Copertina
Autore Sebastiano Vassalli
Titolo La morte di Marx
Sottotitoloe altri racconti
EdizioneEinaudi, Torino, 2006, Supercoralli , pag. 194, cop.ril.sov., dim. 140x222x15 mm , Isbn 978-88-06-18060-7
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe narrativa italiana
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Indice


     Parte prima
     Ciao Kafka

  5  Ciao Kafka
  8  Morte di un commesso viaggiatore
 16  Gli amanti
 21  Una famiglia va al mare
 30  Di mamma ce n'è una sola
 36  «La mia Golf mi chiedeva aiuto»
 42  Diesel o benzina
 51  «Volevo essere l'eroe di un videogame»
 56  Il soldatino di piombo
 61  Ciao modernità

     Parte seconda
     La morte di Marx e altri racconti

 67  La morte di Marx
 73  Abitare il vento
 88  Dialogo sulla democrazia
 98  Rocco del Grande Fratello
105  Due favole sulla creazione del mondo

     Parte terza
     Dopotutto, è amore.
     Sei storie per il terzo millennio

117  1. Sebastiano
127  2. Charles
138  3. Mary
151  4. Horst
163  5. Ciro & Daniela
174  6. Leonid

187  Nota

 

 

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Pagina 5

Ciao Kafka


Prima venne la ruota. Con la ruota si fece il carro, che serviva in tempo di pace a trasportare i prodotti della terra, per esempio il grano o le ceste piene d'uva, e in tempo di guerra a trasportare gli eroi sui campi di battaglia. Era cosí che si combattevano le guerre ai tempi di Omero. I soldati semplici avevano come loro uniche armi una spada e uno scudo, al massimo si riparavano la testa con un elmo, mentre gli eroi: gli Achille, gli Ettore, gli Aiace e gli altri di cui parla la leggenda, erano coperti di bronzo dalla testa ai piedi, e quasi non potevano muoversi. Avevano scudi giganteschi, elmi giganteschi, corazze per coprire il petto e la pancia, schinieri e ginocchiere per coprire le gambe, cinturoni in cuoio rinforzati in bronzo per coprire l'inguine, sandali di cuoio e bronzo per coprire i piedi. L'eroe in assetto di guerra era invulnerabile, o quasi (si sa di Achille che il suo unico punto scoperto era il tallone): ma si portava addosso un peso superiore al quintale, e poteva fare pochissimi passi. Per manovrarlo, ci volevano un buon carro e un auriga di grande esperienza, capace di piombare con il suo eroe là dove piú ferveva la mischia. L'eroe scendeva dal carro e menava botte da orbi per alcuni minuti, finché gli bastavano le forze; poi veniva rimesso sul carro, in piedi se ancora riusciva a reggersi o sdraiato di traverso se era crollato, e portato fuori della battaglia a riprendere forze, in vista di un'altra incursione. L'autonomia dell'eroe era limitata a pochi minuti e a pochi metri. L'inseguimento di Ettore da parte di Achille, nell'Iliade, se mai si verificò dovette essere una delle gag piú esilaranti che si siano mai viste, nell'antichità e in ogni epoca, e dovette durare ore, forse addirittura giorni. Anche se Omero riesce a tradurlo in epopea, l'incontro-scontro tra due eroi in realtà era un episodio grottesco e piuttosto raro, in cui vinceva non il piú bravo a maneggiare le armi, ma il piú resistente a portare pesi. Quando uno dei due cadeva a terra sfinito, l'altro si trascinava sopra di lui e, dopo aver trovato uno spiraglio per infilare la punta della spada, gli crollava addosso.

