Copertina
Autore Thorstein Veblen
Titolo Il posto della scienza
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2012, incipit 58 , pag. 126, cop.fle., dim. 11x17,7x1,2 cm , Isbn 978-88-339-2314-7
Originale[1906]
CuratoreLidia Viano, Carlo Augusto Viano
TraduttoreBarbara Del Mercato
LettoreRossana Rosso, 2012
Classe sociologia , economia , filosofia , evoluzione , epistemologia
PrimaPagina


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Indice


  7 Introduzione
    (Francesca Lidia Viano e Carlo Augusto Viano)

    Il battesimo del Sud: Veblen e il «Kant club», 10
    Il socialismo e l'etica della distribuzione, 22
    Gli storici di Ithaca, 26
    Un marxista a Science Hall, 31
    Una «cronistoria biforcuta» della scienza, 42


    Il posto della scienza


 61 Il posto della scienza nella civiltà moderna

 99 L'evoluzione del punto di vista scientifico



 

 

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Pagina 7

Introduzione


«A quali condizioni la scienza è una vocazione nel senso concreto del termine?», si chiedeva Max Weber nel gennaio del 1919, all'esordio del suo celebre discorso sulla Scienza come vocazione. Agli studenti dell'Università di Monaco, che lo avevano invitato, Weber spiegava che la vocazione dello scienziato era, come quella dell'artista, «una devozione interiore alla causa, e questa sola». A differenza dell'artista, tuttavia, lo scienziato doveva piegarsi al «progresso» scientifico, la cui regola ferrea, da quando la scienza aveva divorziato dalla filosofia, non era più scoprire il «significato» della vita o del mondo, ma fornire «calcoli» per «controllare» l'una e l'altro. Questo significava - osservava Weber - che, emancipata dal controllo della filosofia, la scienza aveva assunto le sembianze di sapere strumentale e aveva reso il mondo «disincantato».

Che la scienza moderna fosse il frutto di un camuffamento era già stato notato. Con i due articoli sulla scienza qui proposti per la prima volta al pubblico italiano, Il posto della scienza nella civiltà moderna (1906) e L'evoluzione del punto di vista scientifico (1908), Thorstein Veblen aveva iniziato un genere nuovo, che consisteva nel guardare alla scienza e al suo ruolo nella società moderna dall'esterno del mondo scientifico e filosofico. Gli scienziati erano abituati a sentirsi criticare dai filosofi, i quali ritenevano che la scienza facesse uso di concetti che non sapeva spiegare. Veblen aveva una formazione filosofica, ma non era un filosofo; aveva una formazione naturalistica, ma non era uno scienziato. Era un economista e le sue incursioni nella letteratura filosofica, scientifica e storiografica lo avevano messo nella posizione ideale per analizzare la natura e la storia delle conoscenze scientifiche nel mondo antico e moderno.

In questa veste, nei due saggi in questione, Veblen attribuisce al sapere una storia «biforcuta»: dalla notte dei tempi, gli uomini hanno coltivato un sapere fattuale, che ha permesso loro di sopravvivere nella lotta darwiniana, e un sapere speculativo e «drammatico», che si serve di rappresentazioni, drammatiche appunto, o di narrazioni mitologiche, nelle quali si attribuiscono a divinità o entità metafisiche le cause che agiscono sulle cose, in un puro gioco intellettuale sollecitato dalla curiosità gratuita dell'uomo. Nel mondo moderno, il primato della tecnica non ha avuto l'effetto di cancellare il sapere puro, ma ha indotto gli scienziati e i dotti in generale a travestirsi da tecnici. Scrivendo dopo la Prima guerra mondiale, dalla quale la Germania, patria degli scienziati puri, artefici della sua forza militare, e dei filosofi che avevano cercato di fare i conti con la scienza moderna, era uscita sconfitta, Weber avrebbe accolto con sollievo il travestimento della scienza in sapere tecnico, meccanico. Si sarebbe affrettato ad abbozzare un'etica della responsabilità, per esortare i suoi ascoltatori a sottoporre le loro opzioni di valore al vaglio dei mezzi disponibili e delle conseguenze prevedibili, rinunciando anche alla convinzioni più profonde. Ma Veblen scriveva in un mondo diverso, il mondo in cui si era formata la scienza economica ottocentesca, animato da un progresso tecnico e produttivo senza precedenti e scosso dalle crisi di adattamento a quel progresso, che erano diagnosticate come crisi di sovrapproduzione o di sottoconsumo. Né mancava, tra gli economisti, chi temeva che quel progresso si arrestasse, chi pensava che andasse regolato, forse perfino indirizzato verso un equilibrio stazionario, chi riteneva che i consumi andassero limitati.

