Copertina
Autore Nichi Vendola
Titolo C'è un'Italia migliore
EdizioneFandango, Roma, 2011, , pag. 192, cop.fle., dim. 13x18,5x1,3 cm , Isbn 978-88-6044-187-4
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe politica , paesi: Italia: 2010
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Indice


Il cuore oltre l'ostacolo                                 5
Camminare domandando                                     14


Incoscienza di classe                                    17

La speranza urbana
(Il governo della cura al servizio di una città giusta)  41

La fabbrica della creatività                             54

La scuola chiude la prigione                             67

Patria/Matria                                            78

Uguali davanti alla legge                                88

C'è un mondo migliore                                   100

Nessuna persona è illegale                              112

Cernobyl' non è più qui                                 127

Il fisco giusto                                         138


Il talento fa quello che vuole                          157
Cosa sono le fabbriche di nichi                         170
Istruzioni per l'uso                                    178
Sostieni                                                181

Note                                                    183
Ringraziamenti                                          189


 

 

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Pagina 5

Il cuore oltre l'ostacolo


Le fabbriche di nichi rappresentano un frammento di gioventù che ha messo in piedi un'esperienza straordinaria, eterogenea, nuova, effervescente, un'esperienza di buona politica. Sono luoghi in cui si esprimono le condizioni di possibilità per la partecipazione e la democratizzazione della politica. Il lavoro proposto in queste pagine, frutto del confronto e delle idee emerse a partire dagli stati generali delle fabbriche dello scorso luglio, ne è chiaro esempio.

Importanti spunti di riflessione, fili di una narrazione nuova, appassionata, che offrono orizzonti più ampi a un dibattito politico immiserito, che non guarda oltre l'ombelico e la pancia del nostro paese. Questo libro vuole essere un contributo di idee, una traccia collaborativa e propositiva, per intraprendere un dialogo collettivo sul futuro possibile. Sull'Italia migliore.

[...]

Io sono con le fabbriche di nichi in questa ricerca e sono contento della libertà che mi danno e della libertà che si prendono, perché le fabbriche sono il contrario di una celebrazione retorica di un leader carismatico. Esse sono un'esperienza plurale di libertà del far politica. Io ho imparato e imparo tante cose da loro e non sento di rivolgermi a loro come un generale si rivolge alle sue truppe, non mi sento un capo. Le fabbriche di nichi sono un fermento, una semina e mi danno speranza e libertà. Posso continuare a coltivare i miei dubbi, ad avere le mie incertezze, a non nascondere le mie debolezze, a non dovermi vestire con gli abiti del comando, ma di poter invece con loro continuare uno scambio, che è uno scambio di competenze, di parole, di esperienze e che ci consente di collocarci nel punto più alto della speranza che sta nascendo in questo Paese.

Le fabbriche di nichi possono annunciare che in ogni paese, in ogni quartiere, in ogni città, al termine di questa lunga notte possiamo di nuovo innamorarci della luce, possiamo ritrovare l'alba di rapporti nuovi. Questo libro parla di noi, dell'Italia che c'è e di quella che vorremmo, un paese di volti veri, che è pronto a lanciare il cuore oltre l'ostacolo, a condividere parole e fatti di buona politica, a raccontare una storia diversa da quella che abbiamo vissuto in questi anni, a costruire, a far vincere e a vivere la storia dell'Italia migliore.

Nichi Vendola, dicembre 2010

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Pagina 14

Camminare domandando


"Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c'è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull'ingiustizia." Enrico Berlinguer


Questo libro è il frutto di un lavoro collettivo, ed è il primo risultato di una serie di incontri, i più diversi, susseguitisi in questo primo anno di vita de la fabbrica di nichi. Dai giovani esperti alle tante persone "comuni", diversissime per età ed esperienze, intervenute agli Stati Generali delle Fabbriche – Eyjafjallajökull, eruzioni di buona politica – dalle persone incontrate girando per la Puglia e poi per l'Italia, come pure dalle persone "conosciute" finora solo virtualmente (ma che tramite la rete non hanno fatto mai mancare la loro voce critica) abbiamo imparato che esiste ancora la possibilità di fare buona politica in Italia, riportando la vita reale laddove sembra esserci posto solo per tecnocrazia e difesa dello status quo.

Era nostra intenzione iniziare a confrontarci con idee nuove e diverse, a riflettere su quale direzione dare a un Paese bloccato in un eterno presente, che sembra aver rinunciato a riflettere sul proprio futuro.