Dal carro, venne la carrozza; dalla carrozza venne l'automobile, e con l'automobile la nostra storia si fa piú complicata, perché alle trasformazioni dell'involucro incominciano a corrispondere le trasformazioni di ciò che sta dentro all'involucro, come il mollusco sta dentro alla conchiglia. L'uomo diventa automobilista: e non è una metamorfosi semplice né indolore. Ne sa qualcosa il protagonista del racconto di Franz Kafka, La metamorfosi: «Nel destarsi, un mattino, da sogni inquieti, Gregorio Samsa si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto. Giaceva sul dorso duro come una corazza e, appena alzato il capo, scorse un addome carenato, scuro, traversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sul crinale, minacciava di cadere da un momento all'altro: mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi».

La metamorfosi di Kafka è del 1912 e Gregorio Samsa è un automobilista abortito e imperfetto. Entro pochi anni, le sue zampe diventeranno ruote e la trasformazione sarà completa, includendo anche la sfera psichica del soggetto. L'automobilista incomincerà a strombettare, a lampeggiare, ad accennare sorpassi in luoghi che precedentemente erano destinati a tutt'altre funzioni: per esempio in ufficio, a tavola, nel letto coniugale. Diventerà sempre piú affusolato e carenato, con pneumatici di scorta, specchietti, antenne, alettoni. Incomincerà a socializzare nei parcheggi e a parcheggiare nei luoghi che in altri tempi erano destinati alla socialità: nei cortili, nelle piazze, nelle strade... Soprattutto, incomincerà a correre incanalato nel traffico, detto vita, da un'area di servizio ad un'altra area di servizio, da un'officina-ospedale ad un'altra officina-ospedale, da un garage ad un altro garage: finché la sua automobile (il suo guscio) diventerà un cubo di metallo nella pressa di uno sfasciacarrozze, e verrà fusa per creare nuovi modelli di automobili, com'è necessario che avvenga. Polvere alla polvere, progresso al progresso, soldi (e vita) ai soldi.

Scopo originario dell'automobile era «la mobilità», cioè trasformare l'uomo in automobilista, perché viaggiasse e vedesse il mondo. In realtà, l'automobilista vede solo strade; e tutte le strade e tutte le città del mondo, ormai possono essere immaginate come luoghi pieni di automobili piú o meno uguali: dov'è difficile, e spesso addirittura impossibile, trovare alla fine una propria storia. (Un proprio parcheggio).

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Pagina 30

Di mamma ce n'è una sola


La ragazza suonò il campanello. Si sentirono delle voci dentro casa, poi sulla porta della villetta comparve un bambino di otto o nove anni, che non disse nulla e si limitò a guardare la visitatrice con gli occhi spalancati per lo stupore.

«Sono venuta a prendere mia figlia, - disse la ragazza. - Mi hanno detto che è qui».

Dietro al bambino una donna esclamò: «Signore Iddio, è lei! E ancora peggio di come ce l'aspettavamo». Poi la donna gridò alla visitatrice: «Entra, entra pure! Il cancello è aperto. Scusaci, ma non pensavamo che tu arrivassi cosí presto...»

La ragazza spinse il cancelletto e attraversò il piccolo giardino. Aveva i capelli tagliati corti, verdi e rosa, e camminava dondolandosi su dei tacchi cosí alti, che sembrava dovesse ribaltarsi ad ogni passo. Alle otto di mattina, indossava due micro-vestiti: una minigonna d'argento e una giacchetta dello stesso colore, che le lasciava scoperta la pancia e una parte dei fianchi. Aveva un brillante incastonato nell'ombelico e un altro piú piccolo sul naso. Due tatuaggi piuttosto vistosi, sulla spalla destra e sulla natica sinistra, rappresentavano rispettivamente un ragno e una farfalla. Quando apri la bocca per parlare, si vide che aveva un altro brillante (il terzo) incastonato sulla punta della lingua.

«Ci hanno detto che lavori di notte, in una discoteca, - disse la donna. - Pensavamo che la mattina dormissi, e che saresti venuta piú tardi».