Per comprendere come Veblen avesse reagito al camuffamento degli scienziati in meccanici, bisogna dunque ripercorrere le sue avventure attraverso il mondo dei filosofi, degli storici e dei biologi post-darwiniani, ricostruire le sue amicizie con filosofi che diffidavano della scienza, con sociologi che credevano ciecamente nel progresso e con storici che volevano liberarsi dall'eredità di Hegel e di Carlyle; bisogna, infine, seguire i suoi studi di «socialismo americano ed europeo» e di biologia, per comprendere come, alla base della sua interpretazione della scienza, vi fosse un tentativo intellettuale ambizioso: rileggere Marx e Spencer alla luce di Darwin.

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Le letture socialiste avevano senza dubbio avuto un ruolo nel convincere Veblen a mantenere alcune delle posizioni «materialistiche» di Darwin all'interno dello schema evolutivo spiritualistico. In una serie di lezioni sull'economia marxiana e post-marxiana tenute a Harvard, nel 1906, solo un mese prima che Il posto della scienza uscisse sull'«American Journal of Sociology», Veblen avrebbe sostenuto che ogni tentativo di tradurre «i concetti romantici di Marx» nei «concetti meccanici di Darwin» era destinato a fallire, perché le «strutture» dottrinarie di Marx non erano «costruite dal loro artefice con gli elementi dei quali fa uso normalmente la scienza moderna». Questo, tuttavia, non aveva impedito a Veblen di tentare una qualche combinazione tra le due dottrine. Marx - sosteneva Veblen - si era sbagliato a credere che le istituzioni sociali fossero condizionate esclusivamente da «esigenze materiali» o da bisogni, perché l'azione di queste ultime sugli individui (come già aveva detto Spencer) era sempre mediata da «abitudini di pensiero». I marxisti avevano pensato che per dare una dimensione materiale all'hegelismo bastasse ridurre il pensiero a «desiderio e passione umana», mentre la scienza che Veblen aveva trovato a Chicago riconduceva il pensiero al piano «(letteralmente) materiale della stimolazione meccanica e fisiologica». Il problema consisteva nello stabilire la proporzione nella quale le «esigenze materiali plasmavano le abitudini di pensiero» o, meglio, agivano come stimolo delle risposte meccaniche e fisiologiche alle quali gli scienziati avevano ridotto il comportamento umano.

Veblen avrebbe risolto il problema negli scritti sulla scienza proposti in questo libro. Ma aveva tentato una prima, approssimativa soluzione del problema nella Teoria della classe agiata, dove aveva spiegato che le esigenze materiali avevano livelli diversi d'influenza sulle abitudini di pensiero nelle diverse classi sociali: permeavano ampiamente il modo di pensare delle classi più basse, le quali erano costantemente impegnate nella produzione di cose, mentre quasi non influivano sulle abitudini di pensiero delle classi alte, le quali si dedicavano tradizionalmente ad attività «non industriali». Negli stadi iniziali della civiltà, quando la divisione dei gruppi umani seguiva ancora le linee di genere prevalenti nelle comunità animali, l'unica divisione sociale conosciuta all'uomo era quella tra uomini e donne. Come i sansimoniani Veblen riteneva che le donne fossero le progenitrici delle classi proletarie e le depositarie dello spirito industriale: responsabili del lavoro agricolo sin dalle fasi pacifiche e selvagge della storia umana, esse avevano finito con l'essere relegate al lavoro manuale, quando l'aumento della ricchezza sociale aveva permesso ai maschi di dedicarsi ad attività più «nobili», come la caccia e la guerra. Era stato dunque l'aumento della ricchezza sociale che, nella transizione dall'età selvaggia all'età barbarica, aveva permesso agli uomini di sottrarsi alla pressione ambientale e di creare istituzioni che opprimevano e vincolavano le donne, relegandole al lavoro manuale. La lotta di classe, in altre parole, continuava la lotta dei sessi e la lotta per la sopravvivenza: era un modo con il quale una parte del corpo sociale creava istituzioni (leggi, mercati, università) per sfruttare l'altra e sottrarsi alla pressione ambientale.

