Copertina
Autore Nichi Vendola
CoautoreCosimo Rossi [intervistatore]
Titolo La fabrica di Nichi
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010, Contemporanea , pag. 126, cop.fle., dim. 14,4x21x0,9 cm , Isbn 978-88-7285-623-9
LettoreDavide Allodi, 2010
Classe politica , paesi: Italia: 2010 , regioni: Puglia
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Indice


Introduzione - Ricominciare                      7

Cap. I   - Verso Sud                            21

Cap. II  - Il personale è politico              47

Cap. III - Il politico è personale              79

Cap. IV  - Rifabbricare il futuro               97



 

 

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Pagina 41

MAL DI SANITÀ


Detto tutto il buono, in questi cinque anni c'è anche qualcosa che ti rimproveri dal punto di vista del governo della Puglia?


Una cosa fondamentalmente. Non essere riuscito a tenere in equilibrio il bisogno soggettivo di conoscenza della macchina del potere e la spinta sociale al protagonismo democratico. I comitati Vendola erano una rete capillare di democrazia. Avrebbero potuto essere un alleato prezioso nell'opera di bonifica dei sistemi di potere, per esempio. Ma io, non avendo governato mai neanche un condominio, ero così concentrato nel tentativo di conoscere e di capire che me ne sono lasciato completamente assorbire.

Anche perché sono entrato in un palazzo pieno di insidie e di agguati. E una parte rilevante dei funzionari di quel palazzo lavorava alacremente giorno e notte per mettermi in difficoltà, per costruire degli intralci e degli inciampi. Dal giorno dopo che sono diventato governatore, per esempio, nella sanità qualcuno ha costruito puntualmente disservizi; per poi replicare alle lamentele dei cittadini dicendo di prendersela col presidente, quando io avevo fatto appena in tempo a insediarmi e ancora non governavo praticamente niente.

Sia come sia, per me l'ansia di diventare una persona capace di governare concretamente è stata soverchiante. Anche perché nel mondo politico si scommetteva sul fatto che alla prova della realtà il poeta Vendola si sarebbe depresso e avrebbe mollato rapidamente la barca. E siccome io tra i tanti difetti ho quello di essere follemente orgoglioso, su questo punto mi sono proprio dannato l'anima: dovevo cercare di capire. E naturalmente il capire collettivo, il capire con un protagonista democratico largo, poteva essere un capire molto più acuto e articolato di quanto non è stato il mio solitario capire, perché talvolta non ho capito. La profondità del guasto in alcuni settori per me non era pienamente consapevole. Eppoi io avevo le mie ossessioni che inizialmente mi assorbivano quasi completamente...


Ossessioni relative alle priorità nell'azione amministrativa e di governo? Quali in particolare?


La mia prima ossessione era quella dell'urbanistica e del governo del territorio: dove i danni prodotti dalla speculazione, dall'abusivismo selvaggio e pure dalle distrazioni criminali delle istituzioni sono danni che continuiamo a pagare tutt'ora. L'altra mia ossessione era la formazione professionale. Un ambito in cui si erano rubati fino all'ultimo centesimo, dove erano finiti pressoché tutti quanti in galera e dove ci siamo trovati al cospetto di una gigantesca cloaca istituzionale. Ecco, rispetto a questa vicenda della formazione professionale penso francamente di aver prodotto il massimo grado di cambiamento e di moralizzazione.


La sanità, invece? Dove dicevi che dal primo giorno di legislatura sono stati costruiti artatamente disservizi per contrastare la tua presidenza e che è stata un ambito rispetto al quale sono rimasti accesi a oltranza i riflettori della magistratura e dei media nazionali?


La sanità è un problema particolarmente delicato e complesso, con una sua specificità unica. Questo perché la politica è un pezzo dei tanti problemi della sanità. Ma il corporativismo professionale e anche la compromissione della classe medica nei circuiti affaristici sono impressionanti. Lo si può rilevare abbastanza distintamente dalle inchieste.

Ma soprattutto la sanità è il sistema più sfuggente a qualunque conoscenza approfondita e circostanziata. Non io presidente, non l'assessore regionale, ma il direttore della Asl non sa quel che accade in uno degli ospedali di quella azienda sanitaria, come si spendono i denari, quali sono le filiere di potere e di comando. È difficilissimo poter disporre di un quadro veramente informato e dettagliato. Proprio perché il sistema è stato frammentato in milioni di pezzi e ogni pezzo è stato buttato nei fondali di un mare magno, in modo tale che nessuno potesse conoscerlo effettivamente. Oggi la prima operazione di cambiamento del sistema sanitario è soprattutto riportarne tutti i pezzi in superficie, farli riemergere.


