Copertina
Autore Enrique Vila-Matas
Titolo Un'aria da Dylan
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2012, I Narratori , pag. 304, cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-07-01894-7
OriginaleAire de Dylan [2012]
TraduttoreElena Liverani
LettoreCristina Lupo, 2013
Classe narrativa spagnola , narrativa catalana
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Indice


  11     I

  23    II   Teatro di realtà

  81   III

 111    IV

 141     V   Teatro trappola per topi

 185    VI

 213   VII   Under the mango tree

 229  VIII

 261    IX   Teatro della memoria


 

 

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Pagina 13

Ci sono persone che entrano molto tardi nel teatro della vita, ma quando vi entrano sembra che lo facciano senza freni, già diretti verso la fine dell'opera. Questo è stato il mio caso e oggi posso affermarlo con assoluta certezza. La rappresentazione iniziò la mattina in cui mia moglie mi consegnò una lettera appena arrivata dalla Svizzera, un invito a partecipare a un congresso letterario sul Fallimento.

Mi trovavo sulla terrazza dell'appartamento nella zona a nordest di Barcellona, la vecchia casa in cui abitavamo già da molti anni e che abbiamo lasciato solamente qualche mese fa. Mia moglie entrò in terrazza con solennità del tutto inusuale e accennò un inchino teatrale prima di annunciarmi che, dal tenore della lettera, qualcuno evidentemente mi riteneva un fallito completo. Mi sorprese la sua teatralità perché i suoi gesti non erano mai sopra le righe. Cercava forse con il suo istrionismo di sminuire la gravità del messaggio? Quale che fosse il motivo, non dimenticherò quel momento, perché diede l'avvio a una storia dentro la mia vita, una storia che nelle settimane successive gradualmente avrebbe reclamato sempre di più la mia attenzione.

Lessi la lettera e vidi che la lusinghiera proposta mi giungeva dall'Università svizzera di San Gallo. Ovviamente non si trattava del genere di invito che gli scrittori ricevono con frequenza e, tuttavia, poche cose sembrano così intimamente legate tra loro come fallimento e letteratura. Probabilmente per questo motivo, perché in realtà la cosa strana era che l'invito non mi fosse arrivato prima, lessi la lettera svizzera con la più assoluta calma, quasi avessi saputo da sempre che un giorno l'avrei ricevuta. Non mossi nemmeno un muscolo del viso. Incassai l'invito con eleganza e fatalismo, come se mi trovassi in un angolo di un grande palcoscenico. E nelle ore successive rimasi solamente con un dubbio: se indossare la maschera del fallito o proseguire nella mia vita normale di fallito.

L'invito mi era stato rivolto da un docente di Matematica il cui cognome era Echèk. Scritto in quel modo, con la k e la e accentata, in creolo haitiano Echèk significava "fallimento". Fatta eccezione per la sfumatura insulare del cognome, le informazioni sul matematico svizzero che trovai in Internet erano tutte insulse, accademiche, e anche cercando nelle immagini di Google non ci fu nessun modo di scoprire che faccia avesse quell'uomo. Domandai alla mia amica Petra Overbeck, docente a San Gallo, se conosceva Echèk e mi disse che era una brava persona, se pur ossessionata dal tema generale del fallimento. Petra mi raccomandava di accettare l'invito, visto che mi offriva l'opportunità di visitare "lo straordinario Cantone dell'Appenzell".

Alcuni mesi dopo mi recai a San Gallo per partecipare al congresso. Siccome Echèk non si faceva vedere, tra i conferenzieri iniziò a diffondersi la leggenda che fosse un personaggio immaginario. Petra Overbeck insisteva nel confermarmi ciò che dicevano gli altri professori: che Echèk era semplicemente ammalato. A dispetto di quello che ci dicevano, alcuni di noi continuavano a diffidare dell'esistenza del signor Fallimento e ci convincemmo che non si trattava di un'entità fittizia solo quando lo vedemmo nella foto ricordo dei diplomati a San Gallo dell'anno accademico 1992-1993. Eccolo lì Echèk, appena laureato, con un sorriso triste. Era nero, dall'aspetto simile a quello del presidente Obama, e sembrava il più anziano di tutti gli studenti del suo corso.

Echèk rimase ammalato per tutto il congresso e quindi lo vedemmo solamente in quello scatto che mi presi la briga di fotografare per poi pubblicarlo sul mio sito web, facendo così in modo che il mio anfitrione avesse finalmente una presenza fisica su Internet, iniziativa che, a quanto mi ha detto l'altro giorno Petra, Echèk non mi ha perdonato visto il suo desiderio di anonimato.

