Autore Jules Verne
CoautoreM. Riou [illustrazioni]
Titolo Viaggio al centro della terra
Sottotitoloe Un dramma al Messico, Dieci ore di caccia
EdizioneRBA, Milano, 2018 , pag. 330, ill., cop.rig., dim. 16,5x23,8x2,5 cm
OriginaleVoyage au centre de la Terre - Un drame au Mexique - Dix heures en chasse
LettoreRenato di Stefano, 2019
Classe viaggi , fantascienza , classici francesi , ragazzi









 

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Pagina 7

I



Il 24 maggio 1863, una domenica, mio zio, il professor Lidenbrock, rientrò in gran fretta nella sua abitazione posta al n. 19 di Königstrasse, una delle più antiche strade del vecchio quartiere di Amburgo.

La buona Marta ebbe ragione di credersi assai in ritardo, visto che il desinare cominciava appena a canticchiare sul fornello della cucina.

«Se mio zio ha fame,» dissi dentro di me «egli, che è il più impaziente dei mortali, getterà gridi d'affanno».

- Di già il signor Lidenbrock! - esclamò la buona Marta stupefat- ta, socchiudendo la porta della sala da pranzo.

- Sì, Marta, ma il desinare ha diritto di non essere cotto, poiché non sono ancora le due: la mezz'ora è appena suonata a San Michele.

- Quand'è così, perché il signor Lidenbrock è in casa?

- Egli ce lo dirà senza dubbio.

- Eccolo! Mi pongo in salvo, signor Axel; voi gli farete intendere la ragione.

E la buona Marta riparò nel suo laboratorio culinario.

Rimasi solo. Ma far intendere la ragione al più irascibile dei professori è qualcosa che la mia indole alquanto titubante non mi permetteva; perciò mi stavo accingendo a ritrarmi prudentemente nella mia cameretta al piano superiore, quando la porta dell'ingresso cigolò sui cardini; passi pesanti si udirono su per le scale di legno e il padrone di casa, attraversata la sala da pranzo, si precipitò nel suo studiolo.

Ma durante il rapido passaggio egli aveva gettato in un cantuccio la sua mazza dal pomo a foggia di schiaccia-nocciole, sulla tavola il largo cappello a peli arruffati, e al nipote queste parole rimbombanti:

- Axel, seguimi!

Io non avevo ancora avuto il tempo di muovermi che già il professore mi apostrofava con vivo accento d'impazienza.

- Ebbene, non vieni ancora?

Mi slanciai nel gabinetto del mio formidabile maestro.

Otto Lidenbrock non era già un tristo uomo, ne convengo di buon grado; ma se pure non accadono improbabili mutamenti, egli morrà nella pelle d'un uomo terribilmente stravagante.

Era professore al Johannæum e vi dava lezioni di mineralogia, durante le quali andava regolarmente in collera un paio di volte. Non già che egli tenesse ad avere allievi assidui, né che si desse gran pensiero del grado d'attenzione che gli accordavano, né del successo che potevano ottenere per tal via; questi particolari non lo inquietavano punto. Professava soggettivamente, secondo un'espressione della filosofia tedesca, per sé e non per altri. Era un dotto egoista, un pozzo di scienza la cui carrucola strideva quando si voleva trarne alcuna cosa: in una parola, un avaro. In Germania di siffatti professori non ne mancano.

Mio zio disgraziatamente non godeva d'una estrema facilità di pronuncia: se non nell'intimità, per lo meno quando parlava in pubblico, difetto spiacevolissimo per un oratore. Infatti nelle sue dimostrazioni al Johannæum, non di rado il professore s'arrestava di botto, lottava contro un vocabolo recalcitrante che non voleva uscirgli dalle labbra, uno di quei vocaboli che resistono, si gonfiano e finiscono con il venir fuori nella forma poco scientifica d'una imprecazione. Di qui la sua gran collera.

Ora esiste in mineralogia un gran numero di denominazioni semi-greche, semi-latine, difficili a pronunciare, rudi appellativi che scorticherebbero le labbra d'un poeta. Io non voglio già dir male di questa scienza, il cielo me ne guardi!, ma quando si hanno dinanzi le cristallizzazioni romboedriche, le resine retinasfaltiche, i galeniti, i fangasiti, i molibdati di piombo, i tungstati di manganese e i titaniati di zircone, è permesso alla lingua più abile di far fallo.

Nella città era notorio questo perdonabile difetto di mio zio, se ne abusava, lo si attendeva nei passi pericolosi; egli infuriava, e si rideva, la qual cosa non è di buongusto nemmeno per i tedeschi, e se vi era sempre gran concorso di uditori alle lezioni di Lidenbrock, molti dei più assidui venivano specialmente per divertirsi alle amene collere del professore.

Comunque sia, mio zio, io non l'avrò mai detto abbastanza, era un vero dotto. Benché spezzasse talvolta i suoi campioni nel saggiarli troppo bruscamente, tuttavia congiungeva al genio del geologo l'occhio del mineralogista; con il suo martello, con la sua punta d'acciaio, con il suo ago calamitato, con il suo cannello e con la sua boccetta d'acido nitrico, era uomo validissimo. Alla frattura, all'aspetto, alla durezza, alla fusibilità, al suono, all'odore e al gusto d'un minerale qualunque, egli lo classificava senza esitazione fra le seicento specie che la scienza conta oggigiorno.

Perciò il nome di Lidenbrock era ripetuto con onore nei ginnasi e nelle accademie nazionali. I signori Humphry Davy, von Humboldt, i capitani Franklin e Sabine non tralasciavano di fargli visita quando si trovavano di passaggio ad Amburgo, e i signori Becquerel, Ebelmen, Brewster, Dumas, Milne-Edwards, Saint Claire-Deville usavano consultarlo circa le questioni più nuove della chimica, scienza che gli andava debitrice di bellissime scoperte: nel 1853 era apparso a Lipsia un Trattato di cristallografia trascendente del professor Otto Lidenbrock, un bel volume in formato in folio e con illustrazioni, che tuttavia non pagò le spese.

Aggiungete che mio zio era conservatore del Museo mineralogico del signor Struve, ambasciatore di Russia, una preziosa raccolta di rinomanza europea.

Questo è dunque il personaggio che mi chiamava con tanta impazienza. Immaginate un uomo alto, magro, dalla salute di ferro, d'un biondo giovanile che toglieva dieci buoni anni alla sua cinquantina; i suoi occhi senza riposo apparivano stralunati dietro gli enormi occhiali; il suo naso lungo e smilzo aveva l'aspetto d'una lama affilata: i maldicenti pretendevano perfino che fosse calamitato e che attirasse la limatura di ferro. Calunnie: non attirava che il tabacco, ma in grande abbondanza, bisogna dirlo.

Quando avrò aggiunto che mio zio faceva passi di matematica regolarità lunghi una mezza tesa e che nel camminare teneva i pugni fortemente serrati, segno di temperamento impetuoso, lo si conoscerà quanto basti per non mostrarsi ghiotti della sua compagnia. Egli abitava in un piccolo edificio di Königstrasse, di legno e mattoni, con il cornicione dentellato, affacciato in uno di quei canali sinuosi che s'incrociano nel cuore del più antico quartiere d'Amburgo che l'incendio del 1842 ha per buona sorte rispettato.

La vecchia casa pencolava alquanto, non si può negare, e offriva il ventre ai passanti. Portava il suo tetto inclinato sull'orecchia come il berretto d'uno studente della Tugendbund; l'appiombo delle sue linee lasciava molto a desiderare, ma nell'insieme essa si portava bene in grazia d'un vecchio olmo vigorosamente incastrato nella sua facciata, il quale gettava in primavera le sue gemme fiorite attraverso i vetri delle finestre.

Mio zio era ricco quanto lo può essere un professore tedesco; la casa, contenente e contenuto, gli apparteneva interamente. Il contenuto era la sua figlioccia Graüben, una giovane irlandese di diciassette anni, la buona Marta e io. Per la mia doppia qualità di nipote e di orfano divenni l'aiutante preparatore delle sue esperienze.

Confesserò che io addentavo appetitosamente le scienze geologiche: avevo sangue di mineralogista nelle vene e non mi annoiavo mai in compagnia dei miei preziosi ciottoli.

