Copertina
Autore Elena Varvello
Titolo La luce perfetta del giorno
EdizioneFandango, Roma, 2011 , pag. 336, cop.fle., dim. 14,8x21x1,8 cm , Isbn 978-88-6044-183-6
LettoreGiovanna Bacci, 2012
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


LA FORMA NOTTURNA DI TUTTE LE COSE        9

Fantasmi                                 11
Fotografie                               20
Parlare agli uccelli                     35
Matilde e Clara                          59
Tempesta                                 75
La fine del mondo                        99
Le case degli altri                     112
Monica                                  134
Nuotare sott'acqua                      162


LIBERACI DAL MALE                       183

Autunno                                 185
Il sogno                                209
Il campo di granturco                   214
Cattive notizie                         236
Formiche                                258
Voci                                    280
Fantasmi                                305


Ringraziamenti                          334


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

Fantasmi


1969

La prima volta, l'inizio, è un tardo pomeriggio di ottobre — la luce è un orlo rossastro, un lembo di cielo spoglio all'orizzonte contro cui premono nuvole scure e pesanti. Il posto si chiama Croci, ed è molto diverso, adesso, da com'era allora, un piccolo centro abitato circondato da boschi e da campi di granturco. Ora, fra i boschi, ci sono tre supermercati, un grande negozio che vende computer, un colorificio a due piani, un paio di fast food e un videonoleggio con distributore automatico. Un rivenditore di automobili usate lungo la strada statale, in uno sventolio di bandiere. Un elegante complesso sportivo fiorito intorno alla vecchia piscina coperta, bar e ristorante con vetrata panoramica che dà su campi da tennis intorno ai quali matura il granturco, e l'unico rumore è lo schiocco delle palline colpite dalle racchette. L'edificio che accoglieva le scuole è stato ricostruito e ampliato — blocchi di cemento aggrappati al fianco di una collina, grandi finestre che brillano alla luce del sole, nelle brevi e caldissime estati, e un ampio parcheggio. Vecchie cascine cadenti sono state ristrutturate e trasformate in agriturismi, con tralci di glicine dipinti sui muri, ruote di carro e aratri in legno esposti accanto ai cancelli; i residenti li conoscono appena e ne parlano con sufficienza: roba per cittadini – sebbene quasi tutti lavorino in città e percorrano, due volte al giorno, la strada statale che serpeggia fra i boschi.

Oh, ma questo non fa differenza, dal momento che sono passati più di trent'anni. E di certo Matilde Luisa Nisi non sta pensando affatto ai cambiamenti che il posto subirà nel corso del tempo; non riesce neppure a immaginarli, non ora, mentre il vento freddo le scuote le falde del cappotto e le pizzica il naso, e lei socchiude gli occhi, spinge una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio e si appoggia alla portiera dell'automobile, in quel tardo pomeriggio di ottobre.

Sono tornati a vedere il terreno che suo marito vorrebbe comprare – a quel tempo coperto da una fitta boscaglia, alberi cresciuti l'uno a ridosso dell'altro, selvaggiamente – il terreno su cui vorrebbe costruire la casa.

"La nostra prima, vera casa", le ha detto, mentre si allontanavano dalla città. Ha sospirato e si è voltato a guardarla. Per un istante, l'ha guardata dritto negli occhi. "Devi usare un po' d'immaginazione, Matilde. Devi immaginare quello che può diventare."

"Meglio di no", ha detto lei.

La strada non è ancora stata asfaltata - lo sarà molti anni dopo – né ci sono lampioni a illuminarla; è una lunga tavola di terra dura e gibbosa che scende fino a uno spiazzo cinto dagli alberi. Quando piove, diventa un pantano solcato da rivoli d'acqua fangosa. Matilde, appoggiata alla portiera, dà un'occhiata al cielo e pensa a se stessa coi piedi nel fango.

