Copertina
Autore Sandro Veronesi
Titolo Caos calmo
EdizioneBompiani, Milano, 2006 [2005] , pag. 454, cop.fle.sov., dim. 150x210x30 mm , Isbn 978-88-452-3489-7
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa italiana
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– Là! – dico.

Abbiamo appena fatto surf, io e Carlo. Surf: come vent'anni fa. Ci siamo fatti prestare le tavole da due pischelli e ci siamo buttati tra le onde alte, lunghe, così insolite nel Tirreno che ha bagnato tutta la nostra vita, Carlo più aggressivo e spericolato, ululante, tatuato, obsoleto, col capello lungo al vento e l'orecchino che sbrilluccicava al sole; io più prudente e stilista, più diligente e controllato, più mimetizzato, come sempre. La sua famigerata classe beat e il mio vecchio understatement su due tavole che filavano al sole, e i nostri due mondi che tornavano a duellare come ai tempi dei formidabili scazzi giovanili – ribellione contro sovversione –, quando volavano le sedie, mica scherzi. Non che si sia dato spettacolo, visto che è già tanto se siamo riusciti a non cadere dalle tavole; o meglio: abbiamo dato lo spettacolo di chi è stato giovane anche lui, e per un breve periodo ha creduto che certe forze potessero veramente prevalere, e in quel periodo ha imparato a fare un sacco di cose che in seguito si sono rivelate sovranamente inutili, tipo suonare le congas, o rotolare una moneta tra le dita come David Hemmings in Blow Up, o rallentare il battito cardiaco per simulare un attacco di bradicardia e venire riformati al servizio militare, o ballare lo ska, o rollare le canne con una mano sola, o tirare con l'arco, o la meditazione trascendentale, o, per l'appunto, íl surf. I due pischelli non potevano capire, Lara e Claudia erano già tornate a casa, Nina 2004 è partita stamattina presto (Carlo cambia fidanzata ogni anno, e così io e Lara abbiamo cominciato a millesimarle): non c'era nessuno a goderselo, è stato uno spettacolino tra noi due, uno di quei giochi che hanno senso solo tra fratelli, perché un fratello è il testimone di un'inviolabilità che da un certo momento in poi nessun altro è più disposto a riconoscerti.

– Là! – dico all'improvviso.

Poi ci siamo sdraiati sulla sabbia ad asciugarci, ebeti di fatica, con gli occhi chiusi e il vento che ci arruffava i peli del petto, e siamo rimasti in silenzio, a rilassarci. D'un tratto però mi sono accorto che per godere di quella pace stavamo trascurando qualcosa che da un po' aveva cominciato a segnalarsi con una propria rumorosa urgenza: grida. Mi sono tirato su a sedere, immediatamente imitato da Carlo.

– Là! – dico all'improvviso, indicando un gruppo di persone molto agitate, un centinaio di metri sopravvento.

Ci alziamo di scatto, i muscoli ancora caldi per la lunga cavalcata tra le onde, e ci dirigiamo di corsa verso quella piccola folla. Lasciamo lì telefonini, occhiali, soldi, tutto: improvvisamente non esiste più nient'altro che quel crocchio e quelle grida. Si fanno senza pensare, certe cose.

Il tempo che segue è una specie di fulminea sequenza medianica, senza altra sensazione che quella di essere tutt'uno con mio fratello: le domande su cosa sia successo, il vecchio esanime sul bagnasciuga, l'uomo dai capelli biondi che cerca di rianimarlo, la disperazione di due bambini che gridano "Mamma!", i volti smarriti delle persone che indicano il mare, le due testoline perse tra le onde, e nessuno che agisce. In quella stasi frenetica si staglia lo sguardo azzurro di Carlo, intenso, carico di una formidabile energia cinetica: quello sguardo dice che per qualche indiscutibile ragione tocca a noi andare a salvare quei due poveretti, e che in realtà è come se l'avessimo già fatto, sì, è come se fosse già tutto finito, e noi due fratelli fossimo già gli eroi di quella marmaglia di sconosciuti, perché siamo creature acquatiche straordinarie, noi, siamo tritoni, e per salvare vite umane possiamo domare le onde con la stessa naturalezza con cui le abbiamo domate per divertirci sulle tavole da surf, e lì attorno altra gente in grado di farlo non ce n'è.