È con questo spirito che abbiamo lavorato per elaborare delle tracce di discussione con cui alimentare il dibattito, che partendo dalle fabbriche di nichi sparse per l'Italia, possa raggiungere il maggior numero possibile di realtà. Un piccolo contributo per iniziare a parlare dell'Italia migliore che vogliamo. Riscrivere il linguaggio della politica, contribuire a una società diversa, ricongiungere comunità ed esperienze, è questo l'orizzonte del nostro impegno.

Camminare domandando, alla ricerca di quanto di meglio questo paese può ancora offrire, della società reale che l'attuale classe dirigente sembra non riuscire più a vedere.

La nostra è una sfida che ha bisogno del coraggio di tutti.

È per questo che ciò che più amiamo di questo piccolo testo, le pagine più importanti, sono quelle che scriveremo insieme.

la fabbrica di nichi

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Pagina 17

Incoscienza di classe


Ascoltando Working Class Hero di John Lennon, John Lennon/Plastic Ono Band, Apple Records, 1970

Leggendo Il tallone di ferro di Jack London, Feltrinelli, 2000

Vedendo Precious di Lee Daniels, 2009


                  The time is out of joint — O cursed spite,
                       That ever I was born to set it right!
                               Nay, come, let's go together.

              Il tempo è fuor di squadra! O sorte maledetta,
            Che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto.
                                Ma, avanti, andiamo assieme.

                               Shakespeare, Amleto, Atto I-V



Dei fantasmi si aggirano per l'Occidente: sono i sogni dispersi, le vite future di milioni di persone disorientate che immaginavano una vita ricca di occasioni, di successi magari non semplici da raggiungere, ma possibili, e lavori dignitosi. Per molti questi dovevano essere gli anni in cui la storia della nostra civiltà arrivava al suo compimento, in cui le democrazie liberali, grazie e insieme al libero mercato, potevano contare su di una crescita continua, un'abbondanza di risorse in grado di garantire una esistenza migliore alle nuove generazioni. Al secolo del lavoro "... penetrato dal benessere e toccato dall'angoscia ... dilacerato fra l'avere e l'essere... Un secolo di promozione sociale e di riscatto dal bisogno, di incivilimento materiale e di anomia spirituale... di sprechi immani e tecnologie sofisticate..." poteva seguire quello della fine del lavoro in cui grazie ai vantaggi di una terza rivoluzione industriale fondata sullo sviluppo tecnologico e alle conseguenze positive della globalizzazione si sarebbe potuto lavorare meno e in modo meno faticoso, godere di maggior tempo libero. Un secolo post-ideologico pensato al servizio dei singoli, liberi di esprimere e sviluppare le proprie individualità e soprattutto di consumare.

Le statistiche internazionali fotografano una immagine molto diversa, fatta di diseguaglianza e povertà diffusa. Secondo l'Ocse negli ultimi vent'anni il gap tra ricchi e poveri nella distribuzione del reddito è aumentato praticamente ovunque, talvolta in modo drammatico. Della crescita economica degli ultimi vent'anni, in altre parole, hanno beneficiato maggiormente i ricchi piuttosto che i poveri. In alcuni paesi le disuguaglianze sono addirittura cresciute. Ai vertici di questa amara classifica troviamo Stati Uniti, Inghilterra e Italia, paesi in cui è particolarmente estesa la fascia di popolazione che vive a rischio di povertà e in cui gli ascensori sociali sono bloccati e fortemente condizionati dal reddito e dalle condizioni delle famiglie di origine in cui spesso i giovani sono costretti a restare o tornare (e questo la dice lunga sulla penosa retorica dei bamboccioni nostrani).

Certo nella dinamica dei redditi ci sono categorie sociali che se la passano meglio di altre. Nella media dei paesi analizzati, infatti, è fortunatamente diminuita la povertà degli anziani mentre è aumentata la povertà dei bambini e degli adulti soli (spesso a seguito di un divorzio o della perdita del lavoro). Nei paesi Ocse i bambini e i giovani adulti hanno il 25% di probabilità in più di essere poveri rispetto al resto della popolazione. Nel nostro paese l'Istat già da qualche anno segnala la crescita della povertà tra i minori; dato che, oltre ad essere grave in sé, tende a generare una trasmissione intergenerazionale della povertà (le persone giovani povere genereranno figli poveri i quali, a causa della scarsa mobilità sociale, faranno fatica ad affrancarsi da questa condizione).