"Fa un freddo cane", dice. Si abbottona il cappotto, incrocia le braccia sul petto, respira a fondo. C'è odore di legno bagnato e di foglie marce, un penetrante odore vegetale, metallico. Le pare di sentire dell'acqua gorgogliare, da qualche parte, ma deve essere il vento.

"No", dice lui, "non fa così freddo."

Poco più a monte lungo il fianco della collina, una casa domina quel tratto di bosco in uno sfarfallio di luci che si accendono come richiami nel buio incipiente. Matilde si volta a guardare, attraverso il finestrino, la bambina addormentata sul sedile posteriore, coperta con un plaid rosso e giallo. Prima di prendere sonno le ha chiesto di cantarle qualcosa – "Canta, mamma, canta, ti prego", le mani giunte e il piccolo mento proteso in avanti. Matilde ha cantato, la voce ammorbidita dal calore dell'abitacolo, e lei ha battuto le mani. Ora, mentre la guarda dormire, il pollice in bocca e i capelli sul viso, si accorge che qualcosa della canzone — una canzone triste che le cantava spesso sua madre e che la bambina trova adorabile – le è rimasto impigliato fra i denti.

"Bisognerà fare arrivare un mucchio di terra", dice lui, allontanandosi di due o tre passi dal margine del bosco, quella soglia scura e indistinta, poi indica un paio di punti con un movimento lento e regale del braccio – la mano affusolata e il polso bianco e sottile di lui. "Spianare il terreno. È l'unico vero problema. Per il resto è perfetto."

"Perfetto, come no", dice lei. Sporge le labbra e si morde la guancia, pensando, in realtà, che non c'è niente, in quel posto, che le piaccia davvero o che la riempia dello stesso entusiasmo, della stessa determinazione che percepisce nella voce di lui. Soprattutto col buio che si alza dal bosco, quel buio freddo di ottobre. Neppure il nome del posto le piace, le ricorda un cimitero, una distesa di lapidi battute dal vento, ed è per questo che l'immagine di suo padre le attraversa la mente togliendole il fiato; le capita ancora, ogni tanto. Suo padre che si china verso di lei e sussurra: "Piccola, promettimi che ti comporterai bene e non farai arrabbiare la mamma".

Ciò che teme è il silenzio, e la distanza dal centro abitato – "Ma qui è abitato", ha detto suo marito, indicando la casa più a monte e poi quella a pochi metri da loro, dall'altra parte della strada, una casa col tetto spiovente e le imposte chiuse; al di là della recinzione, Matilde ha intravisto una bicicletta rosa abbandonata per terra. Ciò che teme sopra ogni altra cosa è l'isolamento, la solitudine. In città, ha a portata di mano tutto ciò che le occorre; ogni mattina veste la piccola e l'accompagna all'asilo, prima di compiere il suo breve pellegrinaggio, dal panettiere al verduriere alla macelleria. Il sabato, quando il tempo è clemente, lei e la bambina trascorrono un paio d'ore al parco giochi, un fazzoletto di terra tagliato da sentieri di ghiaia che custodisce due altalene, due scivoli e una struttura di tubi di ferro, pericolosa, pensa spesso Matilde, immaginando sua figlia arrampicarsi e appendersi a quei tubi arrugginiti, immaginandola cadere giù, sulla ghiaia, un posto dove le madri del quartiere si raccolgono per chiacchierare e discutere dei figli e delle gravidanze in corso e dei mariti. Mogli e madri. nuove di zecca, come lei, giovani donne orgogliose e innamorate dei loro bambini e degli uomini che hanno sposato – i loro vestiti buoni, le loro camicie che devono essere lavate e stirate, l'odore che si portano appresso quando ritornano a casa, la sera, un odore di polvere, fumo e sudore – eppure, le sembra, già sottilmente deluse, come se avessero appena assaggiato una torta all'apparenza sontuosa che si fosse rivelata vagamente sgradevole o priva di sapore o addirittura indigesta. Si chiede spesso se anche lei possa dare quell'impressione, se qualcosa, sul suo viso – una piega amara delle labbra, il movimento nervoso di un sopracciglio, un rimprovero troppo acceso rivolto a uno dei ragazzini che giocano a pallone fra le altalene – tradisca una scoperta recente riguardo al suo matrimonio, un'ombra di disappunto.