Questo era il modo nel quale Veblen aveva riproposto il sistema di Marx a un pubblico post-darwiniano. Ma Veblen aveva ben altra ambizione: sulle macerie del kantismo e del positivismo intendeva erigere una nuova «cronistoria» delle conoscenze umane. Per farlo, tuttavia, era necessario colmare un vuoto lasciato aperto dalla Teoria della classe agiata, ossia spiegare il meccanismo attraverso il quale il medesimo ambiente genera modi di pensare diversi nelle diverse classi sociali. Forme differenti di accesso alla conoscenza, aveva detto Veblen nella Teoria, hanno un ruolo fondamentale nel creare e mantenere le divisioni di classe: il lavoro mette le donne in contatto con materiale inerte, mentre la caccia mette gli uomini in contatto con una natura animata, che ispira e incoraggia interpretazioni della natura di tipo animistico. Il lavoro industriale del proletariato era la continuazione del lavoro femminile, mentre la scienza era la prosecuzione della caccia e della guerra. Di più Veblen non diceva, ma suggeriva la possibilità di una forma «biforcuta» di sapere, che contrastava con le storie unitarie raccontate da Kant e dai positivisti. Di questo sapere «biforcuto» Veblen avrebbe cominciato a parlare nel 1906, due anni prima di intrattenere il Kosmos Club sul ruolo della scienza nelle società moderne.


Una «cronistoria biforcuta» della scienza

Veblen aveva imparato a diffidare della scienza dai suoi maestri filosofi, ma aveva sempre evitato di prendere di petto la questione, limitandosi ad applicare all'economia e alla sociologia la visione del soggetto emersa dalla critica del sapere scientifico. Quest'operazione lo aveva messo nella condizione di intraprendere un progetto ancora più ambizioso, ossia quello di riscrivere la storia marxiana dell'evoluzione sociale dal punto di vista del soggetto neokantiano e neodarwiniano. Ne era emersa la Teoria della classe agiata, che ricostruiva il processo degenerativo, a causa del quale lo spreco e il sopruso dell'età moderna si erano sostituiti all'industriosità dell'età selvaggia. Veblen aveva letto troppo Comte e troppo Spencer per attribuire allo sviluppo tecnico la responsabilità del declino sociale ed economico e, d'altra parte, la legge marxiana dell'«accumulazione capitalistica», che vedeva nello sviluppo tecnologico un modo di sfruttare il lavoro del proletariato, lo lasciava perplesso. Ma Veblen non era neppure un positivista o un entusiasta del progresso tout-court: non era Comte, il quale aveva visto nella scienza il precipitato intellettuale delle conquiste tecniche dell'umanità, una sorta di sapere perfetto modellato sulla meccanica analitica e applicabile a ogni sfera della vita sociale; ma non era neppure un pragmatista come Dewey o William James, i quali avevano abbandonato la prospettiva strettamente teorica di Comte solo per mettere in luce la continuità tra le applicazioni pratiche della meccanica e le motivazioni pratiche del sapere scientifico. Sin dalla Teoria della classe agiata Veblen aveva mostrato che le attività meccaniche erano il frutto di vicende che poco o nulla avevano che fare con le attività scientifiche: le une erano nate dagli espedienti con i quali donne e classe operaie avevano risposto alla pressione ambientale, partendo da semplici manipolazioni di materiale inerte, le altre erano passatempi da classe agiata, attività con le quali i potenti e i ricchi esibivano la propria «prodezza» e la propria indipendenza dal lavoro manuale.

