Copertina
Autore Alberto Vigevani
Titolo La febbre dei libri
SottotitoloMemorie di un libraio bibliofilo
EdizioneSellerio, Palermo, 2000, La memoria 468 , pag. 312, cop.fle., dim. 12x16,6x1,6 cm , Isbn 978-88-389-1600-7
LettoreFlo Bertelli, 2012
Classe libri , biografie , collezionismo
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Indice


La febbre dei libri

Libri, primi amori                                9
Immagini                                         12
Antiquari e antifascisti                         16
Il mio Aventino                                  19
Bancarelle                                       23
Un editore sfortunato                            29
Walter Benjamin bibliofilo                       34
Librai per scelta e per forza                    36
Come nascono i librai antiquari                  40
Tristi libri di mezza età                        44
Paolo                                            49
Il Polifilo                                      55
Il primo cliente                                 59
La Bibbia di Savonarola                          64
Dalla Riviera di Montale                         67
I diritti di Hemingway                           70
Primi passi nell'editoria                        74
Editore mancato                                  77
L'improvvisa morte di J.P. Morgan                80
Il principe d'Essling, Vittorio Cini e De Gaulle 82
Acrobazie in biblioteca                          84
Librai scorretti                                 88
Un grande amico                                  91
Bibliofili                                       96
Giulietta e Romeo                               100
Il tramonto del bibliofilo                      103
Medici                                          107
La diversa bibliofilia di due fratelli          110
'Ex libris' galeotti                            114
L'eredità del 'Grand Tour'                      116
Conversatori                                    119
Quel giro del sabato                            122
Librai stanziali e librai erranti               124
Collezionisti fortunati                         126
Due vicini che s'ignorarono                     129
Una straordinaria scoperta                      133
Un innamorato dell'Italia                       136
Il Dante di Torino                              139
'De piscibus'                                   142
'In Cartusia Papie'                             145
Un notturno Candelaio                           148
'Algorismus'                                    150
Inseguendo Foscolo                              153
Il Fondo Verri                                  158
Senza orecchio musicale                         161
Autografi scomparsi                             166
Dal 'Ballarino' al 'Trombone'                   170
Un poeta in tipografia                          173
All'insegna del Lanzello                        177
Un respiro e un profumo di grazia               181
Un grande bibliofilo di piccole cose            183
Niccolò Gallo                                   186
Aldrovandi: amico e libraio                     194
Il giardino del filosofo                        199
Einaudi in libreria                             202
Einaudi bibliofilo e quasi libraio              209
Quell'Amori di Einaudi                          215
Raffaele Mattioli                               220
Mattioli editore e banchiere                    227
Libri non ancora antichi                        231
Firenze città di cultura, di editori e librai   238
Tra Gonzaga e Ricasoli                          241
Un maestro di distinte donzelle                 244
Il vecchio del ponte Vecchio                    247
Torino pre e post bellica                       250
La camicia da notte della contessa              253
Un uomo geniale che non credeva in se stesso    255
Tra i libri di Antonicelli                      259
La mappa offuscata della mia Parigi             262
'Veni, vidi, vici'                              271

Indice dei luoghi                               277
Indice dei nomi                                 283


 

 

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Pagina 9

Libri, primi amori



Qualche volta mi chiedo come ci si avvicini ai libri e, nel mio caso, perché ai libri invece che alle arti, al teatro, o alla musica. E, a parte la musica e l''arte' della moda, di più popolare e recente beatificazione, mi sono occupato di arti figurative e per alcuni anni di teatro e anche di cinema, ma, con la letteratura, i libri sono stati il mio destino. Penso che conti molto l'ambiente in cui si nasce, l'atmosfera nella quale si cresce. I nonni paterni erano poverissimi, avranno posseduto al più un Pinocchio o il Cuore di De Amicis, a non contare, essendo ebrei, qualche libro di preghiere. I materni stavano in un'altra città. In famiglia c'era una biblioteca di buoni libri, frutto di regali; tra cui volumi stampati su carte speciali e numerati della collezione dell'editrice Modernissima (creatura raffinata di quel grande e sfortunato editore che fu Gian Dàuli: autori Thomas Mann, Alfred Döblin, Thornton Wilder, Arthur Schnitzler, Radcliffe Hall, ma li avvicinai assai più tardi, quando la mia iniziazione era cosa fatta, tra Pierino porcospino e Senza famiglia, che non so quante volte rilessi, Incompreso e Saturnino Parandola, Zanna bianca e Il richiamo della foresta). I fumetti non esistevano, così che subito incontrai Verne e soprattutto Salgari, che più di un primo amore fu duratura, divorante passione. Godevo come grandi vacanze le malattie infantili, dalla scarlattina al morbillo o agli orecchioni. Leggevo e leggevo fino a scaldarmi le tempie e a bruciarmi gli occhi più a causa delle letture smodate che delle occasionali febbri.

