Copertina
Autore Claudio Vercelli
Titolo Tanti olocausti
SottotitoloLa deportazione e l'internamento nei campi nazisti
EdizioneGiuntina, Firenze, 2005 , pag. 300, cop.fle., dim. 138x205x18 mm , Isbn 978-88-8057-214-5
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe storia contemporanea , storia criminale , paesi: Germania , shoah
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Indice


1.  Di cosa parleremo. Le parole chiave           7

1.1 Stanchezza?                                   7
1.2 Memoria e storia                             10
1.3 Il secolo dei campi?                         17
1.4 Sul metodo                                   24

2.  Comprendere l'universo concentrazionario
    nazista: il lager come istituzione
    del Novecento                                29

2.1 I precedenti                                 29
2.2 Campi di concentramento e regime nazista     31
2.3 L'universo dei campi                         37
2.4 Lo strumento giuridico e il braccio esecutivo:
    la custodia preventiva e la Gestapo          40
2.5 L'evoluzione storica                         45
2.6 I lager in un'ottica sistemica:
    i campi di sterminio                         52
2.7 I campi di concentramento                    58

3.  Il senso della giornata di un deportato      67

3.1 L'arresto                                    72
3.2 Il viaggio                                   77
3.3 L'internamento                               81
3.4 Il campo e il Block                          88
3.5 Il risveglio                                 95
3.6 L'appello e l'Appellplatz                   100
3.7 Il lavoro e l'Arbeitskommando               103
3.8 La fame e il pane                           107
3.9 Il camino e i crematori                     110
3.10 La lingua dei lager e la sua funzione      115
3.11 La violenza quotidiana e la sopraffazione  119
3.12 Il filo spinato                            123
3.13 I neri e i verdi: le SS e i Kapos          127
3.14 La speranza, il desiderio, la disperazione
     e l'annichilimento                         133
3.15 I "musulmani" e la morte                   140
3.16 Uomini e donne                             144
3.17 I cancelli e la liberazione                149
3.18 La strada del ritorno                      152
3.19 Tra stupore e incredulità: il ricordo tra i
     perseguitati e la memoria dei persecutori  156
3.20 Il silenzio                                160

4.  La deportazione degli "altri"               163

4.1 I politici e i sindacalisti                 167
4.2 I "devianti", gli asociali e gli outsider   175
4.3 Gli omosessuali                             181
4.4 I testimoni di Geova                        192
4.5 Gli zingari                                 212
4.6 I malati di mente e le vite "non degne
    d'essere vissute"                           223
4.7 Il dramma della nazione polacca e il
    trattamento delle popolazioni slave         234
4.8 I religiosi e il clero                      250
4.9 I prigionieri di guerra sovietici           256
4.10 Gli Internati militari italiani dopo
     l'8 settembre                              262
4.11 Il problema del numero delle vittime       268

5.  In forma di appendice bibliografica e
    filmografica                                275

5.1 Un consiglio e dieci testi per iniziare     277
5.2 Testi propedeutici e riassuntivi            281
5.3 Volumi di ricerca e di analisi dettagliata  284
5.4 Le deportazioni dei singoli gruppi          288
5.5 Dieci film per dieci diversi angoli visuali
    ed interpretativi                           291

 

 

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1. Di cosa parleremo. Le parole chiave


        Non hai il diritto di adirarti con nessuno.
        E tuttavia non devi dimenticare nulla.
        Quando tutto è finito, decidi di cosa non vuoi più
        ricordarti. Se tutto è passato. Non dimenticare gli
        esami che alcuni non hanno superato.
                                            Nedzad Maksumic
                    poeta bosniaco e regista del Lik Teatar