E questi primi cinque anni di amministrazione non sono stati sufficienti ad avviare in modo efficace questo procedimento?


Oh, ma il centrodestra ha governato dieci anni la Puglia! E io, dopo il primo mese che governavo, tutte le criticità drammatiche relative al sistema sanitario e ai suoi problemi accumulate in dieci anni me lo sono viste scaricare addosso come da una ruspa. Io ho trovato una sanità così fatta: le trappole per i topi nelle cucine degli ospedali; le Tac che potevano andar bene per un museo archeologico; neanche una Pet; niente per gli ictus, a partire dalle stroke unit (reparti specifici dedicati alle emergenze celebrovascolari, ndr); nessun ospedale che soddisfacesse le messe a norma, né nelle cucine né nei reparti di degenza né nelle sale operatorie. Insomma: una condizione complessivamente difficile e degradata, con alcuni punti di eccellenza.

Oggi, invece, in Puglia abbiamo un parco infrastrutturale che credo sia all'avanguardia, perché abbiamo investito potentemente nella offerta tecnologica migliore. Anche perché il nostro nemico principale è la mobilità passiva, cioè il fatto che i pugliesi si vanno a curare in Lombardia.


Dovendo spiegare la vicenda della sanità pugliese sia dal punto di vista giudiziario che politico a chi ne sia pressoché del tutto all'oscuro, da dove cominceresti?


Per cominciare bisogna tener presente che il grosso delle inchieste riguardano gli anni di amministrazione del centrodestra: sono anni molto importanti per la politica.

Al centro del sistema dell'imprenditore Gianpaolo Tarantini e del fratello Claudio (che avrebbero agito illecitamente per garantirsi la fornitura di protesi sanitarie alle Asl, ndr) risulta esserci un personaggio di nome Tato Greco, che è anche il responsabile del partito regionale costruito dall'ex governatore Raffaele Fitto. Il ministro in carica degli affari regionali, infatti, ha un partito personale che si chiama "La Puglia prima di tutto" e che, per inciso, è anche quello che ha candidato Patrizia D'Addario alle ultime comunali. Salvatore, detto Tato, Greco è indagato, assieme a un'altra ventina di persone, per associazione a delinquere e falso, in quanto ritenuto socio occulto di Tarantini (al quale avrebbe fatto da garante politico utilizzando la propria posizione di consigliere regionale per persuadere le aziende sanitarie a fornirsi dei prodotti della società di Tarantini).

Tato Greco è il rampollo da batteria della borghesia cittadina barese: nipote di Matarrese per parte di madre, mentre il padre, Mario Greco, è stato un giudice e un senatore della repubblica di Forza Italia. Consigliere regionale per due mandati, nella scorsa legislatura è stato eletto con l'Udc: uno dei più giovani deputati della storia repubblicana. Benché sia anche quello che, all'interrogativo delle Iene sulla data di scoperta dell'America, ha risposto Quaranta. Hai presente?


Come no! Certo. È quello intercettato dalla Iena Sabina Nobile davanti a Montecitorio. Classe 1977. Stirato a lucido. Che, prima di tirare a sorte un 40 per la scoperta dell'America e di buttare a mare la rivoluzione francese in qualità di "sanguigna guerriglia che perciò ha creato sempre dei problemi" avvenuta "nel seicento", s'era pavoneggiato d'essere, insieme alla sua Udc, tra "quelli a cui piacciono le donne" (per chi non l'avesse visto, 4:05 di cult su http://www.youtube.com/watch?v=wOmwlgRY4Mk)


Bé, questo Tato Greco dall'età di vent'anni è uno degli esponenti più aggressivi di quell' homo novus berlusconiano a metà tra politica politicante e affarismo d'impresa. È un giovane che considera il denaro, e pure le donne e la cocaina, come strumenti per avvicinare i potenti e costruire un sistema di relazioni che, in primo luogo è gratificante sul piano psicologico e del prestigio, in quanto ti fa sentire potente tra i potenti, in secondo luogo serve ad aprire tutte le porte, per rendere più facili i percorsi affaristici, più o meno leciti e talvolta espressamente illeciti, che si possono realizzare in un settore lucroso come la sanità. Quindi, quei dieci anni del centrodestra sono stati molto importanti per quel che ha riguardato la degenerazione e la contaminazione del sistema sanitario regionale.