Ma i libri che mi procuravo con i miei mezzi di ragazzino non bastavano mai. Così ricordo che mio padre, socio della Dante Alighieri, mi accompagnò alla piccola biblioteca circolante dell'associazione, in via Gesù (o Sant'Andrea), di cui divenni assiduo frequentatore, anche, penso, per la grazia della giovane e bella bibliotecaria, in quegli anni Camilla Cederna, che ebbi tante occasioni d'incontrare poi. Ma presto anche la Dante Alighieri non mi bastò più e mi feci iscrivere al Circolo Filologico, che mi servì, con le sue tristi e buie sale, di rifugio e pretesto 'culturale' quando, cattivo allievo quanto assatanato lettore, bigiavo le lezioni alle medie.

Ma non ho amato i libri solo con le mie, riconosco, disordinate letture, ma anche fisicamente: quand'erano nuovi anche il loro odore, il loro tatto, la loro presenza, che mi si faceva necessaria e calmava la mia irrequietezza adolescenziale. Mi diedi coraggio e cominciai, raramente potendo comperare qualche volume, a frequentare le librerie, la cui atmosfera mi avvolgeva di calore e mi dava l'opportunità di sfogliare i libri, di accarezzare le copertine e i dorsi con lo sguardo, imparando titoli e argomenti di quello che poteva divenire il mio futuro nutrimento. Non sapevo ancora, anzi nemmeno lontanamente immaginavo, che sarei diventato un letterato e un libraio, tantomeno antiquario. Altre prospettive artistiche mi attiravano: il teatro - a cui mi aveva introdotto mio padre, avvocato di celebri attori, come Ermete Zacconi o Vera Vergavi -, le arti figurative o il giornalismo.

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Pagina 34

Walter Benjamin bibliofilo



Dapprincipio 'librai' furono umanisti, italiani o bizantini - e la caduta di Bisanzio, con la conseguente diaspora culturale, accrebbe l'entità del fenomeno -, che viaggiavano cercando codici e manoscritti, quando la stampa non era ancora nata, per i principi, dai Medici agli Este, da Federico da Montefeltro a Mattia Corvino. Umanisti librai come Vespasiano da Bisticci o Ciriaco d'Ancona. Ma anche lo stesso Petrarca, scopritore di testi rimasti ignorati per secoli, quali le Epistole ad Attico ciceroniane, creando quella preziosissima biblioteca per la quale la Repubblica di Venezia gli offrì in cambio una dimora. E poi venne la corte dei principi del denaro, come i Fugger, per fare soltanto un nome, fino ai Rothschild.

Ma se nel secolo che sta per finire di Petrarca non ce ne furono (e come trovare una Laura, anche immaginaria?), ci fu uno dei maggiori scrittori del nostro tempo a me particolarmente caro e del quale ancora mi attrista la terribile fine - almeno in certe pagine di Infanzia berlinese o in quelle ispirate da Baudelaire dei Tableaux parisiens in Passagen-Werke, raccolte da Einaudi in Parigi, capitale del XIX secolo -, Walter Benjamin, figlio in eterno contrasto di un padre raffinato antiquario nella cui casa respirò la particolare 'aura' baudelairiana che finì per ispirargli il famoso saggio sull'opera d'arte nell'era della riproducibilità, in memoria del collezionista e critico d'arte Eduard Fuchs, che viene considerato una risposta del figlio al padre, collezionista di 'pezzi unici'.

Benjamin fu un bibliofilo accanito e collezionista di libri per bambini, a motivo delle loro illustrazioni. Dalla sua corrispondenza risulta che, eternamente assediato dalla mancanza di denaro, rifiutò sempre di vendere qualcuna delle sue 'perle' cui attribuiva il valore di «citazioni del passato».