Entriamo in acqua correndo, e ci trasciniamo fin dove frangono le prime onde. Lì ci imbattiamo in uno strano uomo, allampanato e rosso di capelli, intento a gettare goffamente verso il largo una cima cortissima, mentre le persone da salvare distano perlomeno trenta metri. Gli passiamo accanto di slancio, lui ci guarda con occhi che non dimenticherò mai – gli occhi di chi lascia morire la gente – e con voce vigliacca, degna di quegli occhi, tenta di dissuaderci: "Non andate", sibila, "Rischiate di rimanerci anche voi". "Ma vaffanculo", è la risposta di Carlo un attimo prima di tuffarsi sotto un'onda e cominciare a nuotare. Io faccio altrettanto, e, nuotando, vedo in controluce le ombre nere dei muggini filare orizzontalmente lungo il muro verde che si forma ogni volta che un'onda si alza per poi schiantarsi sopra di me: quei pesci fanno il surf, si divertono, come noi pochi minuti fa.

Viste dalla riva le due teste parevano vicine tra loro, ma in realtà sono abbastanza distanti, tanto che a un certo punto io e Carlo dobbiamo separarci: gli faccio cenno di piegare verso quella di destra, mentre io mi butterò su quella di sinistra. Di nuovo mi guarda, sorridendo, poi annuisce, e di nuovo mi sento invincibile; entrambi ripartiamo con forza.

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Le reazioni degli altri. Non che siano così importanti, ma sono la cosa più sorprendente di questa faccenda. Ormai lo sanno tutti, anche perché io non lo nascondo – e non potrei: come si fa a nascondere il fatto di passare tutta la giornata davanti a una scuola? Qui intorno ormai lo sanno gli insegnanti, i bidelli, gli altri genitori, i baristi, gli edicolanti, i vigili urbani – quello del mattino mi tiene addirittura il posto per la macchina: e la loro reazione è un misto di rispetto e di pena, senza che però nessuno si azzardi a commentare, data la poca confidenza, e nemmeno a parlarne. Io sto qui dalle otto alle quattro e mezza, e per questa gente va bene. Forse, mi sono detto, è perché vengo percepito come un pezzo grosso: mi sono reso conto all'improvviso che essere il direttore di una pay-TV cui tutti sono abbonati o desidererebbero abbonarsi è una posizione di prestigio; e se, dopo che è morta tua moglie, fai una cosa così insolita ma palesemente inoffensiva come restare tutti i giorni davanti alla scuola di tua figlia, quel prestigio, agli occhi degli altri, conta. Naturalmente non è giusto, e c'è stato un tempo in cui anch'io, come tanti, combattevo contro questo andazzo: ma è ancora così che funziona. Se questa cosa la fa un uomo relativamente ricco e potente come me, viene accettata e rispettata; se la fa un manovale, poniamo, è sospetta. Può darsi che mi sbagli – sarebbe bello, significherebbe che non abbiamo combattuto invano – ma secondo me è così. Lo vedo, lo sento: più semplici sono, e più le persone si sentono come onorate che io stia qui. Gli estranei non sono un problema.