«Ma no, - rise la visitatrice. - Di mattina faccio le mie commissioni e vado a spasso. Dormo nel pomeriggio». Si sedette su un divano e accavallò le gambe, inguainate in due calze a rete modello «piume di pavone». Per un attimo, si vide che sotto la minigonna non indossava niente. Domandò, con una punta di impazienza: «È qui, mia figlia?»

«Vive con noi», confermò la padrona di casa. E poi, in tono piú ufficiale: «È in affidamento presso la nostra famiglia, praticamente da quando è nata».

Entrò un uomo con una bambina piccola tenuta per mano.

La bambina poteva avere due anni o poco di piú, e l'uomo guardò la visitatrice, che gli strizzò l'occhio e gli disse: «Ciao!»

Poi la ragazza dai capelli verdi e rosa si alzò e prese in braccio la piccola. Le chiese: «Mi riconosci? Sono la tua mamma!»

La bambina si mise a piangere. «Non è vero che sei la sua mamma! - gridò il figlio dei padroni di casa. - Lei è la mia sorellina e tu sei una strega!» Si rivolse ai suoi genitori. «Non voglio che quella strega porti via mia sorella, - gli gridò. - Non dovete lasciargliela!»

«Non possiamo farci niente, - cercò di calmarlo la padrona di casa. - È sua madre, e il tribunale ha detto che può stare con la bambina un giorno alla settimana. Te l'ho già spiegato, e ti ho anche detto che la riporterà prima di sera. Non fare lo stupido».

«Di mamma ce n'è una sola, - disse l'uomo. - Noi abbiamo cercato di sostituirla per tutto questo tempo, ma una vera mamma non può sostituirla nessuno».

La ragazza sali su una Mini Cooper rossa, piena di fanali e di decalcomanie. Salutò con la mano i padroni di casa e partí. La bambina, al suo fianco, continuava a piangere, e lei allora le diede un pupazzo di gomma e delle caramelle che aveva tirato fuori dal cassettino del cruscotto. Le disse:

«Chissà come ti sei annoiata in tutto questo tempo. Poveretta! Io in quella casa non ci rimarrei nemmeno un'ora e nemmeno se mi pagassero, ma tu hai dovuto sopportare quei babbei per due anni, e non dev'essere stata una cosa piacevole. L'assistente sociale mi ha detto che lui, il tipo con la faccia da stupido, insegna in una scuola di questa città, e che anche la moglie dà lezioni di pianoforte. Due tipi cosí non scopano mai: chissà come hanno fatto a fare quell'unico figlio... Sí, lo so cosa vuoi dirmi. Alla tua età non si pensa ancora a questo genere di cose, ma se scopavano te ne accorgevi, puoi esserne sicura! Io, a due anni, volevo sempre stare nel lettone con papà e mamma, per vedere quello che facevano. Ma sí, piangi che ti fa bene. Hai bisogno di sfogarti. Dev'essere stato terribile abitare in quel posto, con tutti quei soprammobili e senza nemmeno un po' di polvere. Senza un po' di disordine. Immagino come ti sgridavano quando rompevi qualcosa... Adesso comunque hai finito di stare male e hai finito anche di annoiarti. Sei tornata con la tua mamma. Con me, credimi, non si è mai annoiato nessuno...»

Il sole era già alto sopra le loro teste e la Mini Cooper aveva imboccato l'autostrada che andava verso l'altra città, quella della discoteca e del centro commerciale dove la ragazza dai capelli verdi e rosa aveva l'abitudine di fare i suoi acquisti. La bambina, ormai, non piangeva piú e lei continuava a parlarle. Le diceva:

