poi il suo successore Lyndon Johnson promossero con forza una serie di programmi di spesa interna che avrebbero posto rimedio al fatto che i benefici interni del Piano globale erano distribuiti così iniquamente da minare la coesione sociale in importanti centri e regioni urbane. Per evitare che queste forze centrifughe danneggiassero il Piano globale, i programmi di previdenza sociale assunsero una certa rilevanza per se stessi.

Per mettere in prospettiva l'importanza dei programmi sociali di Kennedy e Johnson, vale la pena di osservare che dal 1955 fino all'elezione di Kennedy nel 1960 la crescita economica negli Stati Uniti si ridusse: un ridimensionamento che colpì maggiormente i poveri e gli emarginati. Dopo otto anni di governo repubblicano (1952-1960) Kennedy venne eletto sulla base di una piattaforma elettorale che faceva riferimento al New Deal. Il suo manifesto della Nuova Frontiera prometteva di rivitalizzare lo spirito del New Deal impegnando risorse di spesa per l'istruzione, la sanità, il rinnovamento urbano, i trasporti, le arti, la tutela ambientale, i mezzi d'informazione radiotelevisivi, le ricerche nelle discipline umanistiche ecc.

Dopo l'assassinio di Kennedy, il presidente Johnson, specialmente dopo la sua clamorosa vittoria elettorale del 1964, fece proprie molte delle iniziative politiche della Nuova Frontiera (in gran parte irrealizzate) integrandole nel suo ben più ambizioso proclama della Grande Società. Mentre Johnson perseguì la Guerra del Vietnam all'estero con crescente e spregiudicata energia, all'interno egli tentò di imporre la propria autorità per mezzo della Grande Società, un programma che fu di grande ispirazione per i progressisti, in quanto metteva al centro della scena l'obiettivo di eliminare non solo la miseria per la classe operaia bianca, bensì anche il razzismo.

La Grande Società verrà ricordata per il suo efficace smantellamento dell'apartheid americano, specialmente negli stati meridionali. Tra il 1964 e il 1966 vennero approvati quattro dispositivi legali che provvidero a questa importante trasformazione della società americana. Inoltre la Grande Società aveva un forte elemento keynesiano che si presentava con le fattezze di quella guerra senza frontiere che Johnson aveva mosso alla povertà. Nei primi tre anni, dal 1964 al 1966, venne speso ogni anno 1 miliardo di dollari in vari programmi per potenziare le opportunità dell'istruzione e per garantire la protezione sanitaria per gli anziani e per vari gruppi vulnerabili.

L'impatto sociale della spesa pubblica della Grande Società fu particolarmente sentito sotto forma di riduzione della povertà. Quando iniziò, più del 22 per cento degli americani viveva al di sotto della soglia ufficiale della povertà. Alla fine del programma, quella percentuale era scesa poco al disotto del 13 per cento. Ancora più significativo era il fatto che le rispettive quote per gli americani neri erano del 55 per cento (nel 1960) e del 27 per cento (nel 1968). Mentre tali progressi non possono essere spiegati unicamente come effetti del finanziamento della Grande Società, questo svolse un ruolo principale nell'alleviare alcune delle tensioni sociali durante un'era di crescita generalizzata.




Conclusione: l'Età dell'oro del capitalismo

Gore Vidal disse una volta che il guaio delle età dell'oro è che, quando ci vivi dentro, tutto sembra un po' giallo. Indubbiamente gli innumerevoli americani che scesero nelle piazze per protestare contro i loro governi negli anni sessanta non vedevano la loro era come un'età aurea. Eppure, a posteriori, perlomeno visto dalla prospettiva attuale, quel periodo ci appare veramente straordinario: un'epoca in cui gli amministratori erano sinceramente convinti di riuscire a creare un ordine mondiale razionale che avrebbe promosso la stabilità intercontinentale, la crescita e l'uguaglianza relativa. Se consideriamo la nostra attuale classe di politici che fanno riferimento solo ai sondaggi e la cui ragion d'essere è quella di stare dalla parte giusta di Wall Street, dei rappresentanti delle lobby e dei vari interessi d'affari, è facile vedere sotto una luce romantica la prima fase del dopoguerra: l'era del Piano globale.

Il Piano globale durò dal 1950 circa al 1971. In definitiva si riduceva tutto a una semplice idea: un sistema di tassi di cambio fissi che legavano insieme le economie capitaliste, corredato da un particolare tipo di GSRM che garantiva l'immunità del sistema dalle forze centrifughe che altrimenti lo avrebbero ridotto a brandelli. Come emerse quel particolare GSRM? L'idea era che gli Stati Uniti avrebbero mantenuto le grandi eccedenze commerciali del dopoguerra ma, a loro volta, avrebbero esportato i propri capitali in eccedenza (o profitti) consegnandoli ai loro pupilli sotto forma di investimento diretto, di aiuti o di assistenza e consentendo così che essi continuassero ad acquistare prodotti americani. Nello stesso tempo gli Stati Uniti avrebbero fatto in modo che il Giappone e la Germania mantenessero un'analoga posizione di plusvalenze a un livello regionale, perfino se questo andava a discapito del bilancio dell'America.

La caratteristica più notevole del Piano globale era la sua incredibile adattabilità: le successive amministrazioni USA lo adeguarono via via che qualche frammento andava perduto. I loro indirizzi politici nei confronti del Giappone erano un eccellente esempio: dopo l'inaspettata vittoria di Mao e dopo l'abbandono dell'originario piano di trasformare il territorio cinese in un enorme mercato per i prodotti industriali giapponesi, gli strateghi politici statunitensi reagirono con una varietà di soluzioni ispirate.

Anzitutto utilizzarono la Guerra di Corea, trasformandola in un'eccellente opportunità per incrementare la domanda del settore industriale giapponese. In secondo luogo, utilizzarono la loro influenza sugli alleati dell'America per promuovere l'importazione libera dei prodotti giapponesi nei loro mercati. In terzo luogo, fatto ancor più sorprendente, Washington decise di trasformare il mercato dell'America nello spazio vitale del Giappone. In effetti la penetrazione di importazioni giapponesi (automobili, elettronica, perfino servizi) sarebbe stata impossibile senza un cenno di assenso da parte dei responsabili dell'indirizzo politico statunitense. In quarto luogo, il successore della Guerra di Corea, la Guerra del Vietnam, fu anch'essa assoldata per stimolare ulteriormente l'industria giapponese. Un utile sottoprodotto di quella impresa assassina fu l'industrializzazione del Sud-Est asiatico, che rafforzò ulteriormente il Giappone fornendo a questo paese, quanto meno, l'anello mancante: una zona commerciale vitale nell'immediata prossimità geografica.

La mia tesi qui non è che i combattenti della Guerra fredda al Pentagono e altrove stessero perseguendo il Piano globale del New Deal. Pur non essendo estranei all'idea (come dimostra il robusto coinvolgimento delle alte gerarchie militari nel Piano Marshall), essi avevano naturalmente il loro ordine di priorità geopolitiche. Il punto è che, mentre i generali, il Pentagono e il Dipartimento di Stato stavano assemblando i loro piani strategici per la Guerra fredda, i pianificatori economici di Washington affrontavano le guerre in Corea e nel Vietnam da una prospettiva decisamente diversa.