Scorrendo questi dati scopriamo che l'Italia è passata da livelli di disuguaglianza vicini alla media Ocse vent'anni fa, a livelli attuali ben superiori. Siamo infatti il sestultimo paese sui 30 censiti per livello delle disuguaglianze tra ricchi e poveri, cresciute del 33% rispetto alla metà degli anni Ottanta. Ancora più accentuata è la disuguaglianza nei patrimoni: il 42% della ricchezza totale è detenuta, infatti, dal 10% dei cittadini, mentre "solo" il 28% del reddito totale è ascrivibile allo stesso 10%.

Nel mondo la ricchezza prodotta è in aumento soprattutto grazie alle nuove potenze economiche emergenti (India, Cina e Brasile su tutte), eppure il tenore di vita della popolazione che vive nei paesi più industrializzati, già da prima della crisi, è in costante calo. Qualcosa non deve aver funzionato nella teoria liberista e oggi quel che resta del sogno americano si è oltremodo scolorito, l'economia cresce a ritmi sostenuti proprio in quei paesi per nulla riconducibili alle democrazie liberali, dominati piuttosto da un forte capitalismo di Stato (per la Cina già si parla di novello comunismo di mercato).

Negli ultimi trentanni, in realtà, la crescita economica ha fortemente favorito la rendita dei capitali a tutto svantaggio del reddito da lavoro. La distribuzione del reddito – come abbiamo visto – si è polarizzata, rendendo ricchissimi i (pochi) ricchi e più poveri tutti gli altri, con il conseguente indebolimento dei ceti cosidetti medi che, schiacciati verso il basso, sono oggi irriconoscibili alla luce delle categorie "classiche" al punto da richiedere un aggiornamento dello studio delle classi sociali. Qual è oggi la nuova piccola borghesia? Possiamo ancora parlare semplicemente di classe operaia? È possibile identificare nel mondo così vario del precariato (che raccoglie insegnanti e consulenti, ricercatori e liberi professionisti, camerieri e colf) un nuovo soggetto politico o è questa solo una diffusissima condizione individuale, una massa eterogenea di consumatori identificata dai nuovi meccanismi di produzione globale che condivide paure e preoccupazioni verso un futuro quanto mai incerto?

Il lavoro, caposaldo delle passate conquiste sociali, ha smesso di essere considerato (così come ci ricorda la nostra Costituzione) strumento di promozione sociale.

Invece è stato ridotto al significato strettamente economico attribuitogli dagli economisti neoclassici: è uno dei fattori della funzione di produzione, a contare è solo il suo prezzo di mercato.

Alla base di questo mutamento epocale, in cui coesione sociale e piena occupazione appaiono traguardi sempre più irraggiungibili, ci sono anni di ideologia ipercapitalista che ha convinto i governi di tutto il mondo, indipendentemente dal loro colore politico, che un certo modo di perseguire la crescita economica fosse l'unico obiettivo di cui ci si doveva necessariamente preoccupare.

Quasi che il resto – maggior benessere per tutti, giustizia sociale, finanche una migliore democrazia – seguisse da sé, a patto che gli stati non interferissero troppo negli affari dell'economia.

