Copertina
Autore Sebastiano Vassalli
Titolo Archeologia del presente
EdizioneEinaudi, Torino, 2003 [2001], Tascabili Letteratura 1174 , pag. 176, cop.fle., dim. 120x195x11 mm , Isbn 978-88-06-16714-1
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe narrativa italiana
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1° gennaio 2001, lunedí. A mezzanotte di ieri è finito un secolo che ci ha dato due guerre «mondiali» e l'olocausto degli ebrei, il volo umano, la radio, la televisione, il computer e la bomba atomica. In quel secolo, e nella vita di chi, oggi, si sta avviando a diventare vecchio, c'è un anno particolare, il 1968, che in realtà durò molto piú a lungo di un anno: fu un'epoca di grandi inquietudini e di grandi trasformazioni e si stiracchiò, si allungò, dalle prime rivolte degli studenti americani contro la guerra in Vietnam fino alla cosiddetta «rivoluzione dei garofani» in Portogallo, e piú oltre ancora. Un'intera generazione di donne e di uomini, in quell'anno, sognò di poter abolire le differenze di classe, le classi, i titoli di studio, le carriere e le gerarchie. Sognò di cancellare le leggi, le frontiere, i documenti di identità, le caserme e le prigioni, e di poter fare a meno dei preti e dei soldi. Molti giovani, di cui oggi nessuno piú si ricorda, si immolarono a quel sogno; i piú, quando le immagini del sogno incominciarono a dissolversi, si resero conto che il mondo intorno a loro non era cambiato, o che era cambiato in pochi dettagli, e che per viverci senza problemi bisognava accettarlo cosi com'era. Allora gli orizzonti tornarono a chiudersi. Le utopie lasciarono il posto agli egoismi e gli ideali si trasformarono in retorica: diventarono l'accademia del «politicamente corretto», che combatte le battaglie giuste al momento giusto, quando i riflettori attorno sono tutti accesi, ed è un modo come un altro per dire: guardatemi, sono io! C'è qualcuno piú saggio di me? Piú indispensabile di me? Piú intelligente di me?

(Io, io, io...)

I protagonisti di questa storia, Leo e Michela, e anche il loro autore, appartengono alla generazione che sognò di cambiare il mondo in pochi anni, correggendone gli errori e facendolo diventare perfetto. Da questo punto di vista la loro vicenda non ha in sé niente di straordinario: è la vicenda di due giovani come ce ne furono tanti, in un'epoca che ormai è scomparsa e che presto sarà anche dimenticata. È invece eccezionale il fatto che loro soli, poi, abbiano continuato ad illudersi e a sognare, quando tutti, ormai, si erano svegliati e dopo che le illusioni erano passate di moda, urtando contro ogni genere di ostacoli e andando incontro a mille sconfitte: come due mosche imprigionate in una stanza che continuano a battere e a ribattere contro il vetro dell'unica finestra, perché di là dal vetro c'è il sole, c'è il cielo, c'è lo spazio infinito che loro non possono raggiungere...

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1.