1.1 Stanchezza?

Stanchezza, sì, stanchezza. Anche questa, perlomeno. Vi è come una sensazione sgradevole, sottopelle, pronunciata a fil di voce, flebile nel tono ma non fragile nei contenuti, che ci dice che il ripetere e il ripetersi sia vano. Ovvero che si sia come schiacciati tra il bisogno di tornare, ancora una volta, sui propri passi, in quanto ciò è necessario se non obbligato. Ma che il tutto sia, in buona sostanza, inutile. È l'imperio del ricordo. Che si impone su di noi, sulla nostra quotidianità. C'è una frattura incolmabile, una cesura che divide il secolo appena trascorso, il Novecento, tra un prima e un dopo. Siamo figli di quella rottura, indecisi, sospesi tra il richiamarci, con nostalgia, a quanto esisteva prima di essa, rimanendone poi travolti, o l'identificarci con quel che è ad essa succeduto, avvicendandosi, nella consapevolezza della forza di un'esperienza indelebile o nella indifferenza di chi non vuole serbare memoria alcuna e sa rimuovere. Più o meno bene.

Dice il filosofo tedesco Jürgen Habermas: «Là è avvenuto qualcosa che fino a quel momento nessuno aveva creduto possibile. Si è toccata una sfera profonda della solidarietà esistente tra tutto ciò che presenta un aspetto umano; nonostante tutto quel che la storia universale aveva conosciuto come pura bestialità, si pensava fino a quel momento che l'integrità di questa sfera profonda fosse rimasta intatta. Da allora, un legame di innocenza [...] che ci univa si è rotto, un'innocenza alla quale delle tradizioni ignoranti del dubbio avevano attinto la loro autorità e che, in un certo modo, nutriva le continuità storiche. Auschwitz ha modificato le condizioni per una continuità della trama storica della vita [...], e questo non solo in Germania».

Il senso del nostro spiazzamento, al quale fa da corollario il disincanto come, alternativamente, l'afflizione o l'indifferenza, sta in quel "Là". In un luogo di quella terra che si voleva e che si vuole patria della modernità e della civiltà, ove si è consumata una violenza che ha posto in discussione la continuità stessa della prima come della seconda. E che tuttavia dalla modernità come dalla civiltà, in qualche misura, deriva, sia pure per non riconosciuta filiazione.

Auschwitz, un toponimo con funzione antonomastica, assurto a emblema non della storia ma della sua rottura, è il "Là" al quale tutti fanno riferimento quando si parla di "quella cosa": lo sterminio degli ebrei d'Europa ma, con essi, anche la persecuzione, l'annichilimento, la deportazione e l'assassinio di milioni di persone, di volta in volta identificate come appartenenti a "razze inferiori" o "bastarde", nazionalità antagoniste, nemici politici, vite "non degne d'essere vissute" e così via. Auschwitz è l'emblema di un processo di profonda involuzione, etica prima ancora che politica. E tuttavia non è eccentrico né tantomeno estraneo ai flussi e ai riflussi culturali, morali, ideologici dei tempi nostri. Non solo per la sua contemporaneità cronologica ma poiché in esso, così come nel reticolo di installazioni della morte che oramai conosciamo come universo concentrazionario – formula che racchiude nella sua obbligata genericità tutte le peculiarità di un sistema ordito e organizzato per carpire la vita e produrre la morte – si organizzano elementi, strumenti, figure, atteggiamenti, logiche, condotte che sono proprie della nostra epoca. Auschwitz non sta fuori dalla storia, né cronologicamente né logicamente. Semmai fa la storia, sia pure a modo suo, spaccandola in due parti perfette, al centro di un secolo che conosce prima una guerra di annientamento di massa, quella combattuta in Europa tra il 1914 e il 1918, e poi una di deliberato sterminio dei civili, quella che si consuma tra il 1939 e il 1945. Fa la storia frantumandola, rompendola, letteralmente rendendola cenere. E con essa gli uomini e le donne che ne sono rimasti travolti.

