Copertina
Autore Gore Vidal
Titolo Le menzogne dell'impero e altre tristi verità
SottotitoloPerché la "junta" petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l'Iraq e altri saggi
EdizioneFazi, Roma, 2002, Le terre Interventi 44 , pag. 156, dim. 120x200x10 mm , Isbn 978-88-8112-377-3
OriginaleReflection upon Imperial Mendacity and Other Sad Truths: Why the Cheney-Bush Oil/Gas Junta Wants a War with Iraq Now; al.
TraduttoreLuca Scarlini, Laura Pugno
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe politica , storia contemporanea , guerra-pace , storia: America , paesi: USA
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Indice


Le menzogne dell'impero e altre tristi verità


Le menzogne dell'impero e altre tristi verità 9
Ci siamo persi il ballo del sabato           44
L'ultimo impero                              51
Nella tana del polpo                         78
Con estremo pregiudizio                      84
L'Unioine dello Stato                        87
Mickey Mouse, storico                        95
Una lettera da consegnare                   109
Panorami democratici                        119
Tre bugie per governare                     124
Le intenzioni dei giapponesi
   nella seconda guerra mondiale            135

Note                                        147
 

 

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Pagina 9

Le menzogne dell'impero
e altre tristi verità
Perché la "junta" petroliera Cheney-Bush
vuole la guerra con l'Iraq



Il 24 agosto 1814, sembrava che le cose si fossero messe piuttosto male per la terra della libertà. Quel giorno gli inglesi invasero Washington, D.C., e appiccarono il fuoco al Campidoglio e alla Casa Bianca. Il presidente Madison dovette rifugiarsi nei vicini boschi della Virginia e, visto che la capacità degli inglesi di mantenere concentrata l'attenzione su un singolo obiettivo è notoriamente breve, si mise pazientemente ad aspettare. Le truppe inglesi proseguirono la loro marcia e quello che poteva essere il Giorno della Completa Oscurità si rivelò una specie di manna per le imprese di costruzione e gli agenti immobiliari chic del Distretto della Columbia.

Centottantasette anni dopo, e a un anno dall'11 settembre, ancora non sappiamo chi sia stato ad attaccarci quel martedì, e quale fosse il suo vero scopo. Ma sembra ormai chiaro, a molti paladini delle libertà civili, che l'11 settembre abbia liquidato non solo i nostri fragili Dieci Emendamenti, ma anche il nostro, un tempo invidiato, sistema di governo repubblicano, che aveva già ricevuto un colpo mortale l'anno prima, quando la Corte Suprema si esibi in un minuetto in cinque quarti e sostitui un presidente regolarmente eletto con la junta Bush-Cheney del petrolio e del metano.

Certo, ormai da anni non è più un segreto che l'America delle corporation paga, sfacciatamente e generosamente, per le nostre elezioni presidenziali (nel 2000, il team Bush-Gore le è costato tre miliardi di dollari); oltre a dominare i media, ben pasciuti di disinformazione da servizi segreti controllati dall'esecutivo, come la CIA. E i media provvedono a rassicurarci ogni giorno che, visto che siamo il popolo più invidiato e ammirato della terra, tutti gli altri sono bramosi di emigrare negli Stati Uniti per poter avere la loro fetta della torta più grande che mai arbitraggista abbia infornato. Nel frattempo, il nostro sempre più irresponsabile governo si scatena con ogni sorta di giochetti in giro per il mondo, che noi truppe d'assalto (ex popolo degli Stati Uniti) non conosceremo mai. Ciononostante, nel corso dell'anno appena trascorso, con l'aiuto di amici stranieri, abbiamo avuto delle risposte alla domanda: perché non siamo stati avvertiti di quello che sarebbe successo l'11 settembre? A quanto pare, eravamo stati avvisati, e a più riprese: praticamente da un anno ci veniva detto e ridetto che avremmo ricevuto visite poco amichevoli dal cielo, un giorno o l'altro del mese di settembre 2001, ma la junta Cheney-Bush non ci ha informati, né protetti, nonostante i segnali di allarme rosso inviati dai presidenti Putin e Mubarak, dal Mossad e anche da certi elementi del nostro malconcio FBI.