Ho conosciuto Leo e Michela nell'ottobre del 1970, nell'Istituto tecnico industriale «G. Marconi» di ***. Non ricordo in quali circostanze avvenne il nostro primo incontro, e non ricordo nemmeno cosa ci dicemmo. Sicuramente, niente di memorabile. Eravamo tre giovani appena usciti dall'Università, alle prese con la nostra prima esperienza di lavoro: quella, appunto, di insegnanti precari nella scuola pubblica. Leo, laureato in filosofia, era un ragazzone lungo e magro, con la barba scura e gli occhiali rotondi di metallo che lo facevano assomigliare a un uccello notturno. Indossava delle giacchette di velluto da filosofo esistenzialista, cosi striminzite che non riusciva nemmeno ad abbottonarle, e delle camicie a fiori che portava aperte sul collo e che soltanto lui (credo) sapeva dove si vendevano. Michela, laureata in lingue, era una giovane donna dal viso rotondo e dall'espressione placida, vestita con certi golfini che si faceva lei stessa mentre spiegava agli studenti l'inglese dei Beatles e dei Rolling Stones, o durante le riunioni del pomeriggio con gli altri insegnanti dell'Istituto. Oltre ai golfini di sua fabbricazione, che d'inverno diventavano maglioni e scialli pesantissimi, Michela indossava delle normali gonne, lunghe piú o meno fino al ginocchio: e in ciò faceva consistere la sua personale stravaganza rispetto alle mode dell'epoca. In quegli anni, infatti, la gonna era considerata un indumento arcaico, forse anche un po' reazionario (come il reggiseno), e veniva tollerata soltanto nelle versioni mini e maxi: lunghe, rispettivamente, fino all'inguine e fino alle caviglie. Tutti, allora, vestivano allo stesso modo, con i jeans, e pensavano e dicevano le stesse cose, perché soltanto facendo cosí si sentivano di essere originali e liberi. Tutti sognavano di cambiare il mondo. Anch'io, che avevo terminato da pochi mesi i miei studi di architettura, ero sicuro che l'umanità avrebbe finalmente incominciato a progettare il proprio futuro, invece di lasciarlo in balia del destino; e mi preparavo a dare il mio contributo come progettista, alla costruzione di un avvenire razionale e felice.

Leo e Michela, quando li conobbi, vivevano insieme già da un paio d'anni. Si erano incontrati durante un'occupazione della loro facoltà all'Università statale di ***, e poi avevano fondato una «comune» con altre due coppie di studenti rivoluzionari, in un alloggio del quartiere operaio di via Sant'Eustorgio arredato con qualche materasso, qualche tavolo e qualche poster del «Che» Guevara e del «Grande Timoniere» Mao tze-Tung appeso alle pareti. La loro storia incomincia cosi, con quell'esperienza di comunismo che durò poco piú di un anno e che fallí miseramente, senza che ci fossero state liti per questioni di soldi. Marx, mi disse poi Leo quando mi parlò di quella vicenda, era stato un ingenuo a credere che per costruire una nuova società bastasse eliminare le differenze economiche tra gli individui. Il problema vero era la convivenza. Nell'appartamento di via Sant'Eustorgio a *** ogni coppia aveva il suo spazio (la sua stanza), ma l'intimità veniva considerata un lusso borghese e i turni per andare in bagno, alla mattina, erano ancora piú irritanti e carichi di tensioni di quelli per lavare i piatti. La vita in comune era poi entrata definitivamente in crisi, mi raccontarono i miei amici, quando un abitante della casa aveva posto il problema del «salto di qualità» e del passaggio dal primo livello della società comunista, che come tutti sanno è quello della comunione dei beni, al livello successivo e compiuto, della comunione degli affetti e del sesso. Secondo la teoria di quel comunardo (che in realtà, ci spiegò Michela, si era stancato della sua compagna e voleva cambiarla), le coppie fisse dovevano essere abolite. Maschi e femmine si sarebbero dovuti aprire a nuove esperienze sia all'interno che all'esterno del gruppo, per superare i vincoli e i pregiudizi che li tenevano legati alla loro classe d'origine, cioè alla borghesia; e se poi si fossero sentiti attratti da persone del loro stesso sesso, tanto meglio! In pratica, tutti dovevano scopare con tutti, e in presenza di tutti...

I miei amici si erano ribellati. «Noi, - avevano detto, - non accetteremo mai di sacrificare il nostro rapporto sull'altare di un generico progressismo, e di un'altrettanto generica liberazione sessuale! I sentimenti che proviamo l'uno per l'altra sono una cosa seria, e non c'è niente di reazionario o di borghese nel nostro desiderio di vivere insieme, e di avere dei figli che siano solo nostri. Anche il sesso, a nostro modo di vedere, è una cosa seria. Non è soltanto una ginnastica, o una droga, come credono in tanti...»