Su un piano, essi scorgevano in questi piani un elemento cruciale volto a mantenere un continuo rifornimento di materie prime a buon mercato per l'Europa e il Giappone. Su un altro piano, tuttavia, essi ravvisavano una grande opportunità di mettere in pratica, grazie al finanziamento, quello spazio economico vitale di cui Mao aveva deprivato il "loro" Giappone. In effetti è impossibile sopravvalutare l'osservazione fatta poc'anzi secondo cui le "tigri" del Sud-Est asiatico (Corea del Sud, Tailandia, Malesia e Singapore) che ben presto sarebbero diventate per il Giappone quello che la Francia e la Spagna erano per la Germania, non sarebbero mai emerse senza queste due guerre finanziate dagli Stati Uniti, in seguito a cui gli USA diventarono l'unico mercato cospicuo per la produzione industriale giapponese.

A posteriori, secondo gli standard della progettazione umana su vasta scala, il Piano globale fu uno straordinario successo. Non solo la fine della Seconda guerra mondiale non sprofondò gli Stati Uniti e il resto dell'Occidente in una nuova recessione (come si temeva che avrebbe fatto la fase di rallentamento economico provocata dalla fine dell'economia di guerra) ma anzi il mondo conobbe un periodo di crescita leggendaria. Il grafico 3.1 offre una rapida sintesi di questi anni d'oro. Le nazioni sviluppate, sia i vincitori sia i perdenti dell'ultima guerra, continuarono a crescere, crescere e ancora a crescere.

Gli europei e il Giappone, a cominciare da un livello molto più basso degli Stati Uniti, crebbero più rapidamente e recuperarono il terreno perduto. Nello stesso tempo, gli Stati Uniti continuarono a seguire un percorso di sana crescita. Tuttavia questo non fu un semplice caso di un'economia mondiale in crescita spontanea. Dietro a tutto questo c'era un Piano globale, un piano che comportava lo sforzo su vasta scala e sorprendentemente ambizioso di superare e soppiantare gli imperialismi multipli e in conflitto, che avevano caratterizzato l'economia politica mondiale fino alla Seconda guerra mondiale.

Mentre il Piano globale era stato predisposto per consolidare e promuovere l'egemonia americana, gli Stati Uniti erano felici di pagare il prezzo di aver favorito intenzionalmente i livelli della domanda estera e dell'accumulazione del capitale, in particolar modo in Giappone e in Germania. Per mantenere la prosperità e la crescita americana, Washington servì deliberatamente parte della "torta" globale ai suoi pupilli: mentre gli Stati Uniti perdevano quasi il 20 per cento della loro quota del reddito mondiale durante l'era del Piano globale, la Germania vide la sua quota aumentare del 18 per cento, mentre il Giappone vide la propria decollare di uno strabiliante 156,7 per cento.

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                            Tabella 3.1
Cambiamento in percentuale della quota della nazione nel PIL mondiale
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                 Usa   Germania   Giappone   Gran Bretagna   Francia
 1950-1972    -19,3%       +18%    +156,7%          -35,4%     +4,9%
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Si trattava forse di una qualche forma di altruismo internazionalista? Naturalmente no. Dal 1945 in poi, il cuore del pensiero dei fautori del New Deal era occupato da una profonda ansia che riguardava l'intrinseca stabilità di un sistema globale a valuta unica e a zona unica. In effetti nulla occupava le loro menti come il ricordo del 1929 e della Depressione che era seguita. Se una crisi di simile gravità fosse scoppiata mentre il capitalismo globale doveva tenersi in piedi su una gamba sola (il dollaro), il futuro appariva cupo, in particolar modo sotto il profilo dei significativi tassi di crescita dell'Unione Sovietica (la cui economia non era soggetta a contagio da parte delle crisi capitaliste). In questo modo le stesse menti andavano in cerca di un futuro più sicuro per il capitalismo e lo rintracciavano nella formazione di una rete interdipendente che avrebbe dovuto comprendere tre zone monetario-industriali, in cui la zona del dollaro sarebbe stata predominante (e avrebbe riflesso la centralità della finanza americana e il suo ruolo militare nel difendere un regno più ampio all'interno del quale gli input dal Terzo mondo avrebbero potuto affluire senza incontrare ostacoli). Per loro, questo Piano globale era il meccanismo ottimale concepito per il resto del XX secolo e anche più in là.

In tale contesto, la nozione che l'integrazione europea sarebbe scaturita da un bisogno europeo di creare un baluardo contro il predominio USA sembra non essere altro che un "mito della creazione" dell'Unione europea. Analogamente, l'ipotesi che l'economia giapponese sia inesorabilmente cresciuta contro gli interessi degli Stati Uniti non resiste a un esame rigoroso. Per quanto ciò possa apparire strano oggi, dietro al processo dell'integrazione europea e dell'industrializzazione giapponese orientata verso l'esportazione c'è un prolungato e sostenuto sforzo degli ideatori degli indirizzi politici di Washington volto a pianificare e ad alimentare questi sviluppi, malgrado gli effetti negativi che l'ascesa dell'Europa e del Giappone avrebbe potuto comportare per la bilancia commerciale americana.

La semplice lezione che il Piano globale può insegnarci oggi è che l'ora più felice del capitalismo è giunta quando gli ideatori degli indirizzi politici della più forte unione politica del pianeta decisero di svolgere un ruolo egemonico, un ruolo che comportava non solo l'esercizio del potere militare e politico ma anche quel genere di massiccia redistribuzione di eccedenze in tutto il globo che il meccanismo del mercato non è assolutamente capace di provocare.

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Pagina 148

[...] Di qui i CDO.

La loro funzione era di permettere alle banche di prestare anche ai poveri e ad alti tassi d'interesse, senza temere che si rivelino insolventi. Non perché fosse stata inventata qualche formula magica per proteggere i poveri dalla povertà, i precari dalla disoccupazione e i falliti dalla bancarotta, ma perché i CDO permettevano alle banche di emettere e spalmare: prestare e poi immediatamente rivendere il prestito.

Il trucco era quello di combinare diversi tipi di crediti: crediti sicuri (p. es. quelli contratti da qualche ricco avvocato per comprarsi la casa delle vacanze), crediti che comportavano qualche rischio (p. es. denaro preso a prestito da un'azienda che aveva buoni trascorsi come pagatore) e crediti di bassa qualità (sub-prime, p. es. un mutuo chiesto da una famiglia che quasi certamente non sarebbe riuscita a pagare le rate una volta finito il periodo iniziale a basso interesse): il tutto conglomerato insieme e poi suddiviso in pacchetti, i CDO appunto, ciascuno dei quali conteneva fette (o trance) di questi prestiti diversi, con ciascuna fetta che ripagava diversi tassi di interesse ed era valutata con diversi rischi di insolvenza.

La matematica necessaria per stimare quanto denaro avrebbe dovuto ricevere il proprietario di questi CDO alla scadenza era talmente complessa che neppure il suo creatore riusciva a decifrarla. Comunque in base al semplice indizio che delle brillanti menti matematiche ne avessero progettato la struttura e al fatto concreto che Wall Street li rispettasse e temesse, le agenzie di rating conferirono il proprio sigillo d'approvazione (che giunse sotto forma di rating AAA) e ciò fu abbastanza perché le banche, gli investitori e gli hedge fund comprassero e vendessero sul mercato internazionale questi CDO come se fossero obbligazioni di alto valore o addirittura denaro.