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Pagina 36

Emerge prepotente la necessità di restituire allo Stato quelle responsabilità di cui si era spogliato relegando a lungo la politica economica a un ruolo "tecnico". Allo stesso tempo occorre con coraggio sfruttare le opportunità che la crisi ci offre per ridisegnare il nostro sistema produttivo, chiedendo alle istituzioni di non abdicare alle proprie responsabilità. L'intervento pubblico in una democrazia moderna ha un ruolo indefettibile nella produzione e nella tutela dei beni pubblici, nella lotta all'inquinamento, nella redistribuzione della ricchezza, nella correzione degli squilibri del mercato e soprattutto nella ricerca di una maggiore coesione sociale fondata sulla lotta alle diseguaglianze, contro le mille precarietà della vita. Vogliamo uno Stato in grado di accompagnare lo sviluppo e le imprese senza sostituirsi agli imprenditori, ma che piuttosto favorisca gli investimenti più coraggiosi in innovazione e ricerca, aiutando le piccole imprese (anche grazie ad una adeguata politica fiscale) a non aver paura di crescere in dimensione e qualità (siamo il paese delle piccole e medie imprese e non sempre questa è una scelta volontaria) abbattendo le barriere in entrata per le start up, punendo le rendite di posizione, riscoprendo la modernità delle nostre imprese artigiane, vere depositarie del made in italy apprezzato in tutto il mondo. Non si tratta di annodare o recidere "lacci e lacciuoli", di decidere che ciò che fa lo stato è necessariamente buono, mentre ciò che fanno i privati è necessariamente cattivo o viceversa, ma di farsi garanti della responsabilizzazione del sistema produttivo, perché la creazione del benessere riguarda tutti. La crisi mostra che gli attori privati sono capaci di fare scelte efficienti nel breve periodo ma mancano spesso di una visione globale, del medio e lungo periodo. Lo Stato dovrebbe farsi carico di incentivare attività e scelte che abbiano senso per il paese in un orizzonte temporale più lontano dell'orizzonte limitato dell'investitore interessato ad un ritorno immediato. Perché non favorire le filiere industriali o promuovere la creazione di nuovi distretti tecnologici? Perché non si può recuperare il paradigma ecologico come nuovo paradigma economico o scommettere sulla formazione permanente di nuovo capitale umano e sulla riqualificazione di quello già esistente? Lo stesso inarrestabile fenomeno migratorio, liberato dalla retorica xenofoba, può essere un fattore di sviluppo importante se adeguatamente gestito. Occorre inoltre ridisegnare un welfare attivo che non scarichi sulla famiglia tutto il peso dell'assistenza, in grado di offrire maggiori opportunità e non semplici sussidi, che sappia offrire un riparo adeguato a chi resta senza lavoro (rivedendo, ad esempio, l'uso distorsivo e discriminatorio della cassa integrazione) e lo metta in condizione di ritrovarlo, che consenta alle donne di partecipare più attivamente al mercato del lavoro senza essere costrette a scegliere tra un figlio e un impiego, che sblocchi la mobilità sociale garantendo percorsi di formazione garantiti per le nuove generazioni ancora troppo condizionate dalle condizioni delle famiglie di origine e che non hanno la possibilità di accedere ad affitti calmierati, né tantomeno possono permettersi di acquistare una casa. Non è necessario aumentare ulteriormente la spesa pubblica ma utilizzarla meglio. Occorre una riorganizzazione del settore pubblico che lo renda più efficiente, un'assunzione di responsabilità da parte delle amministrazioni statali e degli enti locali perché non un euro delle tasse vada sprecato. Se agiremo così uno stato sociale generoso ed efficiente diventerà l'inattaccabile orgoglio di un paese e non la cartina di tornasole del suo progressivo declino.

Bisogna recuperare una "visione generale" in grado di riportare al centro il valore sociale del lavoro quale mezzo di emancipazione sociale e non più come merce povera. In un'epoca a tutti gli effetti post-democratica, in cui la politica è decisa in privato dall'integrazione tra i governi eletti ed élite che rappresentano quasi esclusivamente grandi interessi economici, è fondamentale smascherare l'illusione di una società in cui protagonista può essere solo l'individuo e riscoprire la dimensione collettiva dell'esercizio dei diritti. Lo smantellamento progressivo del welfare state, inoltre, restringe la nostra cittadinanza: non curarsi dello scadimento del valore del lavoro riduce la nostra democrazia.

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Pagina 67

La scuola chiude la prigione


Ascoltando Another Brick in the Wall dei Pink Floyd, 1979

Leggendo Beata ignoranza di Cosimo Argentina, Fandango, 2008

Vedendo L'attimo fuggente di Peter Weir, Usa, 1989


          "La scuola è quell'esilio in cui l'adulto tiene
          il bambino fin quando è capace di vivere nel mondo
          degli adulti senza dar fastidio."

                                            Maria Montessori



C'era una volta la scuola di pochi eletti, istituti di educazione per i giovani rampolli "figli di". Poi venne il tempo della coscienza e delle contestazioni, i tempi in cui si cercava di rendere la scuola un'istituzione accessibile a tutti, a prescindere dalla condizione socio-economica e dal luogo di nascita degli studenti. Tanto da legittimare la "pretesa" degli operai di volere i figli dottori. E molti passi avanti erano stati fatti davvero, e la scuola era diventata il traghetto che favoriva la mobilità sociale e offriva conoscenza e consapevolezza. Quel meccanismo è stato in seguito distrutto da anni di politiche scellerate e il nostro paese ha fatto in pochi anni molti passi indietro.

