Copertina
Autore Sandro Veronesi
Titolo La forza del passato
EdizioneBompiani, Milano, 2000 , pag. 250, dim. 150x210x17 mm , Isbn 978-88-452-4409-4
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

- Lei - pausa - è un uomo triste?

Così mi ha detto, questa giornalista. È l'ultima domanda, dopodiché un assessore appena sconfitto alle elezioni mi stringerà la mano e mi consegnerà la busta con i quindici milioni del premio Giamburrasca-Narrativa per ragazzi. Quindici milioni. Valgono bene il peso di questa serata, consistente di lunga cena al ristorante in compagnia delle autorità locali, successiva cerimonia di premiazione nella sala-convegni inaugurata di fresco (c'è ancora odore di vernice), discorso del sindaco uscente, di quello entrante, della presidentessa della giuria, e intervista finale al vincitore effettuata da una giornalista con gli occhi a pesce lesso. E valgono, quei quindici milioni, anche tutte le insulse domande che la suddetta mi ha rivolto ('Fino a che età ha creduto a Babbo Natale?"; "Quale stagione preferisce?"; "Ho notato che non ha mangiato i dolci: perché?"), alle quali ho risposto con eroica diligenza - senonché improvvisamente tutto è stato reso agghiacciante dall'irruzione di una signora che si è impossessata del microfono per lanciare un appello affinché la si aiuti a tenere in vita artificiale suo figlio Matteo di nove anni (mio fedele lettore, ha precisato), dichiarato clinicamente morto a seguito di un incidente automobilistico e divenuto oggetto di un'accesa disputa cittadina a proposito dell'opportunità di fargli occupare a tempo indeterminato uno dei due respiratori automatici esistenti nella sala di rianimazione dell'ospedale.

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Pagina 42

Il pomeriggio sta declinando lentissimamente, come solo in giugno può capitare, a queste latitudini. Davanti a me, lontano, il crinale piatto e verde del Gianicolo, trafitto dal grattacielo - lo chiamano così - di piazza Rosolino Pilo, viene sorvolato da un aereo a una quota che sembra spaventosamente bassa. Ma è un effetto ottico, lo so, l'ho imparato. Il cielo è tutto un turbinare di rondini, e i rumori del traffico, laggiù - colpi di clacson, sgassate di motocicletta, ambulanze - arrivano smorzati e paiono naturali, rassicuranti. Finisco il gin tonic e mi sforzo di richiamare alla mente tutto ciò che per gli ultimi quattro giorni ho cercato di tenere lontano: uno sconosciuto armato mi ha individuato in coda fuori dalla Stazione Termini, diciamo che mi ha convinto a salire sulla sua macchina e poi, sorridendo, ha mostrato di sapere una cosa di mio figlio che nessuno sa. È successo questo, quattro giorni fa. È indubbiamente grave, ma il tempo che ci ho lasciato scorrere sopra gli ha già lavato via i particolari, così che, a questo punto, non si tratta nemmeno più di un ricordo bensì di una specie di notizia. Com'era, quell'uomo? Altezza...? Occhi...? Capelli...? Se domani vorrò andare da quella Ispettrice Olivieri a firmare la mia denuncia (tale evidentemente i poliziotti hanno considerato la mia richiesta di protezione), dovrò pur fornire un minimo di indicazioni. Eppure, benché sembri strano a me per primo, quell'uomo io non lo ricordo più. Ricordo che sorrideva, ma non ricordo il suo sorriso. Ricordo che sotto la giacca portava la camicia a mezze maniche, ma non ricordo il colore, né della camicia né della giacca. Che razza di indagini potranno mai essere svolte, se io stesso non sono in grado di dare una sola informazione utile?

