Autore Jules Verne
Titolo Ventimila leghe sotto i mari
EdizioneRBA, Milano, 2018 , pag. 508, ill., cop.rig., dim. 16,5x23,8x3,5 cm
OriginaleVingt mille lieues sous les mers
LettoreRenato di Stefano, 2019
Classe viaggi , mare , fantascienza , classici francesi , ragazzi









 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 2

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

I
UNO SCOGLIO SFUGGENTE



L'anno 1866 fu segnato da un bizzarro avvenimento, un fenomeno inesplicato e inesplicabile che certo nessuno ha potuto dimenticare. Per non dire delle voci che impressionavano le popolazioni dei porti di mare e accendevano l'opinione pubblica nell'interno dei continenti, i marinai furono in special modo coinvolti. Negozianti, armatori, capitani di nave, skipper e master dell'Europa e dell'America, ufficiali di marina, militari di ogni paese, e con essi i governi dei diversi Stati dei due continenti, si inquietarono straordinariamente di questo fatto.

Da qualche tempo parecchie navi si erano imbattute in alto mare con «una cosa enorme», un oggetto lungo, fusiforme, alcune volte fosforescente e infinitamente più vasto e più rapido di una balena.

I fatti relativi a tale apparizione, registrati nei diversi libri di bordo, coincidevano con una certa esattezza circa la struttura dell'oggetto o dell'essere in questione, circa la velocità inaudita dei suoi movimenti, la meravigliosa potenza della sua locomozione e la vita speciale di cui sembrava animato; se era un cetaceo, era assai più grande di tutti quelli che la scienza aveva classificato fino a quel tempo. Né Cuvier, né Lacépède, né il signor Dumeril, né il signor de Quatrefages avrebbero ammesso l'esistenza di un simile mostro, se pure non l'avessero visto con i propri occhi di scienziati.

Calcolando la media delle osservazioni fatte in occasioni diverse, respingendo le timide valutazioni che attribuivano a quell'oggetto una lunghezza di duecento piedi e del pari le opinioni esagerate che lo volevano largo un miglio e lungo tre, si poteva tuttavia affermare che questo essere fenomenale sorpassava di gran lunga tutte le dimensioni ammesse sino allora dagli ittiologi, se pure esisteva.

Ed esisteva senza dubbio. Il fatto per se stesso non era più negabile. Però se si pensa all'istinto che spinge il cervello umano al meraviglioso, si comprenderà l'emozione prodotta nel mondo intero alla soprannaturale apparizione. Quanto a porla fra le favole, bisognava rinunciarci.

Infatti, il 20 luglio 1866, il piroscafo Governor Higginson della Calcutta and Burnach Steam Navigation Company aveva incontrato questa massa mobile cinque miglia a est delle coste dell'Australia. Il capitano Baker credette, inizialmente, di trovarsi innanzi a uno scoglio sconosciuto e si preparava persino a determinarne la posizione esatta, quando due colonne d'acqua spinte dall'inesplicabile oggetto si innalzarono fischiando a centocinquanta piedi nell'aria. Se pure dunque questo scoglio non era soggetto alle espansioni intermittenti di un geyser, il Governor Higginson aveva a che fare né più né meno che con qualche mammifero acquatico in precedenza sconosciuto, il quale spingeva dai suoi sfiatatoi colonne d'acqua miste d'aria e di vapore.

Simile fatto fu pure osservato il 23 luglio dello stesso anno nei mari del Pacifico dal Cristobal Colon della West-India and Pacific Steam Navigation Company: tale straordinario cetaceo poteva spostarsi da un luogo a un altro con una meravigliosa velocità, visto che a soli tre giorni di distanza il Governor Higginson e il Cristobal Colon l'avevano avvistato in due punti della carta separati da oltre settecento leghe marine.

Quindici giorni più tardi, a duemila leghe da quel luogo, l' Helvetia della Compagnie Nationale e lo Shannon della Royal Mail, navigando a controbordo nella porzione dell'Atlantico compresa fra gli Stati Uniti e l'Europa, si segnalarono reciprocamente il mostro a 42° e 15' di latitudine nord e 60° e 35' di longitudine ovest del meridiano di Greenwich.

In questa osservazione simultanea si credette di poter valutare la lunghezza minima del mammifero a più di trecentocinquanta piedi inglesi, poiché lo Shannon e l' Helvetia erano più piccoli, benché misurassero cento metri da prua a poppa. Ora, le più grandi balene, quelle che frequentano i paraggi delle isole Aleutine, il Kulammak e 1'Umgullick, non hanno mai sorpassato la lunghezza di cinquantasei metri, se pure la raggiungono.

Questi rapporti arrivavano uno dopo l'altro: osservazioni nuove fatte a bordo del transatlantico Le Pereire; l'arrembaggio dell' Etna, appartenente alla linea Himmann, con il mostro; un processo verbale degli ufficiali della fregata francese La Normandie e un gravissimo rilievo fatto dallo stato maggiore del commodoro Fitz James a bordo del Lord Clyde impressionarono profondamente l'opinione pubblica.

Nei paesi facili al riso si pose in burla il fenomeno, ma i paesi seri e pratici, quali l'Inghilterra, l'America e la Germania, se ne preoccuparono.

Dappertutto nei grandi centri il mostro divenne alla moda. Lo si cantò nei caffè, lo si beffeggiò nei giornali e fu rappresentato nei teatri.