Oggi l'Italia soffre di un tasso di analfabetismo funzionale che sfiora il 70%, secondo gli studi di Tullio De Mauro; questo significa che larga parte della popolazione non comprende appieno il senso delle parole che dice o che legge, nonostante sappia leggere e scrivere. La piena padronanza del lessico e la comprensione delle parole costituiscono un'assicurazione sulla vita in una società caratterizzata dal sovraffollamento delle informazioni e gli unici antidoti a questa malattia che contagia anche le nostre imprese, il nostro sistema produttivo, sono una solida formazione e una adeguata cultura. Ma la politica, anch'essa contagiata, sembra essere colta da una preoccupante afasia e non riesce nemmeno più a pronunciare le parole "cultura" e "formazione". Ne sono dimostrazione i provvedimenti sulla scuola e sull'università del duo Gelmini-Tremonti, che hanno fatto un'ulteriore e decisivo passo verso la riduzione degli istituti di formazione del paese a fabbriche di disuguaglianza, in cui i giovani fanno tirocini per abituarsi alla precarietà e alla disparità, in cui più del merito contano la provenienza geografica e la condizione socio-economica della famiglia di origine.

Lo smantellamento del sistema della formazione comincia con un inganno linguistico, e non poteva essere diversamente. Licenziano 133.000 lavoratori (87 mila cattedre e 46 mila di personale non docente), danno un colpo di forbice per 8 miliardi di euro, eliminano tutele e garanzie per i ragazzi con disabilità, stipano fino a 35 alunni in un'unica classe, azzerano le borse di studio, espellono giovani ricercatori dal mondo universitario e la chiamano "riforma epocale". Nemmeno la Moratti era arrivata a tanto. In realtà si tratta di un vero e proprio licenziamento di massa, questo sì epocale, e di una mannaia sulla formazione pubblica e sulle aspirazioni dei nostri giovani. E la conferma arriva dalle dichiarazioni di Tremonti che nei mesi scorsi ha detto che l'Italia non può permettersi un sistema di formazione che costa troppo. In realtà, l'Italia è nelle ultime posizioni per gli investimenti in formazione e cultura.

La scuola e l'università hanno davvero bisogno di una grande riforma, ristabilendo però un binomio, quello fra riforma e investimento, che non è solo un fatto linguistico. È qualcosa di estremamente concreto e urgente: il sistema della formazione del nostro paese cambia solo con l'impiego di risorse economiche importanti, di energie umane e di intelligenze motivate.

Il primo passo è certamente l'annullamento della legge 133 del 2008, la famigerata riforma Gelmini, ma non basta. Non è sufficiente perché la scuola subisce il bisturi della politica da oltre 20 anni, anche da parte della sinistra. E allora la politica deve compiere scelte precise, organizzando il primato dell'interesse pubblico, avendo ben chiara la centralità del sistema della formazione, per contrastare gli effetti nefasti e deleteri che i tagli hanno prodotto in questi anni e che produrranno certamente in futuro.

L'Italia necessita di una battaglia culturale e di una rivoluzione copernicana, rispetto ai concetti di cultura e conoscenza, che sono oggi marginali nella società e nel mondo del lavoro. Sembra che il nostro paese e il sistema produttivo non sappiano che farne di giovani donne e uomini, dotati di un alto grado di cultura e professionalizzati. Qui sta tutto il senso del cambiamento che si vuole proporre: cultura e conoscenza devono tornare a essere cardini dello sviluppo del paese, sia perché creano cittadini liberi e consapevoli, sia perché portano innovazione nel nostro sistema. Sono temi che hanno a che fare con il futuro dell'Italia migliore.

Pertanto è necessario ripensare a un modello di formazione che accompagni i cittadini per l'intero arco della vita e che garantisca pari opportunità di formazione a tutti: la scuola e l'università devono valorizzare i talenti, devono basarsi sul merito, avendo come bussola solidarietà e cooperazione.