Insomma, si poteva vivere felici nella casa di Königstrasse, nonostante l'impetuoso carattere del suo proprietario, il quale, sebbene me lo dimostrasse in maniera alquanto brutale, mi amava tuttavia molto. Ma mio zio non sapeva attendere, era più affrettato della natura; quando in aprile aveva piantato nei vasi di porcellana del suo salotto la reseda o il convolvolo, ogni mattina andava regolarmente a tirarli per le foglie pensando di farli crescere più presto.

Con un uomo così bizzarro, il meglio era obbedirlo; perciò io mi precipitai nel suo gabinetto.

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VI



A queste parole un brivido mi corse per tutto il corpo; tuttavia mi trattenni e risolvetti anche di far buona figura. Solo gli argomenti scientifici potevano arrestare il professor Lidenbrock. Ora io ne avevo di eccellenti contro la possibilità di un simile viaggio. Andare al centro della Terra! Quale follia! Io riservai la mia dialettica per il momento opportuno e intanto mi occupai del desinare.

Non giova riferire le imprecazioni dinanzi la tavola apparecchiata. Tutto si spiegò e la libertà fu resa alla buona Marta, la quale corse al mercato e si adoperò per modo che un'ora dopo la mia fame era calmata e io ritornavo al sentimento della situazione.

Durante il pasto mio zio fu quasi allegro, gli venivano dette di quelle facezie da uomo dotto che non sono mai molto pericolose. Dopo la frutta mi fece segno di seguirlo nel suo gabinetto.

Obbedii; egli sedette a un'estremità del suo scrittoio, io all'altra.

- Axel - disse egli con voce dolce - tu sei un giovanotto ingegnosissimo; tu m'hai reso un gran servizio appunto quando, stanco di lottare, stavo per abbandonare questa combinazione. Dove mi sarei smarrito? Nessuno può saperlo. Io non dimenticherò giammai ciò, ragazzo mio, e della gloria che noi stiamo per conquistare tu avrai la tua parte.

«Suvvia» pensai «egli è di buonumore; è il momento buono per discutere questa gloria».

- Prima di tutto, riprese a dire mio zio, ti raccomando un segreto assoluto. Tu mi capisci; non mancano nel mondo dei dotti gli invidiosi, e molti vorrebbero intraprendere siffatto viaggio: non ne sapranno nulla fino al nostro ritorno.

- Credete voi che il numero di questi audaci sia così grande?

- Certamente; chi esiterebbe a conquistare tale rinomanza? Se questo documento fosse conosciuto, un'intera armata di geologi si precipiterebbe sulle tracce di Arne Saknussemm.

- Ecco appunto ciò di cui io non sono persuaso, perché nulla prova l'autenticità del documento.

- Come? E il libro nel quale l'abbiamo scoperto?

- Concordo che questo Saknussemm abbia scritto queste righe; ma ne deriva che abbia realmente compiuto tale viaggio? E la vecchia pergamena non può forse contenere una mistificazione?

Quest'ultima parola un po' avventata io ero quasi dolente di averla proferita. Il professore aggrottò le folte sopracciglia e io temetti d'aver compromesso il seguito della conversazione. Per buona sorte non avvenne così. Il mio severo interlocutore lasciò apparire sulle labbra una specie di sorriso, e rispose:

- È ciò che noi vedremo.

- Ah - osservai un po' irritato - permettetemi di finire la serie delle obbiezioni relative al documento.

- Parla, ragazzo mio, non darti soggezione. Io ti lascio libertà intera di esprimere la tua opinione; tu non sei più mio nipote, ma mio collega. Perciò di' pure.

- Orbene, io vi domanderò prima di tutto: chi sono questo Jocul, questo Sneffel e questo Scartaris, di cui non ho mai inteso parlare?

- Niente di più facile. Ho per l'appunto da poco ricevuto una carta del mio amico Augusto Petermann da Lipsia; non poteva giungermi più a proposito; prendi il terzo atlante nella seconda fila della gran biblioteca, serie Z, tavola IV.

Mi levai e per mezzo di queste indicazioni precise trovai subito l'atlante richiesto. Mio zio l'aprì e disse:

- Ecco una delle migliori carte d'Islanda, quella di Handerson, e io credo che ci darà la soluzione di tutte le tue difficoltà.

Io m'inclinai sulla carta.

- Vedi quest'isola composta di vulcani - disse il professore - e osserva ch'essi portano tutti il nome di Jocul. Questa parola in islandese significa ghiaccio, e sotto la latitudine elevata dell'Islanda, la maggior parte delle eruzioni avvengono attraverso gli strati di ghiaccio; donde la denominazione di Jocul data a tutti i monti vulcanici dell'isola.

- Benissimo, - risposi io - ma che cosa è lo Sneffels?

Speravo che a tale domanda non ci fosse risposta; ma m'ingannavo; mio zio proseguì:

- Seguimi sulla costa occidentale dell'Islanda. Vedi tu Reykjavik, sua capitale? Sì? Ebbene, risali i fiordi innumerevoli di queste rive rosicchiate dal mare e arrestati alquanto al di sotto del sessantacinquesimo grado di latitudine; che cosa vedi tu?

- Una specie di penisola simile a un osso scarnato terminato da un'enorme rotella.

- Il paragone è giusto, ragazzo mio; e ora non vedi tu nulla su questa rotella?

- Sì, un monte che sembra essere sorto in mezzo al mare.

- Benissimo! È lo Sneffels.

- Lo Sneffels?

- Appunto; una montagna alta cinquemila piedi, una delle più importanti dell'isola, e senza dubbio la più celebre del mondo intero, se è vero che il suo cratere mette al centro della Terra.

- Ma è impossibile - esclamai io stringendomi nelle spalle, ribelle a simile supposizione.

- Impossibile? - rispose il professore severo - E perché mai?

- Perché questo cratere è evidentemente costruito dalle lave, dalle pietre ardenti, e allora...

- E se è un cratere spento?

- Spento?

- Sì. Il numero dei vulcani in azione alla superficie del globo non è oggi se non di trecento all'incirca, ma esiste una quantità assai maggiore di vulcani spenti. Ora, lo Sneffels è fra questi ultimi e dai tempi storici non ebbe che una sola eruzione, nel 1219; dopo quel tempo i suoi rumori si sono a poco a poco chetati.

A siffatte affermazioni io non avevo assolutamente nulla da rispondere; presi dunque ad assalire le altre oscurità contenute nel documento.

- Che cosa significa la parola Scartaris - domandai - e che hanno a che fare qui le calende di luglio?

Mio zio stette alcuni istanti in pensiero e io ebbi un momento di speranza; ma uno solo, perché tosto mi rispose in questi termini:

- Ciò che tu chiami oscurità per me è luce, e mi prova le cure ingegnose con le quali Saknussemm ha voluto determinare esattamente la sua scoperta. Lo Sneffels è formato di molti crateri; era dunque necessario indicare quello che conduce al centro della Terra. Che cosa ha fatto il dotto islandese? Ha osservato che presso alle calende di luglio, vale a dire verso gli ultimi giorni del mese di giugno, uno dei picchi della montagna, lo Scartaris, gettava la sua ombra fino all'apertura del cratere di cui si tratta, e ha affermato il fatto nel suo documento. Poteva egli immaginare un'indicazione più esatta e, giunti alla vetta dello Sneffels, ci sarà forse possibile esitare sulla scelta del cammino da prendere?

Assolutamente mio zio aveva risposta a tutto; e m'accorsi purtroppo che era impossibile assalirlo intorno alle parole della vecchia pergamena. Cessai dunque dallo stringerlo su questo argomento, e poiché abbisognava convincerlo innanzitutto, venni alle obiezioni scientifiche, che io reputavo ben altrimenti gravi.

- Devo convenirne - dissi - la frase di Saknussemm è chiara e non può ingenerare dubbio di sorta; ammetto anche che il documento ha l'aria d'essere perfettamente autentico. Questo dotto è andato al fondo dello Sneffels, ha visto l'ombra dello Scartaris lambire gli orli del cratere innanzi le calende di luglio, ha anche udito raccontare nelle leggende del suo tempo che quel cratere mette al centro della Terra; ma quanto all'esservi arrivato egli stesso, quanto all'aver fatto il viaggio ed esserne ritornato, no, cento volte no.