Sorprende, dice Hannah Arendt, nel suo Pescatore di perle, anche il fatto che, malgrado le costanti difficoltà economiche, sia riuscito nel corso degli anni ad ampliare la sua biblioteca. L'unica volta che tentò di negarsi quella sua costosa passione - frequentava le case d'aste nello stesso modo in cui altri frequentano i casinò - e addirittura considerò la possibilità di vendere in «caso estremo» alcuni dei suoi pezzi, finì per sentirsi obbligato a «mettere a tacere il dolore di questa possibilità» facendo nuovi acquisti. L'unico tentativo documentabile di liberarsi dalla dipendenza economica della famiglia si concluse con la richiesta al padre di «un capitale con cui potrei entrare come socio in un negozio di libri antichi».

Il solo impiego remunerativo che Benjamin prese in considerazione.

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Pagina 55

Il Polifilo



Tra le prime schede di queste memorie una sicuramente la debbo riservare al Polifilo, cioè al più famoso libro italiano, non soltanto come testo ma come antico oggetto di desiderio. Con il suo nome battezzai la mia libreria antiquaria quasi sessant'anni fa. Il libro, datato 1499, capolavoro di Aldo Manuzio dal punto di vista estetico - per le illustrazioni, la grafica e la stampa - è considerato il più bello e rappresentativo del nostro Rinascimento. Il testo si presenta come una sorta di romanzo che tratta di un viaggio fitto di allegorie accompagnate da un'esile narrazione amorosa. Ma le sovrabbondanti descrizioni di architetture, giardini e ornamenti, oltre a bellezze muliebri, soverchiano di gran lunga gl'intarsi narrativi.

Il linguaggio, impasto di latino umanistico e volgare settentrionale con forme greche, può essere considerato un'eruditissima macaronea. Non tocca a me parlarne, ma già il titolo lo anticipa, Hypnerotomachia Poliphili, ossia Battaglia d'amore in sogno dell'amante di Polia. L'autore è ritenuto per tradizione un domenicano membro della famiglia Colonna, di nome Francesco, al quale già un secolo e mezzo fa Charles Nodier dedicò un libretto. Tradizione sostenuta ancor oggi, con la sua autorità di storico della letteratura e filologo (allievo di Gianfranco Contini) da padre Angelo Pozzi. Di avviso diverso, non senza un'ampia documentazione, è Alessandro Parronchi, storico dell'arte e poeta che in un suo scritto afferma che l'autore fu invece frate Eliseo da Lucca, servita.

Le stupende xilografie, pregio in fondo maggiore dell'opera, quasi tutte ambientate in immaginarie architetture che rispondono alla creatività del testo, furono attribuite sia a Giovanni Bellini, sia al Mantegna, ma rimangono tuttora anonime, salvo che, data la stretta aderenza al testo, non siano opera dell'autore stesso. Considerato un 'commentario' dell'architettura rinascimentale, è mirabilmente stampato nel carattere Bembo di Aldo.

Il Polifilo passò nelle mie reverenti mani di giovane libraio antiquario (nell'edizione originale del 1499) soltanto pochissime volte. La prima nell'autunno del 1946: un esemplare eccezionalmente bello in una legatura di marocchino verde scuro a firma «Rivière»: inglese e probabilmente dei primi anni del Novecento. Me lo portò un personaggio per più ragioni allora famoso, Ettore Serra, poeta, editore de Il porto sepolto di Ungaretti con prefazione di Mussolini. Grande bibliofilo, universalmente noto come ideatore e armatore dell' Artiglio, nave attrezzata per il recupero di scafi naufragati o affondati (e in quell'immediato dopoguerra ce n'erano una quantità). Ma in quel dopoguerra non avevo i mezzi per acquistarlo e con la pena che si può immaginare lo portai al maggior antiquario d'Italia, direttore della Hoepli, professor Armanni.

Armanni si affrettò ad acquistarlo e la modesta commissione che ne ottenni fu per me un inizio necessario. Non avevo ancora grandi clienti e mio padre mi aveva insegnato a non ricorrere a prestiti (mentre Raffaele Mattioli, che mi voleva bene, mi rimproverò per non averlo fatto). Più tardi, quando avevo mezzi e clienti che desideravano il Polifilo, come l'amico Bruno Visentini, mi mancò l'occasione di trovarne un bell'esemplare a un prezzo possibile.