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Pagina 80

Il sessismo, però, non trionfa solo nell'industria televisiva. Il nostro paese è ancora terribilmente arretrato in materia di pari opportunità e i dati lo dimostrano in modo schiacciante anche per quanto riguarda la rappresentanza politica. In Italia le donne sono rappresentate per il 18% in parlamento e per il 16% nel governo (sono 4, infatti, le ministre, 21 sono invece gli uomini). Nelle istituzioni regionali (con l'eccezione della giunta pugliese dove le donne sono rappresentate al 50%, sette come i loro colleghi uomini) la quota femminile scende al di sotto del 10%, e in alcune giunte locali la loro presenza è addirittura nulla. Secondo il Global Gender Gap Report del 2009, a cura del World Economic Forum, l'Italia è al 72° posto, su 134, per quanto riguarda partecipazione al lavoro e opportunità economica, accesso all'istruzione, influenza politica, aspettativa di vita, 23a sui 27 stati che compongono l'Unione Europea. Viviamo indiscutibilmente in una società patriarcale, in cui il protagonismo femminile è decisamente minoritario in quasi tutti i settori strategici, settori nei quali le donne con la loro professionalità, sensibilità, tenacia, potrebbero essere determinanti. Infatti, nonostante l'aumento dell'impiego femminile, ancora oggi la metà delle donne in età lavorativa non partecipa alla vita economica, con l'aggravante che maternità e matrimonio continuano a essere il motivo principale di abbandono dell'impiego. Nei momenti di crisi poi, come quelli che stiamo vivendo, a rischiare il posto di lavoro sono proprio le donne (insieme ai giovani), poiché si considera prioritaria la salvaguardia del lavoro del maschio adulto capofamiglia (cosidetto breadwinner). Ma ci sono altri dati che vanno dolorosamente riportati: secondo i risultati Istat del 2007, infatti, il 31,9% delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e nel 70% dei casi ne è responsabile il marito o il compagno.

Alla luce di questi dati, evidentemente scoraggianti, occorre che la politica ridiventi luogo e occasione di liberazione, per donne e uomini, affermando innanzitutto l'autonomia, la libertà e la soggettività delle donne.

1. A cominciare da un welfare che sia in grado, attraverso investimenti nei servizi di cura e assistenza di anziani e bambini, di sollevare le donne dal peso dell'organizzazione familiare, che naturalmente dovrebbe essere maggiormente condivisa col partner. Riportare al desiderio di diventare madri anche da giovani con aiuti per la casa, sussidi e esentasse universitarie. Esistono tante madri sole, tante madri con lavoro precario. Troppo dimenticate dalle agende dei governi precedenti. Ma non basta: la responsabilizzazione degli uomini, l'esigenza di un loro apprendistato domestico e relazionale, è un aspetto che bisogna ribadire con forza.

2. Pensiamo che garantire la parità perfetta tra uomini e donne negli organi decisionali della società costituisca una tappa irrinunciabile, l'unica possibile strategia per dare uno scossone al "governo degli uomini".

3. Attraverso un percorso di emancipazione che passi per le politiche, i comportamenti pubblici e la cultura diffusa, bisogna porre fine alla mercificazione del corpo femminile e alla sua riduzione a oggetto. Anche in questo caso non si può prescindere da un lavoro profondo sull'immaginario collettivo che consenta alle donne di ritrovare fiducia nelle proprie capacità, nei propri talenti, di accedere a forme di realizzazione che non passino necessariamente attraverso il corpo di "bella presenza" messa in mostra o quello portatore di vita delle madri. Non c'è alcun destino prestabilito, né per le donne né per gli uomini. Il maschile e il femminile sono in larghissima parte prodotti culturali e pertanto fluidi, modificabili, tutt'altro che fatali.

4. La sessualità è una delle espressioni più alte dell'ingegno umano, una tra le più ricche e mature, ma in questi altri tempi è divenuta un palcoscenico dell'effimero e della banalità, il trionfo della volgarità e del trash. Anche la liberazione sessuale dovrebbe tornare a essere oggetto di dibattito, per proporre una "sana politica del piacere", che superi l'attitudine dei maschi a immaginare le donne come prede da cacciare e ornamenti per il trionfo del maschile, ma invece contempli la possibilità di una sessualità diversa, gioiosa, partecipata, agita e non subita, dove ci sia spazio per il desiderio, l'ironia, l'invenzione e siano banditi la violenza, la sopraffazione, il dominio.