- E per qual ragione? - disse mio zio in tono di beffa.

- Perché tutte le teorie della scienza mostrano che siffatta intrapresa è impraticabile.

- Tutte le teorie dicono questo? - rispose il professore con accento di bonarietà. - Oh! Le cattive teorie! Quanti imbarazzi ci daranno queste povere teorie!

Io vidi che egli si prendeva beffe di me, ma nondimeno continuai.

- Sì, è perfettamente riconosciuto che il calore aumenta circa d'un grado ogni settanta piedi di profondità sotto la superficie del globo; ora, ammettendo la proporzione costante, siccome il raggio terrestre misura mille e cinquecento leghe, esiste al centro una temperatura che passa i duecentomila gradi. Le materie dell'interno della Terra si trovano dunque allo stato di gas incandescente, perché l'oro, il platino, le rocce più dure non resistono a simile calore. Mi par dunque d'avere il diritto di domandare se è possibile penetrare in un simile ambiente.

- Cosicché, Axel, è il calore che t'imbarazza?

- Senza dubbio. Se noi arrivassimo a una profondità di sole dieci leghe, saremmo pervenuti al limite della scorza terrestre, perché la temperatura quivi è già superiore a trecento gradi.

- E tu hai paura d'esser fuso?

- Lascio decidere a voi - risposi con malumore.

- Ed ecco ciò che io decido. - replicò il professore Lidenbrock con sussiego - Ed è che né tu né altri sa in maniera certa ciò che avviene all'interno del globo; atteso che non si conosce se non la dodicimillesima parte del suo raggio; e io dico che la scienza è eminentemente perfezionabile e che ogni teoria è incessantemente distrutta da un'altra teoria. Non si è creduto fino ai tempi di Fourier che la temperatura degli spazi planetari andasse sempre diminuendo, e non si sa forse oggi che i freddi più acuti delle regioni eteree non passano i quaranta o cinquanta gradi sotto lo zero? Perché non potrebbe avvenire lo stesso sul calore interno? E non potrebbe a una certa profondità toccare un limite insuperabile, invece d'elevarsi al grado di fusione dei minerali più refrattari?

Siccome mio zio poneva la questione sul terreno delle ipotesi, io non ebbi nulla a rispondere.

- Orbene, io ti dirò che scienziati veri, Poisson fra gli altri, hanno provato che, se nell'interno del globo esistesse un calore di duecentomila gradi, i gas incandescenti provenienti dalle materie fuse avrebbero tanta elasticità che la scorza terrestre non potrebbe resistere e scoppierebbe come le pareti d'una caldaia sotto la pressione del vapore.

- Questa è l'opinione di Poisson.

- Verissimo, ma è pure il parere di altri geologi valenti che l'interno del globo non sia formato né di gas, né di acqua, né delle più pesanti pietre che noi conosciamo, perché in questo caso la terra avrebbe un peso due volte minore.

- Con i numeri si prova tutto ciò che si vuole!

- E con i fatti, ragazzo mio, avviene lo stesso? Non è accertato che il numero dei vulcani è di molto diminuito dai primi giorni del mondo? E se pure vi è calore centrale, non si può concludere che tende a indebolirsi?

- Se voi entrate nel campo delle supposizioni la discussione torna inutile.

- E io devo dire che alla mia opinione si aggiungono le opinioni di persone autorevolissime. Ti ricordi d'una tal visita che mi fece, nel 1825, il celebre chimico inglese Humphry Davy?

- Niente affatto, perché io non venni al mondo che diciannove anni più tardi.

- Orbene, Humphry Davy venne a vedermi trovandosi di passaggio ad Amburgo. Noi discutemmo lungamente, tra le altre questioni, l'ipotesi della liquidità del nocciolo interno della Terra, e convenimmo entrambi ,che questa liquidità non poteva esistere, per una ragione alla quale la scienza non ha mai trovato risposta.

- E quale? - dissi io alquanto sbalordito.

- Che questa massa liquida sarebbe soggetta, come l'oceano, all'attrazione della luna, e per conseguenza due volte al giorno si produrrebbero maree interne che, sollevando la scorza terrestre, cagionerebbero terremoti periodici!

- Ma è peraltro evidente che la superficie del globo fu un tempo in combustione, ed è permesso supporre che la crosta esterna si sia raffreddata mentre il calore si rifugiava al centro.

- Errore! - rispose mio zio - La Terra fu riscaldata per la combustione della sua superficie e non altrimenti. La sua superficie era composta d'una gran quantità di metalli, quali il potassio e il sodio, che hanno la proprietà d'infiammarsi al solo contatto dell'aria e dell'acqua; questi metalli si accesero quando i vapori atmosferici caddero in forma di pioggia sul suolo e a poco a poco le acque penetrarono nelle fessure della crosta terrestre e suscitarono nuovi incendi con esplosioni ed eruzioni; donde i vulcani così numerosi nei primi giorni del mondo.

- Ecco un'ipotesi ingegnosa! - esclamai mio malgrado.

- E Humphry Davy me la rese sensibile in questa stessa stanza, con un'esperienza assai semplice. Egli compose una boccia metallica fatta principalmente di potassio e di sodio, conformata appunto come il nostro globo; facendo cadere alcune gocce di acqua sulla sua superficie, questa si gonfiava, si ossidava e formava una piccola montagna; un cratere si apriva sul vertice; avveniva l'eruzione e dava alla boccia un calore tale che era impossibile tenerla in mano.

In fede mia, io cominciavo a essere scosso dagli argomenti del professore; d'altra parte, egli li faceva valere con la passione e con l'entusiasmo che in lui erano natura.

- Tu lo vedi, Axel - aggiunse egli - Lo stato del nocciolo centrale ha dato origine a ipotesi diverse fra i geologi; nulla è meno provato di questo calore interno che secondo me non esiste e non può esistere; e noi lo vedremo e, al pari di Arne Saknussemm, sapremo il vero circa questa gran questione.

- Ebbene, sì, - risposi io, conquistato da tale entusiasmo - sì, noi lo vedremo, se tuttavia ci si vedrà.

- E perché no? Non possiamo noi contare per rischiararci sopra fenomeni elettrici e anche sull'atmosfera che accostandosi al centro può esser fatta luminosa dalla sua pressione?

- Sì - dissi io - ciò è possibile.

- Ciò è certo! - rispose trionfalmente mio zio - Ma silenzio, intendi? Silenzio su tutto questo, perché a nessuno possa venire in mente di scoprire prima di noi il centro della Terra.

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XII



Eravamo partiti con un tempo annuvolato, ma fermo; non avevamo a temere né calori affaticanti, né piogge disastrose: un vero tempo da touristes.

Il piacere di correre a cavallo attraverso un paese ignoto mi rendeva accomodante in quel principio d'impresa; mia era la felicità dell'escursionista, fatta di desideri e di libertà, e cominciavo a darmi pace.

«D'altra parte,» dicevo a me stesso «che mai arrischio? Di viaggiare in mezzo al paese più curioso, di arrampicarmi su una montagna notevolissima, e alla peggio di scendere nel fondo d'un cratere spento! È certo che questo Saknussemm non ha fatto di più; quanto all'esistenza d'una galleria che conduca al centro della Terra, è cosa immaginaria e impossibile! Accettiamo dunque senza mercanteggiare ciò che questa spedizione ha di buono». Non avevo ancora concluso siffatto ragionamento che avevamo già lasciato Reykjavik.

Hans avanzava a passo rapido, regolare e continuo. I due cavalli carichi dei nostri bagagli lo seguivano senza che fosse necessario guidarli; mio zio e io venivamo dietro, e in fede mia non facevamo assai triste figura sopra le nostre cavalcature, piccole, ma vigorose.

L'Islanda è una delle grandi isole dell'Europa; misura millequattrocento miglia di superficie e non conta che sessantamila abitanti. I geografi l'hanno divisa in quattro regioni e noi dovevamo attraversare quasi obliquamente quella che porta il nome di Paese del quarto sud-ovest (Sudvestr Fjordùngr).