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Pagina 30

Ho visto Bush e Cheney sulla CNN quando il discorso sull'Asse del Male è stato pronunciato, ed è stata proclamata la "lunga guerra". L'Iraq, l'Iran e la Corea del Nord sono stati immediatamente stigmatizzati come nemici da annientare perché potrebbero, o forse no, dare ricetto a terroristi che potrebbero, o forse no, distruggerci nottetempo. Così dobbiamo essere noi a colpire per primi, quando ci parrà. «Strano», ha commentato un veterano, come me, della seconda guerra mondiale, «che Bush e Cheney siano così elettrizzati all'idea di mandarci in guerra, quando, ai tempi del Vietnam, erano entrambi quelli che chiamavamo due imboscati». Ma poi ci siamo trovati d'accordo che nella politica americana sono sempre le femminucce a fare le piroette davanti ai veri uomini per incitarli a donare la vita. I veri soldati, come Colin Powell, sono meno spacconi e parolai. Così, abbiamo dichiarato guerra al terrorismo, un nome astratto, con cui non si può entrare in guerra perché è una cosa che si può fare solo con un altro paese. Sì, certo, c'era l'innocente Afghanistan, che è stato ridotto a un mucchio di rovine d'alta quota, ma che cosa possono mai contare i "danni collaterali" - nel nostro caso un intero paese - quando stai mirando al Male in persona, secondo «Time» e «The NY Times» e tutte le TV eccetera?

Come si è visto alla fine, la conquista dell'Afghanistan non aveva niente a che vedere con Osama, che era un semplice pretesto per rimpiazzare i talebàni con un governo relativamente stabile in grado di permettere alla Union Oil of California di impiantare il suo oleodotto in modo tale che ne tragga profitto, tra gli altri, la junta Cheney-Bush.

Il contesto? Va bene. La sede centrale della UNOCAL si trova, come ci si potrebbe aspettare, in Texas. Nel dicembre del 1997, i rappresentanti del governo talebano sono stati invitati a Sugarland, in Texas. In quel periodo, l'UNOCAL aveva già cominciato ad addestrare manodopera afghana per dotarla delle capacità necessarie a costruire un oleodotto, con l'approvazione del governo degli Stati Uniti.

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Pagina 37

«Di tutti i nemici della libertà pubblica, la guerra, forse, è quella che più deve essere temuta perché include e incoraggia il germe di ogni altro. Madre degli eserciti, la guerra stimola i debiti e le tasse, noti strumenti per condurre i molti sotto il dominio dei pochi. In guerra, inoltre, il potere discrezionale dell'esecutivo viene ampliato [...] e tutti i modi per sedurre la mente del popolo si aggiungono a quelli per soggiogare la forza». Così James Madison ci ammoniva all'alba della nostra repubblica.

Dopo l'11 settembre, grazie al "dominio dei pochi", il Congresso e i media tacciono mentre l'Esecutivo, grazie alla propaganda e a sondaggi manipolati, seduce la mente del pubblico, e intanto si dà vita a centri di potere impensabili fino ad oggi, come la Difesa Nazionale, e il 4 per cento del paese è stato di recente invitato ad associarsi a Tips, un sistema di spionaggio civile per fare rapporto su chiunque abbia un'apparenza sospetta - o forse qualcosa da obiettare a ciò che sta facendo l'Esecutivo, all'interno o all'estero?