Decido di farmi un altro gin tonic. Rientrando in soggiorno a prepararlo e poi tornando in terrazza a berlo sento le gambe già leggermente molli, e questo mi piace. Mi sdraio di nuovo, bevo, respiro; mi gira la testa - molto bene. Non bevo quasi mai, ma quando lo faccio voglio vedere i risultati prima possibile, per cui preferisco farlo a stomaco vuoto - e per risultati intendo esattamente la leggerezza di adesso: non ebbrezza vera e propria, solo un lieve appannamento del cervello, quel tanto che basta a scrostarlo dal calcare della razionalità e lasciarci finalmente scorrere le cose insensate. Si, sto bene: il crepuscolo che si avvicina lentamente, i tetti di Roma, il caldo, le rondini, i sensi leggermente annebbiati e il cervello disposto ad accontentarsi delle soluzioni più improbabili per il mio problema. Per esempio l'eventualità di un universo beffardamente illogico - perché no? - in cui gli eventi abbiano luogo senza causa, senza concatenarsi, come nei cartoni animati. Ora, in questo momento, sarei disposto a crederci. Niente ordine naturale delle cose, soltanto un insensato mescolarsi di vicende grandi e piccole, individuali e collettive, che solo localmente, e solo per puro caso, gli stregoni della ragione riescono qualche volta a mettere in relazione tra loro: un universo a immagine e somiglianza del tasto shuffle dei lettori di compact disc. Niente Dio, niente Big Bang, tutt'al più un librone come quello immaginato da Melville all'inizio di Moby Dick, con su scritte le cose che dovranno accadere, ma senza la firma delle tre Parche, e senza nessun altro artefice, nessuna spiegazione. Qualcuno le legge e le esegue come e quando può. Ecco che di colpo il tale dell'altra sera non sarebbe più un problema, perché avrebbe semplicemente fatto il proprio dovere: passava di lì, ha letto nel librone "qualcuno rubi una macchina, infili una pistola nella cinta e dica a un certo Gianni Orzan cbe finalmente suo figlio ha imparato a andare in bicicletta" e ha eseguito: ma non ce l'ha con me, non sa nemmeno chi sono, e non lo rivedrò più. Il mondo insensato, sì: sarebbe fantastico, ora, scoprire che è così che funziona, e che io ho sbagliato tutto nella vita.

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Pagina 88

Ed ecco qua, ci siamo, ora reagisco. Finora sono stato capace di controllarmi, ma ora, di colpo, sento che non lo sono più. È un fatto proprio fisico, credo, nervoso: le tempie mi pulsano, il sangue mi sta salendo violentemente verso il cervello, e io non posso più simulare alcuna quiete, perché in tutto questo c'è qualcosa di intollerabile, e l'intollerabile non si può tollerare.

- Scusi! - grido, rivolto alla pattinatrice.

Ma d'altra parte non posso nemmeno mettermi a discutere con quest'uomo, perché per quel che mi riguarda è uno schermo, un cd-rom, un test di resistenza, e io devo resistere: è l'unica cosa saggia che io possa fare, qualunque macchinazione ci sia dietro, anche se fosse davvero una stramaledetta candid camera.

La ragazzina arriva piano, stavolta, frenando delicatamente in punta di pattino.

- Può portarci via i piatti, per favore? - ringhio - È mezz'ora che abbiamo finito.

Saranno sì e no cinque minuti. Lei s'irrigidisce e mi fissa: devo sembrarle un vero stronzo, ma pazienza, non so che farci - anzi, mi sento già meglio. Mi fissa, bella anche nell'umiliazione, e forse una voce dentro di lei ruggisce dài, Roller Betty, ribellati, non farti trattare così! Reagisci, non accontentarti di sputargli nei gamberoni, tu non sei una cameriera! Rovescia il tavolo addosso a questa testa di cazzo e manda tutto in vacca, approfittane per liberarti in un sol colpo di un lavoro e di un padre che ti impediscono di essere in discoteca con le tue amiche, in questo momento, a prendere le pastigliette colorate e a ballare sui pattini come una forsennata, e a scegliere tu, mitica leonessa di Fregene, da quale coatto farti rimorchiare...