Questa, come può aver colto il lettore da quanto detto finora, è la triste storia dei mutui sub-prime. È la storia di come Wall Street, non soddisfatta di sviluppare e costruire sullo tsunami del capitale straniero e dei profitti d'impresa interno che il Minotauro stava convogliando verso di lei, cercò di ricavare profitto anche dai poveri, a cui venivano venduti mutui ipotecari che essi non si sarebbero mai potuti veramente permettere. Nel 2005 più del 22 per cento dei mutui ipotecari USA erano di questa varietà sub-prime. Nel 2007, la quota era ulteriormente aumentata, fino al 26 per cento. Tutti erano stati inseriti in CDO prima ancora che l'inchiostro della firma dei contraenti si fosse asciugato.

In puri numeri, solo tra il 2005 e il 2007 le banche d'investimento USA emisero CDO per un valore di 1100 miliardi di dollari. In termini di valore, nel 2008 le obbligazioni garantite da ipoteche fondiarie si assommavano a un valore di quasi 7mila miliardi di dollari, di cui almeno 1300 miliardi di dollari erano basati principalmente su mutui sub-prime. Il significato di quella cifra di 7mila miliardi di dollari è che essa è più grande perfino della somma complessiva del (presumibilmente gigantesco) debito pubblico USA. Ma per fornire una rappresentazione più accurata del disastro che si stava preparando, è importante dare un'occhiata a questi numeri enormi in rapporto uno con l'altro, oltre che al livello del reddito globale: ancora nel 2003, per 1 dollaro di reddito mondiale, venivano scambiati derivati per un valore di 1,80 dollari. Quattro anni dopo, nel 2007, quel rapporto era aumentato del 640 per cento: per 1 dollaro di reddito mondiale, venivano scambiati derivati per un valore di 12 dollari. Il mondo della finanza era evidentemente cresciuto troppo per essere contenuto sul pianeta Terra.

Erano tempi grandiosi, durante i quali sembrava che il denaro crescesse sugli alberi. Le aziende tradizionali (quelle che di fatto producevano le cose) venivano derise come imprese antiquate. Quale acciaieria, quale fabbrica di automobili, quale azienda di elettronica era in grado di competere con gli sbalorditivi profitti di Wall Street? Tutte le società, di qualunque genere, erano impazienti di entrare nella partita. Anche società solide come la General Electric entrarono nel racket dei derivati per questo preciso motivo. Inizialmente esso consentì al ramo finanziario della società (il cui scopo era quello di predisporre prestiti a vantaggio dei clienti che non potevano permettersi il prezzo pieno dei prodotti dell'azienda, per esempio le rate d'acquisto delle auto) di partecipare dei benefici dei derivati. Era una sensazione piacevole, e forniva dei bei bigliettoni. Tanto che ben presto quel ramo finanziario cominciò a diventare il reparto più redditizio della società. Sicché l'azienda cominciava a basarsi sempre di più di esso per garantire la redditività dei suoi servizi finanziari e a contare sempre di meno sui suoi prodotti effettivi, fisici.

Prima che trascorresse troppo tempo, l'economia mondiale divenne dipendente da questi strumenti finanziari, di cui i CDO non erano che un esempio. Ben presto essi cominciarono a funzionare non solo come "serbatoi di valore" ma altresì come "mezzi di scambio": si erano trasformati in una sorta molto privata di denaro. Quando l'amministrazione Clinton liberò Wall Street da tutti i vincoli regolatori (con una decisione che viene attribuita al segretario statunitense del Tesoro Larry Summers) l'economia globale venne sommersa da questo denaro privato. Data la provvista infinita, i tassi di interesse rimanevano bassi in tutto il mondo e questo favoriva la formazione di bolle patrimoniali (da Miami e dal Nevada fino all'Irlanda e alla Spagna) e incoraggiava gli stati in deficit cronico (p. es. la Grecia) a sostenere i loro bilanci con prestiti a buon prezzo e ottenuti sul mercato non regolamentato.

Si noti il paradosso: in un mondo ideologicamente dominato dal conservatorismo monetario, che echeggiava di lunghi sermoni sul pericolo di stampare moneta, l'effettivo rifornimento di moneta era stato affidato a privati che si dedicavano a inondare i mercati con moneta da loro prodotta. In che senso questo differiva, realmente, dal consegnare le macchine da stampa della FED alla mafia? A voler esser sinceri, non c'è molta differenza.

Secondo la teoria economica conservatrice standard, troppa moneta che sommerga il mercato, specialmente durante un momento di rovesci economici, è una ricetta per assicurare la catastrofica perdita della capacità del mercato di inviare segnali intelligibili ai produttori e ai consumatori su quello che occorre produrre e su come economizzare. Eppure nessuno degli alti sacerdoti del conservatorismo fiscale e monetario ha mai battuto ciglio su quanti trilioni di denaro privato tossico (sulla cui quantità e valore nessuno aveva il minimo controllo) stessero inondando il globo. Giacché pure costoro, proprio come il capitalismo d'impresa in America e altrove, si erano oramai assuefatti al potere del denaro di recente invenzione.

Quando, nel 2008, venne staccata la spina e tutto il denaro privato scomparve dalla faccia della terra, il capitalismo globale venne lasciato con quello che aveva tutto l'aspetto di una massiccia crisi di liquidità. Era come se il lago fosse evaporato e i pesci, grandi e piccoli, stessero guizzando nel fango. Il problema, comunque, era più profondo e più vasto. La perdita di denaro privato mise in ginocchio il Minotauro globale. E insieme ad esso crollò anche l'unico meccanismo che l'economia mondiale avesse per il riciclo delle sue eccedenze. Quello che ne è derivato è una crisi da cui nessun'iniezione di liquidità da parte della FED e delle altre banche centrali può aiutarci a sfuggire.

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L'anno prima della vittoria presidenziale di Ronald Reagan, Margaret Thatcher aveva vinto le elezioni in Gran Bretagna con un manifesto politico simile. La differenza era che il suo governo aveva ereditato un'economia che era stata in costante declino per quasi un secolo. Inoltre era un'economia sociale in cui la classe operaia era riuscita, specie dopo la Seconda guerra mondiale, ad assicurarsi considerevole potere sugli affari economici (sia attraverso la creazione di un grande stato assistenziale, sia attraverso la nazionalizzazione di grandi settori industriali, come per esempio quelli del carbone e dell'acciaio).

Gli organi di informazione che plasmano l'opinione pubblica accolsero con entusiasmo il primo ministro Thatcher che stava per trapiantare con successo il miracolo americano sul suolo europeo. La teoria che andava per la maggiore era che se l'Europa voleva diventare nuovamente competitiva, avrebbe dovuto seguire la direzione della Lady di ferro privatizzando le industrie, deregolamentando i mercati della manodopera e riducendo i costi per unità di forza lavoro.

Il problema di questa versione era che non reggeva a un esame più attento. Il governo della signora Thatcher non ridusse mai i costi per unità di forza lavoro. Quello che fece fu di tagliare con il machete la produzione industriale e, nel far questo, "liberare" la Gran Bretagna di molti dei suoi settori industriali tradizionali e, insieme a essi, dei fastidiosi sindacati. Questo indubbiamente riuscì a farlo. Ma quale effetto ebbe la distruzione dei sindacati sui costi del lavoro in Gran Bretagna?

La risposta a questo interrogativo è più complessa di quanto siano disposti ad ammettere molti commentatori. Insieme alle industrie minerarie e metallurgiche, che subirono in pieno l'impatto delle riforme, sparirono per sempre milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Naturalmente la porzione di reddito nazionale che andava ai lavoratori crollò clamorosamente e intere regioni della Gran Bretagna si ritrovarono in condizioni da Terzo mondo. Ma l'unica cosa che non avvenne fu quella per cui la signora Thatcher aveva ricevuto il suo credito: i salari reali per ora lavorata non diminuirono. Anzi, in netto contrasto con quello che era successo negli USA, essi aumentarono considerevolmente.