Nessuno può mettere in dubbio che la città medievale di San Gallo, tra il Lago di Costanza e il Cantone dell'Appenzell, goda di splendidi belvedere sul quartiere antico e di una meta ineludibile, la Biblioteca della Diocesi, la "farmacia dell'anima" come alcuni l'hanno definita, un luogo magnifico. Ma è altrettanto inconfutabile che non offra eccessive opportunità di svago. Probabilmente per questo motivo e perché sin dal primo momento la cosa più divertente sembrava essere proprio il tema centrale del congresso, praticamente non mi allontanai mai dai bucolici dintorni dell'università e finii con l'assistere a quasi tutte le conferenze sul fallimento.

Alcune mi interessarono in modo particolare, come quella di Sergio Chejfec, che disse di concepire il fallimento non come un'eventualità letteraria, ma come sinonimo della letteratura in generale: "Il fallimento è la prefigurazione naturale del destino dello scrittore". O come quella del cineasta Werner Herzog che, se non capii male, incentrò tutto il discorso sul suo sonoro fallimento come pazzo: un tragico e appassionante lamento, in definitiva, per non aver saputo perdere la ragione con sufficiente forza.

Ma il congresso, nonostante l'interessante idea di riunire artisti di diverse parti del mondo a parlare del fallimento, sarebbe potuto risultare un'insignificante riunione letteraria, una riunione come tante altre, se non fosse stato per l'intervento del giovane Vilnius Lancastre, che lesse una narrazione su alcuni episodi della sua vita nei giorni successivi alla morte del padre: un racconto che aveva scritto in quattro notti, basato su episodi reali molto recenti della sua esistenza. Non era abituato a scrivere perché si dedicava al cinema e inoltre era molto pigro e aspirava a diventare un giorno come Oblomov, il personaggio profondamente ozioso di un romanzo russo, paradigma del non fare nulla. Non era abituato a scrivere e in ragione della sua mancanza di esperienza nella vita letteraria pensò che non avrebbe riscosso il gettone di presenza a San Gallo se non si fosse presentato con un intervento scritto, e dunque arrivò al congresso con quel racconto che a priori richiamava l'attenzione per il titolo enigmatico: Teatro di realtà.

Nonostante i problemi con la traduzione simultanea e con il pubblico che vacillava tra il rimanere ad ascoltarlo e l'andarsene, il giovane Vilnius lesse il suo racconto quasi fosse la riduzione radiofonica di un'opera teatrale, cosa che in fondo aveva un suo senso visto che, in fin dei conti, gli interventi di quel congresso sul fallimento venivano integralmente registrati da Radio Zurigo e, perdipiù, il titolo del racconto richiamava proprio il teatro.

Fu l'uníco relatore a leggere un racconto (un racconto, comunque, basato su fatti reali, su avvenimenti recenti della sua vita). Noialtri ci presentammo con saggi sul tema generale del fallimento. Invece lui arrivò con la sua narrazione autobiografica. Non ce lo confessò lì a San Gallo, ma oggi sappiamo che, oltre alla paura di non venire pagato se non presentava un testo scritto, aveva scartato l'idea del saggio o di qualche teoria sul fallimento e aveva scelto quell'opzione narrativa perché, oltre a non avere la più pallida idea di come si scriveva un saggio, aveva urgentemente bisogno di raccontare in pubblico a scopo terapeutico il suo recente dramma personale, di raccontare in pubblico cosa gli era successo nei giorni successivi alla morte di suo padre, e il tutto curiosamente aveva la struttura di un racconto. (Che ce l'avesse, naturalmente, per lui era un'esperienza nuova, non gli era mai capitata e, inoltre, l'aveva lasciato perplesso notare che un frammento della sua vita potesse avere un'aria così simile a quella di un'opera narrativa, un'aria, soprattutto, da pièce teatrale con epilogo inaspettato e improvvisa chiusura del sipario.)

Aveva bisogno di portare a compimento l'idea di trasformare la sua narrazione in un grido, lanciato tra sconosciuti in una città straniera, in un tentativo di sbarazzarsi della zavorra e di gettare a mare il suo dramma personale alla prima buona occasione; un tentativo di liberarsi o come minimo di smorzare la sua tragedia.

Ma, soprattutto, ciò che più lo stimolava di quell'opzione narrativa era la possibilità di mettere alla prova un'invenzione, ciò che lui chiamava Teatro di realtà (una variante del cinema-realtà, conosciuto anche come Cinéma Verité) e di poter confermare in diretta i suoi sospetti circa il fatto che al pubblico non interessava minimamente il dramma dei suoi ultimi sei giorni.

Considerando inoltre che prevedeva di superare abbondantemente i quarantacínque minuti che gli erano stati concessi per l'intervento – aveva bisogno di più tempo per leggere interamente il suo racconto –, sperava con entusiasmo di poter vedere come progressivamente il pubblico, non capendo perché stava raccontando la sua storia, si sarebbe allontanato dalla sala trasformando così la sua interpretazione nel fallimento più penoso e imbarazzante della storia della narrazione orale di tutti i tempi. Con il suo disastroso intervento interminabile, Vilnius pensava di trasformarsi nell'unico relatore del congresso a essersi perfettamente attenuto alla vera essenza e allo spirito di rovina di quell'incontro internazionale sul fallimento. Pensava, in sostanza, di offrire in pubblico un'esibizione compiuta ed esemplare di come si fallisce completamente e veramente.