Ma niente, evidentemente anche lei non può. Non può piantare tutto, non può spezzare le catene, non può far altro che, come le ho ordinato, toglierci i piatti dal tavolo senza fiatare, e scivolare via. Siamo tutti agìti, non c'è niente da fare.

- Bene - non posso non dire - È finita la sua storia? Interessante, ma purtroppo non ci credo.

Lui scuote la testa, sorride. La mia incapacità di mantenere il silenzio - e dunque, il controllo - sembra divertirlo.

-No, Gianni. Non è finita.

- Ah no? E cosa manca?

Schiaccia la sigaretta nel portacenere. Male, perché la sigaretta non si spegne, e deve schiacciarla di nuovo, e ancora la sigaretta non si spegne, e io ho bisogno di fumare, merda, ma non posso fare neanche questo. Posso bere, però.

- Mancano tutte le domande che ti ronzano in testa e che ora devi farmi.

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Pagina 96

Mi guardo intorno, guardo tutte queste persone che, dopo l'intermezzo offerto dal mio spettacolino, sono tornate a occuparsi dei fatti propri. I cinquantenni della tavolata stanno andandosene in silenzio, senza più l'allegria che hanno ostentato durante la cena. Ma sarebbe assurdo pretendere che li abbia fiaccati Pasolini, che ignorano anche più beatamente di quanto lui, se fosse vivo, ignorerebbe loro, e la cui scandalosa presenza non erano nemmeno in grado di fiutare nella mia sortita, come invece i loro genitori avrebbero ancora potuto fare, trent'anni fa, ciecamente, per puro istinto, simili ai cani che sentono arrivare il terremoto. Sono stanchi, tutto qui, perché si è fatta una cert'ora, e se ne vanno a casa riponendo il buonumore nella custodia. Gli uomini sono brizzolati, abbronzati, asciutti, gente sportiva da circolo del tennis, i cui occhi dicono costantemente "tra poco mi faccio un bel viaggio"; e le loro donne sono tutte abbastanza belle, di quella bellezza gassosa, pero, e uniformata dai ritocchi del chirurgo estetico, che le rende pressoché interscambiabili. Alla loro età mio padre e mia madre non erano così, e nemmeno gli amici che frequentavano: erano altri tempi, d'accordo, ma nei loro modi c'era proprio un che di austero, di invernale, con cui questa nuova borghesia non sembra avere nulla a che fare. D'altra parte, mio padre non avrebbe mai frequentato un ristorante come questo, così corroso dalle mode, così pieno di malessere. Siamo a cinquanta metri dal mare - perché la striscia nera di fronte a me è il mare - e nemmeno lo si percepisce. No, questo non è un posto adatto a mio padre, nemmeno per parlare di lui; non ha nulla a che vedere con quell'idea di solidità della vita borghese, di immutabilità, che lui ha sempre preteso intorno a sé: legno, non plastica, libri, non riviste, Dio, non le Maldíve. Invece qui tutto ha un'aria così provvisoria che fa direttamente pensare al prossimo cambio di gestione, quando l'uomo con la camicia a fiori sarà andato in rovina e questo posto verrà ristrutturato per l'ennesima volta, e durante i lavori, d'inverno, in un furoreggiare di scirocco, un giorno passerà di qui Roller Betty, non proprio per caso, ed entrerà, e si guarderà intorno come faccio io in questo momento, e i manovali smetteranno di smartellare e guarderanno lei, e il capocantiere le si farà incontro e le dirà "che ci fai tu, qua dentro?", e gli occhi di Roller Betty andranno in cerca delle striate lasciate dai suoi pattini sul pavimento ma non troveranno nemmeno il pavimento, perché anche quello sarà stato strappato via per cancellare ogni traccia di quel prima senza storia dal quale viene lei, e allora risponderà "Niente', e se ne andrà.