Nel lasciare Reykiavjk, Hans si era immediatamente posto lungo la spiaggia. Attraversammo magri pascoli che sembravano darsi gran pena per esser verdi: il giallo riusciva meglio. Le vette rugose delle moli trachitiche si disegnavano nell'orizzonte fra le nebbie dell'est; a intervalli alcune strisce di neve, concentrando la luce diffusa, risplendevano sul versante delle alture lontane; certi picchi che si rizzavano più arditamente foravano le nuvole grigie e riapparivano al di sopra dei vapori come scogli emersi nel cielo.

Sovente queste catene di aride rocce gettavano una punta verso il mare e si spingevano fino sul pascolo, ma rimaneva spazio sufficiente per passare. D'altra parte, i nostri cavalli sceglievano istintivamente i luoghi propizi senza mai rallentare il passo; mio zio non aveva neppure la consolazione di eccitare la sua cavalcatura con la voce o con lo scudiscio; non gli era concesso d'essere impaziente.

Io non riuscivo a trattenere il sorriso nel vederlo così grande sul suo piccolo cavallo; siccome con le gambe radeva il suolo, aveva tutta l'aria d'un centauro a sei piedi.

- Brava bestia, brava bestia! - diceva egli - Vedrai, Axel, che non c'è animale che superi per intelligenza il cavallo islandese. Nevi, tempeste, sentieri impraticabili, rocce, ghiacciai, nulla lo arresta; esso è ardito, sobrio, sicuro, non mette mai piede in fallo, non si ribella mai. Aspetta che incontriamo qualche fiume o qualche fiordo che si debba attraversare (e ne troveremo senza dubbio) e tu lo vedrai gettarsi nell'acqua senza esitare, come un anfibio, e toccare la riva opposta. Ma non lo rampogniamo, lasciamolo fare, e percorreremo, su per giù, le nostre dieci leghe al giorno.

- Noi senza dubbio, - risposi - ma la guida?

- Non mi dà alcun pensiero; costoro camminano senza avvedersene, e d'altra parte Hans si muove così poco che non deve punto affaticarsi; e poi, al bisogno, io gli cederò la mia cavalcatura, poiché mi buscherei i crampi se non facessi un po' di moto. Le braccia si agitano per bene, ma bisogna pensare anche alle gambe.

Frattanto proseguivamo a passo rapido. Già il paese era quasi deserto. Qua e là una fattoria isolata e qualche boër solitario fatto di legno, di terra e di pezzi di lava, appariva come un mendicante sull'orlo d'un sentiero infossato. Queste capanne rovinate avevano l'aria d'implorare la carità dei passanti, e per poco non si era tentati di far loro l'elemosina.

In questo paese le strade e perfino i sentieri mancavano assolutamente, e la vegetazione, per quanto crescesse lentamente, cancellava presto i passi dei rari viaggiatori. Tuttavia questa parte della provincia posta a due passi dalla capitale veniva annoverata fra le parti abitate e coltivate dell'Islanda. Che cosa erano dunque le regioni più deserte di siffatto deserto? Avevamo percorso mezzo miglio senza incontrare né un fittavolo sulla porta della sua capanna, né un pastore selvaggio che spingesse innanzi un gregge meno selvaggio di lui; solo poche giovenche e alcuni montoni abbandonati a se medesimi. Che cosa dovevano essere le regioni occidentali e scompigliate dai fenomeni eruttivi, opera di eruzioni vulcaniche e di movimenti sotterranei?

Dovevamo apprenderlo più tardi; ma consultando la carta di Olsen, vidi che le evitavamo costeggiando il lembo sinuoso della spiaggia. Infatti il gran sommovimento plutonico avvenne soprattutto nell'interno dell'isola. Quivi gli strati orizzontali di rocce sovrapposte, chiamati trapps in lingua scandinava, le fasce trachitiche, le eruzioni di basalto, di tufi e d'ogni maniera di conglomerati vulcanici, i canali di lava e di porfido fuso, formarono un paese fantasticamente orrido. Io non sospettavo allora lo spettacolo che ci attendeva alla penisola dello Sneffels, dove i guasti d'una natura infuocata hanno prodotto un caos formidabile.

Due ore dopo aver lasciato Reykjavik, giungemmo al borgo di Gufunes, chiamato Aoalkirkja o chiesa principale. Non aveva nulla di notevole, era formato di poche case in tutto, appena da fare un casale della Germania.

Hans vi si trattenne una mezz'ora; divise il nostro pasto frugale, rispose si o no alle domande di mio zio sulla natura della strada e quando gli fu richiesto dove intendesse passare la notte, rispose semplicemente:

- Gardär.

Consultai la carta per sapere che fosse Gardär e vidi una borgata sulla riva del Hvalfjörd, a quattro miglia da Reykjavik. La mostrai a mio zio.

- Quattro miglia soltanto, - disse egli - quattro miglia sopra ventidue! Ecco una bella passeggiata!

Volle fare un'osservazione alla guida, la quale, senza rispondere, riprese il cammino precedendo i cavalli.

Tre ore dopo, sempre calpestando le zolle scolorite delle pasture, dovemmo girare intorno al Kollafjörd, giro più facile e più breve della traversata di questo golfo. Ben presto entrammo in un pingstaœr, luogo di giurisdizione comunale, chiamato Ejulberg, il cui campanile avrebbe battuto il mezzogiorno se le chiese islandesi potessero permettersi il lusso d'un orologio; in questo esse rassomigliano ai loro parrocchiani, che non hanno orologio e ne fanno senza.

Qui fu dato da mangiare ai cavalli, poi ci incamminammo per una riva stretta fra una catena di colline e il mare e giungemmo in breve all' aoalkirkja di Brantär e un miglio più oltre a Saur-böer «Annexia», chiesa annessa, posta sulla zona meridionale del Hvalljörd.

Erano le quattro pomeridiane e avevamo fatto quattro miglia. Il fiord era largo in questo punto per lo meno mezzo miglio; le onde si spezzavano rumorosamente contro le rocce acute; il golfo si allargava tra due muraglie di rocce, specie di scarpa a picco alta tremila piedi, notevole per gli strati bruni che separavano quelli di tufo di color rossastro. Per quanto i nostri cavalli fossero intelligenti, io non sapevo trarre lieti pronostici da una traversata di un vero braccio di mare fatta sul dorso d'un quadrupede.

- Se sono intelligenti, - dissi io - non cercheranno di passare; in tutti i modi m'incarico io d'essere intelligente per loro. - Ma mio zio non voleva aspettare e diede di sprone. Il suo cavallo si accostò all'ultima ondulazione dei flutti e si arrestò; mio zio lo spinse, lo eccitò, ma l'animale scosse la testa con un nuovo rifiuto. Allora giuramenti e scudisciate e calci alla bestia, che tentò di disarcionare il cavaliere. Alla fine il cavallo, piegando i garretti, si ritrasse dalle gambe del professore e lo lasciò in piedi piantato su due pietre della spiaggia come il colosso di Rodi.

- Maledetto animale! - gridò il cavaliere trasformato repentinamente in pedone, vergognoso come un ufficiale di cavalleria ridivenuto fantaccino.

- Färja - disse la guida toccandogli la spalla.

- Che! Una chiatta?

- Der - rispose Hans mostrando una barca.

- Sì! - esclamai io - C'è una chiatta.

- Bisognava dirlo! Orbene, in cammino!

- Tidvatten - aggiunse la guida.

- Che cosa dice?

- Dice marea - rispose mio zio, traducendo la parola danese.

- Senza dubbio, converrà attendere la marea?

- Förbida? - chiese mio zio.

- Ja - rispose Hans.

Mio zio pestò i piedi mentre i cavalli si dirigevano verso la chiatta.

Io compresi perfettamente come fosse necessario aspettare un certo momento della marea per intraprendere la traversata del fiordo, quello cioè in cui il mare giunto alla sua massima altezza non sale e non scende; allora il flusso e riflusso non ha più nessuna azione sensibile e la chiatta non rischia d'essere trascinata né in fondo al golfo né in alto mare.

Il momento favorevole non giunse che alle sei pomeridiane; mio zio, io e la guida, due traghettatori e i quattro cavalli c'eravamo acconciati alla meglio in una specie di barca bassa e fragilissima. Poiché ero abituato ai traghetti a vapore dell'Elba, trovai i remi dei barcaioli un assai meschino congegno meccanico; ci volle più di un'ora per attraversare il fiordo; ma infine il passaggio avvenne senza incidenti.