Per quanto ogni nazione sappia - se ne ha i mezzi e la volontà - come proteggersi da delinquenti della sorta che ci ha inflitto l'11 settembre, la guerra non è un'opzione praticabile. Le guerre si fanno contro le nazioni, non contro bande di delinquenti privi di radici. Gli si mette una taglia sulla testa e gli si dà la caccia. In anni recenti, l'Italia ha fatto la stessa cosa con la mafia siciliana, e a nessuno è ancora venuto in mente di bombardare Palermo.

Ma la junta Cheney-Bush vuole la guerra per poter dominare l'Afghanistan, costruire un oleodotto, ottenere il controllo del petrolio degli "Stan" eurasiatici per i propri partner in affari, e anche per poter fare quanto più danno possibile all'Iraq e all'Iran col pretesto che un giorno quei paesi malvagi potrebbero ricoprire i nostri campi di frumento dorato d'antrace o qualcosa del genere.

I media, mai molto abili in fatto di analisi, sono sempre più sfiatati e incoerenti. Sulla CNN, persino lo stolido Jim Clancey è finito in iperventilazione quando un docente universitario indiano ha tentato di spiegare come l'Iraq fosse stato un tempo nostro alleato e "amico" nella guerra contro il nostro satanico nemico, l'Iran. «Basta con questa teoria del complotto», ha sibilato Clancy. A quanto pare, ormai, "teoria del complotto" è un'abbreviazione per "verità inammissibili".

Sempre nel mese di agosto, almeno tra gli economisti, il consenso era quasi unanime sul fatto che, consíderando il nostro enorme debito pubblico (prendiamo a prestito due miliardi di dollari al giorno per mandare avanti il governo) e una base imponibile drasticamente ridotta dalla junta per poter beneficiare quell'1 per cento che possiede la maggior parte della ricchezza nazionale, non c'è modo di trovare i miliardi necessari a distruggere l'Iraq in una "lunga guerra", e nemmeno in una corta, con la maggior parte dell'Europa schierata contro di noi. La Germania e il Giappone finanziarono la guerra del Golfo, con riluttanza - e il Giappone, all'ultimo minuto, fece le bizze sul tasso di cambio all'epoca dell'accordo. Oggi, la Germania di Schröder dice no. E il Giappone, zitto.

Ma i tamburi di guerra continuano a chiedere vendetta; e il fatto che la maggior parte del pianeta dica no alla nostra guerra non fa che far fiorire rose febbrili sulle guance di Bush senior del Carlyle Group, Bush junior dell'Harken, Cheney dell'Halliburton, Condoleezza Rice della Chevron, Rumsfeld dell'Occídental. Se c'è mai stata un'amministrazione che dovrebbe astenersi sulle questioni riguardanti l'energia, è proprio la presente junta. Che non ha niente a che vedere con qualsiasi passata amministrazione della nostra storia. I loro cuori sono chiaramente altrove, a far quattrini, lontano dai nostri finti templi romani, dove, ahimè, ci rimangono solo le loro teste, che sognano la guerra, preferibilmente contro paesi deboli e periferici.

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Pagina 44

Ci siamo persi il ballo del sabato



[...]

Altrove ho scritto che l'Età dell'Oro americana durò solo cinque anni: dalla fine della guerra, nel 1945, al 1950, l'inizio della guerra di Corea. Durante questa pausa le arti fiorirono e quelli tra noi che si erano persi la giovinezza cercarono di pareggiare i conti. Nel frattempo, tra le quinte della Casa Bianca e senza che noi lo sapessimo, i capi del nuovo impero mondiale erano indaffaratissimi a sostituire la repubblica per cui avevamo combattuto con uno stato di segretezza nazionale, votato a una guerra eterna contro il comunismo in generale e l'Unione Sovietica in particolare. Va detto che Harry Truman e gli altri capi temevano che se non fossimo rimasti sul piede di guerra saremmo finiti di nuovo nella Grande Depressione, che non terminò se non quando i giapponesi ci attaccarono a Pearl Harbor e tutti andarono o in guerra o a lavorare. Fa parte del mito nazionale che l'attacco non sia stato provocato. A dire il vero eravamo in cerca di una guerra con il Giappone dall'inizio del secolo. Il Pacifico (anzi l'Asia) doveva essere nostro o loro? Inizialmente i giapponesi preferirono conquistare l'Asia continentale, ma quando sembrò che potessimo negare loro l'accesso al petrolio del Sudest, allora attaccarono. Se non lo avessero fatto, non saremmo mai andati in guerra, né nel Pacifico, né in Europa.