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Pagina 118

Deglutisce una seconda volta - gli devono essere rimaste a metà - e si rituffa con foga sul vassoio delle patate, come volesse spazzolarle prima che io possa prendesse un'altra.

- E poi i sapori... - riattacca - Questi sono i sapori perfetti, secondo me. Prova l'arancino...

Dà un morso a un arancino di riso, e io faccio altrettanto: è buono, si. In due bocconi lo finisce, poi svuota il bicchiere di birra e si impegna in una laboriosa presa a due mani della mozzarella in carrozza, che cola copiosamente olio e, dopo il primo morso, anche un bianco fluido mozzarellesco - il che lo obbliga a ingobbirsi col riflesso tipico dei mangiatori di hamburger, arretrando con tutta la sedia e protendendo il capo per convogliare lo scolo di tutti quei liquidi in una vaschetta vuota che c'è sul tavolo.

- Dice: sono pesanti - ricomincia, con la bocca troppo piena e la voce improvvisamente gutturale - Certo, non ci trovi le fisime che vanno di moda ora, americane pure queste: la cucina senza grassi, il cholesterol free...

Deve zittirsi per inghiottire, altrimenti affoga. La sua pronuncia inglese, comunque, è perfetta.

- Ma è una guerra, là dentro - riattacca, e la sua voce è tornata normale -, e il rosticciere è un soldato in trincea, che combatte tutto il giorno per dare piacere a chi può permettersi solo di togliersi la fame...

Finisce la mozzarella e attacca una crocchetta di patate. Come ieri sera, è velocissirno, nonostante parli e mangi simultaneamente. Dev'essere una tecnica precisa.

- Perché coi tartufi è facile fare la cucina saporita, e coi funghi e con l'aceto balsamico da due milioni al litro, son buoni tutti: ma prova un po' a farla col riso, col pane, colle patate, con l'olio di semi da due lire. È proprio come fare la guerra col fucile e la baionetta, è eroismo. La differenza è tutta qui...

Fa fuori l'ultima patata, che galleggiava nel fondo d'olio marroncino. L'avrei mangiata volentieri io.

- Mmnn - mugola - ma lo senti? Qui siamo ai confini estremi del gusto. Un po' più in là ed è rancio, sbobba, e l'arte del rosticciere sta proprio nella capacità di avvicinare il più possibile quel confine senza superarlo mai. Capisci la difficoltà, la grandezza? Caricarti di calorie per pochi soldi, sfamarti, ma anche darti il massimo piacere possibile, e tutto senza avvelenarti. Invece nei ristoranti queste cose te le danno come antipasto, così, per sfizio, e s'intendono di trasformarle in roba raffinata: te le friggono lì per lì, massacrate di diminutivi, "due crocchettine", "due olivette", "una mozzarellina"... Poi ti rifilano le cozze avariate e ti becchi l'epatite.