Ma nessuna di tutte queste intenzioni riguardo alla ricerca assoluta del disastro era stata lasciata trapelare. E, a ben guardare, era logico, dal momento che aveva bisogno di fallire senza aver preventivamente avvertito del suo proposito di rimanere senza pubblico, senza un solo spettatore.

Di fatto, però, la sua stessa presenza lì rappresentava un fallimento implicito, visto che chi veramente era stato invitato a San Gallo era suo padre, che non era potuto intervenire per cause di forza maggiore: era morto, stroncato da un infarto nella sua casa a Barcellona, alcune settimane prima.

Non c'è dubbio che la morte sia il fallimento umano per eccellenza. Stando così le cose e dato che il giovane figlio del tanto ammirato Juan Lancastre si dedicava al cinema e si sapeva che lavorava a un Archivio Generale del Fallimento, Echèk aveva avuto l'idea di chiedergli di recarsi a San Gallo per dire qualche parola su come veniva affrontato il tema del fallimento nell'opera di suo padre. E invece Vilnius si era presentato con il suo Teatro di realtà.

Per la verità non ci aspettavamo granché dall'intervento del giovane Vilnius, forse per il fatto che alcuni di noi avevano sentito dire che era un mediocre pubblicitario, licenziato da tutte le agenzie in cui aveva lavorato, nonché un cineasta che dall'alto dei suoi trent'anni aveva firmato solamente un irregolare cortometraggio avanguardista, Radio Babaouo. In virtù del legame familiare, si era indotti a riconoscergli un certo senso dell'arte e facilità di parola, ma nessuno riteneva che possedesse le qualità più riconosciute del padre. In realtà non ci aspettavamo niente da lui, tutt'al più un breve ritratto e un ricordo emozionato della figura di Juan Lancastre, e poco altro.

Suo padre l'avevo visto a Barcellona ai banconi del bar Zeleste e del Bikini e del Perturbado, del quale era stato socio fondatore. Lo avevo incontrato nei miei anni giovanili e anche in quelli postgiovanili. E in modo molto confuso ricordavo che in una certa occasione avevo riso in sua compagnia, non mi ricordavo di che cosa, sapevo solo che avevamo iniziato a ridere come due matti e che ci eravamo presi una sbronza memorabile. Dei suoi libri avevo abbastanza apprezzato L'interruzione, romanzo per certi versi emblematico, un buon libro, troppo famoso rispetto al suo valore, ma tutto sommato un testo dignitoso. Come pure il suo strano manifesto in favore delle avanguardie – scritto in francese – e il suo fantasioso trattato – scritto in catalano – sulla Siria. E, ovviamente, la facilità con cui cambiava di pelle e di personalità e a volte persino di lingua in ogni libro.

Suo figlio Vilnius non l'avevo mai visto di persona, ma sapevo che era solito vestire di nero e che la sua notevole capigliatura e il naso e persino la statura erano identiche a quelle di Bob Dylan. A volte la gente, per la strada, rideva confondendolo con il cantante. La sua aria da Dylan gli aveva creato qualche problema – soprattutto con suo padre che odiava quella pettinatura e la ricerca della somiglianza con il musicista –, ma a Vilnius piaceva far mostra di quell'aspetto, perché riteneva che gli conferisse un tocco da artista che non fa concessioni.

Fisicamente non assomigliava in nulla al suo famoso padre e poco, comunque, anche a Laura Vedrai, la sua terribile madre: di grande bellezza, da giovane era andata a vivere a Barcellona raggiungendo ben presto in quella città, sia nei circoli universitari come poi in quelli nottambuli, la fama di donna perfida e fatale; fama che aumentò quando lavorò in un'agenzia letteraria dove fece stragi in tutti i sensi.

"Laura Vedrai, andrai e non tornerai" recitava un ritornello di allora come monito agli uomini sulla natura da serpente infinitamente pericoloso di quella donna. Per alcuni, tra i quali mi annovero, era stata la più diabolica e bella della nostra generazione, anche se era altrettanto vero che fosse molto incline a essere sopra le righe e che a volte era riuscita a essere una perfida veramente cattiva, cattivissima, ma comunque sempre da manuale. A ogni modo, a Barcellona erano in molti ad avere una cosa ben chiara: per quanto la sua immagine da vipera fosse molto stereotipata e per quanto potessero far ridere alcuni suoi atteggiamenti esageratamente perversi, bisognava far attenzione perché in fondo in fondo era proprio terribile.

