Copertina
Autore Gianni Vattimo
Titolo Magnificat
EdizioneVivalda, Torino, 2011, sempre più in alto 1 , pag. 112, cop.fle.sov., dim. 11,5x18x1 cm , Isbn 978-88-7480-148-0
PrefazioneReinhold Messner
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe biografie , montagna , filosofia
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Indice


  9   Prefazione di Reinhold Messner

 13   I
 17   La Natura e la sua salvaguardia
 23   La nostalgia
 25   II
 28   III
 32   IV
 36   V
 40   VI
 42   VII
 47   VIII
 50   IX
 55   X
 59   XI
 63   XII
 67   XIII
 71   Alpinismo e gioco
 74   XIV
 78   XV
 81   La sfida, il rischio
 89   XVI
 93   Alpinismo e omosessualità
100   XVII
103   La morte
106   XVIII
108   XIX
109   XX


 

 

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Pagina 23

La nostalgia



Nostalgia e ricordo sono costituenti essenziali di qualsivoglia rapporto umano con la natura, così come lo sono per le nostre esistenze dove costitutivo della vita adulta è la nostalgia dell'infanzia. Così accade per la natura e sappiamo bene che i montanari che abitano tutto l'anno i luoghi delle nostre vacanze o delle nostre pratiche alpinistiche li trovano duri e difficili e ambiscono alle comodità della pianura e della città.

Dunque accettare questa situazione significa riconoscere ai pezzi di territorio sottoposti a tutela che solo in quel modo la natura può offrirsi a un'esperienza umana e vanno dunque conservati con attenzione devota come deve accadere per la nostra eredità culturale. Non è pensabile restaurare e mantenere i centri storici o le borgate alpine esattamente com'erano agli inizi della loro storia, anche se nell'intervenire bisogna saperne mantenere i valori come tracce e ricordi dei quali non si può fare a meno.

È vano idealizzare un modello di rapporto perfettamente conciliato con la natura; occorre praticare nei suoi confronti la strategia della traccia e del ricordo, consci che si tratta appunto solo di una traccia e di un ricordo.

Luogo di silenzio, di meditazione appunto ci offre l'occasione di ritrovare un nostro essere vero, la nostra naturalità generica di semplici esseri umani, di pure creature. Non certo la nostra identità più profonda che è fatta anche di interazioni con la società e con i ruoli. Con il tempo feriale.

Un'occasione di domenica in cui non ci possiamo stabilire ma in cui possiamo tornare per trovare un ricordo di parziale libertà, scoprendo così di poterci sottrarre, almeno ogni tanto, al mondo dei giorni feriali.

Il mio rapporto con la montagna è sempre stato proprio questo e mi ha aiutato nella ricerca della libertà.

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Pagina 40

VI



Con Beppe, arrivati in cima, recitavamo il "Magnificat".

In piedi, davanti alle croci che si trovano quasi sempre in vetta, destinate - sacrifitio - ad attirare i fulmini, ma volte a ricordare il credo e il dovere del ringraziamento a chi raggiunge la meta.

Una volta, saliti in vetta al Viso dalla cresta Est, lo recitammo insieme, grati.

Con Alberto questo non accadeva.

Era un cattolico praticante, ma più restio. Credo non collegasse molto la sua esperienza religiosa a quella alpinistica.

Altri compagni di salite furono Giacomo Massè poi diventato valente ortopedico e Paolo Laguzzi la cui mamma aveva una drogheria e che ci riforniva a ogni gita di cibi squisiti.

In quegli anni incontrai un'altra persona che mi ha voluto molto bene e alla quale mi affezionai molto anch'io, monsignor Pietro Caramello, il cappellano della Sindone, che curava le edizioni di San Tommaso per la casa editrice Marietti.

Era un filosofo che si definiva "tomista tout court" e conosceva benissimo la filosofia neo scolastica.

Per me fu un Maestro, un direttore spirituale, poi anche un amico.

Con lui frequentai la montagna, intere settimane a metà tra gli esercizi spirituali, lo studio e la discussione filosofica, su alla Certosa di Pesio, sotto le cime dell'Argentera.

Discutevamo molto e io in quel periodo ero affascinato dal tema della guerra giusta piuttosto che da un'idea di "teologia" naturale che non riuscivo a conciliare con il mio essere di sinistra.

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Pagina 47

VIII



Facevamo una vita bellissima. Le esperienze che segnarono quei miei giorni le augurerei a qualunque ragazzo di oggi tra i quindici e i trent'anni.