Devo dire che nei verbali di Tarantini c'è anche un riferimento che mi riguarda personalmente e che mi ha fatto abbastanza piacere. Lui dice che la direttrice generale della Asl di Bari, la dottoressa Lea Cosentino, era letteralmente terrorizzata dall'idea che io potessi intuire qualcosa di illecito nei suoi comportamenti.


È la stessa Cosentino che ti ha chiamato in causa nelle sue deposizioni davanti ai magistrati rivolgendoti delle accuse?


No, non è così. Anzi, mi sta a cuore che si faccia completa chiarezza su questo aspetto, perché io non sono mai stato accusato di niente da nessuno.


Salvo il fatto che, nei giorni più caldi dell'inchiesta e della tensione col Pd sulle primarie, qualche venticello che ti voleva nel mirino dei magistrati per l'appunto è spifferato proprio dai telefoni degli alleati. Finché a un certo punto il tormentone della sanità ha sfibrato anche te...


La questione che mi riguarda personalmente è presto detta. I miei problemi sono legati al fatto che mi riesce di far tornare dagli Stati Uniti uno dei massimi luminari della ricerca e della terapia sulle malattie neurogenerative, il professor Giancarlo Lodroscino, di origine barese e docente ad Harvard. Questi naturalmente partecipa a un concorso, sennonché lo perde. Al che io chiamo l'assessore chiedendo lumi su come abbia potuto perdere il concorso con tutti i titoli che aveva. Per questa telefonata una pm intendeva indagarmi per concussione.

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Pagina 64

L'interrogativo che viene da porsi, e da porti, è per quale motivo la rivelazione del cristianesimo sulla croce che descrivi non si possa considerare un'allegoria del dolore della condizione umana e della sua salvezza filosofica, anziché un messaggio di salvezza oltremondana. Dal momento che riconduce sempre al rapporto dell'uomo con se stesso, la sua solitudine, la sua umanità mortale e le sue tenebre profonde.


Il tema va benissimo. Solo che si sovrappone a quello che Roland Barthes avrebbe raccontato così: «Mi spoglio di ogni sapere e mi abbandono». Di fronte all'inseminazione divina di Maria, di fronte alla pista di Betlemme, ai vagiti del bambino nella grotta, alle peripezie del Nazareno, alla croce, al sepolcro, alla pietra che rotola, all'ascensione al cielo, al mistero della resurrezione, io mi spoglio di ogni sapere e mi abbandono.

Questo è. Perché è una metavisione. Non è una nozione teorica, è un'emozione che mi sospinge oltre. Se c'è una nozione teorica che mi aiuta, perché mi riacchiappa mentre mi perdo, è la nozione di ulteriorità. Il punto di riflessione più importante, più impegnativo, per me, è l'immagine dell'ostia consacrata: «Fate questo in memoria di me». Un'immagine potentissima: la memoria del dolore, del sacrificio è anche indicazione dell'economia della salvezza.

Ma ripeto, è una riflessione meno importante della flessione: della flessione che provo, che vivo, che sento annunciarmi passi, pensieri, gesti e cose inesplicabili. Quello che mi afferra e che mi stritola è la follia della croce, quella che San Paolo chiamava «la follia della croce».


E le follie fatte invece in nome della croce, a partire dalla convenzione forzata?


Lo scandalo del cattolicesimo è stato di aver costruito, capovolgendo la profezia cristiana e la verità del Vangelo, un suo universo discriminante; mentre io penso che il carattere eversivo del cristianesimo stia nella sua dissipazione del corredo delle discriminazioni. La conversione che vive nel Vangelo non è un modello normativo, o un'ipotesi di proselitismo, o una pedagogia: è l'annuncio di una buona novella. È propria un'altra cosa.


Abbiamo già detto, però, che non c'è fede senza appartenenza e sottomissione alla chiesa. Tra la conversione che è annuncio di buona novella e quella che è sottomissione a una verità normata c'è come una contraddizione permanente. Diventa un cane che si morde la coda...


Tutti i grandi apparati di potere, sia quelli costruiti per la conservazione del potere stesso sia quelli immaginati per il suo sovvertimento, e che poi hanno prodotto nuovo potere, erano interni all'immaginario del patriarcato. Erano apparati potentemente maschili.