Quindi mi recai alla conferenza che il giovane Vilnius aveva intitolato Teatro di realtà pensando di rimanere lì solo qualche minuto, motivo per cui mi accomodai nell'ultima fila, molto vicino alla porta. Non avevo assolutamente previsto che il racconto costruito sulla sua vita, quella sorta di teatro senza teatro del giovane oratore potesse conquistarmi e sorprendermi come fece. Era teatro senza teatro perché si notava perfettamente che tutte le cose che ci stava leggendo rimandavano a fatti veri e molto sentiti.

Vilnius iniziò l'intervento avvisando che non avrebbe assolutamente tenuto una conferenza, ma che avrebbe letto un racconto che narrava la storia della sua vita nel corso dei sei giorni che avevano cambiato il suo mondo. Siccome sapeva di avere a disposizione solo quarantacinque minuti, voleva avvisare il gentile pubblico che, nel caso più che probabile che l'organizzazione interrompesse la sua lettura, avrebbe continuato a leggere il racconto del suo stupore esistenziale nella birreria Stille, a quattro passi da dove ci trovavamo.

Diede quindi la falsa impressione iniziale di ambire a interessarci con il suo racconto in modo tale che, a un certo punto, tutti ormai soggiogati, non avremmo avuto altra alternativa che trasferirci alla birreria lì vicino per conoscere l'epilogo della storia che stava per raccontarci. Invece, si riproponeva qualcosa di molto diverso, qualcosa che nessuno era in grado di immaginare. Come potevamo intuire che quel ragazzo stava cercando, come obiettivo finale, di diventare l'Ed Wood delle letture, degli interventi ai congressi? Come è noto, Ed Wood è stato l'autore del peggior film di tutti i tempi. Il giovane Vilnius, nel momento in cui iniziava ad affrontare il suo Teatro di realtà, sognava di poter assistere all'incommensurabile spettacolo di come la sua tragedia non interessasse per nulla agli altri e di come la sua lettura finisse col provocare la fuga di tutti gli spettatori, proprio tutti, senza eccezione.

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Quello strano e delirante ultimo sguardo di quel ragazzo con l'aria da Dylan fece sì che uscissi sconcertato dal suo teatro senza teatro, ma allo stesso tempo con una buona disposizione d'animo, perché il tono in cui era stata raccontata quella storia – che si discostava grazie al formato da racconto dal resto delle severe conferenze del congresso – mi aveva trasmesso perfino la voglia di scrivere nonostante avessi già deciso – anche se lo tenevo nascosto a tutti – di non intraprendere mai più l'avventura di redigere un altro libro in vita mia.

Uscii dalla sala continuando a rimuginare su quella "oscura speranza" che suo padre volesse proteggerlo da qualche luogo dell'universo e accompagnarlo nel suo vagabondare. Per provare nostalgia di un padre che aveva così tanto detestato, Vilnius doveva sentirsi molto solo, riflettevo tra me e me. E poi, pensando a quel padre protettore che lui cercava o di cui sentiva nostalgia e che gli sarebbe piaciuto poter vedere di nuovo da qualche parte, mi ricordai del padre onnisciente dello scrittore John Cheever.

Alla fine del XIX secolo, il padre di Cheever viveva a Monaco e lavorava come modello per uno scultore, che lo rappresentò come una sorta di Atlante o cariatide maschile e che collocò la sua figura sulla facciata del vecchio albergo Königspalast, distrutto negli anni quaranta dai bombardamenti degli Alleati. Credo fosse il 1935 quando John Cheever attraversò la Germania a piedi, vide l'albergo e i lineamenti inconfondibili di suo padre, le cui spalle sostenevano l'enorme architrave. Più tardi, a Francoforte, scoprì che la statua di suo padre sosteneva i balconi e il tetto del Frankfurter Hof. Evidentemente non era servito da modello per tutte le cariatidi, ma l'associazione iniziò a ossessionare Cheever che iniziò ad avere l'impressione, assolutamente non sgradevole, che molte case, alberghi, teatri e banche fossero sostenute dalle nobili spalle di suo padre. Alcuni anni dopo, siccome la guerra aveva provocato a questi edifici meno danni di quanti ci si poteva aspettare, Cheever credette di riconoscere suo padre sulla facciata di un hotel di Yalta. A Kiev lo vide sorreggere i terrazzi degli appartamenti di un intero edificio. A Vienna e a Monaco lo vide dappertutto e a Berlino lo vide mutilato, sfigurato, sull'erba di un terreno vicino al posto di blocco del muro. Dato che aveva iniziato la sua vita sul marciapiede della strada più esclusiva, sorreggendo gli architravi sotto cui passavano i ricchi e i famosi, era penoso vedere come la luce abbandonava quegli edifici e che la presenza della testa e delle spalle scoperte di suo padre indicavano una pensione di malaffare, grandi magazzini in fallimento, un cinema abbandonato o la soglia dei quartieri più miserabili. Alla fine per Cheever fu un sollievo tornare alla sua casa di Kitzbühel dove gli edifici erano di legno.