«Il sesso, - ci disse in quell'occasione Michela, interrompendo il racconto di Leo, - è ciò che ci tiene legati alla parte profonda e oscura di noi. I nostri sogni, la nostra arte, le nostre religioni vengono da lí».

Quelle discussioni sul passaggio dalla prima alla seconda fase del comunismo erano durate a lungo; e, come spesso succedeva in quell'epoca, erano diventate delle vere e proprie dispute filosofiche, sull'interpretazione della vita e del mondo. Un estraneo che si fosse trovato ad assistervi, mi raccontarono i miei amici quando poi ne parlammo, avrebbe fatto fatica a rendersi conto che la ragione ultima del contendere era lo scopare, e che lo scontro tra le diverse scuole di pensiero conduceva lí. Erano stati chiamati in causa, ripetutamente e con grande scrupolo filologico, i classici del socialismo: Marx, Engels, Lenin, Gramsci, Mao; ma soprattutto si era parlato dell'opera di uno scrittore vissuto tra Settecento e Ottocento, Charles Fourier. La sua teoria dell'«onnigamia» e delle «orchestre d'amore», per i sostenitori dell'amore libero era l'equivalente in campo sessuale della teoria del «plusvalore» di Marx; per Leo, era soltanto la rappresentazione del disfacimento morale e sociale della borghesia dopo il secolo dei Lumi, e l'esatto contrario del socialismo! Il dissidio, poi, era diventato irreparabile, quando dalle teorie di Fourier si era passati a quelle di Wilhelm Reich, lo psichiatra che aveva inventato l'«orgone» e che aveva ancora migliaia di seguaci in ogni parte del mondo. In quell'ultima fase della disputa si erano bisticciate soprattutto le donne. Michela, con la sua calma e i suoi ragionamenti pacati, aveva cercato di far capire alle compagne che con Reich si stavano sbagliando; ma non era riuscita a convincerle. «Non c'è niente di piú reazionario e fallocratico, - gli aveva detto, - della pseudorivoluzione sessuale predicata dai seguaci di Wilhelm Reich. Scopare con tutte e con tutti, per gli uomini è un comportamento che trova la sua giustificazione nella teoria del Superuomo di Nietzsche, e nella logica della società dei consumi. Per le donne, è un comportamento autodistruttivo, che porta solo nevrosi... Altro che liberazione!»

Alla fine, i miei amici erano stati messi in minoranza e avevano dovuto andarsene. Nell'appartamento di via Sant'Eustorgio erano arrivati i materassi ad acqua e le altre attrezzature per il libero amore; ma la «comune», secondo ciò che mi raccontarono Leo e Michela, era sopravvissuta soltanto pochi mesi a quella secessione, e alle orge (e alle liti) che l'avevano seguita. Il numero dei frequentatori della casa era cresciuto al di fuori di ogni controllo e in modo anomalo; e i pionieri del comunismo, uno dopo l'altro, avevano dovuto cedere il campo a persone che non avevano letto Reich e Fourier nei testi originali, e che non conoscevano nemmeno i principi-base del pensiero socialista. (A persone che volevano scopare e basta). Leo e Michela si erano trasferiti in un appartamento del centro storico di ***, affacciato sui tetti e sui campanili della città vecchia. Avevano fatto domanda per essere assunti come professori temporanei nelle scuole pubbliche ed erano stati chiamati all'Istituto tecnico industriale «G. Marconi», dove io dovevo incontrarli. Le nostre materie di insegnamento erano: per Leo, la lingua e la letteratura italiane e la storia universale; per Michela, la lingua e la letteratura inglesi; per me, il disegno tecnico.

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2 gennaio 2001, martedí. Quando ho incominciato a scrivere questa storia, nel novembre del 1998, avevo paura che non sarei riuscito ad arrivare in fondo; invece ci sono arrivato. Non è stato nemmeno troppo difficile. Mi sono limitato a tirare fuori i ricordi dalla memoria, uno dopo l'altro, come un archeologo tira fuori dal terreno i frammenti di un vaso o di una statua; li ho puliti dalle incrostazioni del tempo, li ho trascritti, e ho cercato di farli combaciare tra loro. Non ho aggiunto e non ho tolto niente. Piú che un lavoro creativo, il mio è stato un lavoro di recupero e di restauro. Archeologia, anzi: archeologia del presente...