Adesso se guardiamo indietro a quegli anni, siamo diventati sensibili e poniamo particolare attenzione agli aspetti considerati "repressivi" di quella educazione antiquata.

Io ricordo però che si stava bene.

Sentirsi bene fisicamente fa parte della vita spirituale, nel senso che la libertà è sempre possibilità. Se ti senti bene nel corpo hai maggiori possibilità e questo ti mette in condizioni di maggior libertà. Non è una forma di tracotanza, è un esercizio spirituale importante.

Tutto questo ha un nesso con la religiosità dell'alpinismo che non significa solo salire, conquistare, pensare che Dio lo si può incontrare in alto e non in basso, ma è mettersi in gioco, sottoporsi a uno sforzo per cercare il proprio limite.

Si chiama anche "ascesi": allora noi parlavamo ironicamente di "ascetica leggera".

Fu la salita della via Kuffner con Alberto Risso a segnarmi nella mente.

Partimmo nella notte dal rifugio e marciammo a lungo tra i seracchi al chiaro di luna. Fu per me un'esperienza religiosa, di immersione nella natura più vera, di coesistenza con il mondo, con la Terra, con le cose che è più difficile scalfire, per quanto si tenti di fare dell'antiretorica.

Un mio collega molto in gamba di cui ho la massima stima, Francesco Tomatis, un ragazzo di Cuneo ora professore a Salerno, ha scritto una metafisica della montagna.

Ma il suo mi pare più il diario di un'esperienza personale che un testo di riflessione speculativa.

Peraltro oggi spesso il termine filosofia viene utilizzato in maniera impropria; come quando si dice, per esempio, "l'attuale filosofia delle banche": è del tutto evidente che non ci si riferisce a grandi quesiti filosofici.

In ogni caso Tomatis, anche se a mio giudizio alle volte esagera un po', offre una visione della montagna e della pratica alpinistica lontane sia dal concetto del puro esercizio fisico, sia dall'approccio da "vecchia zia". Nonostante una volta durante una conversazione lo abbia un po' preso in giro, ritengo che le sue idee abbiano legittimità e un qualche fondamento.

D'altra parte molti esercizi di spiritualità oggi sono sempre più praticati, a cominciare dallo yoga, cercano di dare risposta al nostro bisogno di radicamento nella terra, nei muscoli, nel corpo.

Tutto questo è bello, lo trovo positivo.

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Pagina 71

Alpinismo e gioco



La montagna, l'alpinismo sono un po' anche gioco.

E qui entra in ballo un concetto filosoficamente importante che mette in contrasto gioco e lavoro, gioco e vita "seria" quotidiana.

Prima Marx, ma poi soprattutto Marcuse attribuiscono uno dei caratteri fondamentali dell'alienazione al fatto che il lavoro non possiede le connotazioni di libertà e gratificazione proprie del gioco, per questo motivo si stabilisce una vera e propria opposizione dell'uno con l'altro. In questa prospettiva il gioco si inserisce nelle radici stesse della nostra esistenza.

Nell'attuale società del capitalismo maturo che sembra non avere alternative, il termine gioco assume due connotazioni fondamentali: modello di libertà o modello di razionalità.

Il gioco come modello di libertà ipotizza una società libera dalle necessità, in cui il gioco non si distingue più dal lavoro. L'uomo liberato, senza divisione sociale del lavoro, diviene libero di realizzarsi integralmente progettando e praticando un'armoniosa composizione di attività diverse.

Nel secondo caso alla libertà si sostituisce, nell'essenza del gioco, la necessità di dotarsi di regole.

Regole d'uso per ogni linguaggio si scelga, fossi anche il gioco stesso, poiché nessun linguaggio è più vero degli altri e rispettandone le regole si evitano contraddizioni ed equivoci.

La società tardocapitalistica nella quale viviamo, fatta di molteplicità di ambiti diversi, ognuno regolato dalle proprie norme specifiche e dunque da una specifica razionalità, senza una ragione egemone, da cui le razionalità particolari dipendano, si adatta forse meglio al secondo modello.

Ma l'alpinismo, come trasgressione estrema ed estrema ricerca di libertà, forse aderisce di più alla prima.

Proprio per questo è un gioco pericoloso, in tutti i sensi...

A meno che si voglia considerare una terza dimensione, quella del gioco che applica la regola: "Non si fa sul serio" suggeritaci da Gregory Bateson: la caratteristica del gioco non è tanto il fatto di avere regole, quanto che quelle regole possono essere trasgredite con l'intesa di cui sopra.

Questo aspettolo si ritrova nel mondo animale e probabilmente appartiene anche ai nostri linguaggi; mi viene in mente se penso alle più recenti esperienze dell'arrampicata, del bouldering...