Credo che la più grande mortificazione che abbia subito il pensiero di dio sia la sua sessuazione maschilista. Infatti, quanto sarebbe stato utile tornare su quella filigrana di religione di papa Luciani: dio è mamma, dio è donna, la femminilizzazione dell'immagine di dio. Ma non si può farlo con una battuta. È un'intera storia, un'intera cosmogonia, un'intera teologia costruita sulla traccia del patriarcato, del grande patriarca. E dio è il grande patriarca: non solo è il dio della trascendenza ultraterrena, ma è anche il dio del sol dell'avvenire, il dio partito, il dio guida rivoluzionaria.


Il sole ingannatore, per restare al dio senza dio.


Tutte le mitologie salvifiche sono state, in qualche maniera, costruite sul solco di una potenza, di una onnipotenza maschile.


Tanto per divagare, nel paganesimo almeno sia il peccato che la salvezza erano spesso ambedue femminili: Sirene, Calypso, Circe, Penelope, Venere, Giunone,...


Infatti il paganesimo non è una nostalgia ateistica, è la nostalgia di un divino non ossificato nelle metafore del potere maschile.


Il paganesimo era filosoficamente un po' flebile e molto superstizioso. Ma di una superstizione molto materialistica, come la paura per il fulmine, e poco trascendentale. Più umano, più divino?


Anche la religiosità è molto umana nel momento in cui è la proiezione, esattamente calzante, delle gerarchie culturali dell'umano storicamente determinato. Il paganesimo, da questo punto di vista, è un'ironica sovversione dell'ordine del discorso teologico. A modo suo incarna il sogno di una teologia, di un divino capovolto: di un divino restituito al cielo, tolto dal trono, dalle gemme, dagli scettri.


Restando all'immanenza del trascendentale, c'è sempre stata una dimensione molto materiale e utilitaristica nel profilo patriarcale delle chiesa. Anzi, delle chiese: quella di Roma, che un millennio fa ha vietato i matrimoni per appropriarsi dei patrimoni, ma anche le chiese politiche, ideologiche. Non ti pare?


Se pensi, invece, che nei Vangeli c'è una critica così radicale del familismo. Nel tradizionalismo cattolico si fa vivere un'ideologia della «sacra famiglia» che non ha fondamento nei testi. La «sacra famiglia» è una struttura mafiosa. Nei testi, invece, c'è l'insofferenza di Gesù nei confronti di qualunque pulsione familista. C'è un passaggio un cui Gesù sta predicando, quando gli apostoli gli dicono che è arrivata sua madre. Lo fanno una prima, una seconda, una terza volta. Poi, a un certo punto lui si scoccia e, non ricordo la frase esatta, risponde irritato: «mia madre, mio padre è ciascuno che sente il verbo, che sente iddio». Cioè un'idea di famiglia allargata: la famiglia è l'appartenenza al genere umano.

È proprio una critica della cultura del seme e del sangue. Che nella chiesa invece ritorna nella versione più dogmatica ed extracattolica, che non capisco neanche a quale codice appartenga. Certo non a quello così formidabilmente umano del Vangelo, che si fonda, invece, sulla centralità delle persone: le persone sono molto più importanti di qualunque consanguineità, precetto, dogma.

Gli scandali del Vangelo rispetto alla codificazione familista sono incredibili. L'accoglienza dei bambini da parte di Gesù, per esempio, in un momento in cui i bambini non avevano alcun significato sociale e gli stessi apostoli li consideravano soltanto una molestia. Nel Vangelo c'è un'adozione degli scarti che diventano dei paradigmi. Le pietre di scarto diventano pietre angolari. Il migrante dei suoi tempi, l'ultimo scarto della società dell'epoca, il buon samaritano, diventa punto di riferimento della bontà. Nel Vangelo c'è una paradossale capacità di capovolgimento del buonsenso, del conformismo moralistico dell'epoca. E per estensione di tutte le epoche. Un aspetto poi totalmente messo in ombra.

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Pagina 73

SESSUALITÀ, OMOSESSUALITÀ, LIBERTÀ


Andiamo ancora più nell'intimo. Quand'è che l'omosessualità irrompe nella tua biografia, e in che modo?