"Mi piace", dice lui. "Ho sempre sognato un posto così, con un giardino e tutto il resto, lo sai. Non ci sono pericoli, qui, per la bambina."

A quali pericoli si riferisce? L'unico a cui lei riesca a pensare è la struttura di tubi di ferro e di nuovo vede sua figlia cadere, e si volta per controllare che stia ancora dormendo. La mano destra di lui si chiude a pugno, il braccio ricade sul fianco. Il suo profilo è tagliente, immobile nel vento che agita le poche foglie rimaste sui rami come decorazioni natalizie dimenticate.

"È una vera occasione", aggiunge, perché il proprietario del terreno, un cliente della banca in cui lui lavora, l'ha ricevuto in eredità e ha deciso di liberarsene.

"Anch'io me ne vorrei liberare, se fossi al suo posto", dice lei.

"Oh, piantala, Matilde. Sto parlando sul serio", e in quel preciso momento, dopo che il braccio di suo marito è ricaduto sul fianco producendo uno schiocco severo e lei si è scostata dalla portiera domandandosi per quanto ancora sua figlia continuerà a dormire, un'automobile imbocca la strada, rallenta, si ferma all'altezza del viottolo che porta alla casa illuminata, poi prosegue e accosta a due passi da loro. È un furgoncino blu scuro con una grossa ammaccatura sulla fiancata destra e il paraurti che pare debba cadere da un momento all'altro. La persona che è alla guida si sporge e tira giù il finestrino.

"Sera", dice. "Va tutto bene?"

Parla a voce alta, come se fosse molto più lontano di quanto sia in realtà. O magari è il vento. Magari è il buio che si alza dal bosco e dalla strada. Magari dipende dal fatto che non ha spento il motore, come se fosse sul punto di ripartire.

"Buonasera", dice suo marito, avvicinandosi al furgoncino, due fossette ai lati della bocca mentre sorride. "Sì, tutto bene, grazie."

"Siete voi quelli che hanno comprato il terreno?"

"Ci stiamo pensando. Le voci corrono, eh? Paolo Nisi, piacere. Lei è Matilde, mia moglie."

Matilde fa un cenno di saluto. Non riesce a vederlo, non distintamente. Una figura ritagliata nella penombra, in rilievo. Le spalle, la testa e una massa di capelli scuri e intricati. La luce dei fari riverbera nell'oscurità sempre più fitta. Le sembra giovane, poco più di un ragazzo, ma potrebbe sbagliarsi – e infatti si sbaglia. C'è una certa irruenza trattenuta, nella sua voce, un vigore addomesticato, un intreccio confuso di cortesia e di allarme.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 76

L'estate era stata breve, ma calda e opprimente.

"E chi se la ricorda, un'altra estate così", pensava Matilde scuotendo la testa, sbattendo le palpebre nella luce dolente del sole quando usciva di casa, asciugandosi col dorso della mano la fronte sudata. Quell'estate, il corpo di Andrea si era coperto di chiazze rosse e pruriginose, una brutta dermatite che lo rendeva irrequieto e lo teneva sveglio, la notte.

"È colpa di questo caldo umido", le aveva detto Clara, e le aveva raccontato di una cosa simile accaduta ad Aurora, quando aveva più o meno due anni. "Sembrava sempre che migliorasse e invece poi ritornava. Non faceva che grattarsi dappertutto." Stava affettando un pomodoro e, con il coltello, aveva tracciato un paio di cerchi nell'aria. Matilde, che teneva Andrea sulle ginocchia – lo aveva spogliato lasciandogli addosso soltanto il pannolino – le aveva detto: "Non dirmelo. Ti prego, non voglio saperlo", e quando Clara aveva annuito grevemente e poi era scoppiata a ridere, aveva aggiunto: "Dammi quel coltello, allora, preferisco farla finita".