«Mi piacerebbe poterti dire chi è tuo padre. Me lo sono chiesta anch'io tante volte ma proprio non lo so, il nome di chi mi ha messo dentro lo spermatozoo che ti ha fatto nascere. A quell'epoca, io ero completamente fusa: fumavo, mi bucavo, insomma vivevo alla disperata. Andavo a letto con tutti quelli che mi davano i soldi per comperare la roba. Erano tanti! È andata bene che non ho preso l'Aids. Quando ho incominciato a disintossicarmi mi sono accorta che aspettavo un figlio e l'assistente sociale: quella di allora, non quella di adesso che è un po' meglio, ha detto che era un segno del destino. Che tu eri la mia salvezza e stronzate del genere. In realtà, lei e la strizzacervelli non volevano che abortissi perché ormai ero troppo avanti con la gravidanza. Dopo la tua nascita, il tribunale ha deciso che non potevo tenerti. Ti ha mandato a stare con i babbei e ci hanno pensato loro, e non io, a darti le pappe e a pulirti il culo. Adesso ho fatto la domanda per riprenderti con me ma il tribunale dice che ti posso vedere soltanto un giorno alla settimana e forse ha anche ragione: sei cosí piccola! A me sembrava che fosse passata una vita da quando eri venuta al mondo, invece sono passati solo due anni...»

Nel parcheggio del centro commerciale c'erano pochi posti liberi e la ragazza mise l'automobile al sole. «Tanto faccio presto», disse alla bambina. Cercò nel cassettino del cruscotto, se c'era ancora qualcosa per tenerla occupata. Non trovò niente e le disse: «Fatti un sonno. Io torno tra un quarto d'ora».

«Ti chiudo dentro perché non si sa mai. Ci sono in giro certe facce... Cosí tu sei piú sicura e io sono piú tranquilla anche per la macchina».

Poi la ragazza perse la nozione del tempo. Al processo, che si tenne qualche mese dopo questi fatti e a cui parteciparono, in lacrime, i genitori adottivi della bambina defunta, giurò di essere rimasta lontana dall'automobile per un tempo inferiore a un'ora. In realtà le ore furono quattro o piú probabilmente cinque, e furono le piú calde di quella calda giornata di luglio.

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Pagina 68

La morte di Marx


Parla il vicino di casa Il dottor Marx era venuto ad abitare in Riviera nell'anno che si è sposata mia figlia, cioè, mi lasci fare il conto... Cinque anni fa, nel duemila. Aveva comperato l'appartamento sopra il mio, di quattro stanze con doppi servizi. «Marx», naturalmente, era un soprannome. Sulla targa dell'appartamento c'era scritto il suo vero cognome, preceduto dal «von» e dal titolo di dottore; nel biglietto da visita, che ho ancora da qualche parte, è specificato anche il genere di laurea. Dottore in filosofia.

L'uomo che noi chiamavamo familiarmente «dottor Marx» per la sua somiglianza con il filosofo e rivoluzionario dell'Ottocento, veniva da una città della Germania occidentale, nella valle del Reno. Una volta mi raccontò che, nel suo paese, possedeva case e terreni; che aveva messo tutto in mano a un amministratore, e che la rendita di quelle proprietà gli permetteva di vivere con un certo agio, senza dipendere da nessuno. Un'altra volta che parlavamo mi disse: «La Germania è la mia patria, e bisogna voler bene alla propria patria. È un buon posto per nascerci, lo è un po' meno per viverci». Quella frase mi ha incuriosito, e avrei voluto saperne di piú del suo rapporto con il paese dov'era nato; ma lui si è limitato a scuotere la testa e a sorridere, come faceva sempre quando voleva chiudere un discorso.