Vent'anni. Esattamente vent'anni. L'omosessualità è un pezzo del mio scisma dalle due chiese: dalla chiesa comunista e dalla chiesa cattolica. Perché le due chiese hanno sicuramente avuto in comune il registro della doppia verità.


La doppiezza?


La doppiezza, esatto. La doppiezza è stata per me un muro di gomma. Un luogo proibito. Io non ho mai sopportato l'idea di utilizzare delle bugie a fin di bene: per difendere la mia fede privata o la mia fede pubblica, la mia fede religiosa o la mia fede laica. Quando l'ho fatto, quando ho mestato nel torbido a fin di bene, mi sono talmente vergognato e mi sono sentito così intimamente traditore delle cose in cui credevo, che poi ho sviluppato istintivamente un'immediatezza di autorappresentazione. Ho sviluppato, cioè, un codice della sincerità tendenzialmente assoluta, un'idea della verità come antidoto, come mio personale antidoto ai crismi dell'integralismo dell'una o dell'altra fede. O magari delle due fedi mescolate insieme, che poi è un integralismo al quadrato.

L'omosessualità era un discorso sulla mia fuoriuscita dal potere, che mi appariva antropologicamente comunista, perché danzava in quei luoghi che sono il condensato del potere: il costume sessuale, la grammatica delle relazioni interpersonali, i sentimenti. E perché l'omosessualità diceva il nocciolo duro della mia dignità. Questo nocciolo duro lo sputavo anche in fronte a un magistero della chiesa che rischiava di sacrificare il primato assoluto che la chiesa dovrebbe assegnare agli esseri umani sull'altare del primato dei dogmi.

L'omosessualità ha rappresentato lo spazio di autonomia dalle mie fedi. O di verifica delle due fedi.


E rispetto alla famiglia?


La famiglia è stata terribile. È stata il terminale degli umori fobici del tessuto comunitario. Ma è stata – come dire? – articolata nel suo sforzo. Il luogo più protettivo resta quello materno, che è quello più predisposto, anche per ragioni sacrificali, alla comprensione. Non fu una storia facile. Fu una storia molto complessa.


E le donne? Al di là delle fidanzate dell'adolescenza o di altre relazioni, cosa rappresenta per te il femminile, come dimensione di genere, narrazione, oltre che sessualità?


Serve a indicare un'identità culturale, piuttosto che a descrivere una biografia. Io mi sono sempre rifiutato di identificarmi in quell'altra etichetta che è «bisessuale», perché l'ho trovata una furbizia da sessualità moderna, benché avessi avuto molte storie etero: il problema è che, indipendentemente da quelle o quelli con cui mi accompagnavo, l'altra parola scelta, «omosessualità», era una chiave di identificazione del mondo, un codice di nominazione dei sentimenti.

Naturalmente il femminile, in tutto questo, era ed è stato per me sempre suggestivo. Ma vago. Perché era tante pagine bianche. Il mio immaginario era costruito sul maschile. Ma la mia curiosità innata mi portava a tuffarmi nel femminile. Ed è sempre stato come riempire pagine bianche, come gestirmi in una condizione di alterità bella e ineffabile. Perché in quei luoghi, sempre inconsueti, mi sono sentito abbastanza libero di navigare senza il peso di coazioni al potere e alla gerarchizzazione dei rapporti. Ho cioè trovato nel femminile una sessualità più confidenziale.

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Pagina 79

III
Il politico è personale



Hai ricevuto un'educazione religiosa, mentre i tuoi genitori non hanno voluto condizionare voi figli dal punto di vista della formazione politica in senso stretto. Tuttavia la politica mi pare faccia parte integrante del tuo paesaggio infantile e formativo. L'impegno, la sinistra, il comunismo nei ricordi personali come si impersonano e da dove cominciano?


La politica naturalmente era mio padre, bello e forte come una quercia. Lui e quel mondo di uomini che mi apparivano speciali: mio padre, mio zio, i braccianti che gremivano la sezione di Terlizzi. Era quel mondo di cui ho ancora vivido il ricordo di tutti i volti, del modo di darsi del tu, della dignità, dell'orgoglio. C'erano Ciccillo «lo stracciato», che fu segretario della camera del lavoro, e Marietta «dalle pezze vecchie», che fu una vera e propria pasionaria e capopopolo.

La politica erano mio padre e mio zio che andavano in macchina a Bitonto per vedere Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (pellicola del 1964, ndr). E poi se ne parlava a casa intorno al braciere. E allora era un evento prendere la macchina.