Alla base della Teoria vi era dunque una «visione» duale del sapere, alternativa alle interpretazioni unitarie fornite da positivisti e pragmatisti. Ma, per trasformare questa visione in una teoria della conoscenza vera e propria, mancavano ancora delle tessere. Come Veblen aveva spiegato agli studenti di Harvard nel 1906, qualunque teoria che ambisse a spiegare il funzionamento delle istituzioni doveva essere in grado di ricondurre quel funzionamento al piano «(letteralmente) materiale della stimolazione meccanica e fisiologica». Questo era il progetto che spinse Veblen, tra il 1906 e il 1908, a scrivere gli articoli sulla scienza qui proposti (Il posto della scienza nell'età moderna e L'evoluzione del punto di vista scientifico): ricondurre le dinamiche del sapere tecnico e scientifico ai loro meccanismi fisiologici di base.

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Pagina 54

Quando Weber avrebbe ripreso il «genere letterario» cui questi saggi di Veblen appartengono, la Germania era uscita da una guerra disastrosa e sembrava sul punto di finire come l'«arretrata» Russia, travolta da una rivoluzione. Era l'esito della storia biforcuta, ricostruita da Veblen? Weber non lo credeva e si affidava alla razionalità della scienza, anche se, invocando la vocazione degli scienziati, sembrava riecheggiare qualcosa dell'ascendenza religiosa e sacerdotale del sapere puro, esplorata da Veblen. Quest'ultimo non aveva davanti agli occhi il dramma della Germania del 1919, ma aveva troppo riflettuto sulla scienza e la sua storia per non rendersi conto che la sua vicenda si inseriva in processi dinamici e creava instabilità. Glielo avevano insegnato gli scienziati stessi, da Darwin a Mach, che avevano abbandonato l'immagine ottimistica e semplice del sapere scientifico, di cui si erano serviti i positivisti per tracciare un percorso lineare della storia umana. Darwin e Mach erano scienziati che avevano vissuto la crisi della meccanica classica, della geometria euclidea, che avevano dovuto fare i conti con le forze che Maxwell aveva spogliato della loro aura metafisica, che si erano posti in termini nuovi i problemi della conservazione di ciò che costituisce una specie vivente. Anche una parte dei filosofi li avevano seguiti: il travaglio per sostituire la Critica della ragion pura con la Critica del giudizio, vissuto in prima persona da Veblen, faceva parte del tentativo di costruire un'immagine nuova della natura e del sapere deputato a conoscerla.

Weber sarebbe morto troppo presto per vedere smentito il suo appello alla vocazione degli scienziati: da Heidelberg, la sua stessa università, e dalla vicina Friburgo sarebbe partita un'offensiva filosofica contro la scienza, che cancellava la natura duale e biforcuta della cultura, riduceva la scienza alla tecnica, travolgendo sottigliezze e travestimenti, che costituivano il meglio della complessa analisi vebleniana. Neokantiani sottili e scienziati agguerriti avevano mostrato quanto fosse difficile imporre quadri concettuali alle cose; approfittando di quella che sembrava una debolezza della scienza, si invocava direttamente l'essere, come se fosse possibile fargli le domande eluse dai tecnici e dagli scienziati. Il sapere tedesco, cui andava riconosciuto il primato, non aveva nulla a che fare con le pazienti ricostruzioni, fini a se stesse, degli scienziati: si poteva rispolverare Nietzsche, per uscire dalle biblioteche camuffate da laboratori.

In Germania la rottura del disequilibrio biforcuto finì tragicamente, con la repressione della «scienza tedesca». Anche l'Italia aveva vissuto l'irruzione sulla scena culturale della figura nuova dello scienziato, quale si era venuto configurando tra Ottocento e Novecento. Non soltanto la cultura scientifica si era sviluppata e affermata sul piano internazionale, ma gli scienziati avevano preteso di far sentire la propria voce al di fuori delle rispettive specialità, nella costruzione della cultura nazionale e nella progettazione di una scuola moderna. Erano scienziati pronti a collaborare con i filosofi, ma non a riconoscere loro una posizione preminente. Personaggi come Vito Volterra o Federigo Enriques ritenevano di poter dire la loro sulla scuola, sulla diffusione del sapere, sulle sottili questioni concernenti la conoscenza umana, cose sulle quali da sempre i filosofi avevano esercitato una specie di monopolio. Era quanto bastava per formulare contro di loro l'accusa di positivismo, senza tener conto del fatto che essi fossero ben consapevoli di quanto era cambiato dai tempi di Comte. Ma quando, nel 1911, Enriques organizzò un congresso internazionale di filosofia a Bologna, coinvolgendo anche i filosofi che vedevano in questa iniziativa un oltraggio al primato della filosofia, Croce e Gentile fecero di tutto per screditare gli scienziati presuntuosi. Poi le cose finirono male anche in Italia e gli ingenui difensori del primato della filosofia, che si rifacevano alla filosofia tedesca della prima metà dell'Ottocento, sono finiti travolti dalla filosofia profetica della Germania novecentesca e dalla riesumazione di Nietzsche. La «biforcazione» di Veblen, se non se ne capiscono gli equilibri instabili e le mascherature, provoca rotture. L'economia ottocentesca, che Veblen aveva studiato, aveva vivo il senso delle crisi e delle instabilità, che in questi studi Veblen ha cercato di far valere anche nella ricostruzione della storia intellettuale dell'umanità.