Il sistema dei campi che i nazisti vanno costituendo appare così ai nostri occhi in due diversi modi, tra di loro non necessariamente contrastanti, a seconda delle angolature con le quali lo si osserva: di primo acchito, nel momento in cui se ne colgono i contorni, orrendi, ci pare di avere a che fare con un buco nero, una voragine, un crepaccio che si apre ai nostri piedi tanto repentinamente quanto immotivatamente. Una fenditura nel tempo, nello spazio, soprattutto nella logica che ci piacerebbe considerare come dominante, quella della ragione, dell'utilità, ma anche della mediazione, della negoziazione e del reciproco rispetto. Il lager, se nega ogni forma di residua tutela dei diritti, nell'età liberale e delle garanzie, non è però così lontano da una qualche razionalità strumentale. Anzi, in esso se ne celebra una sua piccola apoteosi, come si avrà modo di osservare ancora. Di tale funzione, per molto tempo disconosciuta, oggi siamo in buona misura consapevoli, faticando però a coglierne le conseguenze. Poiché la legittima percezione dei campi di concentramento come di luoghi di abominio, di arbitrio, di prevaricazione deliberata – quindi di collassamento della ragione umana e del senso della pietà – ci impedisce, se diventa l'unico orizzonte al quale volgiamo lo sguardo, di comprendere le motivazioni che portarono alla loro costituzione. Le quali, invece, meglio si colgono se si pensa ad essi, ed è il secondo modo di accostarsi al fenomeno della deportazione e dell'internamento nazista, come a delle istituzioni nelle quali si è dispiegato un preciso progetto politico, sia pure con quelle spinte e controspinte che l'hanno contraddistinto nei dodici anni in cui ha avuto corso. Segnatamente, i dodici anni del regime nazista. Prodotto di una intenzionalità che si articola strada facendo, il lager assume così il profilo di una vera e propria città della morte, con una sua specifica organizzazione sociale, un suo profilo urbanistico, una sua intrinseca logica. In una parola, una sua propria vita, essendo stato creato per seminare morte. A noi interessa di più questo secondo approccio, non escludendo in alcun modo la percezione di annichilimento del sapere, di perdita del significato, di consunzione della speranza che, inesorabilmente, connotò l'esperienza della deportazione così come la memoria che oggi nutriamo d'essa. Ci sforziamo di trovare un equilibrio tra i due piatti della medesima bilancia, per cercare di razionalizzare, nella misura in cui ce n'è data facoltà.

Per fare ciò dobbiamo contemperare elementi diversi della stessa storia. Ovverosia, ci concentriamo sia sulla definizione dello statuto organizzativo e sulle dinamiche di sviluppo dell'istituzione concentrazionaria — dei campi di concentramento propriamente intesi, distinti da quelli di mero sterminio — sia sui gruppi umani che furono in essi imprigionati. Partiamo da un riscontro, il fatto che l'esperienza dell'internamento fu plurale, non solo perché coinvolse una molteplicità di persone ma perché ad essere chiamati in causa furono interi gruppi umani, tra di loro diversi, eterogenei. Di ognuno d'essi cercheremo di stabilire, sia pure per sommi capi, la natura, i tempi, le modalità delle deportazioni così come delle violenze subite. Insieme alle motivazioni che, dal punto di vista nazista, giustificavano la scelta di perseguitarne i componenti. Di tutti, ovvero di ognuna delle persone costrette dietro il filo spinato, non importa a quale gruppo appartenessero, si tenterà di raccontare quel che di comune c'era, ovvero l'esperienza quotidiana della detenzione in un luogo dove si entrava per non uscirne più.