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Pagina 142

Già, il vecchio Balanda. La meteora più sfavillante che abbia attraversato il firmamento scacchistico degli anni Settanta: nessuno sapeva quanti anni avesse, dove vivesse o come si mantenesse, spuntò dal nulla e cominciò a macinare vittorie a un ritmo impressionante, tanto che sembrava avviato verso il famoso Torneo dei Candidati, nel quale si designa lo sfidante per il titolo mondiale. Poi, un giorno, ad Acapulco, si trovò in grave difficoltà di fronte a un outsider messicano, e, dopo avere consumato quasi tutto il tempo alla ricerca della mossa che gli evitasse l'onta della prima sconfitta, si alzò in piedi e gli lasciò andare un cazzotto dritto in bocca, mandandolo all'ospedale. Fu squalificato, espulso dal torneo e in seguito radiato da ogni competizione ufficiale (non senza un grottesco dibattito in seno al Comitato di Disciplina della Federazione Internazionale, poiché il regolamento non prendeva nemmeno in considerazione il caso di violenza fisica nei confronti di un avversario), e sparì dalla circolazione. Ma un anno e mezzo dopo, in occasione del Campionato Mondiale, ci fu un'amnistia, e Victor Balanda ne beneficiò, tornando alle competizioni. Ed è proprio al momento in cui ricompare sulla scena, a Palma di Maiorca, nel 1979, che risale il ricordo che conservo di lui, preciso e netto: eccolo mentre attraversa il salone del Consolat del Mar con addosso il solito abito marrone di velluto, incurante delle occhiate che lo infilzano da ogni direzione - perché, malgrado la presenza di un paio di grandi maestri internazionali, è lui l'attrazione del torneo; ecco il suo lungo volto barbuto, il naso da falco, la pelle squamosa, lo sguardo scaltro sotto gli occhiali di metallo. È un torneo a cadenza italo-svizzera, nel quale ogni concorrente affronta quello che lo segue in classifica al termine di ogni turno, e così Balanda, dopo quattro vittorie di fila, si ritrova a duellare con i più forti. Altre vittorie, un paio di patte, ed eccolo all'ultimo incontro, ormai secondo in classifica, seduto di fronte a un grande maestro suo connazionale che lo precede di mezzo punto: per superarlo e rendere trionfale il proprio rientro deve vincere, mentre se pareggia o perde verrà scavalcato anche da molti altri. Il suo avversario lo ricordo appena, una figura abbastanza ordinaria avvolta nella nebbia dell'oblio, come del resto anche il suo nome, poiché sebbene fosse il più forte giocatore del torneo, e quel torneo uno degli ultimi a cui io abbia partecipato, ciò che sta per accadere lo sfuocherà per sempre nella mia memoria. Io sono in prima fila, ho dato forfait al mio ultimo incontro pur di avere questo posto, perché Balanda per me è un idolo, nel mio pantheon di ventenne ha preso il posto di Bobby Fischer, e la sua esibizione non me la perderei per tutto l'oro del mondo. La partita è una Ruy-Lopez classica, la partita preferita di Balanda, e attorno al tavolo c'è un silenzio irreale, favoloso, due o trecento persone immobili e concentrate sull'icona verdastra - per via delle luci -, vagamente subacquea, di questi due russi che si fronteggiano sotto un enorme ventilatore a soffitto. L'altro ha i bianchi e gioca per la patta, è chiaro, e Balanda ha consumato un po' troppo tempo nel tentativo di stanarlo; ma