I gazzettini ebbero in ciò una magnifica occasione di raccontarne di tutti i colori. E fu allora che si videro riapparire nei giornali, mancanti di materia, tutti gli esseri immaginari e giganteschi, dalla balena bianca, la terribile Moby Dick delle regioni iperboree, fino allo smisurato Kraken, i cui tentacoli possono allacciare un bastimento di cinquecento tonnellate e trascinarlo negli abissi dell'oceano. Si riprodussero persino i processi verbali dei tempi antichi; si citarono le opinioni di Aristotele e di Plinio, i quali ammettevano l'esistenza di simili mostri, e i racconti norvegesi del vescovo Pontoppidan e le relazioni di Paul Heggede, e infine i rapporti del signor Harrington, della cui buona fede non si può dubitare allorquando afferma d'aver visto, standosene a bordo del Castillan, nel 1857, l'enorme serpente che fino ad allora non aveva mai frequentato altri mari fuori da quelli dell'antico Constitutionnel.

Allora scoppiò l'interminabile polemica dei creduli e degli increduli nelle società e nei giornali scientifici. La «questione del mostro» accese gli spiriti; i giornalisti che fanno professione di scienza, in lotta con quelli che fanno professione di spirito, versarono fiotti d'inchiostro durante la memorabile campagna; e non mancò chi spargesse due o tre gocce di sangue, essendo dal serpente di mare passato a ingiurie personali.

Per sei mesi la guerra continuò con esito incerto.

Agli articoli di fondo dell'Istituto Geografico del Brasile, dell'Accademia Reale delle Scienze di Berlino, dell'Associazione Britannica, dell'Istituzione Smithsoniana di Washington, alle discussioni di The Indian Arcipelago, del Cosmos dell'abate Moigno, del Mittheilungen di Peterman, alle cronache scientifiche dei gran giornali della Francia e dell'estero, la piccola stampa rispondeva con un brio inesauribile. I suoi scrittori spiritosi, parodiando un detto di Linneo, citato dagli avversari del mostro, affermavano che «la natura non rendeva sciocchi» e scongiuravano i loro contemporanei di non smentirla ammettendo l'esistenza di Kraken, serpenti marini, Moby Dick e altre simili elucubrazioni di marinai in delirio. Infine, in un articolo di un giornale satirico assai temuto, il più amato dei suoi redattori, scagliandosi contro il mostro come Ippolito, gli affibbiò un ultimo colpo e lo finì in mezzo a uno scoppio di risa universale. Lo spirito aveva vinto la scienza.

Nei primi mesi dell'anno 1867, la questione parve sepolta e sembrava che non dovesse più rinascere, quando nuovi fatti vennero a conoscenza del pubblico.

Non si trattò allora più di un problema scientifico da risolvere, ma di un pericolo reale e grave da evitare. La questione assunse un aspetto differente; il mostro ridivenne isola, roccia, scoglio, ma scoglio fuggente, indeterminabile, inaccostabile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 86

Accettiamo. - gli risposi - Solo vi domanderò il permesso di rivolgervi una domanda, una sola.

- Parlate, signore.

- Voi avete detto che saremo liberi a bordo della vostra nave?

- Interamente.

- Ora io vi domanderò che cosa intendete per questa libertà.

- La libertà di andare, di venire, di vedere, di osservare tutto quello che qui avviene, salvo che in qualche rara eccezione. La libertà infine di cui godiamo noi stessi, i miei compagni e io.

- Scusate, signore, - soggiunsi - ma questa libertà non è che quella che ha un prigioniero di percorrere la propria prigione! E non ci può bastare.

- Bisognerà tuttavia che vi basti!

- Come! Noi dobbiamo rinunciare per sempre a rivedere la nostra patria, i nostri amici, i nostri parenti?

- Sì, signore, ma rinunciare a riprendere l'insopportabile giogo della terra, che gli uomini credono libertà, non è forse così penoso come voi credete.

- Da parte mia - esclamò Ned Land - non vi darò certo la mia parola di non cercar di fuggire.

- Io non chiedo la vostra parola, mastro Land - rispose freddamente il capitano.

- Signore - risposi adirandomi mio malgrado - voi abusate della vostra condizione di fronte a noi! Questa è crudeltà!

- No, signore, è clemenza! Voi siete miei prigionieri dopo un combattimento! Io vi tengo prigionieri, mentre potrei con una parola rituffarvi negli abissi dell'oceano! Mi avete assalito, siete venuti a indagare un segreto che nessun uomo al mondo deve venire a conoscere, e credete che io voglia riportarvi su quella terra che non deve più sapere nulla della mia esistenza! Mai! Trattenendovi con me, non salvaguardo voi, ma me stesso!

Queste parole indicavano da parte del comandante una ferma decisione, contro la quale non sarebbe valso alcun argomento.

- Dunque, - ripresi a dire - ci lasciate semplicemente la scelta tra la vita e la morte?

- Semplicemente.

- Amici, - dissi io - a una questione posta in questi termini non c'è nulla da rispondere, ma nessuna parola ci lega al padrone di questo vascello.