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1.4 Sul metodo

A questo punto occorrerà spiegare al lettore quale genere di libro si trova in mano. È un testo che non ambisce ad essere integralmente innovativo e che tuttavia, nei limiti che gli sono prescritti dalle circostanze in cui si è originato, è stato pensato e prodotto, aspira a dire qualcosa di più riguardo a ciò che si ritiene di già sapere. Per questo si esercita su quanti furono perseguitati, offesi, violati non in virtù dell'appartenenza ad una razza ma in ragione della liceità di condotte, altrimenti inaccettabili, che la stessa ideologia razziale nazista aveva introdotto in Germania e nei territori da essa occupati. C'è un nesso di costanza, di continuità, diremmo quasi di necessità tra il rendere tutti gli ebrei destinatari di pratiche assassine e il ridurre quanti ebrei non erano a potenziali vittime di trattamenti similari. Non sono destini distinti, da questo punto di vista. E non solo perché i primi e i secondi condivisero, non infrequentemente, le medesime violenze negli stessi luoghi. Ma perché, come si avrà modo di riscontrare, la premessa indispensabile affinché zingari, slavi, testimoni di Geova, omosessuali, "asociali" e così via fossero trattati così come lo furono stava nella radice razziale dell'ideologia del Terzo Reich. La soppressione fisica degli avversari politici nel Terzo Reich, ad esempio, non è un sovrappiù rispetto all'ordinaria determinazione con la quale i regimi autoritari procedevano a porre la sordina all'opposizione. C'è dell'altro e sta nelle forme, nell'intensità, nei luoghi, nella ferocia che si accompagnava alle vessazioni, alle persecuzioni, agli omicidi posti in atto. Non si trattava solo di tacitare ma di "curare" la nazione tedesca distruggendone gli elementi tarati, quelli che erano qualificati come parassiti, pulci, zecche dell'arianesimo. La forma lager, tanto per intenderci, non è neutra riguardo a ciò. Così come la capillarità e la sistematicità, la costanza e l'impegno profusi per sorvegliare, controllare e punire fino all'ultimo dei giorni del regime nazista. Il metodo, ci pare di poter dire, si fa merito. Dei "nemici del Reich" non si riempirono le prigioni ma i campi di concentramento dove, per l'appunto, si facevano ben altre cose rispetto a quelle praticate in un luogo di ordinaria detenzione, sotto la giurisdizione della magistratura e nel nome dei codici. Questa architettura della violenza, sospesa tra una sua intima natura sterminazionista e una più concreta vocazione schiavistica, era il prodotto della riduzione del mondo a luogo della guerra razziale. Da ciò derivava il rapporto tra i tedeschi, intesi non più come popolo bensì come "comunità di stirpe", con il resto di un'umanità che non era più concepita come una dimensione poliedrica, ma nel suo nocciolo fondamentale unitaria, bensì come un crogiolo di razze più o meno bastarde o in via di imbastardimento, tra di loro in obbligato e perenne conflitto. Destinata, la stirpe, o a trionfare, facendo perire gli altri, o a perire essa stessa sulle rovine del progetto politico che intendeva affermarne la supremazia. C'è un nesso diretto, una immediata congruenza, quindi, tra le politiche razziali e antisemite — così come con la medesima Shoah — e le condotte criminali delle quali andremo a fare una rassegna dal punto di vista di quanti ne subirono i devastanti effetti. E c'è uno strumento che concretizza tale nesso: ancora una volta i campi di concentramento.

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Quali furono i fattori politici che maggiormente incisero nell'esito genocidiario dell'antisemitismo nazista? Se ne potrebbero enumerare diversi ma certuni sopravanzano altri nella loro importanza:

• una visione radicalmente razzista delle relazioni umane e dei rapporti sociali. L'idea della comunità nazionale di stirpe, un insieme omogeneo di individui uniti da vincoli ancestrali di consanguineità, oltre ad essere un potente costrutto ideologico, diventa così lo strumento di legittimazione per la messa in atto di iniziative politiche caratterizzate dal gusto dell'azzardo, dalla vocazione alla prevaricazione e dal ricorso sistematico e continuativo alla violenza di stato;

• la tradizionale politica di espansione all'Est, perseguita già dalle élite prussiane e ripresa da Hitler con rinnovato vigore;

• il bisogno di accedere al radicale sfruttamento di risorse umane e naturali al fine di alimentare un processo produttivo strettamente correlato alla creazione di una economia di guerra;