Sono nato otto anni dopo la fine della prima guerra mondiale. Mentre crescevo, mi veniva ricordato continuamente che dal conflitto in Europa non avevamo ottenuto niente, a parte un attacco ai Dieci Emendamenti in patria e, ovviamente, il nobile esperimento: il proibizionismo. I giovani spesso mi chiedono, meravigliati, perché così tanti di noi si arruolarono volontari nel 1943. Io rispondo che, visto che eravamo stati attaccati a Pearl Harbor, avevamo l'obbligo di difendere il nostro paese. Ma devo anche aggiungere che se, nel 1917, milioni di ragazzi erano entusiasti di combattere i crucchi, noi no, non lo eravamo. Eravamo fatalisti. Nei tre anni che ho passato nell'esercito, non ho sentito mai un soldato esprimere sentimenti patriottici, tutto il contrario di quando sullo schermo vedevamo gente come Erroll Flynn vincere la guerra della libertà o, anche peggio, John Wayne, di cui conoscevamo il vero nome, Marion, il vero archetipo dell'attore scansa-militare, che per di più interpretava il ruolo di una Tigre Volante.

Anche se non eravamo guerrieri entusiasti, l'odio per il nemico era reale. Venivamo convinti che i "nippo" fossero subumani e le nostre atrocità contro di loro andavano di pari passo con le loro contro di noi. Ero nel Teatro delle Operazioni del Pacifico, dove la guerra non era solo imperiale, ma anche razziale: la razza bianca contro la gialla, e la corona sarebbe andata a noi visto che eravamo la razza suprema, o almeno così ci avevano insegnato. Uno degli aspetti peggiori di quel conflitto è stato l'uso degli stereotipi razziali da entrambe le parti. In Europa eravamo rispettosi - persino timorosi - dei tedeschi e quindi, visto che neri e donne nelle nostre forze armate erano decisamente discriminati, la seconda guerra mondiale per noi è stata, letteralmente, il fardello dell'uomo bianco.

Quindi mentre l'Età dell'Oro si godeva il viaggio sul ponte della nave, giù nella sala macchine i capi inventavano il dipartimento della "Difesa" e il Consiglio Nazionale di Sicurezza, con i suoi decreti segreti e incostituzionali, e la CIA, altrettanto incostituzionáe e modellata, come Allen Dulles notava allegramente, sulla NKVD dei sovietici. Allora, senza che avvenisse un dibattito pubblico, siamo stati votati a una guerra infinita, anche se i capi sapevano che il nemico non era nostro pari, né economicamente né militarmente. Ma attraverso l'indefesso lavoro di "disinformazione" della CIA, riuscirono a convincerci che chi era debole era invece forte e che i russi stavano davvero arrivando. «Costruite i rifugi contro la guerra atomica imminente!»: una generazione intera venne traumatizzata.

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Pagina 51

L'ultimo impero



[...]