Mezz'ora dopo, avevamo raggiunto l'Aoalkirkja di Gardär.

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XXV



Mi svegliai dunque domenica mattina senza il solito pensiero d'una partenza immediata; e benché fossimo nel più profondo degli abissi, la cosa non era meno piacevole.

D'altra parte, ci eravamo abituati a questa esistenza da trogloditi. Né pensavo più al sole, alle stelle, alla luna, agli alberi, alle case, alla città, a tutte queste superfluità terrestri di cui l'essere sublunare si è fatto una necessità. Nella nostra qualità di fossili disprezzavamo tali inutili meraviglie.

La grotta formava una vasta sala. Sul suo suolo granitico scorreva dolcemente il fedele rigagnolo, che, giunto a tanta distanza dalla sorgente, non aveva più se non la temperatura dell'ambiente e si lasciava bere senza difficoltà.

Dopo la colazione, lo zio volle consacrare qualche ora a mettere in ordine le sue note quotidiane.

- Prima di tutto, - disse iI professore - farò dei calcoli per rilevare esattamente la nostra posizione. Al ritorno traccerò una carta del nostro viaggio, una specie di sezione verticale del globo che darà il profilo della spedizione.

- Ciò desterà grande interesse, ma le vostre osservazioni saranno abbastanza precise?

- Sì, ho annotato con gran cura gli angoli e le discese e sono sicuro di non ingannarmi. Vediamo dapprima dove siamo; prendi la bussola e osserva la direzione che indica.

Guardai lo strumento e, dopo attento esame, risposi:

- Est, quarto sud-est.

- Bene. - disse il professore notando l'osservazione e facendo rapidamente alcuni calcoli. - Concludo da ciò che abbiamo percorso ottantacinque leghe dal nostro punto di partenza.

- Dunque viaggiamo sotto l'Atlantico?

- Esattamente.

- E in questo momento una tempesta si scatena forse sulla nostra testa, e delle navi sono battute dai flutti e dall'uragano?

- È possibile.

- E le balene vengono a battere con la loro coda le muraglie della nostra prigione?

- Sta' tranquillo, Axel, che non riusciranno mai a rimuoverle. Ma ritorniamo ai nostri calcoli. Siamo a sud-est, a ottantacinque leghe dalla base dello Sneffels, e secondo i miei calcoli precedenti stimo sedici leghe la profondità raggiunta.

- Sedici leghe! - esclamai.

- Senza dubbio.

- Ma questo è l'estremo limite assegnato dalla scienza allo spessore della crosta terrestre.

- Non dico di no.

- E qui, stando alla legge dell'accrescimento della temperatura, dovrebbe esistere un calore di 1500 gradi.

- Dovrebbe, ragazzo mio.

- E tutto questo granito non potrebbe mantenersi allo stato solido e sarebbe tutto in fusione.

- Vedi che nulla di tutto ciò è vero, e che i fatti, secondo la loro abitudine, vengono a smentire le teorie.

- Devo convenirne, ma nonostante ciò mi sbalordisce.

- Che cosa indica il termometro?

- Ventisette gradi e sei decimi.

- Non mancano dunque che mille e quattrocentosettantaquattro gradi e quattro decimi, perché gli scienziati abbiano ragione; dunque l'aumento proporzionale di temperatura è un errore; dunque Humphry Davy non s'ingannava, e non ebbi torto a credergli. Che hai tu da rispondere?

- Nulla.

A dire il vero avrei avuto molte cose da dire. Io non ammettevo la teoria di Humphry Davy in nessuna maniera e davo ancora credito all'ipotesi del calore centrale, benché non ne risentissi gli effetti. Preferivo ammettere che quel camino di vulcano spento, coperto dalle lave con un intonaco refrattario, non permettesse alla temperatura di propagarsi attraverso le sue pareti. Ma senza soffermarmi a cercare argomenti nuovi, mi ero rassegnato a prendere la situazione qual era.

- Zio, - ripresi a dire - condivido tutti i vostri calcoli, ma permettetemi di tirarne una conseguenza rigorosa.

- Fa' pure a tuo piacere, ragazzo mio.

- Nel punto in cui siamo, sotto la latitudine dell'Islanda, il raggio terrestre non è di millecinquecentottantatré leghe all'incirca?

- Millecinquecentottantatré leghe e un terzo.

- Mettiamo milleseicento leghe per fare cifra tonda. Ora, d'un viaggio di milleseicento leghe noi ne abbiamo fatte dodici?

- Per l'appunto.

- E ciò a prezzo di ottantacinque leghe diagonali?

- Perfettamente.

- Pressappoco in venti giorni?

- In venti giorni.

- Ora, sedici leghe sono la centesima parte del raggio terrestre: continuando di questo passo, impiegheremo duemila giorni, vale a dire circa cinque anni e mezzo a discendere.

Il professore non rispose.

- Senza contare che, se una verticale di sedici leghe si paga con una orizzontale di ottanta, ciò formerà ottomila leghe a sudest, e dunque saremo usciti da molto tempo da un punto della circonferenza prima d'averne raggiunto il centro.

- Al diavolo i tuoi calcoli! - replicò mio zio con un moto di collera - Al diavolo le tue ipotesi! Chi ti dice che questo corridoio non vada direttamente alla nostra meta? D'altra parte, io ho dalla mia un precedente: ciò che io faccio, un altro l'ha fatto, e là dove un altro è riuscito, io riuscirò a mia volta.

- Così spero; ma infine mi è permesso...?

- T'è permesso di tacere, Axel, quando tu voglia sragionare di tal guisa.

M'accorsi che il terribile professore minacciava di riapparire sotto la pelle dello zio; e mi tenni per avvisato.

- Ora, - soggiunse egli - consulta il manometro: che cosa segna?

- Una pressione enorme.

- Bene, benissimo, tu vedi che, discendendo dolcemente, abituandoci a poco a poco alla densità dell'atmosfera, non ne soffriamo affatto.

- Salvo qualche dolore d'orecchio.

- Cosa da nulla che tu farai sparire mettendo l'aria esterna in cornunicazione rapida con l'aria contenuta nei tuoi polmoni.

- Perfettamente - risposi determinato a non più contrariare mio zio. Vi è persino un vero piacere a sentirsi tuffato in un'atmosfera più densa. Avete osservato con quale intensità vi si propaga il suono?

- Senza dubbio, un sordo udirebbe a meraviglia.

- Ma la densità aumenterà certo procedendo oltre.

- Sì, secondo una legge poco determinata. È vero che l'intensità del peso diminuirà man mano che noi discenderemo; tu sai che è alla superficie della Terra che si fa sentire più vivamente e che al centro del globo gli oggetti non pesano più.

- Lo so; ma ditemi, l'aria non finirà per acquistare la densità dell'acqua?

- Senza dubbio, sotto una pressione di settecentodieci atmosfere.

- E più sotto?

- E più sotto tale densità crescerà ancora.

- E in tal caso come faremo a discendere?

- Metteremo ciottoli nelle tasche.

- In fede mia, voi avete risposta a tutto.

Io non osavo spingermi più oltre nel campo delle ipotesi, perché mi sarei ancora imbattuto in qualche impossibilità che avrebbe fatto sobbalzare il professore.

Era peraltro evidente che l'aria, sotto una pressione di migliaia di atmosfere, sarebbe finita per passare allo stato solido, e allora, anche ammettendo che i nostri corpi potessero resistere, avremmo dovuto arrestarci a dispetto di tutti i ragionamenti del mondo.

Ma io non feci valere questo argomento, al quale mio zio avrebbe certamente risposto citando ancora il suo eterno Saknussemm, precedente di nessun valore poiché, anche dando credito al viaggio dello scienziato islandese, una domanda si affacciava alla mia mente: non essendo al sedicesimo secolo esistenti né il barometro, né il manometro, in quale modo Saknussemm aveva potuto determinare il suo arrivo al centro della Terra?

Ma tenni anche questa obiezione per me e aspettai gli avvenimenti. Il resto della giornata passò in calcoli e in conversazioni: io fui sempre del parere del professor Lidenbrock, invidiando la perfetta indifferenza di Hans, il quale, senza darsi pensiero degli effetti e delle cause, se ne andava ciecamente dove lo conduceva il destino.