Ma purtroppo ne rinvenni uno che bello non era. Gianna Manzini, elegante e nota scrittrice, aveva per compagno (o marito, non ricordo) uno dei maggiori critici letterari del Novecento, ammirato da Anceschi a De Robertis, che, tra l'altro, aveva recensito miei libri in modo assai lusinghiero. Si chiamava Enrico Falqui, mi voleva bene, ma era vittima di una ossessiva parsimonia, che lo spingeva, come membro della più parte delle giurie dei tanti premi letterari, a far figurare sul conto spese che presentava persino la risuolatura delle scarpe (quando ancora era abitudine farne) sue e della Manzini.

Un pomeriggio, a Roma, la Manzini, sempre senza soldi, mi convocò a casa, di nascosto da Falqui che le sindacava ogni spesa, per dirmi che le avevano fatto dono di una copia del Polifilo, chiedendomi cosa poteva valere. Le dissi qualche milione, ma prima dovevo prenderne visione. Entusiasta, me lo spedì a Milano: si presentava abbastanza bene, ma, collazionandolo, mi accorsi che mancava di circa un terzo dei fogli. Da qualche milione, il suo valore scendeva a poche migliaia di lire. Rimasi deluso, ma lei, naturalmente, assai di più. Il dono le era stato fatto dal più giovane membro di una dinastia del capitalismo lombardo, noto per la sua patologica originalità. Era buon amico mio e frequentava la libreria, afflitto da manie d'ogni genere che lo rendevano insopportabile, pur conoscendo la sua generosità e la purezza delle sue intenzioni. Mi ricordava il principe Myskin dell' Idiota dostoevskiano. Ne avevo fatto il protagonista di un romanzo a cui diede il titolo l'amico Vittorio Sereni: Il grembiule rosso.

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Pagina 82

Il principe d'Essling,
Vittorio Cini e De Gaulle



Il lutto per la perdita di Morgan non durò a lungo per De Marinis, che nelle sontuose hall di ogni grand hotel attendeva di conoscere nuovi clienti. Aveva pubblicato cataloghi grandi e grossi, con numerose bellissime illustrazioni, senza dover scrivere che poche righe. I grandi del suo tempo (soprattutto gerarchi, industriali e banchieri) lo ammiravano, non dovendo tra l'altro leggerlo.

Un discendente di Victor Massena, maresciallo di Napoleone e principe d'Essling, aveva raccolto la più bella collezione che si possa immaginare di libri illustrati veneziani del Quattro e Cinquecento. Lo testimoniavano i sei volumi in-folio che costituivano il catalogo (neppure questo troppo ricco di testi) che il principe aveva fatto redigere. I libri che non fossero in perfetta legatura del tempo erano in pieno marocchino dell'ottimo legatore Lortic; adorni delle armi principesche incise in oro zecchino. L'intera collezione, venduta da De Marinis a Vittorio Cini e catalogata in un volume stampato da Mardersteig, si trova ora nella Fondazione all'isola di San Giorgio a Venezia e Renzo Zorzi mi ha accompagnato a vederla. Ci sono i libri più belli che si possono sognare: dal Boccaccio del 1492 (la prima edizione illustrata) alla prima celebre Bibbia del Malermi.

Essling ne possedeva così legati anche di non veneziani. Uno dei quali mi avvenne di acquistare: un Vegezio in latino, stampato a Erfurt nel 1515, e assai ben illustrato con legni che rappresentavano ogni genere di macchine belliche.

I sindaci di Milano del dopoguerra, almeno fino agli anni Settanta, erano persone colte e tra di essi annoveravo anche un buon amico come Antonio Greppi. Quando De Gaulle venne per la prima volta a Milano in visita ufficiale, il sindaco di allora mi chiese quale libro avrei potuto indicargli che toccasse particolarmente De Gaulle ed io gli presentai la splendida edizione del Vegezio: un classico dell'arte militare illustrato con disegni di macchine in parte antesignane dei carri armati che De Gaulle avrebbe voluto poter opporre ai panzer tedeschi. Appartenuto, per di più, a un discendente di un generale di Napoleone, Victor Massena, conquistatore di Genova, e in una bella legatura alle sue armi.