Ci incontravamo quasi tutti i giorni, sulle scale o per strada. Ogni tanto mi regalava un suo nuovo libro, che io purtroppo non potevo leggere a causa della lingua. Libri di filosofia, di estetica, di critica musicale. Era uno di quei tedeschi innamorati del paesaggio italiano, dell'arte italiana e della cucina italiana, che vengono ad abitare sulla Riviera ligure. Un po' esteta, un po' filosofo, un po'... non saprei nemmeno io come definirlo. «Filantropo» certamente è troppo, ma insomma non gli dispiaceva aiutare gli altri. Qui a ***, in passato, ci sono stati molti stranieri famosi. Alla fine dell'Ottocento ci ha abitato il filosofo Friederich Nietzsche: un tipo strano, che ogni tanto dava in escandescenze. Anche il dottor Marx era un uomo che si faceva notare. Era alto e magro, con una gran barba grigia e una grande capigliatura grigia che gli arrivava fino alle spalle. Vestiva in modo eccentrico, con dei mantelli a ruota (d'inverno) e ampie camicie di seta (d'estate), che accentuavano la sua somiglianza con l'altro Marx. Lui stesso, del resto, quando telefonava ai negozi dove faceva i suoi acquisti, o al ristorante per prenotare un tavolo, diceva: «Sono il dottor Marx». Molti credevano che Marx fosse il suo vero cognome; e c'è stata un po' di confusione dopo la disgrazia, perché chi vedeva sul giornale la fotografia della vittima credeva che il nome, sotto, fosse sbagliato. Invece era quello giusto.

Che il mio vicino di casa fosse omosessuale lo dicevano in parecchi e io penso che avessero ragione, anzi ne sono sicuro: ma finché lui è stato vivo la faccenda non era cosí nota, come poi si è voluto far credere. Anche il fatto che avesse sempre attorno dei giovani, o addirittura dei ragazzi, poteva essere spiegato in vari modi e innanzitutto con la sua generosità, che lo spingeva ad aiutare chi ne aveva bisogno. Io li ho conosciuti quasi tutti, quei giovani, e posso dire di alcuni che erano dei veri delinquenti. Con loro, era il dottor Marx ad avere bisogno di aiuto... Ho visto il mio povero vicino zoppicante per le botte che gli dava un certo Pedro, ex pugile cocainomane; una volta ho perfino chiamato la polizia, perché credevo che Pedro lo stesse ammazzando. (Marx, però, non apprezzava quel genere di intromissioni nella sua vita privata, e quando poi ci siamo incontrati mi ha detto chiaro e tondo che dovevo farmi gli affari miei). Il suo primo convivente è stato un giovane tedesco, un «naziskin» con la testa rasata e la schiena e le braccia piene di tatuaggi. Quel tale non lo picchiava, ma quando venivano a trovarlo gli amici dalla Germania chiudeva Marx fuori di casa, e lo costringeva a dormire in albergo. Dopo il naziskin c'è stato un italiano campione di body-building, che però nonostante l'aspetto era una persona tranquilla, e con Marx è durato poco. A lui, purtroppo, piacevano soltanto i tipi violenti. Dopo il campione di body-building c'è stato un ragazzo albanese, un tipaccio che ha ammazzato in una rissa un suo connazionale ed è finito in galera. Poi ci sono stati un rivoluzionario curdo ricercato dai servizi segreti turchi, un italiano con problemi di droga, un polacco... Negli ultimi tempi il dottor Marx non aveva conviventi fissi. Ogni tanto venivano a cercarlo dei giovani mandati da chissà chi, che stavano con lui qualche giorno o, al massimo, qualche settimana; e lui aiutava tutti, dava soldi a tutti. Forse era inevitabile che morisse in quel modo, ammazzato da qualcuno che, di soldi, ne voleva di piú...


Parla l'amico italiano Il dottor Marx era un uomo straordinariamente generoso ed era anche una persona molto colta, che sapeva tutto, o quasi, su tutto. Ricordo di averlo conosciuto a Genova, nel foyer del teatro Carlo Felice, e di essere stato subito conquistato dalla signorilità dei suoi modi e dalla profondità della sua conversazione. Era un appassionato di opera lirica e un perfetto conoscitore della lingua italiana, che parlava con la «c» aspirata come i toscani. La nostra amicizia ha poi avuto modo di rafforzarsi quando lui è diventato un mio paziente.

[...]

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Pagina 164

6.