Si era pentita subito d'avere detto una frase del genere, perché, quell'estate, pareva che, di certe cose, non si potesse proprio parlare – di solito, quando le usciva una battuta infelice, se ne stava per un istante in silenzio, poi diceva: "Che ho detto? Non sapevo che fosse vietato scherzare" – ma Clara le aveva sorriso. Matilde era sicura che Clara Delfino avrebbe sorriso perfino in punto di morte.

"Talco mentolato", le aveva suggerito. "Il talco mentolato è la cosa migliore. Ma questo lo sai di sicuro."

"Certo, lo so."

In realtà, il punto era che Matilde avrebbe dato qualsiasi cosa perché suo figlio dormisse. "Almeno stanotte", pensava, cambiandolo e infilandogli una canottiera pulita, ma era proprio la notte il momento peggiore, e lei si trascinava in camera sua, lo tirava su dal lettino, lo portava in soggiorno e camminava avanti e indietro, cullandolo. Succedeva così di frequente che a volte credeva di non essere riuscita neppure a chiudere gli occhi. Erano questi i momenti in cui veniva presa dallo sconforto, una morsa che le chiudeva la bocca dello stomaco, un fremito di rabbia che le scuoteva il petto: i momenti in cui, nel soggiorno buio, nell'aria bollente di quelle notti d'estate, cullava suo figlio, rendendosi conto, con sbigottimento, che, se non avesse smesso di piangere, avrebbe potuto scuoterlo, avrebbe potuto schiaffeggiarlo, addirittura. E una notte, infatti, l'aveva colpito. L'aveva sistemato accanto a sé sul divano, le braccia che si allungavano verso di lei, un piedino nudo che le sbatteva contro una gamba. Aveva sussurrato: "Ti prego, smettila, devo dormire. Lo capisci che devo dormire?", e poi l'aveva colpito, uno schiaffo secco sopra il ginocchio e uno sul piede che continuava a sbatterle contro la gamba.

"Basta", aveva urlato. "Smettila subito."

Suo marito era sceso al piano di sotto e si era affacciato alla porta. "Che sta succedendo?"

Matilde aveva continuato a urlare; avrebbe colpito anche lui, se avesse osato avvicinarsi. Provaci. Provaci e vedrai che cosa succede, ma poi lui aveva acceso la luce e l'aveva guardata, le sue gambe aperte, il suo viso stravolto.

"Cosa gli hai fatto?"

Da allora, Matilde aveva preso l'abitudine di accendere la luce della cucina, accostando la porta perché Andrea non se ne accorgesse. Cullandolo, rivolgeva lo sguardo alla lama di luce che tagliava l'oscurità, e quella piccola cosa riusciva a calmarla. Si aggrappava a quell'esile filo di luce e, non appena suo figlio si addormentava, lo riportava in camera sua, tornava a letto e si sdraiava calcolando quanto tempo le rimaneva prima che lui ricominciasse. Perché avrebbe ricominciato, questo era certo. Ascoltava il fruscio del vento caldo che lambiva la casa, o un cane che abbaiava da qualche parte, nel buio. Il canto degli uccelli, poco prima dell'alba. Spesso, fissando il soffitto, pensava a Giulio, seduto in giardino, nella pallida oscurità di quelle notti d'estate.

Suo marito dormiva profondamente, e lei si spostava verso il bordo del letto, gli voltava le spalle; in quei momenti, la stanchezza e la rabbia s'indirizzavano verso di lui, verso il suo respiro quieto e profondo, verso l'immagine di suo marito che, fra poche ore, sarebbe uscito di casa per andare al lavoro, lasciandola sola con i bambini, con il barattolo di talco mentolato, i giocattoli sparsi sul pavimento della cucina, la roba da lavare e stirare.

"Lavoro tutto il giorno", le diceva lui, mentre facevano colazione, "non posso mica stare sveglio, la notte."