Greppi mi raccontò della soddisfazione di De Gaulle, così che quando venne in Italia Léon Blum, io trovai, tra le cose più rare che possedevo, un opuscolo di Filippo Buonarroti, l'unico italiano che avesse partecipato, a fianco di Babeuf, alla Congiura degli Uguali. L'opuscolo, di cui non individuai traccia in alcuna bibliografia, era in italiano e stampato a Oneglia.

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Pagina 148

Un notturno Candelaio



Una mia costante ricerca fu diretta alle opere proibite in Italia e stampate all'estero di grandi italiani, come Giordano Bruno , bruciato in Campo dei Fiori, a Roma, o Tommaso Campanella , esule e prigioniero per decenni, e naturalmente alle opere dei cosiddetti eretici (o 'libertini') per le quali mi furono di guida i saggi, tra gli altri, di Delio Cantimori.

Di Campanella trovai la prima edizione della Città del sole, che si nasconde in una miscellanea di scritti filosofici (la prima a sé, in un volumetto con il titolo Civitas solis, fu opera ad Amsterdam, nel Seicento, credo degli Elzeviri e anch'essa è assai rara). Scoprii invece l'autentica primissima stampa da un libraio londinese che ne ignorava il contenuto e il pregio.

Ma vicino ad Amsterdam ebbi la ventura di comperare il Candelaio di Giordano Bruno, nell'edizione originale di «Pariggi appresso Guglielmo Giuliano, al segno dell'Amicizia, 1583», tuttavia a un prezzo piuttosto alto, da uno dei più colti e maggiori librai olandesi, Menno Hertzberger, sfuggito alla persecuzione nazista. Viveva, ormai in pensione, ritirato in una villa in un paese sui polders. Gli telefonai, chiedendo se mi poteva offrire qualcosa d'interessante - ci conoscevamo da molti anni - e lui mi disse di andare a incontrarlo (senz'aggiungere altro) prendendo un treno che di notte si fermava pochi minuti in una stazione vicino al paese dove abitava.

Pur senza sapere cosa avesse in serbo, mi affrettai a non perdere l'occasione e andai. Lui levò dalla tasca del pesante pastrano - faceva freddo - e mi porse un esemplare perfetto del Candelaio, legato in marocchino blu da un ottimo legatore inglese. Nello sfilarlo oggi dallo scaffale ricordo che il Candelaio, magia del nome e dell'emozione, illuminò quella notte le tenebre più delle lampade fluorescenti che splendevano sotto la tettoia della piccola stazione.

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Pagina 173

Un poeta in tipografia



Si è notato, nel ristretto mondo dei bibliofili, che reputati librai antiquari inseriscono nei loro cataloghi, accanto a libri antichi e a prime edizioni dei maggiori scrittori, volumi, anch'essi in verità piuttosto rari, stampati da Giovanni Mardersteig.

Dopo gli inizi con la rivista «Genius» - a cui lo chiamò un grande dell'editoria, Kurt Wolff (ch'io conobbi insieme alla moglie Helen, sua geniale collaboratrice), e sulla quale si stampò, credo per la prima volta, un racconto di Franz Kafka - Mardersteig fondò l'Officina Bodoni, prima a Montagnola presso Lugano e poi a Verona, città in cui nel 1927 fu chiamato da Arnoldo Mondadori per provvedere alla progettazione e all'esecuzione della splendida edizione dell' Opera omnia di D'Annunzio. Come Gutenberg Mardersteig stampava col torchio a mano preziosi libri pure interamente composti a mano e tirati a pochi esemplari.

Nato nella goethiana Weimar, nel 1892, la sua attività italiana cominciò a Montagnola, nel 1922, con un testo poetico di Goethe tirato, come prova, a dieci esemplari, e già, un anno dopo, uscì un suo elogio dovuto alla penna di Hermann Hesse. Da allora, e fino al 1977, anno della morte, dal suo torchio verranno licenziati 198 volumi. I primi sei sono soltanto prove: della stampa, della carta, e soprattutto dei caratteri che aveva fatto fondere dai punzoni originali di Giambattista Bodoni conservati a Parma nel Museo Bodoni. Ma dei caratteri non si accontenterà mai.