Vedo che alcuni di voi si agitano impazienti. Gli Stati Uniti sono un impero? I consiglieri dell'imperatore ridono alla sola idea. Non siamo forse una perfetta democrazia innamorata della libertà e ansiosa di mostrare la nostra economia da manuale alla vecchia Europa quale modello di come i pochi riescono a fare un sacco di soldi eliminando i sindacati e tutte quelle frivolezze decadenti come la sanità pubblica e l'istruzione? A Denver un'altra delle comparse - sempre quei seccatori di francesi - si chiedeva quanto fossero attendibili le cifre sulla nostra disoccupazione, quando un decimo della forza-lavoro maschile non viene preso in considerazione, visto che si tratta di persone in prigione, in libertà condizionata o sulla parola. Il primo ministro canadese, anche più seccante dei francesi, fu sentito mentre diceva alla sua controparte belga (di fronte a un microfono aperto) che se i capi di ogni altro paese prendessero i soldi delle corporation apertamente come fanno i leader americani, «saremmo tutti in prigione». Evidentemente gli indigeni sono indocili, ma siamo sempre noi a guidare la Fiera delle Vanità.

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Pagina 87

L'Unione dello Stato



Nel corso degli anni ho scritto molto sullo stato dell'Unione. Ora, per cambiare un po', voglio parlare dell'Uníone dello Stato. Ho sempre cercato di dire cose così ovvie che nessun altro le aveva notate. Per esempio una volta ho suggerito che sarebbe il caso di mettere fuori legge la maggior parte delle armi da fuoco e di legalizzare la maggior parte delle droghe. Questo metterebbe fine all'eterna Guerra al Crimine che, ci dicono, devasta le nostre città di alabastro e non fa neanche troppo bene alle onde ambrate di marijuana". Capisco ovviamente che gli interessi delle corporation sono ormai troppo grandi perché riusciamo a fare una qualsiasi cosa intelligente da questo, o da ogni altro, punto di vista. La National Rifle Association non farà marcia indietro, fìnché ci sarà un solo membro del Congresso ancora da pagare o un bambino da armare.

La quantità di violenza e delitti che c'è da noi è unica nel primo mondo. Può essere un modo di distinguersi negativo, ma è tutto nostro e dobbiamo tenercelo caro: almeno siamo il numero uno in qualcos'altro, oltre ai debiti. Oggi ci sono oltre un milione di persone in prigione e un altro paio di milioni in libertà vigilata o sulla parola; perché allora non mettiamo sotto chiave metà della popolazione e costringiamo l'altra metà a sorvegliarla? Questo risolverebbe il problema del crimine e costringerebbe Amnesty International a cominciare a protestare anche qui a casa nostra. Dopo tutto, il 58 per cento dei detenuti nelle prigioni federali lo sono per reati connessi alla droga. La maggior parte di loro non sono pericolose per la collettività e anche se il nostro governo, per eccesso di gentilezza, pensa che lo siano per se stessi, dovrebbero comunque avere la possibilità di ricercare la loro costituzionale, anche se insalubre, felicità in libertà. Certamente non si meritano di essere imprigionate da un sistema carcerario che una commissione scandinava ha recentemente definito come barbaro, per un paese che dovrebbe essere del primo mondo.

Sfortunatamente i governanti di ogni sistema non possono mantenere il loro potere senza la costante creazione di proibizioni che danno allo Stato il diritto di imprigionare - o altrimenti intimidire - chiunque violi qualcuna delle leggi dello Stato, spesso nuove di zecca. Senza il comunismo, che un tempo era monolitico e incombente - il nostro Stato non ha più un mago di Oz che spaventi tutti continuamente. Quindi lo Stato guarda verso l'interno, al vero nemico che diventa (e chi altri, se no?) il popolo degli Stati Uniti. In nome della correttezza, della salute, o perfino di Dio, stiamo mettendo in croce un bel po'di persone. Anche se il nostro Stato non è in grado di intimidire paesi che non siano piccoli e deboli, possiamo certamente gettare una buona parte degli americani in prigione perché violano una lista sempre maggiore di proibizioni. Le cose andranno meglio con un cambiamento del Congresso o del presidente? No, andranno sempre peggio, finché applicheremo la nuova speranza bianca dello Stato allo Stato stesso: Tre strike e sei fuori. E come si fa a "fare tre strike" allo Stato? Ho un'idea.

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