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XXX



Da principio non vidi nulla. I miei occhi, disabituati alla luce, si chiusero bruscamente; quando potei riaprirli rimasi più stupefatto che meravigliato.

- Il mare! - esclamai.

- Sì, - rispose mio zio - il mar Lidenbrock, e io credo che nessun navigatore mi disputerà l'onore d'averlo scoperto e il diritto di battezzarlo con il mio nome.

Un'ampia distesa di acque, il principio d'un lago o d'un oceano, si spingeva oltre i limiti della vista. La riva intagliata largamente offriva alle ultime ondulazioni dei flutti una sabbia fine, dorata, cosparsa di quelle piccole conchiglie in cui vissero i primi esseri della creazione. Quel mare vi si frangeva con quel lungo mormorio che è proprio dei luoghi chiusi e immensi. Una lieve schiuma fuggiva al soffio d'un vento moderato e alcuni vapori mi battevano sul viso. Sulla spiaggia lievemente inclinata, a cento tese circa dal lembo delle onde, morivano i contrafforti di rocce enormi che salivano allargandosi a incommensurabile altezza. Alcuni, fendendo la spiaggia con le loro punte acute, formavano capi o promontori erosi dal lento risucchio. Più oltre l'occhio seguiva la loro massa che si disegnava nettamente sul fondo brumoso dell'orizzonte.

Era un vero oceano con il contorno capriccioso delle rive terrestri, ma deserto e spaventevolmente selvaggio nell'aspetto.

Lo sguardo poteva spingersi lontano sopra quel mare, perché una luce speciale ne rischiarava ogni particolare. Non già la luce del sole con i suoi fasci abbaglianti e la splendida luminosità dei suoi raggi, né la luce pallida e vaga dell'astro notturno, che non è che un freddo riflesso: no; l'intensità di quella luce, la sua tremula diffusione, la sua bianchezza limpida e asciutta, la sua temperatura poco elevata e il suo splendore più vivo di quello dell'astro lunare, segnalavano evidentemente che la sua era un'origine elettrica. Si trattava di una specie di aurora boreale, un fenomeno cosmico continuo che riempiva la caverna capace di contenere un oceano.

La volta sospesa sopra il mio capo, il cielo, se così si vuole chiamarlo, sembrava fatta di nuvole, di vapori mobili e mutevoli che condensandosi dovevano qualche volta risolversi in piogge torrenziali. Avrei creduto che sotto una pressione atmosferica così forte non potesse avvenire l'evaporazione dell'acqua, e nondimeno, per una ragione fisica che non mi era nota, larghe nubi si stendevano nell'aria. Pure allora il cielo era sereno; l'elettricità produceva meravigliosi giochi di luce sulle volute inferiori. Spesso, insinuandosi fra due strati separati, un raggio giungeva fino a noi con notevole intensità. Ma infine non si trattava di un raggio di sole, poiché la sua luce era priva di calore. Lo spettacolo era triste, sovranamente melanconico. Invece d'un firmamento scintillante di stelle, io sentivo sopra quelle nuvole una volta di granito che mi schiacciava con tutto il suo peso; e questo spazio, per quanto fosse immenso, non sarebbe certamente bastato alla passeggiata del meno ambizioso dei satelliti.

Mi ricordai allora di quella teoria di un capitano inglese, il quale paragonava la Terra a una vasta sfera vuota, nell'interno della quale l'aria si manteneva luminosa per la sua pressione, mentre due astri, Plutone e Proserpina, vi percorrevano le loro orbite misteriose. Che egli avesse ragione?

Noi eravamo realmente imprigionati in una cavità enorme di cui non potevamo misurare la larghezza, poiché la riva andava allargandosi fino a sottrarsi alla nostra vista, né la lunghezza, poiché lo sguardo veniva ben presto arrestato da una linea d'orizzonte alquanto indeterminata. Quanto alla sua altezza, doveva essere di molte leghe. L'occhio non poteva arrivare a scorgere dove la volta si appoggiasse sui contrafforti di granito; ma c'era una nuvola sospesa nell'atmosfera la cui elevazione doveva essere stimata di duemila tese, altezza maggiore di quella dei vapori terrestri, dovuta senza dubbio alla densità considerevole dell'aria. Dipingere questo immenso spazio con la parola caverna non riproduce il mio pensiero, ma le parole non bastano a chi si avventura negli abissi del globo.

D'altra parte, io non sapevo con quale fatto geologico spiegarmi l'esistenza di una simile cavità. Poteva il raffreddamento del globo averla prodotta? Mi erano note dai racconti dei viaggiatori certe caverne celebri, ma nessuna era di simili dimensioni.

Se la Grotta di Guachara in Colombia, visitata da von Humboldt, non aveva rivelato il segreto della sua profondità al dotto che la scandagliò per uno spazio di duemilacinquecento piedi, verosimilmente non si estendeva molto al di là. L'immensa caverna del Mammut nel Kentucky aveva certo proporzioni gigantesche, poiché la sua volta si elevava ben cinquecento piedi sopra un lago insondabile, e alcuni viaggiatori la percorsero per oltre dieci leghe senza incontrarne la fine. Ma che cosa erano tali cavità rispetto a quella che io osservavo allora, con il suo cielo di vapori, con le sue radiazioni elettriche e con un vasto mare racchiuso nei suoi fianchi?

La mia immaginazione si sentiva impotente innanzi a tale immensità. Osservavo in silenzio tutte quelle meraviglie e mi mancavano le parole per esprimere le sensazioni che mi attraversavano. Mi pareva di assistere su qualche lontano pianeta, Urano o Nettuno, a fenomeni di cui la mia natura terrestre non avesse alcuna conoscenza. Per descrivere tali sensazioni erano necessarie parole nuove, e la mia immaginazione non me le forniva.

Guardavo, pensavo, ammiravo con uno stupore misto a spavento.

Quello spettacolo inaspettato aveva richiamato sul mio volto i colori della salute; stavo facendo la cura dello sbalordimento e arrivando alla guarigione con questa nuova terapia; d'altra parte, la vivacità dell'aria densissima mi rianimava, fornendo una grande quantità d'ossigeno ai miei polmoni.

Si comprenderà senza fatica come, dopo una prigionia di quarantasette giorni in una stretta galleria, fosse un godimento senza fine quello di aspirare la brezza carica di umide emanazioni saline.

Perciò non provai alcun rimpianto per la mia grotta scura.

Mio zio, già abituato a quelle meraviglie, non si stupiva più.

- Ti senti la forza di passeggiare un poco? - mi domandò.

- Si, certo, - risposi - e nulla mi farà più piacere.

- Ebbene, dammi il braccio, Axel, e seguiremo le sinuosità della spiaggia.

Accettai il suo invito senza esitazione e cominciammo a costeggiare quell'oceano per noi nuovo. Alla sinistra, rocce scoscese, sovrapposte le une alle altre, formavano una massa titanica, dando vita a un effetto prodigioso. Sui loro fianchi scorrevano cascate innumerevoli che creavano veli limpidi e sonori. Lievi vapori rimbalzanti da una roccia all'altra segnavano le sorgenti calde, e alcuni ruscelli scorrevano dolcemente verso il bacino comune, cercando nei pendii occasione di mormorare più piacevolmente.

Fra quei rigagnoli riconobbi il nostro fedele compagno di viaggio, l'Hansbach, che veniva a perdersi tranquillamente nel mare come se non avesse mai fatto altro sin dal principio del mondo.

- Quel ruscello ci mancherà - dissi io con un sospiro.

- Oibò! - disse il professore - Questo o un altro, che cambia?

La sua risposta mi parve ingrata, ma in quel momento la mia attenzione fu attirata da uno spettacolo inatteso.

A cinquecento passi, superato un alto promontorio, apparve ai nostri occhi una foresta fitta di alberi di media grandezza tagliati in forma di ombrelli regolari, con contorni netti e geometrici; le correnti atmosferiche non mi parevano poter nulla sul loro fogliame, poiché in mezzo ai soffi rimanevano immobili e come pietrificati.