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Mi intrattenni nel bar con un collega molto pesante, un collega che aveva partecipato al congresso e che non smise un momento di parlarmi della quantità di cose con le quali dobbiamo competere noi romanzieri nel mondo attuale, così tante – mi diceva disperato quest'orribile collega – che stava pensando di gettare la spugna, perché oggigiorno ottenere attenzione per un romanzo è molto più difficile di quanto lo fosse prima, perché oggigiorno noi scrittori dobbiamo convivere con più attrazioni e distrazioni, crisi economiche, invasioni di paesi arabi, rivalità calcistiche, minacce per la sopravvivenza, carestie e crimini orribili, rancide nozze reali, terremoti devastanti, treni che deragliano e certo non in India...

Facendo appello a un buon senso che ho sempre detestato, ma che a volte devo riscattare dal più profondo del mio spirito per correggere gli idioti, gli spiegai che era mostruoso e assurdo considerare come "rivali" le cose che mi aveva nominato. Non se ne rendeva conto? Gli citai una caricatura di un intellettuale fatta dal disegnatore Daumier in cui era ritratta una gentildonna dall'aspetto severo che sfogliava alterata il giornale sul tavolino di un bar. "Solo sport, caccia e pallottole! E niente sul mio romanzo!" si lamentava. Eccolo lì, ben evidente, il grande errore: credere che un libro dovesse competere con l'ultimo omicidio in serie o con l'ultimo capo militare arabo detronizzato. Scriviamo forse per quelli che seguono solamente le notizie riguardanti Wall Street, la Siria, la Libia, l'Iraq, la Grecia, il Giappone o la florida Cina?

Gli artefici di quelle notizie tutte così tremende, diceva Bellow, pensano alla coscienza come a un territorio appena apertosi per i colonizzatori e lo sfruttamento, una sorta di febbre per le terre di Oklahoma. In realtà, lo scrittore parla a un lettore indefinito, ma che in un certo modo immagina che debba essere come lui stesso, qualcuno che non si lascia affogare del tutto dalle centinaia di migliaia di attrazioni di Oklahoma e che invece si mostra interessato allo sforzo grandioso che bisogna fare, spesso uno sforzo segreto e più che nascosto, per mettere ordine nella confusa coscienza.

Questo lavoro segreto con la coscienza, cercai di spiegare all'odioso collega (che guardava sempre di più da un'altra parte), si sviluppa in perimetri lontani dal grande spettacolo del mondo. Ci sono lettori coscienti del fatto che quotidianamente i famosi "mercati" e í loro parenti più prossimi, i proprietari del Teatro di Oklahoma, stanno abusando della loro attenzione. Ma sono altresì coscienti del fatto che gli scrittori che sopravvivono – continuai a dirgli, credo in parte sotto l'influenza della conferenza di quella mattina di Daisy Skelton – sono solo quelli che tengono presente la tragedia di tanti lettori dei quali si è abusato e che, nonostante l'abuso, ancora mostrano di avere la forza per prestare attenzione a quanti, come loro, cercano di mettere ordine nell'ingarbugliata coscienza. Questo lavoro segreto con la coscienza non si vede mai in televisione, non è mediatico, e abita nelle vecchie case della vecchia letteratura di sempre.

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Il giorno dopo andai a Culver City, città che mi sembrava lontana e che oggi ricordo così vicina e così adorabile, piena di deliziosi alberi e di cari ricordi cinematografici. Avevo il telefono, l'indirizzo di Pechmann, ero riuscito ad avere tutto, avevo ottenuto persino che il vecchio sceneggiatore accettasse di ricevermi. Louis H. Derek, decisivo in queste pratiche, fu sul punto di accompagnarmi, ma all'ultimo momento si ricordò che era imprescindibile la sua presenza a un matrimonio a Malibù e alla fine andai da solo e, durante il viaggio, decisi che al vecchio mi sarei presentato per quel che ero, un giovane cineasta, e non come giornalista o investigatore privato. Avevo l'impressione che in casi del genere la cosa migliore fosse essere semplice, non complicare le cose, non essere impostato, non inventarsi personalità doppie, essere me stesso più che mai.