Nella sua biografia è presente una incessante ricerca di sempre più eleganti caratteri, fondata sui criteri di costruzione geometrica delle lettere e sugli esempi di scritture umanistiche e rinascimentali, da lui studiati a fondo in numerosi contributi sui caratteri e gli alfabeti di Feliciano da Verona, Francesco Torniello, Francesco Alunno, Damiano Moillo, Luca Pacioli, come pure sulle lettere - riprese da iscrizioni lapidarie romane - fatte scolpire da Leon Battista Alberti sul frontone del tempio Malatestiano a Rimini, sui caratteri incisi da Francesco Griffo per Aldo Manuzio, sugli slanciati corsivi di Ludovico Arrighi Vicentino. E presto Mardersteig si stancò dei pur magnifici Bodoni, che ai suoi inizi lo avevano conquistato, ritenendoli più tardi troppo severi e aulici, per creare lui stesso nuovi caratteri: il Bembo, derivato da quello del Griffo, lo Zeno e l'ineguagliabile Dante. Incisi da Charles Malin, sono tutti e tre entrati nel catalogo della Monotype Corporation, la Bibbia dei caratteri di tipografia.

Ed è soprattutto nell'ambito dei caratteri da stampa che si delinea la 'riforma' apportata da Mardersteig, che restituì dignità alla nostra tipografia (e di conseguenza all'editoria), rinchiusa, dopo la neoclassica età bodoniana, in un'esasperata autarchia provinciale che costrinse all'uso di caratteri grossolani, 'bastardi', prodotti dall'industria italiana in regime di quasi monopolio. Contemporaneamente, Mardersteig restituiva armonia di spazi alla pagina, ridandole quelle auree proporzioni di bianchi e neri che, accette all'occhio, facilitano una serena lettura. E non trascurò la legatura, avvalendosi di un artigiano di classe, Demeter.

Se si esamina la produzione dell'Officina Bodoni, si avvertirà che buona parte dei testi stampati appartengono alla stessa civiltà umanistica e rinascimentale indagata nelle ricerche mardersteighiane intorno alla scrittura, ai caratteri e al loro disegno. Sono testi di Cavalcanti, Dante, Boccaccio, Bembo, Poliziano, Machiavelli, spesso in edizioni criticamente curate. Il suo libro di maggior purezza e venustà, per unanime consenso, sono gli Amores di Ovidio, in formato ottavo e con caratteri esemplati sul corsivo del Vicentino. Tuttavia, soprattutto per la serie dei «Cento Amici del Libro», non trascurò i moderni: da Rilke a Montale.

A parte l'Ovidio, le edizioni che meglio parleranno ai posteri della civiltà del libro italiano del nostro tempo, furono quelle arricchite da illustrazioni di artisti contemporanei, le cui acqueforti o litografie originali sono sempre sposate con naturale eleganza con lo specchio di pagina e i caratteri. La prima, in ordine cronologico, è L'Oleandro di D'Annunzio, con 27 litografie in sanguigna di G.G. Böhmer, cui seguiranno, tra gli altri, due capolavori: Il Milione di Marco Polo con 30 litografie di Massimo Campigli, intonate meravigliosamente al carattere Griffo, stampato per Hoepli, e il Viaggio d'Europa di Bontempelli, stampato per le Edizioni della Chimera di Carla Marzoli, con 23 litografie di Arturo Martini, opere che hanno raggiunto quotazioni notevoli sul mercato antiquario. Ma bisogna citare almeno di sfuggita le Liriche di Saffo e il Theseus di Gide (Campigli).

L'attività di Giovanni Mardersteig per il libro non si è fermata però ai preziosi, elitari prodotti del suo torchio a mano, alle pazienti ricerche erudite, al disegno dei caratteri. Oltre alla stampa di tutti i volumi - sempre al torchio - dei «Cento Amici del Libro», ha creato la veste grafica della celebre collezione mondadoriana della «Medusa», ha progettato con Raffaele Mattioli la collana «La Letteratura Italiana. Storia e Testi», e ha collaborato con le Edizioni Il Polifilo nella progettazione dei volumi della collezione «Classici Italiani di Scienze Tecniche e Arti», tutte stampate dalla tipografia 'meccanica', la Valdonega, da lui fondata e diretta ora dal figlio Martino che, con la moglie, continua anche l'Officina Bodoni.