Affrettai il passo. Io non sapevo dare un nome a quegli esseri singolari; non facevano parte delle duecentomila specie vegetali conosciute fino allora, o dovevo classificarli a parte nella flora delle vegetazioni lacustri?

Quando arrivammo sotto la loro ombra, la mia meraviglia si trasformò in ammirazione. Infatti avevo innanzi agli occhi dei prodotti della terra, ma di taglia gigantesca. Mio zio li chiamò immediatamente con il loro nome.

- Non si tratta che di una foresta di funghi - disse il professore; e non s'ingannava.

Si consideri lo sviluppo acquistato dalle piante proprie dei luoghi caldi e umidi. Io sapevo che il Lycoperdon giganteum raggiunge, al dire di Bulliard, da otto a nove piedi di circonferenza; ma si trattava qui di funghi bianchi alti da trenta a quaranta piedi con una calotta d'un diametro eguale. Si contavano a migliaia. La luce non riusciva a vincere la loro fitta ombra, e un'oscurità perfetta regnava sotto quelle cupole sovrapposte come i tetti rotondi d'una città africana.

Nondimeno volli addentrarmi. Un freddo mortale scendeva dalle volte carnose. Errammo in quell'umida tenebra per una mezz'ora, e fu con un vero sentimento di benessere che riguadagnai la spiaggia.

Ma la vegetazione della sotterranea regione non si arrestava a quella specie di funghi. Più lungi sorgevano in gran numero altri alberi dalle foglie colorite. Era facile riconoscere che si trattava degli umili arbusti della terra con dimensioni fenomenali, licopodi alti cento piedi, sigillarie gigantesche, felci arborescenti grandi come i pini delle alte latitudini, lepidodendri a rami cilindrici biforcati, terminati da lunghe foglie e irti di ruvidi peli come mostruose piante grasse.

- Meraviglioso, magnifico, splendido! - esclamò il professor Lidenbrock - Ecco la flora della seconda epoca del mondo, dell'epoca di transizione. Ecco le umili piante dei nostri giardini che erano alberi nei primi secoli del globo! Osserva, Axel; ammira, che mai botanico ebbe tale fortuna!

- Avete ragione, zio. La provvidenza sembra aver voluto conservare entro questa serra immensa le piante antidiluviane che la pazienza sagace degli scienziati ha ricostruito con tanta fortuna.

- Tu dici benissimo, ragazzo mio, è una serra, ma diresti meglio aggiungendo che è forse anche un serraglio.

- Un serraglio?

- Sì, senza dubbio; vedi la polvere che noi calpestiamo, queste ossa sparse sul suolo?

- Delle ossa, - esclamai - sì, delle ossa di animali antidiluviani.

Io mi ero precipitato su tali reliquie secolari, fatte d'una sostanza indistruttibile, e davo senza esitare un nome a quelle ossa gigantesche che rassomigliavano ad alberi disseccati.

- Ecco la mascella inferiore del mastodonte, ecco i molari del dinotherium, ecco un femore che non può esser stato se non del più grande di questi animali, del megatherium. Sì, è certo un serraglio, poiché queste ossa non sono state di certo trasportate fin qui da un cataclisma. Gli animali a cui esse appartengono vissero certamente sulle rive di questo mare sotterraneo, all'ombra di queste piante arborescenti. Ecco, io vedo scheletri interi, tuttavia...

- Tuttavia? - disse mio zio.

- Non so comprendere la presenza di simili quadrupedi in questa caverna di granito.

- Perché?

- Perché la vita animale non è esistita sulla Terra se non nei periodi secondari, quando il terreno sedimentario fu formato dalle alluvioni e sostituì le rocce incandescenti dell'epoca primitiva.

- Ebbene, mio caro ragazzo, si può dare una risposta semplicissima all'obiezione che tu muovi, ed è che questo terreno è un terreno sedimentario.

- Come! Un terreno sedimentario a una simile profondità sotto la superficie della Terra?

- Senza dubbio, e il fatto può essere spiegato geologicamente. A una cert'epoca la terra non era formata che da una scorza elastica soggetta a movimenti alternativi dall'alto e dal basso, in virtù delle leggi dell'attrazione; è probabile che sia avvenuto un crollo di suolo e che una parte di terreno sedimentario sia stata trascinata in fondo agli abissi spalancati in modo improvviso.

- Così dev'essere avvenuto. Ma se animali antidiluviani hanno vissuto in tali regioni sotterranee, chi può escludere che qualcuno di quei mostri non erri ancora in mezzo alle tetre foreste o dietro le rocce a picco?

A quest'idea guardai non senza preoccupazione vari punti dell'orizzonte, ma sulle rocce deserte non apparve creatura viva.

Ero un po' stanco e andai a sedermi all'estremità d'un promontorio ai piedi del quale i flutti si frangevano con fragore.

Di là il mio sguardo abbracciava tutta la baia, formata da una tacca della costa. In fondo, una specie di porto era scavato fra le rocce piramidali; le sue acque tranquille dormivano al riparo del vento; un brick e due o tre golette avrebbero potuto gettarvi le ancore comodamente.

Quasi m'aspettavo di vedere qualche naviglio uscirne fuori a vele spiegate e prendere il largo spinto dalla brezza del sud. Ma simile illusione scomparve ben presto. Noi eravamo le sole creature di quel mondo sotterraneo. Quando il vento si acquietava, un silenzio più profondo dei silenzi del deserto scendeva su quelle rocce aride, e pesava sulla superficie dell'oceano. Allora io spingevo l'occhio entro le brume lontane, tentando di stracciare il velo gettato sul fondo dell'orizzonte, e mille domande mi venivano alle labbra: dove finiva quel mare? Dove conduceva? Avremmo mai potuto conoscerne le rive opposte?

Quanto a mio zio, egli non ne dubitava affatto. Io lo desideravo e lo temevo insieme.

Dopo un'ora, passata a contemplare il meraviglioso spettacolo, riprendemmo il cammino della spiaggia per riguadagnare la grotta ove mi addormentai d'un profondo sonno popolato dei più bizzarri fantasmi.

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XLIV



Quando riaprii gli occhi mi sentii stretto alla cintola da una mano vigorosa della guida, la quale con l'altra sorreggeva mio zio. Non ero gravemente ferito, ma abbattuto da una stanchezza generale. Mi vidi coricato sul versante d'una montagna a due passi da un abisso nel quale il minimo movimento mi avrebbe fatto precipitare. Hans m'aveva salvato la vita mentre rotolavo lungo i fianchi del cratere.

- Dove siamo? - domandò mio zio, il quale mi parve molto irritato d'essere ritornato sulla Terra.

Il cacciatore levò le spalle in segno d'ignoranza.

- In Islanda - dissi io.

- Nej - rispose Hans.

- Come no? - gridò il professore.

- Hans s'inganna - dissi io sollevandomi.

Dopo le innumerevoli meraviglie di un simile viaggio, mi ero ancora riservata una sorpresa. Io m'aspettavo di vedere un cono coperto di nevi eterne nel mezzo degli aridi deserti delle regioni settentrionali, sotto i pallidi raggi d'un cielo polare, al di là delle più elevate latitudini; ma, contrariamente a tutte le previsioni, mio zio, l'islandese e io eravamo stesi a metà del fianco d'una montagna calcinata dagli ardori del sole che ci divorava con i suoi raggi. Io non volevo credere ai miei occhi, ma il bruciore del mio corpo non permetteva dubbio di sorta. Eravamo usciti seminudi dal cratere e l'astro radioso, al quale non avevamo domandato nulla da due mesi, mostrandosi verso di noi prodigo di luce e di calore, ci versava a fiotti una splendida irradiazione.

Quando i miei occhi si furono abituati a tale splendore, di cui avevamo perduto l'abitudine, me ne servii a correggere gli errori della mia immaginazione. Io volevo essere perlomeno allo Spitzberg, ed ero disposto a non cedere di una virgola.

Il professore aveva preso la parola per il primo e disse:

- Infatti, ecco un panorama che non rassomiglia all'Islanda.

- Ma l'isola di Jean Mayen? - risposi io.

- Nemmeno, ragazzo mio, questo non è certo un vulcano del nord con le sue colline di granito e una calotta di neve.

- Pure...

- Guarda, Axel, guarda.