- Nessuna, signore - rispose lo sconosciuto. Poi, con voce più dolce, riprese a dire:

- E ora permettete che io vi dica ciò che devo dirvi: io vi conosco, signor Aronnax. Se non i vostri compagni, voi almeno non avrete forse tanto da lamentarvi della sorte che vi lega alla mia. Troverete fra i libri che servono ai miei studi preferiti l'opera che avete pubblicato sui grandi abissi del mare. L'ho letta parecchie volte, voi avete spinto la vostra opera fin dove permetteva la scienza terrestre, ma non sapete tutto, non avete visto tutto: lasciatemi dunque dire che non rimpiangerete il tempo passato a bordo della mia nave. Viaggerete nel paese delle meraviglie e lo stupore e lo sbalordimento saranno probabilmente lo stato abituale del vostro spirito. Non vi stancherete così presto dello spettacolo incessantemente offerto ai vostri occhi. Io sto per rivedere in un nuovo giro del mondo sottomarino - forse anche l'ultimo - tutto quanto ho potuto studiare in fondo a questi mari, mille volte percorsi, e voi sarete compagno dei miei studi. Da quest'oggi entrate in un nuovo elemento, vedrete ciò che nessun altro uomo ha mai veduto - poiché io e i miei non contiamo - e il nostro pianeta, per opera mia, vi svelerà i suoi ultimi segreti.

Non posso negarlo, queste parole del comandante m'impressionarono vivamente. Io ero preso dal mio lato debole e dimenticavo per un momento che la contemplazione di tali sublimi cose non poteva valere la libertà perduta; e poi contavo sull'avvenire per sciogliere la grave questione, però m'accontentai di rispondere:

- Signore, se voi avete rotto con l'umanità, voglio credere che non avrete rinnegato ogni umano sentimento. Noi siamo naufraghi raccolti da voi, e non lo dimenticheremo certo. Quanto a me, io riconosco che se l'interesse della scienza potesse arrivare ad assorbire perfino il bisogno della libertà, ciò che mi promette il nostro incontro mi offrirebbe grandi compensi.

Credevo che il comandante mi porgesse la mano per stringere i nostri patti, ma non fu così, e me ne dolse per lui.

- Un'ultima domanda - dissi al momento in cui quell'essere incomprensibile sembrava allontanarsi.

- Parlate, signor professore.

- Con quale nome devo chiamarvi?

- Signore - rispose il comandante - io non sono altro per voi che il capitano Nemo, e i vostri compagni e voi non siete per me che i passeggeri del Nautilus.

Il capitano Nemo chiamò: apparve un cameriere. Il capitano gli diede i suoi ordini in quella lingua che io non potevo riconoscere, poi, volgendosi verso Ned e Conseil, disse loro:

- La vostra cena vi aspetta nella vostra cabina, vogliate seguire quest'uomo.

- Queste cose non si rifiutano - rispose il fiociniere.

Conseil e lui uscirono alla fine da quella cella in cui si trovavano chiusi da oltre venti ore.

- E ora, signor Aronnax, la nostra colazione è pronta. Permettete che vi preceda.

- Ai vostri ordini, capitano.

Seguii il capitano Nemo e appena ebbi varcato il limitare dell'uscio percorsi una specie di corridoio, elettricamente illuminato, simile alle corsie di una nave. Dopo circa dieci metri, si aprì un'altra porta innanzi ai miei passi.

Entrai allora in una sala da pranzo, adornata e ammobiliata con un gusto severo. Alte scansie di quercia, intarsiate d'ornamenti d'ebano, si innalzavano alle due estremità della sala, e sulle loro mensole ondulate scintillavano maioliche, porcellane e cristalli dal valore inestimabile. Il vasellame liscio rispondeva alla luce versata dalla volta luminosa, di cui il bagliore era temperato e raddolcito da fine pitture.

Nel mezzo della sala, c'era una tavola riccamente imbandita. Il capitano Nemo mi indicò il posto che dovevo occupare.

- Sedete e mangiate, come un uomo che deve morire di fame.

La colazione si componeva d'un certo numero di piatti, di cui il mare soltanto aveva fornito il contenuto, e di alcune vivande di cui ignoravo la natura e la provenienza. Confesserò che erano buone cose, d'un gusto speciale a cui mi abituai facilmente. Quei vari alimenti mi parvero ricchi di fosforo, e li credetti d'origine marina.

Il capitano Nemo mi guardava. Io non gli chiesi nulla, ma lesse nei miei pensieri e rispose egli stesso alle domande che io mi struggevo dal desiderio di fargli.

- La maggior parte di queste vivande vi è sconosciuta, ma potete cibarvene senza timore perché sono sane e nutrienti. Da tempo ho rinunciato agli alimenti della terra e non mi trovo male. Il mio equipaggio, che è robusto, non si nutre altrimenti.

- Dunque - dissi io - tutti questi alimenti sono prodotti del mare?

- Sì, signor professore, il mare provvede a tutti i miei bisogni. A volte io butto le reti e le ritraggo così colme da rischiare di rompersi; a volte vado a caccia in mezzo all'elemento che pare inaccessibile all'uomo e snido la selvaggina nelle mie foreste sottomarine. Il mio gregge, come quello del vecchio pastore di Nettuno, pascola senza timore nelle immense praterie dell'oceano. Ho una vasta tenuta che sfrutto io stesso e che viene sempre dalla mano del Creatore, popolata di ogni ben di Dio.

Guardai il capitano Nemo con un certo stupore e gli risposi:

- Comprendo perfettamente come le vostre reti forniscano eccellenti pesci alla vostra tavola, e comprendo meno come voi inseguiate la selvaggina acquatica delle vostre foreste sottomarine, ma non comprendo affatto che una particella di carne, per quanto piccola, non figuri nella vostra dieta.

- Eppure, signore - mi rispose il capitano - io non faccio mai uso della carne di animali terrestri.

Questo tuttavia - osservai mostrando un piatto in cui rimanevano ancora alcune fette di filetto...