LEONID


Ho quarant'anni e sono un mostro. Vivo nel braccio della morte del penitenziario di ***, in fondo al fondo del fondo di questa immensa merda che sono gli Stati Uniti d'America. Ho ammazzato due bambini e non ho una possibilità su un milione di salvare il culo dalla sedia elettrica (noi, qui, la chiamiamo la friggitrice), perché sono condannato senza possibilità di appello e perché i mostri come me non sfuggono al loro destino, qualunque cosa succeda. Figuriamoci! Nessun governatore di nessuno Stato, e tanto meno di questo, mi farebbe la grazia; e nessuno al mondo gliela chiederà davvero. Nemmeno gli attivisti delle associazioni contro la pena di morte, che mi pagano gli avvocati, vogliono che io viva. (Gliel'ho letto negli occhi; lo so). Se avessi ammazzato due poliziotti, o due puttane, potrei ancora sperare di cavarmela; invece ho ammazzato due ragazzini, e la faccenda non è riparabile. La gente si commuove, per i ragazzini! L'idea di scappare non è realistica. Da quando esiste questo penitenziario, cioè da una trentina d'anni, c'è stato un solo tentativo di evasione, di uno che aveva preso in ostaggio una guardia. Quel tale è andato avanti per due giorni di trattative e di proclami alla stampa, finché un tiratore l'ha fatto secco e la sua storia è finita in quel modo. L'unica speranza, qua dentro, sono i rinvii. Ogni giorno che arriva a sera è un giorno in piú che io sono riuscito a vivere. Un giorno strappato alla morte: sissignore! Del resto, a ben rifletterci, anche se fossi fuori di prigione sarebbe lo stesso, perché si muore dappertutto e in mille modi, non c'è mica soltanto la friggitrice per spedirti nell'altro mondo. Io, quando voglio tirarmi su di morale, penso che se fossi libero forse mi sarei già spiaccicato su una strada, o mi sarei preso una malattia come l'Aids. Il mondo là fuori (mi viene da ridere mentre registro queste frasi, su un nastro che dopo la mia morte finirà in qualche fottutissimo archivio di criminologia) è pieno di pericoli che in un braccio della morte non esistono. Qui l'unico pericolo è la friggitrice: ma si può tenerla a bada con gli avvocati, almeno per un po' di tempo.


Io mi considero innocente: sissignore. Non da un punto di vista, diciamo cosí, tecnico, perché quei due poveri ragazzi, anche se li amavo, li ho ammazzati davvero ed è inutile che stia a negarlo. È inutile girare attorno alla verità. Mi considero innocente da un punto di vista, come dire?, morale. Ho fatto quello che ho fatto perché non potevo fare diversamente: tutte le mie esperienze e la mia storia portavano lí. L'ha detto anche il mio avvocato quando c'è stato il processo. Ha citato due versi di un antico poeta: «Colui a cui non sorrisero i genitori, né un Dio lo inviterà alla sua mensa, né una Dea nel suo letto». (Quei versi mi sono sembrati cosí belli, che me li sono fatti trascrivere e li ho imparati a memoria). Ha spiegato che la nostra vita si decide negli anni dell'infanzia, e che noi, con tutta la nostra volontà, non potremmo cambiarla. Chi, da piccolo, è stato picchiato, picchierà i suoi figli; chi ha fatto l'amore con un adulto, quando sarà grande andrà a cercare i bambini: è inevitabile. Ognuno di noi è come una locomotiva che non può saltare da un binario all'altro, ma deve seguire fino in fondo quello su cui è stata messa. Da quando mi trovo nel braccio della morte, io ho avuto molto tempo per riflettere su questi argomenti e credo, anzi: so, che il mio avvocato aveva ragione. Il presidente del tribunale, invece, non era d'accordo. Gli ha risposto: «Non incominciamo a far risalire tutto ad Adamo ed Eva. Atteniamoci ai fatti». E uno degli avvocati dell'accusa ha commentato, in tono ironico: «Stiamo parlando di due omicidi. O forse il collega della difesa vuole farci intendere che, chi ammazza, lo fa perché è stato ammazzato da piccolo?»