Un po' diverso, ma alla fine ancor più sorprendente, è il discorso che riguarda gli amici e í parenti. Avendo confidenza con me, loro la usano; si sentono autorizzati a chiedere, a obiettare, a cercar di dissuadermi. Ma è un tentativo che dura solo pochi minuti. Che vengano qui o si limitino a telefonarmi, anche loro dopo un po' accettano che io stia tutto il giorno davanti a questa scuola. È strano come siano semplici, dopotutto, certe cose: semplicemente, lo accettano. Mi rendo conto che partono tutti dal sospetto che io possa essere ammattito, e il loro primo approccio è più che altro una verifica: ho per caso perso il cervello? Ma io non ho perso il cervello, e nel rispondere alle loro domande, nel dir loro la verità, glielo dimostro. Stando qui non faccio nulla di male, non trascuro il mio lavoro né la mia persona, non mi sottraggo a nessuna delle mie responsabilità e ho perfino una specie di autorizzazione illimitata da parte del mio capo – del quale nessuno, ancora, conosce il duro destino. Sono costretti ad accettarlo. In sequenza, nei giorni scorsi, ho ripetuto le stesse parole a un sacco di persone: la mia segretaria, mio fratello, mia cognata Marta, zia Jenny, i miei due colleghi Enoch e Piquet – perfino mio padre mi ha telefonato, dalla Svizzera, per chiedermi cosa stesse succedendo. Ma ho sempre dovuto farlo una volta sola, mai due, poiché evidentemente le mie spiegazioni devono averli rassicurati. Anzi, di più: ho perfino avuto l'impressione che, dopo essersi rassicurati, mi abbiano un po' invidiato più o meno tutti. È un'impressione che ho avuto proprio perché li conosco bene, e so che nessuno di loro è felice, anche se magari non sono aggiornato sulle effettive vicissitudini che complicano la loro esistenza. Partendo dalla certezza che io stia soffrendo – ma qui c'è un equivoco, perché io non sto soffrendo –, e immaginandomi arenato davanti alla scuola di mia figlia come un barbone, e vedendomi invece godere di una pace e di una ragionevolezza del tutto inattese, devono aver pensato alla propria, di sofferenza, e a questo fermarsi in un punto preciso del mondo come a una mossa felice che potrebbe regalare un po' di pace anche a loro, se solo avessero il coraggio di compierla; qualcosa tipo "io mi fermo qui, ora andate avanti senza di me", che non è quello che ho fatto io bensì quello che vorrebbero fare loro – e invece non possono. Invidiato in questo senso, dico.

Ma forse esagero, e soprattutto sbaglio a generalizzare: mio fratello, per esempio, sembra ancora alquanto perplesso, e forse ha solo rimandato ogni discussione a quando verrà qui a Milano – lui abita ancora a Roma –, consapevole del fatto, per averlo sperimentato più di chiunque altro, che se è già difficile di persona, è assolutamente impossibile farmi cambiare idea per telefono.

Se esagero, d'altra parte, è perché sono successe cose che vanno pur considerate. Ho ricevuto due visite piuttosto strane, e anche terribili, a loro modo. Una ieri e una stamattina. Una del mio collega Piquet e una di mia cognata Marta. Erano già stati qui entrambi, giorni fa, anche loro, come tutti, per sincerarsi delle mie condizioni mentali, e Marta era pure ritornata, un pomeriggio, con i bambini, ad aspettare l'uscita da scuola di Claudia; ma erano visite del tutto normali: con Piquet avevamo parlato della situazione in azienda, con Marta di faccende familiari, progetti di vacanze e affari riguardanti l'eredità di Lara. Visite normali, appunto. Ma quelle di ieri e di stamattina no, non sono state visite normali, e non lo sono state per via di quello che Piquet e Marta sono venuti a fare. Non sono venuti a chiacchierare, a farmi compagnia, o a togliersi qualche dubbio residuo circa le mie condizioni mentali: sono venuti a soffrire. Tutti e due come Jean-Claude: sono venuti qui da me a scaricarmi addosso il loro dolore, ciecamente, accanitamente, davanti a questa scuola.

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Ho conosciuto anche il bambino Down, quello che comunica con l'antifurto della mia macchina: si chiama Matteo, ha otto anni, e da grande vuole fare l'aiuto-cuoco - e questa sua ambizione così minore mi ha commosso. A innescare il nostro contatto è stata la madre, quando si è accorta del giochetto che faccio con l'antifurto ogni volta che loro due passano da qui. In realtà mi ha affrontato a muso duro, pensando che mi stessi divertendo alle loro spalle, ma è una brava donna, e appena le ho spiegato che stavo solo cercando di aggiungere qualcosa alla vita di suo figlio mi ha creduto e si è scusata. Matteo stava giocando con Dylan e non ha sentito nulla, così la sua amicizia con l'antifurto è rimasta pura e misteriosa come prima; anzi, poiché il suo cromosoma 21 lo ha protetto, permettendogli di non associare me alla mia macchina, cosa che qualsiasi bambino normale avrebbe fatto, ora ha anche un nuovo amico con cui parlarne: "Non so perché – mi ha confidato a voce bassa – ma quando passo di qui la macchina nera mi saluta". Da quella mattina sua madre ha cominciato a fermarsi da me per fumare una sigaretta, prima di trascinarselo dietro nello studio di fisiokinesiterapia; ma non resta mai abbastanza da raccontarmi le molte sventure che porta segnate sul volto, e quando esce è sempre di gran fretta.