- Ciò che voi credete carne non è altrimenti che filetto di tartaruga marina, ecco anche un piatto di fegato di delfino, che piglierete per un intingolo di maiale. Il mio cuoco è un abile preparatore, eccellente per conservare i vari prodotti dell'oceano. Assaggiate tutti questi cibi. Ecco una conserva di oloturie che un malese direbbe non aver rivali al mondo, ecco una crema il cui latte fu fornito dalla mammella dei cetacei e lo zucchero dai gran fuchi del Mare del Nord, e infine permettetemi di offrirvi confetture di anemoni che sono meglio dei frutti più saporiti.

Io assaggiavo più da curioso che da buongustaio, mentre il capitano Nemo mi meravigliava con i suoi racconti inverosimili.

- Ma questo mare, signor Aronnax - mi disse - questa nutrice prodigiosa, perenne, non mi alimenta soltanto, ma mi veste anche. Le stoffe che vi coprono sono tessute con il bisso di certe conchiglie; esse sono tinte con la porpora degli antichi, con i colori violacei che io estraggo dall' Aplysia del Mediterraneo. Le essenze che troverete nella toeletta della vostra cabina sono ottenute con la distillazione di piante marine; il vostro letto è fatto con il più dolce zostero dell'oceano. La vostra penna sarà una barbicella di balena e il vostro inchiostro il liquido che secerne la seppia e il calamaro. Ogni cosa mi viene oggi dal mare, e ogni cosa gli ritornerà un giorno!

- Voi amate il mare, capitano?

- Sì, lo amo! Il mare è tutto. Copre i sette decimi del globo terrestre, il suo soffio è puro e sano, l'immenso deserto in cui l'uomo non è mai solo, poiché sente fremere la vita al suo fianco. Il mare non è altro che il veicolo di una naturale e prodigiosa esistenza; non è che movimento e amore, è l'infinito vivente, come ha detto uno dei vostri poeti. Infatti, signor professore, la natura vi si manifesta con i suoi tre regni: minerale, vegetale, animale. Quest'ultimo vi è largamente rappresentato dai quattrocento gruppi di zoofiti, da tre classi di articolati, da cinque classi di molluschi, da tre classi di vertebrati, dai mammiferi, dai rettili e dalle innumerevoli legioni di pesci, che contano oltre tredicimila specie, di cui un decimo soltanto appartiene all'acqua dolce. Il mare è il serbatoio della natura, con esso il globo è nato, e chissà che non finisca con esso. Qui c'è la suprema tranquillità. Il mare non appartiene ai despoti, che possono esercitare iniqui diritti solo alla sua superficie, e battersi, e divorarsi, e trasportarvi tutti gli orrori della terra. Ma a trenta piedi sotto il suo livello il loro potere cessa, si estingue la loro influenza, e ogni loro potenza svanisce! Ah! signore, vivete, vivete in mezzo ai mari! Qui soltanto si è indipendenti, qui non esistono padroni, qui sono libero!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 98

Accanto alle opere d'arte, le rarità naturali occupavano un luogo importantissimo. Erano principalmente piante, conchiglie e altri prodotti dell'oceano, certe prede personali del capitano Nemo. Nel mezzo della sala uno zampillo d'acqua illuminato elettricamente ricadeva in una vasca fatta da una valva di tridacna. Questa conchiglia fornita dal più grande dei molluschi acefali, dagli orli o festoni delicati, misurava una circonferenza di sei metri circa. Superava dunque in grandezza le belle tridacne che furono regalate a Francesco I dalla Repubblica di Venezia, e di cui la chiesa di Saint-Sulpice di Parigi ha fatto due gigantesche acquasantiere.

Intorno a quella vasca, sotto eleganti vetrine fermate da armature di rame, si vedevano classificati ed etichettati i più preziosi prodotti del mare che mai occhio di naturalista abbia veduto.

Si immagini la mia gioia di professore.

Il ramo degli zoofiti offriva curiosissimi campioni dei suoi due gruppi di polipi e di echinodermi. Del primo gruppo, tubipore e gorgonie a foggia di ventaglio, spugne dolci della Siria, issidi delle Molucche, pennatule, una mirabile virgularia dei mari della Norvegia, ombellularie variate, alcionari e tutta una serie di quelle madrepore che il mio maestro Milne-Edwards ha così sagacemente classificato in sezioni e fra le quali io notavo ammirabili flabelline, oculine dell'isola Bourbon, il carro di Nettuno delle Antille, superbe varietà di coralli, tutte le infinite specie dei curiosi polipi la cui riunione forma intere isole che diventeranno un giorno continenti. Fra gli echinodermi, notevoli per la loro scorza spinosa, le asterie, le stelle di mare, le pentacrine, le comatule, gli asterofiti, i ricci, le oloturie, rappresentavano la compiuta collezione degli appartenenti a questo gruppo.