Quando io ero piccolo i tempi erano diversi e la pedofilia, come la chiamano oggi, non era considerata un crimine orrendo ma soltanto una faccenda un po' particolare, una di quelle cose che «si fanno ma non si dicono»: se non fosse stato cosí, forse anch'io sarei finito come le mie vittime, perché qualcuno si sarebbe preso paura e avrebbe voluto farmi tacere per sempre. Mio padre era un immigrato russo alcolizzato che lavava le automobili in una stazione di servizio alla periferia della nostra città; mia madre era una donna invecchiata prima del tempo, che aveva altri due figli di un precedente matrimonio e che lavorava come sguattera nel fast-food di certi suoi cugini ricchi, dove anch'io ho trascorso gran parte della mia infanzia. Avrei dovuto andare a scuola, come tutti: ma i miei genitori non si sono mai occupati della mia istruzione, e ho imparato a leggere e a fare qualche conto quando già ero adulto. Sono cresciuto per strada, insieme ad altri ragazzi come me, che facevano la mia stessa vita. Rubavamo quello che si poteva rubare nei cantieri, per avere qualche dollaro; facevamo qualche commissione per i clienti di un bar dove si vendeva la droga. La mia prima storia con un adulto l'ho avuta a nove anni; ma l'amore, quello vero, l'ho incontrato piú tardi, con un uomo che non ha mai voluto dirmi il suo vero nome e cosa faceva e che però, ogni volta che ci vedevamo, mi regalava qualcosa, o mi dava dei soldi. Io, allora, di anni ne avevo tredici. È un'età difficile, tredici anni. È l'età in cui i ragazzi vogliono sapere tutto e provare tutto, e hanno bisogno di avere vicino qualcuno che gli faccia da guida. Quel tale è stato la mia guida: a modo suo, naturalmente, e non come avrebbero voluto gli assistenti sociali che allora ci venivano per casa; ma, insomma, nella mia vita ha contato molto. Un giorno l'hanno trovato in un capannone in riva al fiume, con la testa spaccata da una pietra. Soltanto allora si è saputo che era un pittore famoso e un uomo con una doppia vita: un depravato, secondo ciò che poi hanno detto la radio e i giornali. (Lasciando intendere che aveva fatto la fine che si meritava). Invece io ho un buonissimo ricordo del mio amico pittore, e lo considero il mio vero padre. Chi, al processo, ha voluto fare dello spirito dicendo che non sono stato ammazzato da piccolo si sbagliava, perché una parte di me è morta allora insieme a quell'uomo.

A diciott'anni ero già stato in riformatorio e in prigione e avevo le tasche sempre piene di soldi, che guadagnavo rubando automobili. C'era un tale che mi telefonava quasi ogni giorno. Mi diceva: «Abbiamo bisogno di un'automobile della tale marca e del tale tipo, nuova o quasi nuova», e io gliela procuravo. Per quella faccenda delle automobili sono stato in galera piú di una volta, ma sempre per poco tempo. Poi ho fatto l'autista di due donne, madre e figlia, che giravano l'America con una specie di casa viaggiante fornita di tutte le comodità, e che erano due ladre professioniste. Io non ho mai partecipato ai loro furti e non so come facessero a prendere i soldi delle loro vittime. Probabilmente le ipnotizzavano. La loro specialità erano le persone anziane e le persone sole; ma, spesso, riuscivano anche a farsi consegnare l'incasso in un negozio o in un emporio isolato, senza minacciare nessuno e senza avere armi. Un giorno addirittura sono entrate in una banca, e ne sono uscite con una busta di plastica piena di banconote. Le persone derubate, quando si svegliavano, non capivano cosa gli era successo e impiegavano un po' di tempo per tornare in sé.

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