Insomma, ho un'imbarazzante verità da confessare: la tranquillità che mi è stata riservata, unita a questo imprevisto ritorno dell'estate e – naturalmente – alla perdurante assenza di dolore, ha fatto degli ultimi sette giorni uno dei periodi più sereni di tutta la mia vita. Nemmeno la fine dell'ora legale – evento che ho sempre considerato tristissimo – è riuscita a rovinarlo, ma è pur vero che fra poco verrà a trovarmi mio fratello, e temo che la sua venuta mi riporterà addosso un bel po' di quel frastuono dal quale in questi giorni mi sono distanziato. È arrivato a Milano ieri sera – a sorpresa, visto che alla settimana delle sfilate manca ancora quasi un mese; mi ha chiamato mentre andava a una cena non so dove in Brianza, prenotando Claudia per stasera, ed ecco perché potrei davvero andare a quell'incontro; poi mi ha chiesto se sto sempre davanti alla scuola e quando gli ho detto di sì mi ha annunciato la sua visita per stamattina. Dall'atteggiamento che ha tenuto fin qui nelle sue telefonate da Roma, Parigi e Los Angeles, sembra che il protrarsi di questa cosa lo disturbi, più che altro per motivi suoi d'indemoniato che non riesce a concepire nemmeno di fermarsi in una nazione per più di cinque giorni filati, figuriamoci davanti a una scuola. E insomma fra poco sarà qui e probabilmente ci sarà da discutere, come c'è sempre stato da discutere, con lui, nel teatrino di famiglia, spesso anche aspramente, più o meno su ogni questione, sebbene nella sostanza siamo sempre stati dalla stessa parte. Tra noi due non c'è mai stato nessun vero problema, ecco il punto, e forse il problema è proprio questo: eravamo troppo uguali per non sentirci obbligati a cogliere ogni pretesto per mostrarci diversi; dopodiché, a furia di perseguirlo come obiettivo nella vita, diversi lo siamo diventati, e così tutto si è fatto più confuso, al punto che se affermassi una cosa del genere dinanzi a lui probabilmente sosterrebbe il contrario, e cioè che siamo molto diversi ma ci sforziamo di trovare punti in comune, e alla fin fine sarebbe vero pure questo – anzi, mi sa che certe volte l'ho addirittura sostenuto io. Per cui, riguardo a mio fratello, mi accontento di una rudimentale convinzione, e cioè che la natura ci unisce tanto quanto la civiltà ci divide, e viceversa; probabilmente ci sono parole migliori per definire il nostro rapporto, ma, dal momento che non è obbligatorio definirlo meglio, mi accontento di queste, e di pensare a noi due per quello che siamo davvero, ben prima e oltre qualsiasi definizione: due parti di un tutto. È proprio questo senso di comune appartenenza, senza nemmeno il bisogno di specificare a cosa, che di tanto in tanto cola fuori dalle crepe del mondo e ci ricorda che siamo fratelli, che lo siamo sempre stati, e che l'esser fratelli è uno stato mentale potentissimo; formidabile, per esempio, l'attimo in cui ci siamo guardati prima di tuffarci per salvare quelle donne, il giorno in cui è morta Lara, quando davvero mi è sembrato di essere lui, e di avere gli occhi azzurri.