In Germania la rivoluzione non sarebbe scoppiata e la funzione salvifica della scienza, invocata da Weber, sarebbe stata presto dimenticata. Gli scienziati che, sulla scia di Darwin e di Mach, avevano cercato di comprendere la natura del sapere che cresceva tra le loro mani, avrebbero costruito la scienza contemporanea, una realtà più varia e complessa di quanto neokantiani, positivisti e pragmatisti avessero sospettato. Molti filosofi avrebbero impugnato uno dei rami del sapere biforcuto e avrebbero dato voce ai rimpianti per i miti uccisi nei laboratori, per intraprendere una lunga distruzione della razionalità scientifica, alla ricerca di una società semplice, dove le figure create dai travestimenti sociali non ci fossero più.

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Il posto della scienza nella civiltà moderna


Il cristianesimo moderno è comunemente ritenuto superiore a ogni altro sistema di vita civile. Le altre epoche e le altre aree culturali vengono descritte, per contrasto, come inferiori o più arcaiche o meno mature. Si afferma che la cultura moderna sia superiore nel complesso, non che essa sia la migliore o la più elevata sotto ogni riguardo e in ogni punto. La sua, infatti, non è una superiorità generale ma una superiorità interna a una gamma molto limitata di attività intellettuali, oltre la quale la civiltà dei popoli occidentali moderni è sorpassata da numerose altre civiltà. La cultura moderna, tuttavia, eccelle in modo caratteristico in qualcosa che ha una natura tale da assegnarle un decisivo vantaggio pratico su tutti gli altri tipi di cultura, che sono venuti prima o che si sono trovati a competere con essa, e si è dimostrata adatta a sopravvivere nella lotta per l'esistenza rispetto alle civiltà che non hanno i suoi tratti distintivi.

Tratto peculiare della civiltà moderna è la sua concretezza. Essa ha in sé molti elementi di altra natura, che però non le appartengono in modo esclusivo, né caratteristico. I popoli civili moderni hanno una particolare abilità nel comprendere a fondo e in modo impersonale e spassionato i fatti materiali con i quali l'umanità deve confrontarsi. L'apice della crescita culturale si situa a questo punto. Rispetto ad esso, il resto di ciò che costituisce il progetto culturale è un'aggiunta o, al massimo, un sottoprodotto del modo pratico di avvicinarsi ai fatti. Questa caratteristica potrebbe essere una questione di abitudine o una dotazione razziale, o magari il frutto di entrambe le cose, ma, comunque si possa spiegare la sua prevalenza, la conseguenza immediata ai fini della crescita della civiltà è la stessa: una civiltà dominata da questa capacità di comprendere i fatti in modo concreto deve prevalere su qualsiasi sistema culturale privo di tale elemento. Questo aspetto della civiltà occidentale culmina nella scienza moderna e trova la sua massima espressione materiale nella tecnologia dell'industria meccanica. Qui la cultura moderna è creativa e autosufficiente e, quando queste cose sono date, il resto di ciò che può apparire tipico della civiltà occidentale ne è un esito prevedibile. Il corpo della conoscenza fattuale è il nucleo della struttura costitutiva di quella cultura: qualsiasi cosa non sia in linea con queste opache creazioni della scienza è un'intrusione nella struttura della modernità, un residuo o un prestito del passato barbarico.