E la macchina di chi era?


Di mio zio. La nostra verrà dopo: una Millecento con cui riuscivamo ad andare al mare in 17, compresa una camera d'aria di camion gonfiata sul tetto.

La politica era anche mio padre a braccetto con Pietro Ingrao quando avevo otto anni. Ingrao venne a Terlizzi a commemorare il suo maestro di liceo, Gioacchino Gesmundo, martire delle Fosse Ardeatine. Terlizzi ha avuto due martiri alle Fosse Ardeatine: Gesmundo e don Pietro Pappagallo.

Mi hanno sempre raccontato che Ingrao mi carezzò sulla testa e mi disse «preparati a diventare un buon comunista». Immagino, per come poteva esprimersi Ingrao allora (era il 1966, ndr), che corrisponda sostanzialmente al vero.


Un concetto analogo a quello che ti ha ripetuto Armando Cossutta quando sei diventato deputato. Espressioni rigorose da vecchia scuola. Che effetto ti hanno fatto?


Nonostante gli scontri sono stato legato da un rapporto molto affettuoso con Cossutta. E mi lasciò letteralmente senza fiato quando, neoeletto, mi disse: «Preparati a passare tanta parte della tua vita qua dentro, nel parlamento». Quella frase per un po' mi ha quasi tolto il sonno. Perché, in generale, non ho mai pensato alla mia vita come a un appuntamento definitivo con qualcosa. Semmai ho sempre pensato a poter sperimentare cose nuove.


COMUNISTA IN PARTITO


L'incontro e l'apprendistato con la politica e il comunismo quando e come si sono svolti?


L'incontro con il comunismo fu soprattutto la biblioteca di Terlizzi, perché in casa mia non c'erano troppi libri. Fu l'incontro a scuola con Martin Luther King e Gandhi, che sono stati fondamentali nella mia formazione. Fu una lettura onnivora che andava da John Fitzgerald Kennedy a Ernesto Guevara. Poi la scoperta degli italiani. Il primo libro intero di politica, nel vero senso della parola, il primo libro di interventi parlamentari e scritti politici è stato un libro di Concetto Marchesi: si intitolava Umanesimo e comunismo, Editori Riuniti.


E dal punto di vista più letterario?


Credo che la cattura fondamentale l'abbia esercitata su di me Vasco Pratolini. Mentre Cesare Pavese mi ha accompagnato attraverso il passaggio decisivo alla complessità della scrittura, alla fascinazione di una scrittura meno legata ai codici dell'eloquenza e più legata ai ritmi della vita. Da quel momento è cominciata una vera e propria smania divoratrice: da Freud a Gramsci, dalla scoperta di James Joyce a Luigi Pirandello. E poi la scoperta, che fu un vero spartiacque nella mia formazione, di tutta la letteratura e la poesia ispanica: Garçia Lorca, Pablo Neruda, Miguel Hernández, Rafael Alberti...


Tutti attinti alla biblioteca di Terlizzi?


Non solo nella biblioteca di Terlizzi. Perché a un certo punto della mia vita ho cominciato a vendere libri.


E quando?


Da ragazzino.


Poi dici che non eri precoce... E com'è che vendevi libri, lavoravi in un negozio o cos'altro?


I miei impegni lavorativi di adolescente erano fare il cameriere col caldo e vendere libri col freddo. Per anni, vendendo libri, ho avuto un rapporto con le case editrici. Poi, negli anni dell'università, ho continuato col caldo a fare il cameriere e col freddo ho cominciato a fare il correttore di bozze: collaboravo con la casa editrice De Donato, e in cambio non ricevevo soldi ma libri.

Ma già a un certo punto, verso la fine del liceo, riesco a comprarmi le opere complete di Pavese e di Brecht. E così comincio a sentirmi finalmente ricco, perché esercito quell'indispensabile e irrinunciabile forma di proprietà privata che è il possesso feticistico dei libri.

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Pagina 85

Cioè il Pci non solo s'è perso il Sessantotto dal primo momento, ma lo avrebbe fatto sulla base di un paradigma riformatore che non assumeva i tratti peculiari e controversi del capitalismo italiano, bensì una lettura scolastica dell'arretratezza del paese e, quindi, anche dei movimenti di contestazione e degli orizzonti di trasformazione possibili? Perché, cos'ha rappresentato di particolare il Sessantotto italiano?