può ancora farcela, ha una posizione promettente sul lato di Donna e le torri messe leggermente meglio. Non sta perdendo, non è in difficoltà, e anche se alla fine dovesse accettare la patta rimarrebbe pur sempre imbattuto. Eppure, ecco che in lui scatta qualcosa: me ne accorgo solo io, ne sono certo, e non saprei dire nemmeno come io possa avere una tale certezza, su cosa sia basata, ma ce l'ho. Qualcosa scatta in Victor Balanda e di colpo la scacchiera, i pezzi, la posizione, diventano irrilevanti, perché la soluzione si è spostata altrove, oltre quel tavolo, oltre le regole che rendono d'un tratto ridicolo questo rito dell'intelletto che fino a un momento fa sembrava sacro. Eccolo che comincia a perdere tempo: si sfila gli occhiali, se li pulisce, li rimette, poi si volta a guardare gli spettatori, quasi tutti grigi borghesi monomaniaci la cui fantasia non ha il minimo sbocco fuori da quelle sessantaquattro caselle, incapaci perfino di concepire ciò che sta per succedere, sebbene sia già successo una volta e sia proprio per questo, in fondo, che si trovano qui. Mentre il suo orologio continua a correre, ecco che Victor Balanda si alza, lentamente, come ha già fatto altre volte nel corso dell'incontro per concentrarsi girellando a testa china, ma stavolta la sua concentrazione è diversa, è quella del leopardo in mezzo alla savana, che calcola la direzione del vento, la distanza dalla preda, la velocità necessaria per raggiungerla... Il suo avversario, questa nebbia cartesiana piena di calcoli e partite mandate a memoria, è seduto compostamente, assorto, il mento poggiato sul dorso delle mani, i gomiti appoggiati al tavolino. Non ha capito nulla, nemmeno lui, non teme, non sospetta, non vede la dura realtà che prende forma dinanzi ai suoi occhi: vede magari una cervellotica combinazione di mosse che, in un futuro di cui questa partita ormai è priva, gli potrebbe regalare un pedone, ma non vede il cazzotto partire, un gancio fenomenale che lo centra in pieno volto, tra bocca e naso, e gli spegne ogni luce: crolla, secco, con un lugubre tonfo sul pavimento, passando direttamente dal dopo lucido e soddisfacente previsto dai suoi calcoli a quello confuso e tumefatto di quando si risveglierà sull'ambulanza ("Dove sono? Che è successo?"), e il medico a bordo gli raccomanderà di star tranquillo. Ecco fatto: Balanda si siede, spinge avanti un pedone e ferma il suo orologio. Sorride, mentre intorno a lui si scatena il finimondo, e rimane impassibile al suo posto, strattonato, insultato, minacciato, mentre si cerca di rianimare il suo avversario, perché nonostante tutto la variante Balanda non è ancora compiuta: occorre che l'avversario non si rialzi, occorre che l'arbitro sia costretto a interrompere la partita senza poter scrivere nel suo referto che Balanda ha abbandonato, ha perso, o ha pareggiato, no, occorre che si scervelli per trovare nella sua legnosa lingua di burocrate le parole che spieghino l'accaduto ("... colpiva l'avversario al volto con bruta violenza, procurandogli la perdita dei sensi e la conseguente impossibilità di proseguire l'incontro, e poi effettuava la mossa 41, ... H5-H4"). Un evento assolutamente inconcepibile nel piccolo mondo cui appartiene lui, eppure assolutamente semplice, e normale, nel grande mondo al quale appartiene Balanda.