Altre epoche e altri popoli eccellono in altre cose e sono note grazie ad altre virtù. Nell'arte creativa e nel gusto critico il talento incerto della Cristianità può al massimo mettersi sulla strada aperta dagli antichi greci e dai cinesi. Quando si parla di abilità tecnica, la maestria degli artigiani del Medio e dell'Estremo Oriente si trova senza dubbio a un livello superiore rispetto alle migliori realizzazioni europee vecchie e nuove. Nella creazione di miti, folklore e simbolismo occulto molti barbari primitivi hanno fatto cose che i nostri preti e poeti odierni non saprebbero proporre. Per intuito metafisico e versatilità dialettica sia molti orientali sia gli scolastici medioevali superano senza difficoltà i traguardi del Pensiero Nuovo e dell'alta critica. Una sensibilità acuta per le verità religiose e una fede illimitata nelle osservanze religiose rendono i popoli di India e Tibet e i cristiani del Medio Evo dei veri maestri al paragone con la fede dei tempi moderni, anche nelle sue espressioni migliori. Nell'acume politico, oltre che nella lealtà bruta e irragionevole, più di un popolo antico dimostra capacità cui nessuna nazione civile moderna potrebbe aspirare. Nell'odio e nella sfrenatezza bellica le schiere dell'Islam, gli indiani Sioux e i «pagani del mare del Nord» hanno alzato la posta a livelli irraggiungibili persino per il più accanito signore della guerra del mondo civile.

Agli occhi dei moderni uomini civili, in particolare durante i loro periodi di sobria riflessione, tutte queste cose nelle quali le civiltà barbariche si distinguono appaiono di dubbio valore, tanto che si richiede un buon motivo per non disprezzarle - mentre non succede lo stesso quando si parla di conoscenza di fatti. Costruire stati e dinastie, dar vita a stirpi, mantenere feudi, propagare credi e creare sètte, accumulare fortune e consumare il superfluo... nel tempo si è pensato che tutte queste cose giustificassero di per sé qualunque sforzo, eppure agli occhi dell'uomo civile moderno esse appaiono futili al paragone con i traguardi della scienza. Con il passare del tempo esse vacillano nella stima degli uomini, mentre i traguardi della scienza sono tenuti in sempre maggiore considerazione. Su questa base poggia saldamente l'odierna convinzione che «l'aumento e la diffusione del sapere tra gli uomini» siano buoni e giusti in modo imprescrittibile. Se si considera questa affermazione in una prospettiva che sgomberi il campo dalle banali difficoltà pratiche, si vedrà che essa non è messa in discussione entro l'orizzonte della cultura occidentale, e che tra le convinzioni dell'umanità civilizzata non c'è ideale culturale altrettanto indiscusso.

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Pagina 66

Alle prese con i problemi psicologici e la teoria dell'educazione, la psicologia attuale è quasi unanime nell'affermare che: tutto l'apprendimento è di carattere «pragmatico», il sapere è azione rudimentale sommariamente rivolta verso un fine; che tutto il sapere è «funzionale»; che il sapere ha la natura dell'uso. Questo, naturalmente, è solo un corollario, subordinato al postulato principale degli psicologi di oggi, il cui slogan è «l'Idea è essenzialmente attiva». Non c'è motivo di contestare questa scuola di psicologi «pragmatici». Forse il loro aforisma non contiene tutta la verità, ma quanto meno si avvicina più di qualunque formulazione precedente al cuore del problema epistemologico - lo si può affermare con fiducia perché, tanto per cominciare, l'assunto di questa scuola risponde ai requisiti della scienza moderna. È un concetto che la scienza dei fatti può effettivamente usare ed è costruito in termini che sono in ultima analisi di carattere impersonale, per non dire tropistico, proprio come la scienza richiede insistendo sull'opaco rapporto di causa ed effetto. Mentre il sapere si costruisce in termini teleologici, in termini di interesse e attenzione personali, questo atteggiamento teleologico può ridursi a prodotto di una selezione naturale non teleologica. La propensione teleologica dell'intelligenza è un tratto ereditario, depositato nella razza dall'azione di forze che non mirano a nessun fine. I fondamenti dell'intelligenza pragmatica non sono pragmatici, né personali, né sensibili.

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