Oggi è chiaro che gli impressionanti successi elettorali della signora Thatcher nel 1983 e nel 1987 (nonostante il sistema maggioritario puro in vigore nei collegi uninominali britannici) era dovuto a due fattori. Anzitutto, molti dei 4,5 milioni di disoccupati erano troppo depressi e scoraggiati per darsi pensiero di votare. In secondo luogo gli operai che erano riusciti a rimanere abbarbicati ai loro posti di lavoro, videro effettivamente aumentare i loro salari reali. Inoltre la signora Thatcher distribuì loro dei benefici che li fecero sognare di diventare investitori, in sintonia con la frenesia finanziaria imperante a Wall Street e nella City londinese.

Questi benefici giunsero in due forme: o come vendita agli operai (a prezzi molto bassi) degli alloggi popolari municipali in cui essi abitavano, oppure come offerta di azioni delle nuove società privatizzate (come la British Telecom, la British Gas e la Trustee Savings Bank, TSB) a prezzi di gran lunga inferiori rispetto al prezzo di mercato stimato. Entrambe queste mosse incoraggiarono i segmenti ancora funzionanti di lavoratori della classe operaia a dir di sì a un'economia che riponeva tutte le uova nel paniere della speculazione, che poteva essere o sui prezzi degli immobili o sui prezzi delle azioni.

Come già anticipato, la fin troppo celebrata democrazia degli azionisti durò solo pochi giorni, mentre gli operati cooptati vendettero immediatamente le loro azioni ai conglomerati. Essi fecero lo stesso con i loro alloggi popolari municipali e raccolsero un po' di contante, dato che gran parte del nuovo prezzo della nuova casa doveva essere pagato con un mutuo. La nuova edilizia privatizzata incoraggiò le banche a estendere i mutui e le agevolazioni delle carte da credito alle famiglie che non li avevano mai avute. Questi concomitanti aumenti nella richiesta di case alimentarono i loro prezzi e diedero agli operai l'illusione che stavano diventando più ricchi. Le banche facevano a gara per mettere le mani sui crescenti "patrimoni" degli operai per prestare loro il denaro necessario ad andare in vacanza, acquistare un'auto, cambiare lo stereo ecc. Alla fine il debito delle famiglie, i prezzi delle case e le spese dei consumatori aumentarono tutti con un perfetto unisono.

Nel frattempo la tradizionale forza della City nel regno della finanza, la sua deregolamentazione sotto il governo Thatcher (noto anche come Big Bang) e i legami della City con Wall Street assicurarono tutti che una significativa porzione del capitale straniero in fuga verso gli USA passasse attraverso la City. Questo passaggio fornì alle istituzioni l'accesso a grandi somme di denaro, sia pure per un breve periodo di tempo. Nulla entusiasma di più i banchieri della prospettiva di fare soldi per sé usando fondi di passaggio. Insieme ai proventi risultanti dalle privatizzazioni interne delle industrie britanniche e del patrimonio dell'edilizia sociale nazionale, oltre che dalla montagna di prestiti pubblici della Gran Bretagna, questi flussi finanziari confluirono in un maestoso fiume che permise alla City londinese di prosperare.

In conclusione, nel corso degli ultimi tre decenni molto inchiostro è stato versato per fare un bilancio degli anni Reagan-Thatcher. Dal punto di vista di questo libro sarebbe sufficiente affermare che la politica del famoso duo si dimostrò immensamente giovevole all'ascesa del nostro Minotauro globale. L'immagine della Gran Bretagna come società intraprendente e tutto il frastuono creato dagli agenti immobiliari rampanti e dai viscidi banchieri dipendeva in forte misura dagli scambi commerciali della City e dai crescenti prezzi delle case. Queste bolle gemelle si svilupparono per la semplice ragione che Londra si era abilmente posizionata nel ruolo di sosta strategica di rifornimento sulle rotte migratorie che il capitale mondiale percorreva per raggiungere New York.

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La teoria tossica, parte seconda: modelli economici e deliri vari

Il Minotauro globale contava sui governi simpatizzanti che stavano a guardare mentre le sue mastodontiche asimmetrie prendevano forma. La politica del neoliberismo introdotta da Thatcher e Reagan lo servì a dovere. Tuttavia esso aveva bisogno di più: gli occorreva una nuova variante della teorica economica che avrebbe aggiunto una patina di legittimità scientifica agli indirizzi politici correnti.

Abbiamo già discusso l'essenza di queste teorie economiche (si veda il capitolo 1). Quale che sia il loro effettivo contenuto, due erano i prerequisiti che le teorie economiche dovevano soddisfare per essere considerate realistiche e al passo con i tempi in un momento in cui l'economia mondiale era, come suggeriva Paul Volcker, sul punto di disintegrarsi arbitrariamente. Anzitutto le teorie economiche dovevano prendere le distanze dall'idea che un'economia potesse essere gestita in modo razionale. In secondo luogo dovevano esibire un modello dell'economia in cui i vincoli regolatori sull'accumulazione di capitale così come tutte le forme di costrizione democratica su mercati privi di pastoie sarebbero apparse non tanto inefficienti quanto insensate.

Entrambi questi prerequisiti erano soddisfatti da un modello formalista (che si presentava sotto molteplici vesti, tutte adorne di un'impressionante complessità matematica) in cui il capitalismo appariva in una di due forme: o come un sistema statico di mercati interconnessi in modo atemporale e in uno stato di equilibrio permanente, oppure come un sistema dinamico, che procedeva spedito lungo la freccia temporale, ma comprendeva un singolo individuo (chiamato agente rappresentativo) o un singolo settore. In breve, un'intera generazione di economisti era cresciuta formandosi su modelli economici che potevano affrontare o la complessità oppure il tempo, ma non ambedue gli aspetti simultaneamente.

Il grande vantaggio di questi modelli era che essi rappresentavano un quadro del capitalismo così matematicamente complesso che i praticanti avrebbero potuto trascorrere una vita a meditare sulle loro strutture formalizzate infinitamente aggrovigliate senza mai notare che, proprio per il modo in cui erano costruiti, i loro modelli non avrebbero mai potuto nemmeno iniziare a simulare il capitalismo così come esso si presentava.

Ora tutti i modelli sono astrazioni e il loro scopo è quello di semplificare. In fisica, per esempio, si prende avvio da molte assunzioni semplificatrici (per esempio che non vi sia l'attrito o addirittura che non vi sia la gravità) per poter mettere le mani su alcune elementari leggi della natura. Poi però si cominciano ad allentare queste assunzioni poco realistiche. A costo di aggiungere semplicità, i fisici ottengono così delle varianti molto più utili e pratiche della teoria.

Non si può dire lo stesso dell'economia. Infatti nella teoria economica il processo di restringere gradualmente le assunzioni restrittive arriva a un brusco arresto ancor prima di essersi messo in strada. Se la mancanza di gravità è un esempio di una delle più restrittive assunzioni in fisica, l'equivalente in economia sarebbe che il tempo non esista. Oppure che tutti i consumatori e le industrie siano identici. Ma, a differenza della fisica, che può generalizzare le condizioni generali per avvicinarsi alla verità, l'economia questo non può farlo. In effetti esiste un notevole teorema in economia che dimostra che i modelli economici risolvibili non possono trattare il tempo e la complessità simultaneamente.