E l'avversario non si rialza, non si rialza, non si rialza...

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Pagina 192

Dunque il mio matrimonio muore tra le braccia di una donna esattamente come io ho sempre cercato di non farlo morire giorno dopo giorno per anni lottando e faticando e imparando l'arte certosina della diminuzione e conquistando la fredda capacità di sbucciare le altre donne d'ogni loro attrattiva come fossero cipolle e sostenendo ciecamente l'insostenibile dogma secondo il quale di attrattive non possono averne punto e basta e tutto ciò che risplende attorno a loro è da considerarsi ingannevole punto e basta e va dimenticato all'istante, per principio punto e basta o meglio ancora nemmeno notato in una bieca madornale ingiustizia che riesco a commettere per pura abitudine ormai e infatti l'ho commessa anche con questa donna che adesso mi puntella nel suo abbraccio interminabile e languido e morbido e impetuoso e incandescente e quasi osceno per come incenerisce la stoffa dei vestiti e punta dritto alla carne una donna pensa un po' alla quale sono arrivato a donare l'equivalente di un sesto del mio reddito annuo senza nemmeno accorgermi di quanto fosse bella ma sarà poi vero che non me n'ero accorto non si verrà a scoprire un giorno che le ho dato l'assegno proprio perché è bella non sarà successo come stanotte col pacchetto di sigarette o anche con questa lettera mortale che ho avuto addosso per giorni e mi sono ostinato a non trovarla pur essendone ormai tangibili gli effetti attorno a me per forza Anna era gelida al telefono per forza in questi giorni non ho fatto che registrare la sofferenza altrui come se intorno a me non ci fosse altro e invece era tutto il creato panzoni armati pattinatrici bestemmiatori gabbiani vicini infermiere madri di bambini in coma che cercava compassionevolmente di avvertirmi affinché non perdessi altro tempo e mi rendessi conto una buona volta semplicemente mettendo una mano in tasca che a soffrire ero io e alla fine l'ho capito e il mio matrimonio muore e questa donna non smette più di piangere e io continuo ad accarezzare la sua nuca calda meccanicamente disperatamente e forse è per questo che lei non smette di piangere forse la sto facendo piangere io sì e lei sta piangendo anche per me e sebbene sia chiaro che è proprio il pianto a incollarla al mio corpo e io sia consapevole che un simile abbraccio è il più potente anestetico che un uomo ferito possa procurarsi Dio solo sa perché smetto di accarezzarla ed è come smettere di premere un pulsante perché subito lei smette di singhiozzare dopodiché è solo un catastrofico effetto-domino che io non trovo più il tempo d'interrompere e infatti i nostri corpi si sono già separati e lei mi ha già detto arrivederci e si è già allontanata con andatura un po' legnosa per la verità era meglio da ferma e non si è nemmeno voltata a salutarmi né io le sono corso dietro per raggiungerla e il suo taxi è già arrivato e lei c'è già montata sopra e stanno già svanendo tutti e due l'una confusa nell'altro entrambi confusi nel traffico di mezzogiorno e io so come si chiama il taxi Cuba 22 ma non so come si chiama lei sul serio né nome né cognome non l'ha mai detto ha detto solo la madre di Matteo e soprattutto come sono solo adesso senza di lei come sono perduto con questa lettera in mano la rileggo Caro Gianni no non ci riesco e poi non è che a rileggerla cambi qualcosa e poi mi bruciano gli occhi mi brucia la pancia mi brucia il petto e dove vado ora e cosa faccio ora c'è una cosa che devo dirti la donna non è tornata indietro come nei film ho avuto una relazione e infatti che gliene importa di me a lei importava solo che le girassi l'assegno la mia vita è nelle tue mani certo come no ora salta fuori che la merda sono io e il sangue mi ribolle nelle vene ma per davvero e ho voglia di fumare vomitare urlare di sfasciare qualcosa ma non qualcosa a caso ho voglia di sfasciare qualcosa di bello e di prezioso che dopo non potrò ripagare tipo un'opera d'arte per esempio l' Ultima cena di Jacopo Bassano sì alla Galleria Borghese il mio quadro preferito perché è realistico cazzo e gli apostoli sono ritratti tutti ubriachi sfranti come doveva essere sul serio in quelle sere sacre Gesù astemio che predicava e gli apostoli fracichi di vino a fare sì con la testa ben detto maestro parole sante e giù rutti e Simone col singhiozzo hic e Tommaso che crolla addormentato sì doveva funzionare esattamente come in quel quadro in fondo erano solo pescatori erano poveri pescatori rozzi e avvinazzati e infatti non è che di loro ci fosse da fidarsi granché erano pronti a rinnegare a dubitare a tradire alla prima occasione no non c'era da fidarsi a meno che si volesse finire inchiodati sulla croce e Gesù lo voleva lui sì che voleva essere tradito ma io no cazzo io no e ora lo so dove andare o meglio lo so dove sto andando visto che sto mettendo in moto la Vespa wrooom e stavolta ci riesco subito e parto a razzo prima seconda terza e mi sono scordato di mettere il casco e mi sono scordato il libro di Carver sul tavolino e chi se ne frega perché c'è un cane in quel dipinto fracico anche lui acciambellato sotto al tavolo vicino a una ciotola vuota e si capisce benissimo che l'ha appena vuotata lui ha un'aria sazia e dentro non c'era di certo acqua poiché non c'è la minima traccia di acqua in quel dipinto c'è un'arancia mi sembra e un'orribile testa d'agnello in un vassoio e pane e coltelli e vino vino vino dappertutto ma niente acqua perché l'acqua in Palestina al contrario del vino scarseggiava e insomma è ubriaco anche il cane e il cane ubriaco è la cosa veramente formidabile di quel dipinto perché è l'unico innocente di tutta la combriccola non sono certo innocenti gli apostoli e nemmeno Gesù col suo sapere tutto in anticipo è innocente e nemmeno la testa d'agnello è innocente un agnello intero avrebbe anche potuto esserlo ma una testa d'agnello in un vassoio fa solamente schifo no il solo innocente è quel cane che gli apostoli hanno fatto ubriacare così perché agli ubriachi piace che tutti si ubriachino ed è proprio lì sul cane che voglio sfregiare il quadro col cacciavite che ho qui dietro nel bauletto e infatti ora ci vado e lo sfregio via presto alla Galleria Borghese ma dove cazzo vado ci vuole la prenotazione ora non si può più aver voglia di andare a vedere un quadro in un museo e andarci e vederlo bisogna prenotare una settimana prima bisogna sapere le cose in anticipo come Gesù prevedere che quel tal giorno a quella tal ora ti verrà voglia di vedere quel tal dipinto o di sfregiarlo [...]