Un conchigliologo, un po' debole di nervi sarebbe venuto meno certamente dinnanzi ad altre più numerose vetrine, dove erano classificati i campioni del ramo dei molluschi. Vidi una collezione inestimabile, per descrivere la quale mi mancherebbe il tempo. Citerò, fra quei prodotti, l'elegante martello reale dell'Oceano Indiano, le cui regolari macchie bianche spiccavano vivacemente sopra uno sfondo rosso bruno, uno spondilo imperiale dai colori vivaci, irto interamente di spine, esemplare raro nei musei europei, che stimo ventimila franchi, un martello comune dei mari della Nuova Olanda, difficile da trovare; esotiche buccardie del Senegal, fragili conchiglie bianche bivalvi, che un soffio avrebbe dissipato come bolle di sapone; molte varietà di innaffiatoi di Giava, specie di tubi calcarei orlati di piegature fogliacee, molto ricercati dagli amatori; un'intera serie di tronchi giallo-verdastri, pescati nei mari d'America, di un bruno rossiccio; gli altri amici delle acque della Nuova Olanda, questi provenienti dal Golfo del Messico, e quelli notevoli per la loro conchiglia imbricata, stellarie trovate nell'Australia; e infine, più raro di ogni altro, il magnifico sperone della Nuova Zelanda. Poi ammirabili telline sulfuree, preziose specie di citeree e di veneri, il quadrante ingraticolato delle coste di Tranquebar, lo zoccolo marmorizzato dalla madreperla splendente, i parrocchetti verdi dei mari della Cina, il cono pressoché sconosciuto del genere Coenodulli, tutte le varietà di porcellane che servono da moneta in India e in Africa, la Gloria del mare, la più preziosa conchiglia delle Indie Orientali. Infine littorine, delfinule, turritelle, iantine, ovuli, volute, olive, mitre, caschi, porpore, buccine, arpe, rocce, tritoni, cerite, fusi, strombi, pteroceri, patelle, iali, deodori, conchiglie fragili e delicate che la scienza ha battezzato con i nomi più graziosi.

In disparte e in speciali scompartimenti si snodavano corone di bellissime perle che la luce elettrica macchiava di punte di fuoco: perle rosa, strappate alle pinne marine del Mar Rosso; perle verdi di Haliotis iris; perle gialle, azzurre, nere, curiosi prodotti di vari molluschi di tutti gli oceani, e certi datteri di mare dei corsi d'acqua del nord; infine molti campioni di valore inestimabile, che erano stati distillati dalle pintadine più rare. Talune di queste perle superavano per dimensioni un uovo di piccione e valevano, se non più, quanto quelle che il viaggiatore Tavernier vendette per tre milioni allo scià di Persia, e superavano quell'altra perla dell'Iman di Mascate, che io credevo senza rivali al mondo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 111

XIII
ALCUNE CIFRE

Un istante dopo eravamo seduti sopra un divano della sala, con il sigaro in bocca. Il capitano mi pose sotto gli occhi un disegno che dava il piano, lo spaccato e l'elevazione del Nautilus. Poi incominciò la sua descrizione in questi termini:

- Ecco, signor Aronnax, le diverse dimensioni del battello che vi trasporta. È un cilindro molto allungato, ha estremità coniche e si avvicina molto alla forma di un sigaro, forma già adottata a Londra in molte costruzioni della stessa natura. La lunghezza di questo cilindro da un capo all'altro è esattamente di settanta metri e il suo baglio dove è più largo misura otto metri. Non è dunque costruito precisamente nelle proporzioni del decimo, come i vostri piroscafi veloci, ma le sue linee sono sufficientemente lunghe e la sua stella prolungata tanto che basti perché l'acqua smossa sfugga agevolmente e non opponga alcun ostacolo al suo cammino. Queste due dimensioni vi permettono di ottenere con un calcolo semplicissimo la superficie e il volume del Nautilus. La sua superficie comprende mille e undici metri e quarantacinque centimetri quadrati e il suo volume mille e cinquecento metri cubi e due decimi. Ciò è come dire che quando è interamente immerso sposta o pesa mille e cinquecento metri cubi o tonnellate.

«Quando ho fatto il piano di questa nave destinata alla navigazione sottomarina volli che, galleggiando sull'acqua, si immergesse per nove decimi e che emergesse d'un decimo soltanto. Dunque non doveva spostare in tali condizioni che nove decimi del suo volume, ossia milletrecentoquarantasei metri cubi e quarantotto centesimi, e cioè non pesare che questo stesso numero di tonnellate. Dovetti dunque non sorpassare tale peso, secondo le dimensioni suddette. Il Nautilus si compone di due gusci, l'uno interno, l'altro esterno, riuniti fra di loro da ferri a forma di «T» che gli danno un'estrema rigidezza. Infatti, nell'opera di questa disposizione cellulare, esso resiste come un masso, come se fosse pieno. Il suo bordo non può cedere, poiché aderisce di per sé e non in virtù di tavole congiunte con chiodi ribaditi, e l'omogeneità della sua costruzione, dovuta alla perfetta fusione dei materiali, mi permette di sfidare i mari più irati.

«Questi due gusci sono fabbricati con lastre d'acciaio, la cui densità rispetto all'acqua è di sette o otto decimi. Il primo non ha meno di cinque centimetri di grossezza e pesa trecentonovantaquattro tonnellate e novantasei centesimi; il secondo involucro, la chiglia alta cinquanta centimetri, è largo venticinque del peso di sessantadue tonnellate; la macchina, la zavorra, i vari accessori e utensili, i tramezzi e i puntelli interni hanno un peso di novecentosessantuno tonnellate e sessantadue centesimi, i quali, aggiunti alle trecentonovantaquattro tonnellate e novantasei centesimi, formano il totale richiesto di milletrecentocinquantasei tonnellate e quarantotto centesimi. Ci intendiamo?

- Ci intendiamo - risposi.

- Dunque - riprese a dire il capitano - quando il Nautilus si trova a galla in queste condizioni, emerge di un decimo. Ora, se ho disposto serbatoi di capacità uguale a questo decimo, che possano cioè contenere centocinquanta tonnellate e cinquantadue centesimi, e se li riempio d'acqua, allora il battello spostando millecinquecentosette tonnellate si immergerà del tutto. Questo succede effettivamente. Tali serbatoi esistono nelle parti inferiori del Nautilus e non devo fare altro che aprire dei rubinetti perché si riempiano e il battello si tuffi fino a fior d'acqua.