È impossibile sopravvalutare l'importanza pratica di questa impossibilità. In effetti essa spiega in ampia misura come mai la teoria economica abbia finito col dimostrarsi una delle ancelle più fedeli del Minotauro globale. Perché se non è possibile alcun modello economico matematizzato che rappresenti le transazioni in tempo reale di diversi popoli e industrie, allora la modellizzazione economica deve essere trattata separatamente da qualsiasi teoria della crisi. Dopo tutto la crisi è, per sua natura, un fenomeno dinamico che colpisce una società composta da molte persone (e da molte industrie) e si svolge in tempo reale. Robinson Crusoe poteva anche essere infelice, affamato o aver attraversato una crisi esistenziale ma non avrebbe mai potuto sperimentare una crisi economica (perlomeno non prima che sopraggiungesse Venerdì). Le crisi richiedono un mancato coordinamento tra diverse persone e settori e un crollo della capacità collettiva dell'economia di utilizzare le sue risorse individuali. Non è forse una particolarissima carenza scientifica il fatto che, malgrado la sua stupefacente complessità, l'economia matematica non riesca neppure a formulare delle equazioni con cui affrontare l'idea di una Crisi?

Dato che la storia dell'economia matematica è la vicenda di un drammatico fallimento scientifico, per quale motivo sto affermando che, come corpo di teorie, l'economia ha finito per essere una delle ancelle della belva? Per due ragioni. La prima è facile da intuire: mentre la panoplia della moderna teoria economica non lascia spazio logico alle crisi e rappresenta il capitalismo come un sistema di mercati interconnessi in un equilibrio senza tempo, essa funge da fondamentale sostegno ideologico fondamentalista del libero mercato. La seconda ragione, meno ovvia, ha a che fare con il denaro tossico di Wall Street, il cui ruolo di ancella è già stato ben prestabilito.

I CDO che riducevano a fettine e poi intrecciavano insieme debiti disparati appartenenti a eterogenee moltitudini di famiglie e imprese venivano composti sulla base di certe formule il cui scopo era, si presume, di calcolarne il valore e la rischiosità. Queste formule venivano sviluppate da ingegneri finanziari che lavoravano per Wall Street (p. es. per J.P. Morgan, Bank of America, Goldman Sachs ecc.). Per rendere risolvibili le formule, si dovevano fare alcune assunzioni. Prima ed estrema era l'assunzione che la probabilità che una fetta di debito all'interno di un CDO potesse rimanere insoluta era in gran parte non correlata alla probabilità di una simile insolvibilità da parte delle altre fette nello stesso CDO. Questo, almeno era quello che si presumeva che accadesse nel 2007-2008... impossibile! Il fatto che fosse non necessario fattorizzare la possibilità di una crisi durante la quale Bob aveva perso la sua casa per ragioni che aumentavano le probabilità che Jane perdesse il suo lavoro e alla fine risultasse insolvente sul suo mutuo.

La domanda ineludibile, quella che chiunque poneva dopo il Crollo era: per quale motivo queste valutazioni del CDE venivano credute da numerosi intelligenti e consapevoli operatori di mercato, il cui tenore di vita dipendeva dalla verità delle ipotesi soggiacenti? La risposta è duplice: anzitutto questi operatori del mercato erano prigionieri di un comportamento da branco e, decidendo di andare controcorrente, rischiavano di perdere il lavoro. In secondo luogo, nei giorni ruggenti del Minotauro globale la professione dell'economia aveva sdoganato con successo una forma di superstizione matematizzata che dotava i trader di una sicurezza sovraumana (ancorché impotente) necessaria (magari contro le loro stesse convinzioni) a domare il sistema che dava loro da mangiare. Davvero una tragedia del nostro tempo.

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Epilogo: lo scivolone verso la "bancarottacrazia"


Il Crack del 2008 provocò una seria ferita al Minotauro globale. Sin dal 2008-2009, la Crisi si era mitigata. Tuttavia non se ne è andata. La bestia è a terra e nessuno assolve più alla sua funzione cruciale di continuare a far funzionare i deficit gemelli dell'America e di assorbire le eccedenze mondiali. Per questo motivo la Crisi si sta continuamente trasformando in qualcosa d'altro, e richiede il pagamento del suo prezzo in luoghi diversi. Questa non è più una crisi finanziaria. Non è neppure una crisi economica. È diventata una crisi politica.

Negli Stati Uniti la disoccupazione rimane a un livello insostenibile, specialmente per l'America, cioè il 10 per cento. Anche in Europa la disoccupazione è aumentata. Entrambe queste entità, eurolandia e l'area d'influenza del dollaro, sono state rese ingovernabili dalle rispettive litigiose élite. Negli Stati Uniti l'amministrazione Obama, dopo la vittoria dei repubblicani alle elezioni di metà mandato del 2010, di fatto è rimasta fregata. Dato che il governo non è più in grado di alimentare l'economia con stimoli fiscali, il solitario compito di far retrocedere la Crisi che arde a fuoco lento è stato rifilato alla FED di Ben Bernanke. Sicché la FED, a malincuore, sta ancora disperatamente cercando di far aumentare la quantità di denaro che circola nell'economia americana acquistando titoli cartacei per centinaia di miliardi di dollari (il nome di questo gioco è alleggerimento quantitativo). Bernanke sa che questa situazione è ben lontana dall'essere ideale, ma non gli rimane altra scelta, dato lo stallo che si è creato tra la Casa Bianca e il Congresso.

In Europa la Crisi ha messo in moto forze centrifughe che stanno lacerando eurolandia, contrapponendo le economie delle eccedenze, con la Germania capofila, a quelle devianti, i cui deficit strutturali non potranno essere curati, per quanto si continui a far tirare loro la cinghia. Incapace di coordinare la linea politica a un livello centrale, l'Europa si sfalda, le sue economie ristagnano, la fibra produttiva degenera e di conseguenza anche il sogno di un'unione politica, che era stato evocato in modo così brillante dagli amministratori statunitensi del dopoguerra sulla base di promettenti prospettive di crescita, si dissolve.

Tre anni dopo il Crollo del 1929 l'elezione del presidente Roosevelt portò al potere un governo fermamente deciso ad affrontare la Crisi con strumenti politici. Il settore bancario era crollato e le nuove autorità colsero il momento opportuno. Vennero introdotti controlli regolatori di vasta portata e per un po' la volontà di affrontare la Crisi in maniera decisiva, razionale a qualsiasi costo incontrò poca resistenza da parte degli esausti redditieri e banchieri: persone la cui antipatia nei confronti delle soluzioni politiche è sempre direttamente proporzionale alla misura in cui essi credono che il loro potere sarà circoscritto.

Oggi, ahimé, tre anni dopo il nostro 1929, l'equilibrio del potere è esattamente l'opposto: l'autorità politica si è dissolta in un anno o due dopo il Crollo perché ha speso tutto il suo capitale incondizionatamente per tenere a galla il settore finanziario quasi defunto. In un tipico scenario da film di zombie, le banche non morte hanno attinto una forza formidabile dal nostro sistema statale e l'hanno immediatamente impiegata per rivoltarsi contro di esso! Sia in America, sia in Europa, i politici tremano di terrore di fronte alle stesse banche che, non più tardi di ieri, hanno salvato. In questo modo quegli stessi settori finanziari che rappresentavano il cuore del problema ora mettono in soggezione i nostri politici. Non solo questo impedisce di attuare linee politiche sensate che affrontino la Crisi perdurante, ma compromette anche ogni occasione di aprire un dibattito politico su quello che è realmente avvenuto.