Quando invece il gioco si fa duro e gli alpinisti rischiano la pelle non posso fare a meno di pensare al "silenzio delle passioni" di Norbert Elias che scrive: «In un certo senso, la vita diviene più scevra di pericoli, ma anche più vuota di affetti e di piaceri».

C'è qualcuno che, evidentemente non si rassegna al silenzio delle passioni e alla necessità di piaceri estremi.

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Pagina 81

La sfida, il rischio



L'esperienza della sfida credo sia relativamente comune. Il bisogno di mettersi alla prova appartiene alla nostra essenza, come il bisogno di raggiungere i limiti estremi delle proprie forze. Per certi versi si tratta di quella che Nietzsche chiamò la "volontà di potenza" e che indicò come essenza stessa della vita.

Il senso dell'estremo appartiene a tutti coloro che per un qualsiasi motivo rischiano la vita per amore dell'intensità. Ritengo del tutto legittimo, al di fuori della retorica dell'eroismo, che qualcuno metta a repentaglio la sua vita alla ricerca del rischio estremo.

Nell'alpinismo ciò accade molto spesso senza alcuna giustificazione utilitaristica, ma solo per portare il limite un po' al di là di quello che è stato raggiunto fino a quel momento.

Le imprese alpinistiche di un Bonatti o di un Messner ci lasciano ammirati; lo siamo anche perché riconosciamo che dietro quelle imprese c'è un fattore forse dominante che è il coraggio della sfida, fondato su un lungo lavoro di preparazione psicologica, oltre che di allenamento fisico, dunque su un accumulo di forza nel senso più concreto del termine.

Nelle imprese alpinistiche non c'è alcunché di utile in sé; le tecniche e i materiali che si sono via via affinati, spesso studiati dai singoli appositamente per raggiungere quel risultato, non servono all'umanità, spesso nemmeno agli alpinisti della domenica, ma solo ad altri atleti che rilanceranno la sfida aumentando sempre più la difficoltà.

Tutti questi sforzi sono mirati unicamente all'essere attrezzati al meglio per affrontare il rischio delle pareti di roccia e di ghiaccio, sfidando la morte. La nostra cultura non biasima questo atteggiamento, anzi, in casi di questo tipo accetta senza obiezione l'idea del rischio fine a sé stesso preparandosi a tributare tutti gli onori a quell'eroe che ha vinto la sfida.

Di certo nessuno si sogna di biasimare l'irrazionalità o addirittura l'immoralità di queste imprese.

Siamo pronti a uscire da qualsivoglia parametro di razionalità, intesa come capacità di commisurare i mezzi ai fini, nello stesso momento in cui accettiamo il rischio estremo non giustificato da alcuna utilità individuale o sociale. D'altra parte è pur vero che anche il fine ultimo, il senso della vita, appare altrettanto impossibile da dimostrare in maniera razionale, essendo semmai un mezzo per fini ulteriori che non conosciamo. I valori e gli orientamenti morali che accettiamo non sono tali perché ne accertiamo una qualche utilità, ma perché sono le basi e i contenuti di quel dialogo sociale che rappresenta il senso della nostra vita. L'ambito di questi valori che danno senso alla vita è dunque un ambito estetico, come la bellezza dei paesaggi, delle montagne, delle vie di salita, dei corpi delle opere d'arte, delle stesse intense esperienze che portano con sé la scelta del rischio estremo.

Ecco perché accettiamo queste esperienze estreme pur non trovandone giustificazione razionale, collegata cioè direttamente a un significato tecnico che definisca come razionale qualcosa in quanto mezzo per un fine da raggiungere.

Nella cultura corrente il rischio estremo è giustificato qualora si muoia per qualcosa: per Dio, per la Patria, per il progresso...

Per fortuna il pensiero moderno ci ha insegnato a diffidare di qualsivoglia divinità domandi sacrifici umani, pur mantenendo il significato dell'eroismo che dunque si adatta alle diverse situazioni, compresi coloro che sfidano le vette più alte della Terra.

Gli alpinisti sono stati efficacemente definiti "conquistatori dell'inutile" dal grande alpinista e scrittore francese Lionel Terray.

Chi rischia la vita in montagna, se gli va male, muore per nulla. Ma se l'impresa è ardita sono riconosciuti come eroi.

La riflessione sul valore, il rispetto della vita come sopravvivenza, è oggi tuttavia sempre più complessa e per certi versi significativa. Ci sono situazioni nelle quali la vita può essere messa a repentaglio. Pensiamo per esempio alla lotta partigiana.