- Benissimo, capitano, ma qui sta appunto la vera difficoltà. Comprendo come possiate sfiorare la superficie del mare, ma più sotto, nello sprofondarvi ulteriormente, il vostro apparecchio sottomarino non incontra forse una pressione e non subisce per conseguenza una spinta dal basso in alto, che deve essere valutata un'atmosfera ogni trenta piedi d'acqua, ovvero, circa un chilogrammo ogni centimetro quadrato?

- Perfettamente, signore.

- Dunque, se pure voi non riempite interamente il Nautilus, non comprendo in qual modo possiate spingerlo in fondo alle masse liquide.

- Signor professore - disse il capitano Nemo - non bisogna confondere la statica con la dinamica, altrimenti si è esposti a commettere dei gravi errori. Occorre pochissima fatica per raggiungere le basse regioni dell'oceano, poiché i corpi tendono a sprofondare. Seguite il mio ragionamento.

- Vi ascolto, capitano.

- Quando volli determinare l'accrescimento di peso che conveniva dare al Nautilus per sommergerlo, non mi preoccupai se non della riduzione di volume che l'acqua del mare prova a mano a mano che i suoi strati si fanno più profondi.

- È evidente - risposi.

- Ora, se l'acqua non è assolutamente incomprimibile, è perlomeno assai poco comprimibile. Infatti, stando ai calcoli più recenti, questa riduzione non è che di quattrocentotrentasei dieci milionesimi ogni atmosfera, ovvero ogni trenta piedi di profondità. Si tratta di immergersi a mille metri, e tengo conto della riduzione del volume sotto una pressione equivalente a quella di una colonna d'acqua di mille metri, vale a dire sotto una pressione di mille atmosfere. Tale riduzione sarà allora di quattrocentotrentasei centomillesimi; dunque aumenterò il peso in modo che sia millecinquecentosettantasette tonnellate e settantasette centesimi, invece di millecinquecentosette tonnellate e due decimi. L'aumento non sarà dunque che di sei tonnellate e cinquantasette centesimi.

- Soltanto?

- Soltanto, signor Aronnax, e il calcolo è facile da verificare. Ora ho serbatoi supplementari capaci d'imbarcare cento tonnellate, posso quindi discendere a profondità considerevoli. Se voglio risalire alla superficie e sfiorarla, mi basta cacciar fuori l'acqua e vuotare interamente tutti i serbatoi, se voglio che il Nautilus emerga del decimo della sua capacità totale.

[...]

- Per governare il battello, a tribordo o a babordo, per manovrarlo insomma secondo un piano orizzontale, mi servo di un timone ordinario, a largo rovescio, fisso sulla parte posteriore della ruota di poppa, mosso da una ruota e da paranchini. Ma posso pure manovrare il Nautilus dall'alto in basso, e dal basso in alto, secondo un piano verticale, per mezzo di due piani inclinati, attaccati ai suoi fianchi sul centro della linea di fior d'acqua, piani mobili acconci a prendere tutte le posizioni e che si manovrano dall'interno con leve poderose. Se questi piani sono mantenuti paralleli al battello, questi si muove orizzontalmente; se sono inclinati, secondo la disposizione dell'inclinazione, la mia nave, cedendo alla spinta dell'elica, o si tuffa o sprofonda seguendo una diagonale allungata quanto desidero, o risale seguendo ugualmente una diagonale. Inoltre, se voglio ritornare più presto in superficie, arresto l'elica, e la pressione delle acque fa rimontare verticalmente il Nautilus come un pallone che, gonfio d'idrogeno, si innalzi rapidamente nell'aria.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 239

I
L'OCEANO INDIANO



Qui comincia la seconda parte di questo viaggio sotto i mari. La prima si concluse con la scena commovente del cimitero di corallo, scena che impressionò profondamente il mio spirito. Così dunque, in mezzo all'immensità del mare, si svolgeva tutta la vita del capitano Nemo, e perfino la sua tomba era preparata nel più impenetrabile degli abissi. Qui non uno dei mostri dell'oceano doveva turbare l'ultimo sonno degli abitanti del Nautilus, amici, congiunti gli uni agli altri, così in morte come in vita. «Né i pescecani, né gli uomini!» aveva detto il capitano.

Sempre la stessa diffidenza implacabile, fiera, verso l'umana società! In quanto a me, non ero soddisfatto delle ipotesi che accontentavano Conseil. Il degno giovanotto persisteva a non vedere nel comandante del Nautilus altro che uno di quegli scienziati sconosciuti, che pagano l'indifferenza dell'umanità con il disprezzo. Per lui era ancora un genio incompreso, che, stanco dei disinganni della terra, aveva dovuto rifugiarsi in quell'inaccessibile mezzo, dove i suoi istinti si esercitavano liberamente. Ma, a parer mio, quell'ipotesi non spiegava che in parte l'indole del capitano Nemo.

Infatti, il mistero dell'ultima notte, durante la quale eravamo stati rinchiusi nella cella e fatti addormentare, la precauzione così violenta di strapparmi dagli occhi il cannocchiale mentre mi accingevo a scrutare l'orizzonte, la mortale ferita di quell'uomo dovuta a un urto inspiegabile del Nautilus, tutto ciò mi spingeva verso nuove idee.