Matilde gli versava il caffè, sbatteva la tazza sul tavolo. "Già, e invece, io non ho niente da fare, no?"

"Non ho detto questo, Matilde. Perché sei così arrabbiata?"

La sua rabbia era una nuvola nera, una tempesta che si scatenava in una giornata di sole, e lui pareva disarmato, incapace di trovare un riparo.

"Perché sono arrabbiata? Dio santo, lo capirebbe persino uno stupido. Ma tu non ci arrivi, è questo il problema."

Si batteva l'indice contro la tempia e lui le diceva di abbassare la voce. Più di una volta, da quando era nato il bambino, le aveva detto: "Sembra che per te sia soltanto un fastidio. Lo volevi anche tu, no?", e questo non aveva fatto altro che peggiorare le cose.

Una mattina, Matilde gli aveva tirato addosso un barattolo di marmellata, poi aveva sentito il bambino piangere ed era andata di sopra battendo i piedi nudi su ogni scalino perché suo marito la sentisse, perché continuasse a sentirla salire le scale anche mentre andava al lavoro, mentre si sedeva dietro lo sportello della banca e serviva i clienti. I suoi passi furenti e lo schianto del barattolo di marmellata sul pavimento.

Quell'estate, durante le giornate interminabili trascorse con i suoi figli raccogliendo giocattoli e panni sporchi, stendendo e riempiendo d'acqua il catino di plastica in cui avrebbe fatto il bagno ad Andrea, quando non andava a trovare Clara o a portare da mangiare a Giulio e Anita, Matilde si ritrovava a pensare che, dentro di lei, ci fosse qualcosa di guasto, qualcosa di sbagliato che suo marito riusciva a vedere — e la volta in cui aveva strappato tutte le fotografie del loro viaggio di nozze? La volta in cui gli aveva urlato: "Ti odio"? — qualcosa che si risvegliava col buio e con il pianto inconsolabile del suo bambino, per poi montare e alla fine nascondersi, pronto a mostrarsi di nuovo, spingendola a violenti e incontrollabili accessi di rabbia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 112

Le case degli altri


Quando sua figlia scomparve, portando con sé un po' di biancheria intima e una tuta da ginnastica che doveva aver infilato nella sacca sotto i libri di scuola, Clara disse a suo marito che doveva andare a cercarla. Gli disse che sarebbe dovuto tornare a casa soltanto quando l'avesse trovata, poi si sedette in soggiorno, incrociò le braccia sul petto e si mise a fissare la parete di fronte.

"Se non la trovi, continua a cercarla."

Mario guardò la chiazza rossa che le era sbocciata alla base del collo, i suoi occhi liquidi alla luce della lampada a stelo, quasi che qualcuno ne avesse lavato via l'azzurro pallido.

Anche se non l'avrebbe ammesso, lo sguardo di Clara gli fece paura. Sua moglie gli sembrò all'improvviso una fortezza inespugnabile, come se la scomparsa di Aurora non riguardasse che lei. Quando, poco prima, Anna le si era avvicinata, sedendosi per terra e poggiando la testa sul suo ginocchio, Clara aveva scostato la gamba, e, continuando a fissare la parete di fronte, aveva detto: "Vai a dormire".

Anna l'aveva guardata, poi aveva rivolto lo sguardo verso di lui, e Mario aveva sussurrato: "Tua madre ha ragione. È tardi".

A quelle parole, il petto di Clara era stato scosso da un breve ma potente sussulto.

"È preoccupata anche lei", disse, dopo che sua figlia se ne fu andata in camera sua. "Siamo tutti preoccupati, Clara, non solo tu."

Lei chiuse gli occhi e le labbra le si torsero in una smorfia. Aveva ancora le braccia incrociate saldamente sul petto.

"Vai a cercare Aurora e riportala a casa", disse. Le sue labbra fremettero. Mario intravide la mezzaluna dei denti e si disse che, per la prima volta, stava guardando davvero sua moglie; ebbe l'impressione che, se soltanto l'avesse toccata, gli si sarebbe bruciata la mano.