Un giorno dello scorso mese di dicembre mi trovavo per caso a camminare a *** in viale Marconi, dalle parti dell'Istituto tecnico industriale «G. Marconi. C'erano degli studenti fermi davanti all'ingresso della scuola, e per un'istante ho creduto che fossero quelli d'una volta, che facevano gli scioperi al grido «cazzo, compagni!» Poi, però, mi sono ricordato che erano i loro figli e li ho guardati meglio. Questi ragazzi, mi sono detto, non si sono mai posti il problema di fare la rivoluzione, e non credono di dover cambiare un mondo che, tutto sommato, gli va bene com'è. Non gli importa che quel mondo continui ad essere pieno di bombe atomiche, di ingiustizie e di malattie, e che anche il clima stia cambiando a causa dell'effetto serra e della desertificazione. Non si preoccupano di ciò che succederà tra un anno o tra mille. Vivono nell'età dei telefonini, dei computer, degli animali «clonati» da una cellula e dei cereali transgenici; della globalizzazione e della mondializzazione. Da lunedí a venerdí vengono a scuola e poi, al sabato, si ritrovano con gli amici e prendono qualche pastiglia. Vanno in ecstasy, sotto il buco d'ozono...

Mi sono seduto su una panchina. Ho guardato le automobili che correvano sul viale, una dietro l'altra, e che si fermavano al semaforo. Ho pensato a Leo e a Michela che se ne sono andati senza nemmeno salutarmi e mi hanno lasciato in eredità tutti i problemi che loro non erano riusciti a risolvere. E poi, ho pensato alle cose che Leo mi aveva detto quando ci eravamo incontrati alla mostra dello scultore Piero G., sulla fine del mondo e sugli ultimi giorni della razza umana. Mi sono chiesto, ad alta voce senza rendermene conto: «Adesso che lui e Michela non ci sono piú, chi ci salverà?»

«Chi affronterà le ingiustizie, ad una ad una, come don Chisciotte affrontava i mulini a vento? Chi eliminerà le scorie radioattive e le malattie iatrogene? Chi pulirà l'atmosfera, e ci restituirà le stagioni? Chi provvederà ai cani e ai gatti abbandonati? Chi difenderà gli zingari e gli immigrati clandestini? Chi farà da scudo umano contro le guerre, e terrà lontani tutti i flagelli che ci perseguitano da sempre, e che noi ancora non siamo riusciti a sconfiggere?»

Ho alzato gli occhi sugli edifici dall'altra parte del viale e mi è sembrato di vedere, per la prima volta da quando sono vivo, l'opacità delle cose, la loro sovrana indifferenza. Tutto passa. Gli uomini si inseguono, si accoppiano, cercano di sopraffarsi, si accudiscono, si derubano, si commemorano, si ammazzano e fanno tantissime altre cose, ma dietro questo fervore di superficie non succede niente di importante. Il mondo va dove vuole lui, e non dove noi vorremmo che andasse. Ho esclamato ad alta voce: «Che idioti!», e pensavo, naturalmente, a Leo e Michela ma anche a quelle migliaia di uomini e di donne di cui si parla nelle enciclopedie e nei libri di storia. Ai santi, agli inventori, ai condottieri, agli artisti, agli scienziati, ai redentori, ai rivoluzionari, agli eretici, ai martiri di tutte le fedi e di tutte le cause, ai pionieri di tutte le trasformazioni... A tutti quelli che in ogni epoca hanno speso le loro vite per far diventare il mondo perfetto, e che a prezzo di sofferenze e di enormi fatiche sono riusciti a portarlo dov'è adesso, cioè sull'orlo del baratro. Ho scosso la testa. Ho ripetuto:

«Che idioti!»

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