No, il capitano Nemo non si accontentava di fuggire dagli uomini. Il suo formidabile apparecchio non serviva soltanto ai suoi istinti di libertà, ma forse anche non si sa a quali terribili rivincite.

In questo momento nulla per me è evidente, nelle tenebre altro non vedo che bagliori. Mi devo limitare a scrivere, per così dire, sotto la dettatura degli avvenimenti.

D'altra parte nulla ci lega al capitano Nemo. Egli sa bene che fuggire dal Nautilus è impossibile. Non siamo nemmeno prigionieri, sulla parola. Nessun patto d'onore ci incatena. Altro non siamo che prigionieri mascherati con il nome di ospiti, per apparenza di cortesia. Tuttavia Ned Land non ha rinunciato alla speranza di tornare libero e certo è che sfrutterà la prima occasione che il caso gli presenti. Io farò come lui e, pur non senza una specie di rammarico, porterò con me ciò che la generosità del capitano ci avrà lasciato scoprire dei misteri del Nautilus. E dunque bisogna odiare quest'uomo o ammirarlo? È una vittima o un carnefice?

E poi, per essere schietti, vorrei, prima di abbandonarlo per sempre, aver compiuto il giro del mondo sottomarino, le cui prime impressioni furono così splendide. Vorrei aver osservato l'intera serie delle meraviglie accumulate sotto i mari del globo. Vorrei aver visto ciò che nessun uomo ha visto ancora, dovessi pagare con la vita l'insaziabile bisogno di sapere. Che cosa ho scoperto fino a ora? Nulla, o quasi, perché non abbiamo percorso che seimila leghe attraverso il Pacifico.

Eppure so che il Nautilus si avvicina alle terre abitate e che, se ci si presentasse qualche speranza di salvezza, sarebbe cosa crudele sacrificare i miei compagni alla mia passione per l'ignoto. Bisognerà seguirli, forse anche guidarli.

Ma ci si offrirà mai una simile occasione? L'uomo, privato a forza del suo libero arbitrio, desidera questa occasione. Lo scienziato, il curioso, la teme.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 342

Era l'una del mattino ed eravamo giunti alle pendici del monte. Ma per arrampicarci dovemmo avventurarci per i difficili sentieri di un vasto bosco. Sì! Un bosco di alberi morti, senza foglie, senza linfa, alberi, mineralizzati sotto l'azione delle acque e su cui, qua e là, si ergevano giganteschi pini. Era come una miniera di carbone fossile ancora in piedi, che si aggrappava con le radici al suolo scavato e i cui rami si disegnavano limpidamente sulle acque come sottili ritagli di carta nera. Si immagini una foresta di Hartz, addossata ai fianchi di una montagna, ma una foresta sommersa. I sentieri erano ingombri di alghe e di fuchi, fra i quali brulicava un mondo di crostacei. Procedevo arrampicandomi sulle rocce, scavalcando i tronchi distesi, spezzando le liane marine che si estendevano da un albero all'altro, spaventando i pesci che volavano di ramo in ramo. Nella foga non sentivo più la fatica e seguivo la mia guida che sembrava infaticabile.

Che spettacolo! E come tradurlo, e come dipingere l'aspetto di quei legni e di quelle rocce nel mezzo liquido, le loro parti inferiori tenebrose e rudi e le loro parti superiori colorate di tinte rosse alla luce raddoppiata dal potere di riflessione delle acque? Ci arrampicavamo sopra rocce che franavano dopo il nostro passaggio in massi enormi con un sordo brontolio di valanga. A dritta, a mancina, si sprofondavano tenebrose gallerie, in cui l'occhio si smarriva. Qui si aprivano larghi spiazzi che parevano essere stati disboscati dalla mano dell'uomo e mi chiedevo talvolta se qualche abitante di quelle regioni sottomarine non dovesse apparirmi all'improvviso.

Ma il capitano Nemo saliva sempre e, non volendo rimanere indietro, lo seguivo arditamente. Il bastone mi era di grande aiuto, dato che un passo falso sarebbe stato pericoloso in quelle strettoie che si aprivano sull'orlo di abissi. Ma io camminavo con piede sicuro, senza provare l'ebbrezza della vertigine. Ora saltavo un crepaccio, la cui profondità mi avrebbe fatto retrocedere sui ghiacciai della terra; e ora mi avventuravo sul tronco vacillante di alberi gettati dall'uno all'altro abisso, senza guardarmi ai piedi, non avendo occhi che per ammirare i luoghi selvaggi di quella regione. Là monumentali rocce, in stato precario su basi irregolari, sembravano sfidare le leggi dell'equilibrio. Fra le loro ginocchia di pietra sorgevano alberi come zampilli prodotti da una formidabile pressione, dando forza al materiale che li sorreggeva.

Poi torri naturali e falde di rocce tagliate a picco come cortine si inclinavano sotto un angolo che le leggi della gravità avrebbero vietato sulla superficie terrestre. Io stesso sentivo quella differenza dovuta alla potente densità dell'acqua, quando, malgrado le mie vesti pesanti, la mia testa di rame e le mie scarpe di metallo, mi inerpicavo sopra balze ripidissime, superandole per così dire con la leggerezza di un camoscio!

Capisco che ciò che narro di questa escursione sottomarina non sembra verosimile; sono narratore di cose impossibili in apparenza, ma che sono tuttavia avvenute davvero, e incontrastabili. Non ho sognato, ho visto e sentito!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 345

[...]