• l'enfatica concezione anticomunista del mondo e delle relazioni sociali. Anche in questo caso nulla viene inventato bensì estremizzato. L'avversione verso il "giudeobolscevismo", costruzione ideologica che attribuisce agli ebrei la responsabilità dei mali del comunismo (e del capitalismo, in un curioso e significativo cortocircuito mentale), data a prima dell'avvento di Hitler ma da questi viene eletta a chiave d'interpretazione dell'universo, diventando il centro della sua proposta politica;

• uno stile comunicativo aggressivo e isterico, preludente a continue accelerazioni e radicalizzazioni, nell'identificazione degli obiettivi come nei modi di raggiungerli. L'enfasi posta in tali atti era funzionale alla creazione di uno stato di permanente tensione e mobilitazione tra la popolazione. La guerra ne rappresentò l'esito e la sintesi estrema, quando tutte le forze della nazione furono orientate ad un unico obiettivo, ossia lo sforzo di sostenere i combattenti al fronte;

• una visione messianica della storia, la concezione della politica come missione, l'identificazione nella lotta contro gli ebrei e il bolscevismo di una funzione storica per la Germania. La politica assume così i già ricordati caratteri dello stato di eccezionalità; ogni evento viene compresso e letto all'interno della dinamica amico-nemico, laddove chi non aderisce o non è omologabile ai progetti di nuovo ordine europeo diventa immediatamente un elemento da eliminare.

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3. Il senso della giornata di un deportato


L'esperienza della deportazione e del campo di concentramento ruota intorno a pochi elementi, legati alla fisicità del rapporto con i luoghi e le situazioni. Una fisicità disperata e tragica, fatta di poche e ripetute cose, dei medesimi gesti, delle identiche situazioni sulle quali, però, pesano come una spada di Damocle il caso e l'arbitrio. Il caso che genera la morte; l'arbitrio che è il modo in cui si esprime la volontà di chi ha il potere di mantenere la vita e di comminare la morte. La riduzione delle persone a numeri, pezzi intercambiabili di una macchina, quella del sistema-lager, la loro "reificazione", ovvero il divenire oggetti, perdendo la natura di soggetti, non era un effetto casuale ma il nocciolo stesso, l'essenza dell'universo concentrazionario e dell'esperienza che di esso i reclusi facevano in ogni istante del loro internamento. Il lager funzionava secondo una ferrea routine, quella derivantegli dalla prevedibilità delle funzioni alle quali doveva assolvere e, del pari, da una violenza quotidiana che era istituzionalizzata, ovvero parte integrante dell'insieme di gesti, atti, fatti, condotte legate all'esistenza di quanti vi erano imprigionati. Violenza imposta secondo una logica di fondo che era quella dell'annichilimento del deportato, della disumanizzazione e, infine, della sua soppressione come soggetto fisico ma, prima ancora, come entità umana, come portatore di una soggettività morale e spirituale. Il campo è essenzialmente questo, ovvero un luogo dove si viene concentrati, spogliati della propria individualità, inseriti a forza in una moltitudine, una folla di esseri tutti uguali, gli uni agli altri. Numeri, per l'appunto, o Stücke ("pezzi"). L'elemento di coesione, e nel medesimo tempo di divisione, di tale assembramento di individui era la paura. È difficile descrivere, con le parole che ci sono più proprie, in cosa consistesse questa condizione emotiva, vissuta allo stato puro, ossia senza che fosse offerta a chi la doveva affrontare una qualche opportunità per porvi rimedio, anche solo temporaneo. Vi erano diverse circostanze e modalità per farne esperienza nel campo. Soprattutto, sussisteva il fatto che l'angoscia per il proprio destino, quel senso infinito e indecifrabile di timore per una morte incombente, era il vero orizzonte della giornata del prigioniero. La nota di avvio come quella di conclusione. Senza tregua alcuna.