5. Rispetto alla complessità di questi temi, gli uomini non possono rinunciare a intraprendere un lungo cammino "archeologico" alla ricerca delle origini del potere maschile, scovando le profonde amputazioni ed elusioni su cui regge. Le due "differenze" dovrebbero tornare a parlarsi, aprire uno spazio comune in cui l'eredità del femminismo sia accolta come un pezzo fondamentale della cultura e della storia di tutti e la questione femminile possa superare le (poche) aule universitarie e le battaglie solitarie di alcune parlamentari. La pedagogia televisiva di cui abbiamo parlato ha saputo anche insinuarsi attraverso le pieghe della crisi della famiglia cominciata in un'epoca di trasformazioni radicali nel nostro paese. I soggetti oggi vivono chiusi all'interno di recinti generazionali e soffrono una profonda solitudine. Non bisogna temere di nominare la crisi della famiglia, ma neanche accontentarsi di sposare una difesa incondizionata di un unico modello familiare. La famiglia, che noi pensiamo come multiforme e non per forza aderente al modello mononucleare proposto dalla tradizione cattolica, è una risorsa a cui attingere per interpretare le esigenze contemporanee di una società in cui la relazione tra le persone è stata progressivamente svalutata. E valorizzare la risorsa-famiglia, presuppone l'abbandono dell'approccio assistenziale e della sua difesa demagogica, al fine di realizzare interventi concreti che tengano conto di tutti i percorsi di crescita e di cura delle persone. Per questo è necessario aumentare il numero dei consultori, per prevenire e contrastare l'abuso e il maltrattamento, per sostenere processi di affido e di adozione, mettendo finalmente al centro della politica anche i bambini. L'Italia deve investire in una cultura dell'infanzia che salvaguardi il diritto di ogni minore a essere e sentirsi figlio, amato, cresciuto e protetto.

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Pagina 138

Il fisco giusto


Ascoltando Soldi soldi soldi di Betty Curtis, 1962

Leggendo La grande trasformazione di Karl Polanyi, Einaudi, Torino 1974

Vedendo Wall Street di Oliver Stone, 1987


           "Gli italiani guadagnano netto, ma vivono lordo."

                                            Giuseppe Saragat



Chi non ricorda lo slogan "meno tasse per tutti", vero e proprio mantra berlusconiano, che dal 1994 a oggi ha avuto il solo effetto di indebolire la credibilità dello Stato nella gestione dei servizi e della cosa pubblica, e di sdoganare l'evasione fiscale come si trattasse di una marachella, o in taluni casi, persino di un atto di sacrosanta disobbedienza civile contro lo Stato assetato del nostro denaro?

Come dimenticare gli annunci elettoralistici sulle riforme fiscali possibili o sugli aiuti alla famiglia, che quasi mensilmente gli esponenti dei diversi governi Berlusconi proponevano nelle televisioni, o sui giornali, salvo poi rimanere lettera morta, e anzi, diminuire la spesa sociale a danno proprio delle fasce più svantaggiate della società?

In realtà non è stato fatto nulla, e per fortuna aggiungeremmo, dato che l'unica proposta berlusconiana, quella di ridurre il numero delle aliquote di pagamento dell'Irpef da 5 a 2, costituirebbe un ulteriore vantaggio per i più ricchi e comporterebbe un peggioramento della situazione economica italiana.

La proposta di riduzione del numero delle aliquote è in netto contrasto con il principio stabilito dalla nostra Costituzione, della progressività del carico fiscale gravante sui singoli cittadini. Perché, come venne detto in Assemblea Costituente, "la progressione applicata ai tributi [...] dev'esser tale da correggere le iniquità derivanti dagli altri tributi, ed in particolare da quelli sui consumi" e non può negarsi che "una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a principi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività."

La riduzione del numero delle aliquote è inoltre dannosa perché non considera i cambiamenti sociali ed economici che sono intervenuti nel nostro paese. Come rilevato dall'Ocse, negli ultimi anni la forbice fra ricchezza e povertà in Italia si è costantemente allargata e adesso il 10% della popolazione possiede quasi il 50% della ricchezza generata; questo dato assume contorni ancora più preoccupanti se pensiamo che la crisi economica sta agendo con tutta la sua forza, contro le fasce più deboli della popolazione e contro il cosiddetto ceto medio italiano. E così che lavoratori dipendenti, impiegati, lavoratori autonomi e tutto il settore delle piccole e medie imprese fanno una grande fatica per arrivare a fine mese e non cadere nella rete delle nuove povertà. Di fronte a questo pericoloso smottamento sociale, il governo di centrodestra si comporta come un Robin Hood al contrario che toglie ai poveri per dare ai ricchi.