Si tratta di una riflessione che mette in conto la possibilità o meno di trasformare la storia in pura razionalità. Una rivoluzione - la Costituzione Italiana - nasce dalla resistenza. Non c'è stato un referendum in cui il quesito posto fosse: «volete o meno la Costituzione». La stessa Rivoluzione francese, che ancora muove il grande inizio delle modernità, non è mica nata da un referendum; prima tagliarono la testa al Re.

Non per una forma di eccesso di nietschianesimo, ma che non si possa immaginare l'idea della pura sopravvivenza come valore supremo mi pare singolare.

[...]

È un valore mettere a rischio la propria vita per salire una montagna?

Credo che possa essere messo nel conto dei valori anche solo vivere un'esperienza estetica della Natura o arrivare per primo in cima al Monte Bianco.

Non serve a nulla? Non c'è bisogno di giustificazione sociale. Un'attività a grande rischio come la Formula 1 viene giustificata come laboratorio per mettere a punto autovetture migliori per l'uso dei cittadini.

Ho qualche dubbio. Ma ammetto che ci siano attività ad alto rischio liberamente scelte, purché non mettano in discussione i diritti, la sicurezza e la vita di altri da sé.

Il dovere supremo è quello di caritas nei confronti degli altri.

Se non vengo meno a questo, posso anche decidere di suicidarmi.

Ognuno sceglie i valori per cui la vita vale la pena di essere vissuta.

Sono comunque giunto alla conclusione che la vita biologica non sia di per sé un valore supremo e dunque morire per un ideale supremo come la montagna può avere una sua ragione.

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Pagina 93

Alpinismo e omosessualità



Dichiarare la propria omosessualità è ancora oggi per certi versi difficile, anche negli ambienti più aperti, più comprensivi al di là della tolleranza; rimane sul fondo una certa curiosità che credo porti in seno qualcosa di morboso e vada oltre a quella che dovrebbe essere considerata la normale voglia di conoscere.

Allo stesso modo anche il rapporto tra alpinismo e omosessualità desta curiosità, domande anomale, richiesta di riflessioni che a "cose normali" non si chiedono.

Questo è il caso dell'alpinista francese Marc Batard, uno dei grandi dell'alpinismo contemporaneo, che ha fatto grandi cose, per esempio il record di velocità nella salita all'Everest.

A cinquant'anni Marc Batard si riconobbe omosessuale, abbandonando moglie e figli per andar a vivere con il proprio compagno. Abbandonò anche l'alpinismo estremo e la professione di guida. Si scatenarono, anche grazie al fatto che il suo libro autobiografico Via d'uscita lo adombra, le curiosità che vorrebbero l'alpinismo incompatibile con l'omosessualità.

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Pagina 106

XVIII



Mi sforzo di non considerare la mia vecchiaia come la vecchiaia del mondo.

Non dico: non c'è più religione! Penso che metà sia colpa del mondo, metà colpa mia. Faccio quello che Spengler consigliava alla civiltà, mi espando nello spazio.

Mi piace molto girare il mondo, sono stato un po' dappertutto; credo che ormai mi manchi solo l'Antartide.

Continuo a interessarmi di politica e religione. La filosofia, potremmo dire alla Clausewitz, è la prosecuzione della religione e della politica con altri mezzi.

Ho in progetto una Ontologia dell'attualità - il titolo è ricavato da Foucault - in cui intendo combattere la tendenza a fare dell'ontologia una filosofia descrittiva dell'esistente, dove si mescolano il peggio della filosofia analitica e il peggio della fenomenologia. È una lettura di destra della fenomenologia, da servo delle classi dominanti, quella che la riduce alla descrizione di come stanno le cose, per fondare delle normatività.

Per me l'ontologia è pensiero dell'essere che non si identifica con gli enti. È l'orizzonte della trasformabilità. Un orizzonte critico: pensare, a partire dall'attualità, come l'essere dovrebbe darsi.

Si tratta di una mia visione recente: solo con la lotta ci si salva.

Né farsi povero con i poveri, né fare il ricco che aiuta i poveri, ma lottare con i poveri: come Lenin.

Forse è per questo che torno a definirmi comunista, anche se la parola è del tutto fuori moda.

Per il resto credo che il mio pensiero filosofico rappresenti un'esperienza vissuta in cui riconosco una storicità che ne ha impedito la caduta in pura frammentarietà.

Ho connesso i miei ragionamenti in una sorta di continuità.

Per questo credo ci sia sistematicità anche nel pensiero debole, che è una forte teoria dell'indebolimento come via di emancipazione.

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