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4.10 Gli Internati militari italiani dopo l'8 settembre

Lo status dei prigionieri di guerra, dei militari arresisi in combattimento o catturati durante un conflitto, è definito da un insieme di regole precise che ne dovrebbero garantire non solo la sopravvivenza soggettiva ma anche la dignità di gruppo, l'onorabilità dell'appartenenza ad un corpo armato, i diritti inalienabili della personalità individuale. Anche se ciò si verifica in un contesto vincolato dalla coazione alla quale, inevitabilmente, costoro sono sottoposti. Coazione che consiste nell'obbligo di adempiere ai comandi del nemico (la cui autorità, rispetto alle circostanze date, i prigionieri sono tenuti a riconoscere), nella misura in cui questi sono congruenti all'internamento in una struttura carceraria, o comunque di segregazione e isolamento dal resto della popolazione. Ricade in quest'ambito l'obbligazione, per l'imprigionato, di svolgere il lavoro prescrittogli, a patto che esso non sia a diretto vantaggio dell'impegno bellico dell'esercito del paese dal quale è stato catturato. Del pari, gli ufficiali imprigionati non perdono le qualità che sono connesse alla loro collocazione in una precisa scala gerarchica ma possono continuare ad adempiere all'insieme di funzioni che attengono al loro rango nei riguardi della truppa, trattenuta insieme ad essi. Nessun atto ledente la persona, nella sua soggettività, dovrebbe essere compiuto da coloro che l'hanno fatta prigioniera. Queste erano le premesse e gli accordi che vigevano all'avvio del secondo conflitto mondiale, nell'autunno del 1939, riguardo ai militari catturati. Nella seconda guerra mondiale il trattamento riservato dai tedeschi a quanti fecero prigionieri di guerra si diversificò di molto, soprattutto a seconda delle nazionalità di appartenenza. Della condotta nei confronti dei sovietici già si è detto, così come, sia pure implicitamente, dei polacchi catturati in divisa nel settembre 1939. La ragione della durezza che rasentava, nel caso dei primi, lo sterminio di massa, stava dentro la visione rigidamente razziale. In sovrappiù si aggiungeva l'avversione politica nei confronti del regime di cui l'Armata Rossa era espressione. Diverse furono invece le scelte praticate nei riguardi di britannici, statunitensi e, per buona parte, francesi. In una storia delle deportazioni, intesa come narrazione del complesso di condotte e di strutture che si adoperarono per realizzare un progetto schiavistico e di annichilimento, l'internamento militare di queste ultime nazionalità non ha spazio, se non residuale. Non si trattò, in quei casi, di opera di persecuzione ma di detenzione. Più o meno dura ma sostanzialmente legittima poiché esercitata secondo le norme delle Convenzioni di diritto internazionale. Seguendo quelle che erano le regole proprie alla limitazione delle libertà del nemico catturato in armi e in combattimento. E tuttavia proprio per questo, ovvero per la discriminante che faceva sì che la natura mutevole del comportamento tedesco nei confronti dei militari non dipendesse dall'aver imbracciato un fucile indossando una divisa ma da quale tipo di divisa, di quale paese, si calzasse nel momento della cattura, si evince ancora di più la ragione del discorso che si accompagna a queste pagine. Tutta la politica militare e di occupazione germanica, tra il 1939 e il 1945, è basata su princìpi rigidamente razziali. La variabile italiana si inserisce in questo contesto dopo l'8 settembre 1943, quando il cambiamento di regime e di alleanze ingenerano la reazione di Berlino e il tracollo delle istituzioni nazionali, a partire dal Regio Esercito. Se da un punto di vista giuridico i soldati italiani, qualora si fossero opposti manu militari all'ex alleato, avrebbero dovuto essere trattati come i loro omologhi dell'Europa occidentale, concretamente le cose andarono in ben diverso modo. E per come si svolsero esse fanno sì che l'internamento e la deportazione di cui furono vittime possano, di buon grado, essere inscritti all'interno di un quadro che trova nell'annientamento la sua radice o, comunque, il fine ultimo.

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