Mi conveniva presentarmi come un giovane collega, come un cineasta che cercava un dato per un film in preparazione. Evitando assolutamente di dirgli, per esempio, che in quel lungometraggio desideravo filmare il grande spettacolo mondiale del fallimento visto come brutale e gigantesca estensione della realtà provinciale che a malapena era cambiata nel mio paese dai tempi di don Chisciotte. Evitando assolutamente di dirgli queste cose che suonavano così affettate e che negli Stati Uniti, inoltre, suonavano come la lingua di un terrorista. E anche se pensavo di domandargli se conosceva l'autore della frase "Quando fa buio..." non pensavo nemmeno per sogno di lasciar trasparire, per esempio, che lo stavo cercando per verificare chi era stato, così tanto tempo prima che io nascessi, a dire quelle parole delle quali sarei stato il massimo, in realtà unico, destinatario sulla terra. E men che meno raccontargli della mia convinzione che, se avessi localizzato la persona che aveva scritto quella frase, sarei entrato in possesso di piste sicuramente decisive per avvicinarmi alla mia vera identità e a ciò che potremmo chiamare la mia realtà ultima, la mia e anche quella del mondo in generale. Per non parlare dell'idea di dirgli che avevo l'impressione che mio padre morto non aveva ancora abbandonato questo pianeta che chiamiamo Terra e che a volte entrava a folate nella mia mente e cercava di trapassarmi, senza successo, parte della sua memoria ed esperienza; senza successo, perché mi opponevo come potevo a quel genere di impeti non desiderati che non facevano altro che complicare tutto e che inoltre sembravano portare con sé una carica di pura vendetta, come se lui volesse dire: ecco, desideravi essere autentico per poterti differenziare da me in questo modo, desideravi liberarti della mia ombra ma nemmeno adesso, se pur esanime, permetterò che tu abbia uno stile unico, uno stile tuo e che oltretutto tragga piacere dallo stupido orgoglio di sentirti autentico, ci mancherebbe altro.

No, niente del genere. Sarebbe stato un errore immenso, smisurato, riferire tutte quelle cose a John Pechmann. Gli americani sono molto semplici, credono a morti che sono molto vivi dopo la loro morte, ma non a morti che si muovono con lo stile che io immaginavo mio padre esibisse nei luoghi dell'aldilà. Perché lo spettro paterno inconfondibilmente europeo che io notavo sbucare a volte nella mia stanza dell'Earle era uno spirito che non voleva discutere con me di nulla, ed era interessato solamente ad aiutarmi. Forse per questo motivo, perché si aggirava nei pressi e vedendomi tanto sperduto nell'universo non si decideva mai a filarsela nell'altro mondo, accadde che durante la mia seconda notte nell'albergo feci un sogno che era possibile che facesse solo lui, unicamente lui, non io, anche se con stupore lo feci io. Naturalmente, un avvenimento sconcertante come questo mi preoccupò, e dire che non era la prima volta che mi toccava farmi carico di visioni che senza ombra di dubbio appartenevano al mondo personale di altri: in diverse occasioni, prendendo la melatonina nei viaggi transatlantici, avevo finito per sognare storie – perfettamente e misteriosamente disegnate da qualche creatore occulto – che mi avevano fatto entrare nel mondo di persone che non conoscevo e che, avendole sognate io, avevo sicuramente privato della possibilità di sognarle coloro cui appartenevano.

Durante la mia seconda notte nell'Earle, in sogno vidi un amico di mio padre, che non avevo mai conosciuto personalmente ma di cui in casa avevo sempre sentito parlare molto. Camminava a scatti nel vicolo del quartiere vecchio di una città probabilmente europea. La pioggia invece, non dava adito a dubbi: era messicana, l'avevo vista alcuni anni prima nel D.F. e mi aveva molto colpito perché, per uno strano effetto visivo, sembrava contaminata, sembrava quasi pioggia di Chernobil. L'amico di mio padre entrò nell'aula di una scuola e iniziò a scrivere segni che io non avevo mai visto, li scriveva a grande velocità su una lavagna di un verde molto acceso. La lavagna si trasformò in una porta incassata in un arco arabo a sesto acuto, una porta di un verde ancora più acceso sulla quale lui iscriveva, rallentando il ritmo della sua mano, una poesia dall'algebra sconosciuta: formule e misteriosi messaggi dall'aria cabalistica, ebrea, anche se forse l'aria era solo musulmana, musulmana della Cina, o semplicemente italiana, dei tempi di Petrarca; una poesia dall'algebra strana, senza patria, e che rimandava al centro stesso del mistero del mondo.

Non posso dire di esserne completamente certo, ma probabilmente su questo sogno ebbe una certa influenza il fatto che, prima di addormentarmi, avessi affrontato la rilettura di Fame, romanzo di Knut Hamsun che mi piace molto perché parla di un giovane perduto e dei movimenti della sua mente. Di fatto, è il romanzo che m'ispirò l'idea di tenere un Registro dell'Inconscio che attualmente è una cartelletta del mio computer in cui annoto le ispezioni che porto a termine sulle strade impreviste del mio pensiero. Ricordo che ad Hamsun interessavano i segreti movimenti che si realizzano senza essere avvertiti in luoghi separati dalla mente, quelle infatuazioni senza rotta che il pensiero e il sentimento intraprendono, viaggi ancora non realizzati che si producono con la mente e il cuore, strane attività nervose, mormorii del sangue, preghiere di ossa, tutta la vita interiore dell'inconscio. Credo che nulla mi sia rimasto così impresso come queste parole di Hamsun quando le lessi.