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Pagina 213

Io sono l'uomo, c'è scritto, che attraversa ogni giorno per dieci anni un incrocio vicino a casa sua e non vede che c'è un segnale di precedenza. Sono l'uomo che, in questi dieci anni, assiste ad almeno tre potature degli alberi che coprono il segnale con le loro fronde, e ogni volta riflette lungamente su quanto poco basti, dopotutto, per rendere ignoto un panorama familiare, e intanto continua a non vedere quel segnale. E sono il padre che buca regolarmente quell'incrocio insieme al figlio, in macchina e qualche volta addirittura anche in Vespa, tenendoselo ben stretto tra le gambe dopo avergli calcato in testa il caschetto non omologato comprato a Porta Portese, convinto di proteggerlo come nessun altro al mondo potrebbe fare. Quell'uomo sono io. Ma sono anche il figlio che non è andato d'accordo col padre, naturalmente per colpa del padre, e che non si è mai domandato chi fosse veramente il padre. Sono il marito che si è sforzato di non tradire la moglie, come se al suo matrimonio potesse accadere soltanto quello, e non si è accorto che la moglie lo tradiva. Sono il fratello che ha criticato la sorella, le idee politiche della sorella, le amicizie della sorella, i fidanzati della sorella, il marito della sorella, convinto di avere sempre ragione, e ora non fa una vita tanto diversa dalla sorella. Sono lo zio di tre nipotini che hanno soggezione di lui. Sono l'uomo che alle cene racconta sempre le stesse cose. Sono l'uomo che non abbellisce la propria casa pur avendo i soldi per farlo. Sono l'uomo che quando vede una pistola cerca un poliziotto, l'uomo che dona gli assegni senza girarli. Io sono l'uomo che smette di fumare e poi ricomincia. Sono lo scacchista che promette mirabilia e poi smette di giocare perché non riesce a sopportare le sconfitte. Sono l'uomo dalla memoria formidabile che sta perdendo la memoria. Sono lo scrittore per ragazzi che ruba le idee a destra e a sinistra, e che sostiene di non voler essere nulla più di questo, ma mente, perché lo vorrebbe eccome...

Ah, com'è tutto più chiaro, così; com'è tutto più semplice. Com'è appagante la verità, e luminosa e ineluttabile, quando non la si percepisce controvoglia e a sprazzi, tra uno sforzo e l'altro per ricacciarla indietro, e la si accetta tutta intera. Che sollievo, adesso, insieme alla vergogna; e però com'è diverso, questo momento, com'è più plumbeo e desolato rispetto a quello che desideravo ritrovarmi a vivere, prima o poi, per cominciare da lì una vita nuova, vera: lo immaginavo festoso, pieno di gente e di luci, come la fine di Otto e mezzo, e invece...

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