Genericamente parlando, però, si può dire che ci frequentiamo poco. Lui è uno stilista famoso, è scapolo, cambia una fidanzata all'anno ed è sempre in giro per il mondo; io sono quello che sono; le nostre vite non hanno molti punti di contatto, e nella lunga lista delle nostre differenze ce ne sono alcune che suonano veramente strane. Per esempio, perché lui sta a Roma e io a Milano? Non sarebbe più logico il contrario, visto che a me Roma manca enormemente e lui lavora nella moda? Bah. Non saprei dirlo. So solo che da quando mi sono trasferito a Milano penso di tornare a vivere a Roma, ma non l'ho mai fatto e, via via che non lo faccio, questo proposito diventa sempre più vago e irrealizzabile. Da quando è morta la mamma, poi, e papà ha venduto la casa di Via Giotto per trasferirsi in Svizzera, non ho più una camera dove dormire, e anche passarci un fine settimana mi riesce difficile. Prima ci andavamo, io Lara e Claudia, per Natale, o in giugno, a volte perfino d'agosto, quando Roma è meravigliosamente vuota, e il fatto di averci una casa di famiglia – di averci una famiglia – rendeva tutto più naturale, compreso il proposito di tornare un giorno o l'altro ad abitarci; e anche quando dovevo andarci da solo per lavoro, magari per un giorno, mi sentivo rappresentato – non so come spiegarmi — da quella casa e da quella camera da letto; ma ora, che nella casa di via Giotto vive la famiglia di un certo notaio Mandorlini, io oppongo una forte resistenza all'idea di andare in albergo nella mia città, e il risultato è che non ci vado più.

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Enoch allora solleva la testa e guarda in alto, verso le fronde di questi alberi che sembrano ancora ricche e rigogliose, sebbene per terra ormai ci sia un fitto tappeto di foglie morte, perché siamo in autunno, in autunno. Resta così per un po', come se lassù ci stesse cercando un appunto, o addirittura un'ispirazione.

– La seconda cosa che volevo dirti è che questa fusione è veramente un suicidio. Un errore enorme. Ma non solo per le ragioni che ho cercato di spiegare in quel, non so come chiamarlo, in quel documento che ti ho fatto leggere l'altra volta. A prescindere da quelle ragioni, che riguardano tutte le fusioni, io dico proprio che questa fusione, così com'è concepita, è un errore madornale. Vuoi sapere perché?

– Sì.

– Allora segui il mio ragionamento. Abbiamo due grandi gruppi industriali, giusto? Uno europeo e uno americano, che hanno deciso di fondersi. Quello europeo è posseduto da un certo numero di banche, di società e di singoli investitori, ed è controllato da Boesson; quello americano è controllato e posseduto da una singola famiglia, al cui vertice c'è Isaac Steiner. Ovviamente questo intento di fondersi presuppone l'esistenza di un tornaconto comune, in ragione del quale si ipotizza che entrambi i gruppi, quello di Boesson, che d'ora in poi chiamerò Noi, e quello di Steiner, che chiamerò Loro, alla fine del processo ci guadagneranno. Le cose che ho scritto giorni fa, e che tu hai letto, confutano proprio questo assunto, cioè sostengono che la ricchezza generata dalla fusione, se si considera tutto, sarà inferiore a quella che veniva generata dai due gruppi originari; ma ormai la fusione verrà fatta e dunque il punto non è questo. Il punto è che quando due colossi come Noi e Loro si fronteggiano, anche solo per fondersi nel miraggio di un guadagno comune, uno dei due finisce per prevalere sull'altro. Nonostante ci si metta laboriosamente d'accordo per evitarlo, l'idea del Noi e del Loro sopravvive, non verrà mai completamente eliminata. Potrà scomparire al nostro livello, ma non scompare certo al livello di Steiner e Boesson: loro due non potranno mai fondersi, loro due rimarranno sempre Io e Lui. Mi segui?

- Sì.

– In pratica è da questo che proviene l'espressione, tecnicamente senza senso, di vincere una fusione: per quanto tecnicamente senza senso, infatti, quest'espressione è giustificata, dato che abbiamo a che fare con due esseri umani mossi da un'ambizione smisurata, e alla fine della fiera uno dei due controllerà l'altro. Seppur di poco, seppure ad altezze siderali, uno starà sotto e uno starà sopra. Bene. Ora, è noto che nel nostro caso, per utilizzare quell'espressione tecnicamente insensata, la fusione la vinceremo Noi. È vero o no? Risulta anche a te, no?