Se mai occorrono prove di questo stato di terrore da film zombie, si consideri la relazione sul Crack del 2008, consegnata il 27 gennaio 2011 dalla Commissione d'Inchiesta sulla crisi finanziaria. Due anni di ricerche e di intensi dibattiti portarono alla magra conclusione che il Crollo era stato dovuto a un eccesso di rischi e a una regolamentazione inadeguata. E, come se la spettacolare inanità di questa conclusione non fosse abbastanza triste, i membri della minoranza repubblicana emanarono il loro verdetto: era stata colpa dello Stato! Come mai? I due fornitori di mutui controllati dallo Stato, Fannie Mae e Freddie Mac, avevano incoraggiato troppi americani indigenti ad accollarsi dei mutui sub-prime: un altro caso in cui lo Stato aveva provocato il caos intromettendosi in un mercato di cui non capiva niente. La verità evidente era che Fannie Mae e Freddie Mac erano la coda dimenata dal cane di Wall Street: che si erano aggregati alla frenesia della produzione di CDO quando era già molto tardi; che la macchina per la generazione di soldi privati era un fenomeno globale progettato e diretto dalle banche private di Wall Street; che l'Europa stava assistendo a un fenomeno del tutto analogo pur in assenza di Fannie Mae e Freddie Mac; ma nulla di tutto questo sembrava contare. L'unica cosa importante era che la verità non intralciasse la ripresa di Wall Street.

Una simile nube di stupidità offusca anche i dibattiti ufficiali dell'Europa del dopo-Crollo. Se arrivasse un extraterrestre e si mettesse a leggere la seria stampa europea arriverebbe alla conclusione che la crisi è avvenuta perché alcuni stati periferici hanno preso a prestito e speso troppo. Siccome la piccola Grecia, l'ambiziosa Irlanda e i pigri iberici hanno tentato di vivere al di sopra delle loro possibilità, lasciando che gli stati finanziassero con il debito gli standard di vita molto al di sopra di quanto potessero sostenere gli sforzi della loro produzione. Mettendo da parte l'aspetto paradossale di queste accuse, specialmente quando vengono espresse dai finanzieri statunitensi (il cui tenace assegnamento nel Minotauro di prima del 2008 farebbe arrossire i tentativi di chiunque altro di campare a spese del capitale degli altri popoli) il problema di questo tipo di ricostruzione è di essere semplicemente falsa. Mentre la Grecia, in effetti, aveva un grave deficit, l'Irlanda era un esempio di virtuosità fiscale. La Spagna poteva addirittura vantare un surplus quando sopraggiunse il Crack del 2008 e il Portogallo non era messo peggio della Germania per quanto riguarda deficit e prestazioni del debito. Ma a chi importa della verità, quando le bugie sono molto più divertenti, per non dire utili, a coloro che tentano disperatamente di allontanare la luce dei proiettori dal vero centro della Crisi, il settore bancario?

Tanto tempo fa lo spartiacque destra-sinistra dominava il dibattito politico ed economico. Nell'angolo rosso c'era la sinistra la quale affermava che la vita economica era troppo importante per lasciarla alle forze del mercato e che la società se la sarebbe cavata meglio con un'attività economica pianificata a livello centrale. Nell'angolo azzurro, i fautori del libero mercato rispondevano che il modo migliore per servire il bene sociale sarebbe stato di consentire che un processo darwiniano basato sul mercato estirpasse le pratiche economiche meno efficienti, in modo che le più efficienti potessero prevalere. Nel 1991 l'angolo rosso subì una disastrosa sconfitta da cui non si sarebbe mai più realmente ripreso. Nel 2008, all'insaputa di tutti, fu il turno dell'angolo azzurro. Da allora, visti gli sviluppi su entrambe le sponde dell'Atlantico, sembra che nulla stia accadendo all'infuori di un grandioso insuccesso.

Se mai, il processo darwiniano è stato capovolto. Quanto più un'organizzazione privata ha successo, tanto più catastrofiche sono le sue perdite e tanto maggiore il potere che ne deriva, grazie al finanziamento del contribuente. In breve, il socialismo è morto durante l'età aurea del Minotauro globale e il capitalismo è stato silenziosamente sbalzato di sella nel momento in cui la bestia ha smesso di governare l'economia mondiale. Al suo posto abbiamo un nuovo sistema sociale: la bancarottacrazia, ovvero il governo gestito da parte delle banche in bancarotta (se potessi permettermi di indulgere nel greco la chiamerei ptochotrapezocrazia).

Ricapitolando, le generazioni future studieranno la storia del Crack del 2008 nel tentativo di capire un ingrediente cruciale del loro stesso presente. Vi troveranno importanti indizi di un nuovo tipo di regime che cambiò per sempre la composizione e la dinamica del capitalismo globale. Se poi il termine che ho scelto, bancarottacrazia, avrà successo o meno, non ha importanza. Quel che conta è che il 2008 ha segnato una importante discontinuità: che la vita dopo di essa non assomiglierà alla vita prima di essa. Nel contesto della ricostruzione proposta da questo libro, l'era del dopo 2008 è contraddistinta da una grande assenza e da una minacciosa presenza: a mancare è il Minotauro globale, che ci ha dato il mondo di prima del 2008 e che ci ha portato al Crack del 2008; a essere presenti sono le sue ancelle pronte a risorgere che, dal 2008 in poi, sono ritornate con l'intenzione di vendicarsi. Il mondo in cui imperversano le ancelle del Minotauro, liberate dai capricci della bestia, è il mondo del nostro prossimo futuro.

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Prima come storia poi come farsa: i salvataggi bancari d'Europa


Nonostante il piacere maligno degli europei per il fatto che il Crack del 2008 fosse frutto di una crisi anglo-celtica e che le loro banche non fossero state travolte dalla finanziarizzazione equivalente alla febbre dell'oro, ben presto la verità è venuta fuori. Le banche tedesche si sono ritrovate con una quota di leva finanziaria di 52 euro dati a prestito per 1 euro di fondi di capitale, una proporzione perfino peggiore di quella raggiunta da Wall Street o dalla City londinese. Perfino le banche statali più conservatrici e stolide, le Landesbank, si sono dimostrate pozzi senza fondo per i contribuenti tedeschi. La storia si è ripresentata in Francia, dove le banche hanno dovuto ammettere di avere perlomeno 33 miliardi di euro investiti in CDO. A questa triste somma dobbiamo aggiungere l'esposizione delle banche europee nei confronti degli stati indebitati di eurolandia (849 miliardi), dell'Europa orientale (più di 150 miliardi) dell'America Latina (più di 300 miliardi) e dei cattivi debiti islandesi (circa 70 miliardi).

La BCE, la Commissione europea (il "governo" effettivo dell'UE) e gli stati membri si sono affrettati a fare per le banche europee quello che l'amministrazione USA aveva fatto per Wall Street. Solo che c'erano due profonde differenze. La prima era che l'euro non è affatto come il dollaro: finché il dollaro rimane la valuta di riserva del mondo, la FED e il Tesoro degli Stati Uniti possono scrivere assegni in bianco, con piena confidenza del fatto che ciò cambierà ben poco riguardo al valore del dollaro, perlomeno a medio termine. In effetti i dati del FMI dimostrano che la quota delle riserve globali in dollari era del 62 per cento alla fine del 2009 e che da allora tale quota è ulteriormente aumentata per effetto della crisi debitoria dell'Europa dopo il 2010.