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Alcuni giorni prima, Debora aveva parlato nel sonno per dire che l'autenticità di cui Vilnius si sentiva tanto orgoglioso era legata al pianto. Un mistero. Quando si ritrovarono in avenida de Sarrià dopo aver visto alla Cineteca Tre camerati, di Franz Borzage, Vilnius domandò a Debora cosa aveva voluto dire quella notte con la frase sonnambula.

Non ne ho idea, stavo dormendo, rispose. Non ne aveva idea? A Vilnius allora venne in mente la frase-motore con la quale verificava cose che apparentemente non era destinato a conoscere mai e pensò che quella frase poteva tornargli utile per sapere se Debora era davvero innamorata di lui e, già che c'era, poteva anche tornargli utile per decifrare le parole sonnambule che tanto lo intrigavano, perché erano davvero un mistero quelle parole che intendevano mettere insieme autenticità e pianto.

Sapendo che lei non aveva mai sentito parlare di quel "Quando fa buio, abbiamo sempre bisogno di qualcuno", le domandò se aveva fatto mente locale su alcune parole che erano le più tipicamente fitzgeraldiane del film che avevano appena visto. Ce n'erano talmente tante che non poteva citarne qualcuna, gli rispose Debora. Te le dirò io, disse Vilnius. E se ne uscì con la frase-motore: "Quando fa buio...".

Debora lo guardò con stupore, si appoggiò a lui con faccia da inespressività totale e simulò uno svenimento. Non le suonava familiare quella frase, non credeva nemmeno di averla sentita nel film, gli disse recuperando la posizione verticale perduta. E comunque, disse Debora, non le sembrava assolutamente una buona frase, aveva tutta l'aria di essere stata scritta da un'anima elementare, da un cuore semplice, da una mente di carrubo più che da uno scrittore come Scott Fitzgerald. Di fronte a simili parole, Vilnius rimase inaspettatamente inceppato, forse aveva confidato troppo nelle capacità investigative della sua frase. E ti voglio anche dire, aggiunse Debora, che questa storia che quando fa buio abbiamo sempre bisogno di qualcuno non è altro che la classica imbecillità che potrebbe dire un tizio, come spiegarti?, grande, obeso, luccicante, con faccia da uovo capovolto, dalla risata ansimante e lo sguardo bovino, aggiunse Debora.

Andarono a prendere qualcosa nel bar che era stato inaugurato all'angolo tra Buenos Aires e Urgel, di fronte agli uffici centrali del partito di destra più popolare in Spagna. Vilnius camminò tutto il tempo a testa bassa, pensieroso, confuso. Aveva talmente successo il nuovo bar che non c'era posto nei tavolini all'aperto e dovettero accomodarsi nel caldo interno. Gli acquazzoni degli ultimi giorni si erano calmati, erano previsti – poi si vide di no, che ancora una volta i meteorologi si erano sbagliati – significativi miglioramenti. Sei un ragazzo intelligente, disse Debora a Vilnius, capace di leggere in fretta qualsiasi testo per intricato che sia e hai ottima memoria e talento per le idee, almeno una al giorno, ma a volte il gusto ti viene meno, perché non vedo altra spiegazione al fatto che tu abbia potuto credere che Scott Fitzgerald possa aver scritto una cosa così sentimentaloide come quella frase del "quando fa buio" abbiamo sempre bisogno di non so cosa...

Vilnius si sentiva confuso e mortificato e decise che avrebbe cercato di risollevarsi il morale e di riprendersi da quel brutto momento, o meglio avrebbe cercato di fare qualcosa di più che riprendersi da quella situazione, se la sarebbe proprio giocata. A testa o croce. La croce avrebbe significato rimanere senza il suo amore. Ma doveva correre il rischio. Vedendo che la frase dello sceneggiatore Harlem aveva rivelato il suo inatteso lato inutile, si lanciò a cercare per un'altra strada la verità intorno alla questione, così trascendentale per lui, se Debora era realmente o no innamorata.

Se la giocò davvero perché decise di chiederle una cosa che in un'altra occasione e con un'altra donna, la sua antica fidanzata Mariona, aveva sortito risultati così pessimi da essere, di fatto, la causa diretta della separazione, visto che la domanda l'aveva irritata così profondamente e le era parsa la goccia che faceva traboccare il vaso della sua pazienza. Ciononostante e pur sapendo che conseguenze poteva portare la fastidiosa domanda, si azzardò a formularla a Debora. Le disse, con una vocina innocente, se era a conoscenza del fatto che il grande teatro nel quale viviamo altro non era se non un gigantesco programma che stava girando su un computer siderale. Come? domandò lei. Se sapeva, continuò a dirle imperturbabile Vilnius, che in quel computer erano programmate una serie di leggi fondamentali, compresa una gravità quantica che sosteneva un vuoto in grado di fluttuare in molteplici universi.