– Sì.

– Bene. Ciò significa che, indipendentemente da quel che accadrà a tutti gli altri duecentomila e rotti dipendenti del gruppo risultante, alla fine Boesson dovrà stare sopra a Steiner. Effettivamente sopra, intendo. Be', scordiamocelo. Ho avuto modo di studiare i dettagli della fusione, quei documenti che da mesi vengono negoziati, discussi, limati, approvati, rimessi in discussione, rinegoziati, riapprovati eccetera per dar luogo a quella che sarà la struttura finale, e ti dico che non sarà così. Non vinceremo Noi, vinceranno Loro. Anche se alla fine le cariche più importanti le ricoprirà Boesson, a vincere sarà Steiner, e sai perché? Per il canone che è stato scelto, Pietro: il modello strutturale.

Dev'essere consapevole, Enoch, che qui il discorso diventa complicato, perché fa una pausa. Poi, constatando che non gli faccio nessuna domanda, prosegue.

– Vedi, si dà il caso che sia Boesson sia Steiner siano conosciuti come persone religiose. Boesson cattolico, Steiner ebreo; Boesson per la sua vita super-morigerata, la sua strettissima osservanza quotidiana, la messa ogni mattina, il digiuno il venerdì, eccetera – insomma, le cose che sanno tutti; e Steiner, benché dissoluto, per il noto, storico impegno che si è assunto di ottenere la restituzione dei beni sottratti agli ebrei durante il nazismo. Ognuno a suo modo, dunque, i due grandi capi sono i campioni delle rispettive religioni. Due religioni diverse, mi spiego? Ognuna con un proprio canone: gerarchico e immutabile quello ebraico, elastico e complesso quello cattolico. Be', secondo te a quale dei due modelli si ispira la fusione?

Si arresta, mi guarda, ma è chiaro che non vuole la mia risposta. Sta solo spizzicando un po' prima di calare il punto.

– A quello ebraico, Pietro, non a quello cattolico. Quando Boesson sarà Dio in terra, pédégé del più grande gruppo di telecomunicazioni del mondo, sarà il Dio del suo nemico. E allora avrà perso. Per vincere sul serio questa fusione doveva strutturarla in un altro modo, doveva seguire il canone cattolico.

– E quale sarebbe?

Enoch si illumina, visibilmente soddisfatto della risposta che sta per dare. Poi unisce gli indici e li muove lentamente nell'aria, disegnando un triangolo.

– La Trinità, Pietro: Padre, Figlio e Spirito Santo.

Tocca con la punta dell'indice destro i tre vertici del triangolo, e ora è proprio come se il triangolo fosse qui davanti a noi, appeso a mezz'aria dai suoi tocchi.

– Per sé non doveva progettare lo scranno più alto di tutti, quello del Dio vecchio e solitario degli ebrei. Doveva progettare tre scranni alla stessa altezza: uno per lo Spirito Santo, divinità neutra e senza poteri, che non conta; poi uno per il Padre e uno per il Figlio. E poiché sappiamo tutti che fine fa il Figlio – qui Enoch allarga lentamente le braccia e reclina la testa di lato, mimando una languida crocifissione –, anziché la propria onnipotenza Boesson avrebbe dovuto progettare la contesa con Steiner per il ruolo del Padre. Una contesa da consumarsi lentamente, ogni giorno, con pazienza, umiltà, disciplina, lasciando a Steiner la convinzione di poter prevalere, senza però dargliene il tempo: perché ha settant'anni, Steiner, e tre by-pass, ed è un bevitore, un donnaiolo, un fumatore di sigaro, mentre Boesson ha quarantacinque anni, è astemio e gode di ottima salute. Bastava sederglisi accanto, Pietro. Non sopra: accanto. Aspettare un po', e un bel giorno al posto di Steiner si sarebbe seduto il figlio di Steiner. Il Figlio, per l'appunto...

Di nuovo allarga le braccia e mima una crocifissione, ma molto più rapidamente di prima. Poi lascia cadere le braccia e sorride.

– Allora sì, che avrebbe vinto.

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