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Firenze città di cultura, di editori e librai



Firenze ebbe quasi in continuazione splendide stagioni librarie, basti pensare al Dante del Lamagna, illustrato con i famosi rami del Botticelli, che dovrebbero essere dieci, ma è già raro aver la fortuna di trovarne copie con tre o quattro. E poi ci sono gl'incunaboli illustrati con tipiche xilografie, come quelli del Savonarola, e le sacre rappresentazioni del Cinquecento quasi sempre illustrate. E quindi, nel Seicento, la fioritura di opere scientifiche, tra cui il Magalotti Saggio di naturali esperienze dell'Accademia del Cimento. Ma quello che stupisce è la continuità e, spesso, la venustà. Si potrebbe dire che, dopo Venezia, Firenze e Milano sono le maggiori città d'Italia nella secolare storia dell'editoria. Ma non di questa, arcinota, vorrei parlare - a parte il bellissimo libro che ebbi la fortuna di acquistare all'inizio della mia 'carriera'.

Era la prima edizione delle Opere del Manzoni stampate da David Passigli con quei bei caratteri piccoli che usava e contenevano tutta l'opera manzoniana fino al 1837 in un volume di modesto formato. Ma l'esemplare, che comprai dall'amico Mario Bozzi di Genova, dopo un lungo corteggiamento, era unico, stampato su carta giallo paglierino, in una deliziosa legatura di marocchino rosso con decorazioni romantiche, e portava, in antiporta, un bellissimo ritratto a matita dell'Autore, di Massimo d'Azeglio o forse della figlia, Luisa, alla quale il libro era stato dedicato dal Manzoni stesso. «Alla sua dilettissima nipote Luisa d'Azeglio, Alessandro Manzoni». Dalle mie mani passò a quelle di un bibliofilo come Renzo Bonfiglioli. Non so per quali ragioni il libro perse il suo splendore, rimanendo sciupato, nel periodo bellico, a Ferrara, durante un'inondazione di casa Bonfiglioli o una razzia dei tanti criminali repubblichini, le cui pensioni sono magari comprese, come la sua, nella difesa che ne fa il Bertinotti.

Nell'Ottocento e nel Novecento l'editoria fiorentina ebbe un grande sviluppo; i nomi delle case editrici li conoscono tutti: da Felice Le Monnier a Vallecchi, da Bemporad a Sansoni. Ci furono librai antiquari e bibliofili per una ragione o l'altra famosi, dall'enciclopedico Leo S. Olschki, che divenne poi editore di alta cultura, fondando una rivista importante e originale come «La Bibliofilia» - e la casa editrice continua ancor oggi per merito prima del figlio Aldo e poi del nipote Alessandro -, a De Marinis, a Ferrante ed Aldo Gonnelli, librai de «La Voce», a Chellini, senza dimenticare Orioli, socio di Irving J. Davis.

Eppure, caso singolare da noi, un grande ruolo nella libreria antiquaria fu esercitato, a Firenze, da aristocratici, come lo stesso marchese Ridolfi, per fare un nome, o da professori universitari, come Piattoli. E gli stessi bibliofili incoraggiavano, dal marchese Serlupi al marchese Ginori-Conti, questa atmosfera di 'mercatura' libresca che sembrava permeare l'intera città, avendo un precursore come Vespasiano da Bisticci. Cultura e commercio, aristocrazia e dotta borghesia si alleavano nel favorire la carta stampata, quasi come la vinificazione, dalla Marchi, che fondò una libreria d'arte internazionale, alla marchesa Bona Frescobaldi, che, regina del Chianti classico, ha in tempi recenti tentato la fortuna editoriale con il bellissimo nome di «Ponte alle Grazie». E un discendente del Passigli, raffinato editore del mio straordinario e sfortunato esemplare manzoniano, segue l'antenato nel cammino della stampa.

Del resto dai Medici al meno noto Mazzei che i discendenti hanno cancellato dall'albero genealogico, forse perché membro dell'Assemblea Costituente francese, sebbene nel mondo della cultura sia tra loro di gran lunga il più noto, non pochi nobili fiorentini si diedero alla mercatura. Mazzei, amico di Jefferson, dopo aver piantato la prima vite da vino in America a Monticello, rappresentò per Franklin in Italia le belle stufe di cotto da lui inventate e di cui ebbi molti anni fa il rarissimo catalogo di vendita.

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