Sopra il nostro capo, a cinquecento piedi all'incirca, si apriva il cratere d'un vulcano dal quale sfuggiva ogni quarto d'ora, con uno scoppio rumoroso, un'alta colonna di fiamme miste a pietre pomici, ceneri e lave. Sentivo le convulsioni della montagna che respirava alla maniera delle balene gettando ogni tanto il fuoco e l'aria dagli enormi sfiatatoi. Al di sotto, per una china ripida, gli strati di materie eruttive si stendevano, a una profondità di sette-ottocento piedi, ciò che non dava al vulcano un'altezza totale di trecento tese. La sua base spariva in una vera cesta di alberi verdeggianti fra i quali distinguevo gli ulivi, i fichi e le viti cariche di grappoli vermigli.

Bisognava pur convenirne, non era punto l'aspetto delle regioni artiche. Lo sguardo, passata la cinta verdeggiante, giungeva rapidamente a perdersi nelle acque d'un mare ammirabile o di un lago, il quale faceva di questa terra incantata un'isola larga appena qualche lega. A levante si vedeva un piccolo porto preceduto da alcune case, nel quale dondolavano ai capricci dei flutti azzurri navicelle di forma speciale. Più oltre gruppi di isole uscivano dalla liquida pianura e così numerose che rassomigliavano a un vasto formicaio. A ponente, coste lontane si disegnavano nell'orizzonte. Sulle une si scorgevano i profili di montagne azzurrognole conformate armonicamente: sulle altre più lontane appariva un cono prodigiosamente elevato, sul vertice del quale si agitava un pennacchio di fumo. Nel nord un'immensa distesa di acque scintillava ai raggi del sole lasciando apparire qua e là l'estremità di un'alberatura o la convessità d'una vela gonfiata dal vento. La sorpresa centuplicava le meravigliose bellezze di questo spettacolo.

- Dove siamo, dove siamo? - ripetevo sottovoce.

Hans chiudeva gli occhi indifferente, mentre mio zio si guardava intorno perplesso.

- Qualunque sia questa montagna - disse finalmente - vi fa un po' caldo. Le esplosioni non cessano, e sarebbe davvero paradossale essere usciti da un'eruzione per ricevere un pezzo di roccia sulla testa. Scendiamo e sapremo il fatto nostro. D'altra parte, io muoio di fame e di sete.

Il professore non era proprio uno spirito contemplativo.

Per parte mia, dimentico dei bisogni e delle fatiche, sarei rimasto in quel luogo per lunghe ore ancora, ma dovetti seguire i miei compagni.

La scarpata del vulcano offriva rapidissimi pendii. Scivolavamo su vere frane di ceneri evitando i rivoli di lava che si allungavano come serpenti di fuoco. Nel discendere io parlavo con leggerezza, perché la mia immaginazione era così piena che aveva bisogno proprio d'uno sfogo di parole.

- Siamo in Asia, - esclamai - sulle coste dell'India, nelle isole Malesi, nel mezzo dell'Oceania. Abbiamo attraversato la metà del globo per riuscire agli antipodi d'Europa.

- Ma la bussola? - rispondeva mio zio.

- Sì, la bussola; - dicevo io imbarazzato - a prestarle fede, noi abbiamo sempre camminato verso nord; ci ha dunque mentito?

- Oh! Mentito!

- Se pure questo non è il polo nord.

- Il polo? No, ma...

Il fatto era inesplicabile. Non sapevo che pensare.

Frattanto ci accostavamo a quella vegetazione che appagava l'occhio. La fame mi tormentava e la sete anche: per buona sorte, dopo due ore di viaggio una bella campagna si offrì ai nostri sguardi interamente coperta di ulivi, di melagrani e di viti che parevano appartenere a tutti. D'altra parte, nella nostra condizione non eravamo uomini da badare tanto per il sottile. Quale godimento fu quello di avvicinare i frutti saporiti alle labbra e di mordere i grappoli vermigli di quei vigneti! Poco lontano, nell'erba, all'ombra deliziosa degli alberi, scoprii una sorgente d'acqua fresca in cui tuffammo voluttuosamente le mani e il viso.

Mentre ciascuno si abbandonava così a tutte le dolcezze del riposo, un fanciullo apparve fra due macchie di ulivi.

- Ah! - esclamai - Ecco un abitante di questa felice contrada!

Era una specie di piccolo mendicante, vestito poverissimamente, d'aspetto miseruccio, e che parve molto spaventato nel vederci. Infatti, seminudi, con la barba incolta, avevamo fisionomie assai tristi, e se quello non era un paese di briganti, il nostro aspetto avrebbe certamente spaventato i suoi abitanti.

Mentre il birichino stava per darsi alla fuga, Hans gli corse dietro e lo ricondusse malgrado le sue grida e i suoi calci.

Mio zio cominciò a rassicurarlo del suo meglio, e gli disse in buon tedesco:

- Qual è il nome di questa montagna, piccino mio?

Il fanciullo non rispose.

- Benissimo, - disse mio zio - non siamo in Germania.

E gli ripeté la stessa domanda in inglese.

Il fanciullo non rispose neppure.

Io ero imbarazzatissimo.

- Che sia muto? - si domandò il professore, il quale, fiero di essere poliglotta, ricominciò la stessa domanda in francese.

Lo stesso silenzio del fanciullo.

- Proviamo l'italiano - e chiese in questa lingua:

- Dove siamo?

- Sì! Dove siamo? - ripetei con impazienza.

Ma il fanciullo non rispose.

- Ah, questa poi! Ti decidi a parlare? - gridò mio zio vinto dalla collera e scuotendo il fanciullo per le orecchie - Che nome ha quest'isola?

- Stromboli - rispose il pastorello, sfuggendo dalle mani dello zio e guadagnando la pianura attraverso gli ulivi.

Non ci demmo più pensiero di lui. Lo Stromboli! Quale effetto produsse sulla mia immaginazione questo nome inaspettato! Eravamo nel Mediterraneo, nel mezzo dell'arcipelago eolio di mitologica memoria, nell'antico Strongile, in cui Eolo teneva incatenati i venti e le tempeste. E le montagne della Calabria, e quel vulcano che si rizzava all'orizzonte verso il sud era l'Etna, lo stesso fiero Etna!

- Stromboli, Stromboli! - ripetevo.

Mio zio mi accompagnava con i gesti e con le parole; avevamo l'aria di cantare in coro.

Ah! Che viaggio, che meraviglioso viaggio! Entrati da un vulcano, eravamo usciti da un altro, e questo era situato a più di milleduecento leghe dallo Sneffels, da quell'arido paese dell'Islanda posto ai confini del mondo! Le vicende della spedizione ci avevano trasportato nelle più armoniose contrade della terra. Avevamo lasciato le regioni delle nevi eterne per quelle del verde senza fine, e lasciato al disopra delle nostre teste le grigie nebbie delle zone ghiacciate per spuntare sotto il cielo azzurro della Sicilia.

Dopo un pasto delizioso, composto di frutta e d'acqua fresca, ci rimettemmo in cammino per guadagnare il porto di Stromboli. Non ci parve cosa prudente dire in che modo fossimo arrivati nell'isola. Lo spirito superstizioso degli italiani avrebbe certo visto in noi demoni vomitati dall'inferno; bisognò dunque rassegnarsi a passare per naufraghi. Era meno glorioso ma più sicuro.

Cammin facendo, intesi mio zio mormorare:

- Ma la bussola, la bussola che marcava il nord! Come spiegare questo fatto?

- In fede mia, - dissi io disdegnosamente - non bisogna spiegarlo; è più facile.

- Questa poi! Un professore del Johannxum che non trovasse la ragione di un fenomeno cosmico sarebbe screditato!

Così parlando, mio zio, seminudo, con la sua borsa di cuoio attorno alle reni, appuntando gli occhiali al naso, ridivenne il terribile professore di mineralogia.

Un'ora dopo aver lasciato il bosco degli ulivi, arrivammo al porto di San Vincenzo, dove Hans reclamò il prezzo della sua tredicesima settimana di servigio, che gli fu contato con calorose strette di mano. In quel momento, se egli non provò la nostra commozione, si lasciò peraltro andare a un movimento d'espansione straordinaria: con l'estremità delle dita, strinse leggermente le nostre mani e sorrise.

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