Disse queste parole e si coprì il viso in previsione di ciò che lei avrebbe detto, cosciente del fatto che la sua storia d'amore con Debora era appesa a un filo, esattamente a ciò che di lì a poco lei avrebbe detto.

Credo, disse tranquillamente Debora, che tu mi abbia parlato di questo programmatore teatrale e dei molteplici universi solo perché io non pensi che sei stupido come quelli che dicono di aver bisogno di qualcuno quando fa buio, non è così? Non esattamente, disse Vilnius. Era curioso, pensò lui, vedere come, pur avendo cambiato l'argomento della conversazione a Debora e avendola fatta viaggiare nello spazio siderale e nel mondo di un programmatore teatrale, ciò nonostante rimaneva latente, ancestrale, palpitava nel fondo stesso di ciò di cui stavano parlando il tema dell'oscurità e del bisogno o meno di qualcuno quando fa buio.

La frase dello sceneggiatore era stata molto rigirata da lei, ma rimaneva lì, come se il suo motore, scopritore di altri mondi, non si fosse fermato... Forse non bisognava fare nulla, nemmeno nominarla, perché probabilmente la frase era come una macchina e lavorava da sola. Allora Vilnius capì che in effetti era la cosa migliore che poteva fare, permettere che fosse la frase stessa ad aprirsi la strada per conto suo.

Quello che ha scritto la cretinata sull'imbrunire, disse Debora, probabilmente stava solo pensando che quando fa buio abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci prepari un buon pudding. Vilnius si trattenne, si represse a forza, e lasciò che la frase di Tre camerati continuasse comunque a lavorare. Stanotte, continuò lei, non stupirti se parlerò da sola nel sonno e ti dirò che vado a prepararti un pudding. Seguì un silenzio, dopo di che Debora, con una voce più dolce del solito, cominciò a raccontargli che la prima cosa che aveva rubato in vita sua era stata una torta di mele dal frigorifero della casa di alcuni amici dei suoi genitori a Sà Rapita, la spiaggia di Campos. La sgridata di sua madre era uno dei pochi ricordi che aveva di lei, anche se era consapevole del fatto che la sua memoria aveva fantasticato sull'accaduto finendo per trasformarlo. Il teatro della memoria, precisò. E sorrise con tristezza per poi spiegare che era proprio tornata a ricordare quel furto e quella sgridata l'ultima volta che era andata a Campos e, quando era passata davanti alla scuola municipale, vicino alla porta della vecchia aula della scuola elementare, era rimasta paralizzata sentendo delle voci infantili che cantavano nello stesso luogo in cui vent'anni prima anche lei aveva cantato la stessa canzone. Nel grande teatro della memoria, disse Debora, le stonate voci infantili suonavano belle nella brezza.

A quel punto si fermò e iniziò un lungo silenzio. Poi, riprendendosi progressivamente, ricominciò la sua storia e raccontò che quando era entrata nell'aula della vecchia scuola, la stessa in cui da bambina aveva trascorso cinque anni della sua vita, aveva sentito che la stessa maestra di allora, con lo stesso tono di voce di quei giorni, sgridava i bambini nello stesso modo di quei giorni e diceva loro le stesse parole per evitare che, quando fosse suonata la campanella, si lanciassero precipitosamente nel cortile.

Il giorno del suo ritorno a Campos, con il ricordo di sottofondo dei genitori morti, Debora era rimasta paralizzata davanti al ritorno improvviso del passato e un'ora più tardi, quando era tornata per strada ed era passata davanti alla sua casa natale, sentendo una musica che era suonata nell'estate più lontana della sua vita, aveva osservato commossa come all'improvviso tornava alla sua memoria la scena di qualche ora prima, la scena che aveva fermato il flusso delle cose e le aveva fatto vedere che il tempo non se n'era mai andato dal suo fianco, era sempre rimasto lì con lei, il tempo non sapeva cosa fosse il tempo...

Ed era stato in quel momento, quando aveva sentito di nuovo in lontananza le voci stonate e si erano accumulate all'improvviso tutte le emozioni della mattina, che non aveva più retto ed era crollata, era sprofondata in un pianto convulso, inarrestabile, profondo, il pianto dell'autentico, quello che ci ricorda, gli disse lei, qual è la vera essenza del mondo, tutto ciò che solamente registriamo nella sua pienezza quando recuperiamo in modo imprevisto, di colpo, le cose più sacre ed emotive della nostra esistenza, i primi anni della nostra vita, l'unica cosa che alla lunga finisce per sembrarci davvero nostra, e intrasferibile.

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