La seconda differenza fa riferimento all'architettura problematica di eurolandia e specialmente al modo in cui, sebbene i suoi stati membri siano legati da una valuta comune, i loro debiti pubblici sono rigorosamente separati, le banche sono sottoposte all'esclusiva responsabilità degli stati membri e non c'è meccanismo di riciclo delle eccedenze che possa impedire la formazione di linee di faglia. Per dirla in termini semplici, proviamo a immaginare che cosa sarebbe accaduto nel 2008 se nella "zona del dollaro" ciascuno Stato (p. es. la California o il Nevada) avesse dovuto salvare le banche registrate sul suo territorio e non vi fosse stato alcun modo di finanziare i deficit pubblici da Washington!

All'interno di questo contesto istituzionalmente problematico, la BCE e la Commissione europea hanno lottato per contenere la crisi bancaria. Tra il 2008 e il 2009 esse hanno "socializzato" le perdite delle banche e le hanno trasformate in debito pubblico. Nel frattempo, l'economia europea è entrata in recessione, come previsto. In un anno (2008-2009) il PIL della Germania è sceso del 5 per cento, quello della Francia del 2,6 per cento, quello dell'Olanda del 4 per cento, quello della Svezia del 5,2 per cento, quello dell'Irlanda del 7,1 per cento, quello della Finlandia del 7,8 per cento, quello della Danimarca del 4,9 per cento e quello della Spagna del 3,5 per cento.

Improvvisamente, gli hedge fund e le banche hanno avuto un'illuminazione. Perché non usare un po' del denaro pubblico che avevano ricevuto per scommettere che, prima o poi, la pressione a cui erano sottoposte le finanze pubbliche (causata dalla recessione da un lato, che deprimeva il prelievo fiscale dei governi e l'enorme aumento del debito pubblico dall'altra, per cui le banche erano esse stesse responsabili) avrebbe fatto dichiarare insolvente uno o più degli stati di eurolandia?

Più ci pensavano, più si rallegravano. Il fatto che l'appartenenza al club dell'euro proteggesse i paesi più gravemente indebitati (Grecia et al.) dallo svalutare le loro valute (il che avrebbe significato che avrebbero dovuto sostenere la combinazione di debito e recessione) indusse i banchieri a tenere d'occhio proprio quei paesi. Così decisero di cominciare a scommettere, dapprima modesti importi, che l'anello più debole della catena, la Grecia, avrebbe dichiarato l'insolvenza. Dato che i famosi bookmaker di Londra non potevano sostenere scommesse multimiliardarie, le banche e gli hedge fund si rivolsero ai fidati CDS, le polizze assicurative che pagano quantitativi prestabiliti di denaro se qualcun altro viene dichiarato insolvente (si veda il capitolo VI per una descrizione completa dei CDS).

Naturalmente via via che aumentava il volume degli scambi di questa nuova forma di denaro privato, la crisi peggiorava. C'erano due ragioni per questo, Anzitutto l'aumento del prezzo dei CDS emessi contro la Grecia e l'Irlanda fece salire i tassi d'interesse che Atene e Dublino dovevano pagare per emettere dei titoli di debito, il che le spingeva ulteriormente verso il rosso (e verso la vera e propria bancarotta). In secondo luogo, più denaro veniva speso su questi CDS, più il capitale veniva prelevato sia dalle aziende che chiedevano prestiti per investimenti in attività produttive sia dagli stati che cercavano di rifinanziare il loro indebitamento galoppante.

In breve, la variante europea dei salvataggi delle banche diede al settore finanziario l'opportunità di coniare da capo del denaro privato. Ancora una volta, proprio come il denaro privato creato da Wall Street prima del 2008 era insostenibile ed era destinato a trasformarsi in cenere impalpabile, l'inarrestabile avanzata del nuovo denaro privato avrebbe portato, con precisione matematica, a un altro crollo globale. Stavolta si sarebbe trattato della crisi del debito pubblico (nota anche come crisi del debito sovrano), i cui primi scossoni si fecero sentire agli inizi del 2010, ad Atene, in Grecia.




La Grecia sostiene i debiti

Nell'ottobre del 2009 il governo socialista della Grecia, fresco di elezioni, annunciò che il vero deficit del paese superava del 12 per cento il reddito nazionale (anziché il 6,5 per cento previsto, che comunque sarebbe stato più del doppio del limite di Maastricht). Quasi immediatamente i CDS emessi sull'insolvenza della Grecia esplosero, così come fece il tasso d'interesse che lo Stato greco doveva pagare per prendere in prestito il denaro che occorreva a rifinanziare il suo debito di 300 miliardi di euro. Nel gennaio 2010 era ormai chiaro che, senza aiuto istituzionale, il governo greco avrebbe dovuto dichiarare l'insolvenza.

Informalmente il governo greco cercò l'aiuto dei paesi di eurolandia. La cancelliera tedesca Angela Merkel pronunciò il suo famoso nein al cubo: nein a un salvataggio della Grecia; nein alla diminuzione del tasso d'interesse; nein a una dichiarazione d'insolvenza greca. Questo triplo nein fu unico nella storia della finanza pubblica (e anche privata). Immaginate se, il 15 settembre 2008, il segretario Paulson avesse detto alla Lehman Brothers: "No, non intendo procedere al vostro salvataggio" (cosa che effettivamente disse); "No, non vi procurerò prestiti a un tasso d'interesse molto basso" (cosa che egli probabilmente disse pure); e infine: "No, non potete presentare domanda di fallimento" (cosa che non avrebbe mai detto). Quell'ultimo "no" è inconcepibile. Eppure fu proprio quello che fu detto al governo greco. Il governo tedesco non poteva prendere in considerazione l'idea di assistere la Grecia né l'idea che la Grecia avrebbe dichiarato l'insolvenza su tutto quel debito che aveva nei confronti delle banche francesi e tedesche (rispettivamente circa 75 miliardi e 53 miliardi di euro).

Per cinque mesi d'agonia lo Stato greco dovette chiedere denaro a prestito a tassi d'usura, sprofondando sempre di più nell'insolvenza e facendo finta di poter resistere alla buriana. La signora Merkel sembrava pronta a lasciare che la Grecia turbinasse nel vento fino all'ultimissimo istante. Quel momento arrivò all'inizio di maggio del 2010, quando i mercati obbligazionari mondiali si avvicinarono a qualcosa di simile al Credit crunch, la Contrazione del credito del 2008. La crisi del debito greco aveva gettato nel panico gli investitori e li aveva indotti a non comprare le obbligazioni di nessuno, per timore di un'insolvenza a effetto domino, simile a quella del 2008. Sicché il 2 maggio 2010 i ministri di eurolandia, la BCE e il FMI concordarono di prorogare un debito di 110 miliardi di euro alla Grecia a un tasso di interesse abbastanza elevato da rendere molto improbabile che il tesoro pubblico greco sarebbe mai stato capace di rifondere questo debito oltre a quelli preesistenti.

Comprensibilmente poco convinti che i nuovi, costosi e stratosferici debiti avrebbero mai reso solvente, come per incanto, un governo insolvente che doveva vedersela con un'economia in profonda recessione, gli investitori continuarono a scommettere sulla dichiarazione d'insolvenza della Grecia (e di altri stati vulnerabili di eurolandia). Così, pochi giorni dopo, l'EU annunciò la creazione di un Fondo europeo di stabilità finanziaria (l'EFSF o Fondo salva-stati di cui si è già parlato nel capitolo VII), che avrebbe dovuto essere un forziere di guerra di 750 miliardi di euro sempre a disposizione, nel caso che un altro membro dell'eurozona avesse bisogno di essere soccorso nel restituire il suo debito pubblico.