Lei lo scrutò per un istante, poi disse: "Cosa ti aspetti che faccia? Cos'è, questa Chiesa della Liberazione? Dov'è andata a cacciarsi?".

"Non lo so, Clara. Non ne ho la più pallida idea."

"Dov'è andata a cacciarsi?", ripeté lei, come se lo stesse domandando a qualcuno che lui non poteva vedere. "Vai a cercarla, ti ho detto. Riportala a casa."


Mario s'infilò il giaccone, prese le chiavi della macchina e uscì. L'aria era densa e fredda. Imboccò la statale, lasciandosi alle spalle i boschi e i campi di granturco coperti di neve, e per più di due ore guidò, senza sapere dove andare, lungo strade deserte, guardandosi intorno, rallentando all'altezza di un parco, una piazzola o una fermata dell'autobus, pensando che, se non l'avesse trovata, avrebbe fatto meglio a continuare a guidare per sempre, avrebbe fatto meglio a non tornare più indietro, poi si abbandonò sul sedile e sussurrò: "Ma cosa ti viene in mente?", perché quale uomo avrebbe pensato a se stesso in un momento del genere?

"Le persone sono buone", aveva detto Clara una sera, pochi mesi prima, seduta a tavola accanto a Matilde – i bambini giocavano a Scarabeo sul tappeto e Aurora era andata a chiudersi in camera sua.

Stavano parlando delle Brigate Rosse. Paolo si era voltato a guardarla e aveva lasciato cadere il coltello sul bordo del piatto. "E che mi dici di quelli che sparano alla gente disarmata? E quelli che mettono le bombe, scusa?"

"Sono sicura che sanno di fare una cosa sbagliata. Dentro di loro, lo sanno. Siamo stati tutti creati a immagine e somiglianza di Dio."

"Oh, Signore", aveva detto Matilde, alzando gli occhi al cielo. "Vi spiacerebbe cambiare discorso?"

Fermo a un semaforo, nella luce rossa che palpitava, Mario immaginò sua moglie seduta in soggiorno, rigida contro lo schienale della poltrona, aggrapparsi a tutto ciò in cui aveva sempre creduto e tentare di tenerselo stretto, mentre il buio inghiottiva palmo a palmo la casa.


Clara inspirò a fondo e, per un po', dopo che suo marito se ne fu andato, continuò a fissare la fotografia appesa alla parete di fronte. Lei e Mario e le bambine: Anna sulle sue ginocchia, la bocca aperta in un largo sorriso, Aurora in piedi, una figura imbronciata schiacciata sul margine destro. Nel negozio del fotografo, giù in città, aveva sbuffato e si era mangiata le unghie fino a che lei non le aveva detto: "Tesoro, stai ferma un momento, è soltanto una foto".

Quando Mario l'aveva appesa in soggiorno, Clara aveva fatto due passi indietro, poi aveva esclamato: "È bellissima, no?", anche se lo sguardo di Aurora, quell'espressione dura e accigliata, l'aveva ferita. Come se sua figlia si trovasse lì di passaggio e fosse stata coinvolta in qualcosa che non la riguardava. Lui aveva risposto: "Sì, è bella". Aveva ancora il martello in mano e se l'era battuto piano contro la gamba.

Rimase a guardare la fotografia fino a che non riuscì più a distinguere la propria immagine da quella di Mario e delle sue figlie, poi guardò i piccoli, elementari fiori azzurri sulla carta da parati. Allora, le sembrò che la parete si stesse muovendo lentamente verso di lei, la vide muoversi avanti e poi indietro come se respirasse, avanti e indietro, così chiuse gli occhi e quando li riaprì non vide altro che la fotografia. Se Aurora non fosse tornata, niente avrebbe più avuto importanza, soltanto il respiro opprimente della sua casa. Una sostanza spugnosa dentro cui Clara era imprigionata, un polmone malato. In tutta la sua vita, non aveva mai, mai pensato una cosa del genere. Andò alla finestra, scostò la tenda pesante e puntò gli occhi nel buio, chiedendosi dove avesse sbagliato, quando avesse commesso l'errore, il primo, da cui erano discesi tutti gli errori seguenti – ma quali? Non riusciva a capirlo.