La verità è dunque che la disuguaglianza regna sovrana in Italia e quello che doveva essere il compito principale della Repubblica è stato ormai accantonato: "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3, comma 2 della Costituzione).

E come sempre, è il lavoro a pagare dazio. I lavoratori italiani hanno patito negli ultimi quarant'anni una costante compressione dei loro salari, che negli anni Settanta erano fra i più alti d'Europa. La perdita del potere d'acquisto non è certo stata compensata da un aumento del livello dei servizi, né ha riguardato tutti gli strati sociali della popolazione. Tutt'altro. Negli ultimi anni, come già detto, ben dieci punti di Pil sono passati dalle tasche dei lavoratori ai profitti e alle rendite. Un esempio più chiaro: negli anni Cinquanta, l'allora manager Fiat, Vittorio Valletta, guadagnava 20 volte il reddito della media dei suoi dipendenti; Sergio Marchionne oggi percepisce un reddito 435 volte superiore a quello di un operaio italiano. Questo è il quadro dell'Italia di oggi.

Ad aggravare ulteriormente la situazione è intervenuto anche l'inesorabile processo di sostituzione dell'economia reale con una economia meramente finanziaria, che in poco tempo ha negato al lavoro materiale e immateriale il ruolo di elemento cardine della produzione di ricchezza per le comunità, e ha messo al primo posto, la finanza, le transazioni e le operazioni di speculazione borsistica. Si obietterà che questi sono fatti che ormai riguardano tutto il mondo occidentale e i paesi in via di sviluppo, è vero. È la tendenza dettata dal modello economico vigente, è vero e comunque questa non è una realtà immodificabile. Quello che però è inaccettabile e che accade solo da noi, è che l'economia dell'alta finanza e della speculazione sia in qualche modo protetta da un regime fiscale fin troppo docile e permissivo: il nostro paese prevede infatti, una tassazione delle rendite finanziarie del 12,5%, mentre negli altri paesi europei la quota di prelievo va ben oltre il 20%. Quando parliamo di rendite finanziarie, sia chiaro, non parliamo dei risparmi delle famiglie, investiti in titoli di Stato. Questi ultimi rappresentano una ben modesta entità dei titoli in circolazione. Per tutelare il piccolo risparmio, anche quando si indirizza verso la detenzione di titoli di stato, basterebbe stabilire una franchigia di esenzione fiscale. Ci riferiamo piuttosto alle attività speculative e a quelle sui derivati finanziari, che sono, fra l'altro, una delle cause della crisi economica che attanaglia Usa ed Europa.

Per cui va rovesciato il paradigma economico e sociale proposto dal liberismo in questi anni di globalizzazione senza regole, avvallato dalle scelte di molti governi, secondo cui "soldi generano soldi" al di là della produzione e del lavoro, ed è necessario riportare al centro degli interessi della politica la tutela del lavoro e della produzione e la cura della persona. È necessario riscrivere un grande compromesso tra Stato e mercato, su basi etiche e umanistiche, come suggerito da Edmondo Berselli nel suo ultimo libro. Non a caso, Berselli parla di imbroglio liberista e legge un connubio profondo fra la crisi economica, la diseguale distribuzione delle ricchezze e il modello liberista: "La grande recessione è un problema totale di distribuzione fallimentare della ricchezza a vantaggio dei ricchi e a sfavore dei poveri".

Occorre pertanto, in primo luogo, preservare l'economia sana, reale, e irrobustire i sistemi di controllo contro le attività speculative, attraverso la separazione di banche di risparmio e banche di investimento e di affari; la limitazione dei bonus e dei diritti di stock options di manager e banchieri; l'introduzione di sanzioni pesanti a chi spaccia titoli spazzatura con rating positivi fasulli. E soprattutto, bisogna introdurre un prelievo sulle transazioni finanziarie. Si può cominciare con la proposta più semplice, che viene ampiamente promossa sul web: applicare lo 0.05 su tutte le transazioni finanziarie. Si tratta di una applicazione semplificata della celebre tassa Tobin, che il premio Nobel per l'economia propose nell'ormai lontano 1972.

In secondo luogo, è necessario mettere in campo proposte che agiscano nel senso della redistribuzione delle risorse e delle ricchezze: questo è lo snodo centrale intorno al quale costruire un'Italia migliore, più giusta e più equa, è la bussola che deve indicare la strada maestra a tutte le riforme, da quella fiscale, a quella del welfare, fino a quella del federalismo.

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