Dopo qualche giorno di calma, i mercati diedero una bella occhiata all'EFSF e decisero che era solo un tappabuchi. Per questo la crisi dell'euro riprese con maggiore vigore. Il motivo fu, naturalmente, che i nuovi e costosi crediti non affrontavano la discesa degli stati deficitari verso la bancarotta e sicuramente non facevano nulla per aggiustare l'architettura difettosa, il nefasto simulacro il cui potenziale distruttivo era stato sprigionato nel momento in cui il Minotauro globale era stato cancellato dal Crack del 2008.

Se ho ragione e se la crisi dell'euro è un fallimento sistemico cominciato come crisi bancaria, allora la medicina d'Europa è peggio del male. È come mandare un nuotatore debole in mare aperto per salvare un bagnante sul punto di affogare: tutto quello che potete aspettarvi è di assistere al triste spettacolo di due nuotatori incapaci che si aggrappano l'uno all'altro per salvarsi la vita e poi sprofondano rapidamente entrambi sul fondo del mare.

I due nuotatori sono, naturalmente, gli stati deficitari dell'eurozona e il sistema bancario d'Europa. Sovraccariche come sono le banche di crediti di carta straccia emessi da stati come la Grecia e l'Irlanda, esse rappresentano buchi neri in cui la BCE continua a pompare oceani di liquidità che naturalmente producono solo un minuscolo sgocciolio di prestiti extra al mondo degli affari. Nel frattempo la BCE, i paesi produttori d'eccedenza e il FMI si rifiutano ostinatamente di discutere la crisi bancaria, concentrando le loro energie unicamente sull'imposizione di massicce misure d'austerità a carico degli stati deficitari. È un circolo vizioso: l'austerità imposta peggiora la recessione che affligge gli stati deficitari e in questo modo acuisce i dubbi, già lancinanti, dei banchieri sulla prospettiva di essere ripagati dalla Grecia, dall'Irlanda ecc., e così la crisi continua a riprodursi all'infinito.

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Per quale motivo l'Europa è titubante quando la crisi potrebbe essere risolta in modo semplice e rapido?

Comincerò a spiegare in quale modo le crisi gemelle che si trova ad affrontare eurolandia (quella che coinvolge gli stati indebitati e l'altra che affligge il settore bancario) potrebbero essere risolte senza indugio. L'approccio europeo è fallito perché ha ignorato il modo in cui la crisi del debito e la crisi bancaria si rinforzano a vicenda e ha fatto anche finta di non vedere la causa più profonda della crisi: la mancanza di un meccanismo di riciclo delle eccedenze nel cuore di eurolandia. Ecco le tre semplici fasi con cui si potrebbero applicare dei rimedi efficaci.

La prima fase richiederebbe che la BCE subordini la sua generosa assistenza alle banche alla condizione che queste ultime cancellino una consistente quota dei debiti dei paesi deficitari nei loro confronti. (La BCE ha ampia libertà d'azione a questo riguardo, in quanto continua a garantire efficacemente la liquidità delle banche bancarottiere europee.)

La seconda fase dovrebbe consentire che la BCE iscriva nei suoi libri, con effetto immediato, una porzione del debito pubblico di tutti gli stati membri pari al valore nominale del debito che il Trattato di Maastricht consente loro di avere (vale a dire fino al 60 per cento del PIL). Il trasferimento sarebbe finanziato da obbligazioni emesse dalla BCE sulla propria responsabilità anziché garantite dagli stati membri. In questo modo gli stati membri continuerebbero a onorare i propri debiti ma, perlomeno per la parte del debito che rispetta il trattato di Maastricht, pagherebbero dei tassi d'interesse più bassi, resi possibili dall'emissione di obbligazioni della BCE.

Infine la terza fase chiamerebbe in gioco un'altra venerabile istituzione dell'UE, la Banca europea degli investimenti (BEI). La BEI ha una capacità doppia di investire in progetti redditizi rispetto a quella della Banca mondiale. Sfortunatamente è sottoutilizzata perché, secondo le regole esistenti, gli stati membri devono anticipare una quota dell'investimento. Date le miserevoli condizioni in cui si trovano, gli stati deficitari di eurolandia non sono in grado di farlo. Tuttavia se si concedesse agli stati membri il diritto di finanziare il proprio contributo ai progetti d'investimento finanziati dalla BEI per mezzo di obbligazioni emesse a questo scopo dalla BCE (vedi fase due, sopra), la BEI potrebbe diventare quel meccanismo di riciclo delle eccedenze che attualmente manca a eurolandia. Il suo ruolo dunque sarebbe quello di prendere a prestito, con l'assistenza della BCE, le eccedenze dei paesi europei e non europei produttori di surplus e di investirli in regioni deficitarie d'Europa.

Riassumendo, le prime due fasi farebbero dileguare la crisi del debito e la terza sosterrebbe l'eurozona fornendole l'anello mancante: il meccanismo che essa non ha mai avuto e la cui assenza ha provocato la crisi dell'euro scatenata dal Crack del 2008.

Ma se ho ragione riguardo a tutto ciò, perché l'Europa non accoglie questo suggerimento o non adotta qualche soluzione che vada in questa direzione? La risposta sta nelle pagine precedenti ma forse è arrivato il momento di pronunciarla chiaramente. Se si vuole che la crisi dell'euro venga risolta rapidamente e in modo indolore, la Germania e, insieme a lei, gli altri paesi produttori di surplus dovranno dire addio all'enorme potere contrattuale nei confronti della Francia e degli altri stati deficitari che la crisi strisciante ha messo nelle mani del governo tedesco.

Un altro modo di considerare la questione è che ora i paesi del surplus hanno un piede nell'eurozona e uno al di fuori di essa. Da un lato essi hanno legato a sé il resto dell'eurozona per mezzo di una moneta comune, mettendo così al sicuro grandi eccedenze all'interno dell'eurozona. Dall'altro essi sanno che la perdurante crisi colpisce i paesi del deficit in maniera sproporzionata e che, fino a quando i paesi del surplus mantengono l'opzione di uscire dall'eurozona, il loro potere contrattuale nei forum d'Europa è immenso. Se per esempio il cancelliere tedesco vuole depennare una questione dall'ordine del giorno, può farlo senza incontrare opposizioni. Ma se la crisi dovesse finire domani in un modo che impedisce ai paesi del surplus di lasciare l'eurozona, allora il cancelliere della Germania sarebbe solo uno dei venti capi di governo seduti intorno a un grande tavolo.

Ora si noti come la seconda fase della mia proposta di soluzione alla crisi dell'euro potrebbe impedire definitivamente alla Germania di lasciare l'eurozona: una volta che la BCE, un'istituzione comune, si fosse accollata ingenti debiti (emettendo delle obbligazioni), diventerebbe impossibile redistribuire questo debito comune tra i vari stati membri. In questo modo diventerebbe impossibile per chiunque andarsene. Inoltre se venisse intrapresa la terza fase e l'Europa venisse equipaggiata con il meccanismo di riciclo dell'eccedenza che ora manca, il simulacro della Germania verrebbe svalutato una volta per tutte.

Sembra dunque che la crisi dell'euro sia assolutamente non necessaria da un punto di vista economico, mentre serve agli interessi di mantenere all'interno dell'Europa il ruolo che la Germania ha sviluppato per sé durante il regno del Minotauro globale. E ora che il Minotauro è kaputt, l'Europa è in crisi e la Germania si trova presa in contropiede.

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