Un giorno, alcuni anni prima, Matilde le aveva detto: "Scusa, non ti offendere, ma tua figlia avrebbe bisogno di sentirsi dire due paroline". Matilde pensava che Aurora stesse diventando terribilmente arrogante.

"È fatta così", aveva detto lei. "Prende ogni cosa come se la riguardasse personalmente. Una volta avevamo un pesce rosso, l'avevamo vinto al luna park. Be', quand'è morto, l'ho buttato nella spazzatura, cosa dovevo fare? Lei l'ha trovato e si è arrabbiata a morte, non mi ha più rivolto la parola per tutto il giorno. Non riusciva a credere che l'avessi buttato. Secondo lei, voleva dire che non m'importava. Doveva avere cinque o sei anni, figurati."

Era stato pressappoco in quel periodo che le aveva insegnato a pregare, prima di prendere sonno. Aurora si sedeva sul letto, giungeva solennemente le mani e chiudeva gli occhi.

"Per chi vorresti pregare, tesoro?", le domandava lei.

"Per tutti, mamma. Per tutto il mondo. Se no a cosa serve?"

Le sembrava una cosa così bella, come se sua figlia stesse tentando di abbracciare il mondo intero. Eppure, ora aveva l'impressione che non avesse fatto altro che spostarsi più in là verso il bordo della fotografia. Lei era rimasta ferma, fiduciosa e sorridente, mentre Aurora si allontanava e si perdeva là fuori, nel buio – quand'era tornata a casa dal catechismo e aveva visto quello che si era fatta ai capelli, avrebbe dovuto pretendere una spiegazione, alzare la voce, magari, ordinarle di andare subito in camera sua. Matilde l'avrebbe fatto. Invece, si era limitata a guardarla, stupita e sopraffatta, poi aveva detto: "Cos'hai combinato?", e quando Aurora era rimasta in silenzio, aveva aggiunto: "Oh, ma che sarà mai, in fondo. Ricresceranno".

Poggiò le mani sul davanzale e sentì il respiro della casa premerle contro la schiena. Chiuse nuovamente gli occhi, decisa a pregare – l'aveva sempre fatto con grande intensità, nei momenti difficili – ma quando aprì la bocca un incendio le divampò in gola, le fiamme bruciarono la lingua, il palato. Rimase in silenzio, gli occhi chiusi, a tentare di vedere sua figlia nel buio. Ed ecco quello che vide: se stessa. Fra le braccia teneva una neonata. La neonata piangeva, lei l'aveva avvolta in una coperta azzurra e non riusciva a calmarla.

Calmati, diceva. Calmati.

Al di là della finestra, si stendeva un campo di granturco sepolto dalla neve. Ai margini del campo, sul ciglio della strada, un grosso cane nero frugava col muso in un cumulo di neve sporca.

La piccola continuava a piangere e lei non poteva far altro che stringerla a sé. Vide il cane frugare nel cumulo di neve e poi correre via, lungo la strada.

C'è un cane, disse. Ecco, adesso se n'è andato. Va tutto bene. Non può farci niente, non avere paura.

Strinse il fagotto e cominciò a camminare per la stanza, i piedi pesanti come se stesse camminando nel campo di granturco innevato; lentamente, la neonata smise di piangere e lei si sedette con cautela sul bordo del letto, l'appoggiò su una gamba, scostò la coperta. Il suo viso era livido, bluastro come la neve sul campo, e fu allora, prima di riaprire gli occhi, accanto alla finestra in quel lentissimo precipitare, che Clara sentì il cancello aprirsi e la macchina di suo marito risalire lungo il vialetto.

| << |  <  |