Lo seguii con un ultimo slancio e in pochi minuti fui sul vertice, che dominava da una decina di metri tutta quella massa di rocce. Guardai la costa che avevamo, valicato. La montagna non si ergeva che sette o ottocento piedi sulla pianura, ma nell'opposto versante dominava di una doppia altezza il fondo di quella porzione dell'Atlantico. I miei sguardi si spingevano lontano e abbracciavano un vasto spazio rischiarato da un intenso sfolgorio. Quella montagna era un vulcano. A cinquanta piedi sotto il picco, in mezzo a una pioggia di pietre e di scorie, un largo cratere eruttava torrenti di lava che si disperdevano in una cascata di fuoco, in mezzo alla massa liquida. Quel vulcano, come una fiaccola immensa, rischiarava la pianura fino agli estremi confini dell'orizzonte.

Ho detto che il cratere sottomarino eruttava lava ma non fiamme: alle fiamme, infatti, occorre ossigeno e non potrebbero svilupparsi sotto all'acqua; ma torrenti di lava, che hanno in se stessi il principio della loro incandescenza, possono arrossarsi, lottare vittoriosamente contro l'elemento liquido ed evaporare al suo contatto.

Rapide correnti trasportavano tutti quei gas diffusi, e i torrenti di lava scivolavano fino al basso della montagna, come quelli del Vesuvio sopra un'altra Torre del Greco.

Qui, infatti, mi appariva davanti agli occhi, crollata, inabissata, demolita, una città distrutta, con i tetti sfondati, i templi abbattuti, gli archi infranti, le colonne giacenti a terra. Si vedevano ancora le robuste proporzioni di una specie di architettura toscana, tra cui i pochi avanzi di un gigantesco acquedotto; qui la base di un'acropoli con le forme incerte di un Partenone, là vestigia di ripe come se qualche antico porto avesse un tempo accolto i vascelli mercantili o le triremi di guerra sulle spiagge di un oceano scomparso; e più lontano ancora lunghe linee di muraglie diroccate, larghe vie deserte, tutta una Pompei seppellita sotto le acque che il capitano Nemo risuscitava di fronte al mio sguardo.

Dov'ero? Dove mi trovavo? Volevo saperlo a tutti i costi, volevo parlare, volevo strappare la sfera di rame che mi toglieva la voce.

Ma il capitano Nemo si avvicinò a me e mi arrestò con un cenno. Poi, raccogliendo un pezzo di pietra cretosa, si avvicinò a una roccia di basalto nero e tracciò questa sola parola:


ATLANTIDE



Fu un baleno di lune nel mio spirito! L'Atlantide, l'antica Meropide di Teopompo, l'Atlantide di Platone, quel continente negato da Origene, Porfirio, Giamblico, D'Anville, Malte-Brun, Humboldt, che collocavano la sua scomparsa tra le leggende, riconosciuta da Posidonio, Plinio, Ammiano Marcellino, Tertulliano, Engel, Sherer, Tournefort, Buffon, d'Avezac, era davanti a me e portava ancora le incontrastabili testimonianze della sua catastrofe! Era dunque quella regione inghiottita che esisteva fuori dall'Europa, dall'Asia, dalla Libia, al di là delle colonne d'Ercole in cui viveva quel forte popolo degli atlantidi contro cui si fecero le prime guerre dell'antica Grecia. Lo storico che ha tramandato nelle sue scritture i fatti di quei tempi eroici è lo stesso Platone, il suo dialogo di Timeo e di Crizia fu, per così dire, scritto sotto l'ispirazione di Solone, poeta e legislatore.

Un giorno Solone stava discorrendo con alcuni vecchi saggi di Sais, città che già aveva ottocento anni, come testimoniavano i suoi annali scolpiti sui sacri muri dei suoi templi, e uno di quei vegliardi raccontò la storia di un'altra città più antica di mille anni. Quella primitiva città ateniese era stata invasa e distrutta in parte dagli atlantidi, che, egli diceva, occupavano un continente immenso, più esteso dell'Africa e dell'Asia insieme, che copriva una superficie compresa fra il 12° e il 40° di latitudine nord. Il loro dominio si estendeva fino allo stesso Egitto, e vollero imporsi anche in Grecia, ma dovettero ritirarsi di fronte all'indomabile resistenza degli elleni. Passarono secoli, ci fu un cataclisma, inondazioni, terremoti; e un giorno e una notte bastarono ad annientare quell'Atlantide le cui più alte vette, Madera e le Azzorre, le Canarie e le isole del Capo Verde, emergono ancora.

Tali erano i ricordi storici che l'iscrizione del capitano Nemo faceva rivivere nella mia mente. Così dunque, guidato dal più strano destino, io premevo con il piede una delle montagne di quel continente e toccavo con mano quelle rovine mille volte secolari e contemporanee alle epoche geologiche! Camminavo dove avevano camminato i contemporanei del primo uomo. Schiacciavo con le mie suole pesanti gli scheletri di animali dei tempi favolosi, cui questi alberi, ora mineralizzati, offrivano un tempo la loro ombra!

Ah! Se non mi fosse mancato il tempo avrei voluto scendere le chine ripide di quella montagna e percorrere interamente quell'immenso continente, che senza alcun dubbio collegava l'Africa con 1'America, e visitare quelle grandi città antidiluviane! Là forse, sotto i miei sguardi, si estendevano Machimos la guerriera, Eusebe la pia, città i cui giganteschi abitanti vivevano secoli interi e ai quali non mancava la forza per ammucchiare quei massi che resistevano ancora all'azione delle acque. Forse un giorno qualche fenomeno eruttivo riporterà alla superficie delle onde quelle rovine sommerse!

| << |  <  |