Il Sessantotto è stato un grande fatto di costume e di rottura della società a Berkeley, alla Sorbona, a Pechino, a città del Messico. Ma qui in Italia – tra Torino, Venezia e, soprattutto, la Normale di Pisa e la Sapienza di Roma – ha costruito la visibilità della prima e grande critica di massa alla presunta neutralità della scienza e della cultura con cui era stata costruita la parabola della modernizzazione capitalistica. Una modernizzazione che covava dentro di sé anche tutte le arretratezze delocalizzate, come strumenti della crescita nord-centrica.

Non vedere questo, privarsi di questo terreno analitico, quindi privarsi di una proposta politica centrata sulla qualità dello sviluppo e non sulla correzione dello sviluppo, impediva — e impedì – al Pci di capire la natura reale dei movimenti giovanili, dei movimenti di contestazione.

Che, infatti, furono intesi come esplosione piccolo borghese, come contestazione generazionale, e non come maturità di una contestazione di classe. E una contestazione di classe proiettata non verso la base della piramide sociale, là dove giacciono le ingiustizie materiali, ma sul vertice della piramide sociale, là dove si producono i saperi della riproduzione sociale, le forme di coscienza, le gerarchie valoriali, gli statuti disciplinari. Là dove c'è il capitale del capitale. Cioè l'ideologia, l'organizzazione della didattica, gli apparati della formazione. Per la prima volta questo è accaduto in Italia.

Altro che arretratezza! Eravamo a un'inedita maturità. Alla più marxiana delle verità.


LA RIFONDAZIONE


Che il Pci, appunto, non colse, non realizzò, sostanzialmente respinse. E non c'è da stupirsi se proprio da quel momento, dal punto di vista culturale prima che politico, è iniziata la parabola discendente del partito comunista e più in generale della sinistra. Ma dilungarsi su questo ci porterebbe troppo lontano. Restiamo alla cronaca e alla biografia. Tu entri nel comitato centrale dell'ultimo Pci dopo la morte di Berlinguer. Finché al termine del tunnel degli anni Ottanta, il Pci decreta l'estinzione del comunismo nella forma partito. E tu che fai?


Scrissi per il manifesto: «Caro Pci, non capisco e non mi adeguo».


In quanto?


La mia era una percezione assolutamente plastica del fatto che si buttava a mare il bambino con l'acqua sporca.


Questa è stata la risposta più gettonata. E un po' scontata, non ti pare?


L'aspetto paradossale è che proprio quella parte che aveva costruito — anche attraverso percorsi e storie differenti — una forte identità antiortodossa, la parte che da più tempo criticava il centralismo democratico e la torsione moderata del Pci, la parte che chiedeva con più forza il cambiamento fu anche la parte che rimase schiantata dall'idea che, cambiando il nome, si cancellasse «l'allusione» al comunismo. Questo, però, conservando, in una formazione post-comunista, i tratti peggiori di quella tradizione: il burocratismo, l'autoritarismo, la statolatria. Cioè quel tanto di corredo hegeliano della migliore tradizione dei dirigenti del Partito comunista italiano. I più eretici furono insomma quelli maggiormente scossi dall'eresia occhettiana, perché la lessero come una svolta a destra: come la dissipazione, bonapartista, di una possibilità che era stata imprigionata negli schemi ossidati della tradizione comunista italiana.

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Pagina 109

Veramente tu vieni spesso accostato a Berlusconi, rimproverato di essere un Berluschino anche da parte della sinistra. Per tante similitudini, vere o presunte, che vengono ravvisate e ti vengono imputate: precisamente per quel rapporto diretto col popolo che richiami e per cui vieni considerato plebiscitario, o per il fatto che il tuo partito ha messo il tuo nome nel simbolo. Di qui la dimensione personalistica e leaderistica, quindi la critica di una parte della sinistra. Come rispondi?


C'è l'idea che ragionare di popolo, ragionare col popolo, evocare il popolo o convocare il popolo sia di per sé populismo. Il populismo è cavalcare il popolo come se fosse un cavallo imbizzarrito. E far andare questo cavallo nella direzione che si ritiene più opportuna. E il plebiscitarismo mediatico attraverso cui Berlusconi tiene in ostaggio il paese per mezzo della comunicazione a senso unico, che relega il popolo nel ruolo dello spettatore inerte, acquiescente, incaricato solo di amplificarne e suffragarne i messaggi.

Invece sono una presenza e una partecipazione attive, dialettiche, che riconoscano poteri reali del popolo, quelle che possono davvero contrastare il populismo plebiscitario e la sua spinta alla passivizzazione. Non si può considerarle un impaccio, un freno che impedisce l'iniziativa dei partiti. Non si può attribuire al popolo responsabilità che gravano invece tutte sulle nostre spalle e scambiare l'afasia della sinistra politica per sordità della sua base. Non è il popolo a non saper più ascoltare. Siamo noi a non disporre più di un vocabolario con cui interpellarlo. E siamo noi che dobbiamo imparare come reinventarlo e riscriverlo.

Quando io dico al mio popolo che nella nostra storia c'è la multiculturalità, perché noi pure le madonne e i santi li abbiamo presi tutti di pelle nera — da San Nicola a tutte le icone bizantine, alle madonne nere che sono disseminate in tutto il Mezzogiorno d'Italia —, sto ricostruendo una tradizione. Poi ognuno si può scegliere la tradizione che preferisce, io mi scelgo questa, che è fondativa di una identità del popolo.


Tuttavia c'è un confine abbastanza labile, permeabile tra andare — per così dire — "a cuor di popolo" oppure "a furor di popolo", tra muoversi in empatia col popolo oppure sobillando il popolo. E questo vale tanto più in politica, a destra ma pure a sinistra, non ti pare?


Sì certo. È vero. Ma io di fronte al popolo vado a dire, per esempio, che non si fanno le rivoluzioni sventolando le manette. Cerco di dire le cose che sono anche più scomode: che la libertà non può portarla nessun demiurgo o uomo della provvidenza, che i popoli si liberano quando diventano fraterni, solidali e consapevoli del loro destino, della loro missione.

L'esperienza pugliese insegna che l'appello alla partecipazione diretta è un incommensurabile fattore di aggregazione politica, più efficace, rapido e trasparente di mille estenuanti caminetti. E che allo stesso tempo è un clamoroso moltiplicatore di mobilitazione, attivatore di coscienze, forse il solo in grado di contrastare con successo l'onnipotenza mediatica della destra.

Perché insomma: la verità è che la sinistra è stata cannibalizzata dalle proprie fisime tecnocratiche. A un certo punto quelle di sinistra e di centrosinistra sono apparse classi dirigenti e alleanze di tecnici e di salottieri. Ci sarà pure una ragione per cui il nostro radicamento nelle periferie, nelle grandi fabbriche, nelle aree popolari è andato evaporando. Altrimenti di che cosa parliamo?

Quello che faceva il Pci quarant'anni fa, oggi lo fa la Lega. Soltanto che il Pci educava gli operai dí Torino a non dire "terroni" quando arrivavano i braccianti e i contadini poveri dalla lucania per diventare operai a Mirafiori. Educavano: il sindacato e la sinistra educavano. Ma la loro era insieme un'autoeducazione straordinaria. Era una vicenda di costruzione anche dell'identità nazionale: non solo delle identità politiche, ma di quelle civili.


L'IDENTITÀ PER TERRA

A questo proposito, a sinistra viene sempre più spesso evocato e citato il modello leghista con una sorta di ammirazione. Si sente parlare della Lega con invidia per il radicamento sociale e territoriale, per la partecipazione militante, perché è un partito di massa nel senso classico del termine.

Dal momento però che la forma è sostanza, come si fa a non rendersi conto che quel radicamento così ammirato è l'altra faccia pratica di un'ideologia tribale, localistica, razzista, autocratica e autoritaria? Come si fa a non capire che se si vuole contrastare l'ideologia leghista non si può contemporaneamente assolverne, o addirittura invidiarne, il radicamento, in quanto esso è sotto ogni profilo l'espressione pratica di un fondamentalismo ideologico; è in realtà segregazionista, marcio, omologante, repressivo?

Se un tempo, quando esistevano ancora i grandi involucri sociali e la fabbrica e il partito, il radicamento e la dimensione di massa corrispondevano alla costituzione di una coscienza di classe, oggi la versione leghista del partito di massa non rappresenta in realtà un modello totalitario, autoritario, repressivo, fondamentalista?


Tu vai alle conseguenze. Vediamolo però da vicino, quel modello. C'è un elemento di differenza abissale tra quello che faceva il Pci e quello che fa la Lega: la Lega abita territori, il Pci costruiva comunità.

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