Copertina
Autore Enrique Vila-Matas
Titolo Il viaggio verticale
EdizioneVoland, Roma, 2006, Intrecci 50 , pag. 208, cop.fle., dim. 145x205x13 mm , Isbn 978-88-88700-66-3
OriginaleEl viaje vertical [1999]
TraduttoreSimone Cattaneo
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa spagnola , citta': Barcellona , citta': Lisbona
PrimaPagina


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Indice


Cadere                                    7
Il pensatore da caffè freddo              8
Orient-express                           23
Uno spavento da camposanto               39
Kim Novak                                52
Il futuro dei ricordi                    69
Da quando sono arrivato al mare          88
Quando il caso riposa                    89
Sintonizzarsi con la cultura            103
Non vi è sconfitta che sia fatta
    solo di sconfitte                   126
Porto metafisico                        127
Atlantide                               146
Il ritorno a scuola                     147
Mano senza linea                        165
Eccezionale capacità di sprofondare     166



 

 

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Pagina 8

IL PENSATORE DA CAFFΘ FREDDO



Quando cadde la notte in pieno giorno a Barcellona e si scatenò quel temporale di pioggia e vento, Federico Mayol, che aveva passato una settimana sull'orlo dell'abisso e che quel pomeriggio girovagava senza meta, non poté far altro che rifugiarsi in un bar di plaza Letamendi, mentre mormorava la parola "disperazione". Nel bar, si disse che era giunta l'ora di affrontare una volta per tutte la situazione catastrofica in cui si era venuta a trovare la sua vita da quando la moglie, una settimana prima, gli aveva detto nell'oscurità della cucina:

— Se non ti temessi tanto, se il mio carattere fosse più forte, adesso oserei dirti quanto mi piacerebbe...

Mentre sgranava piselli nella cucina bagnata dalla luce dell'imbrunire, si era interrotta proprio per il timore che aveva del marito e lui allora, con aria di sufficienza, le aveva ordinato di continuare.

— Va bene, — disse, guardando assorta i piselli cadere ritmicamente nel recipiente di porcellana — l'hai voluto tu, caro. Adesso ti direi quanto mi piacerebbe che ti allontanassi da me, che te ne andassi da questa casa per sempre e mi lasciassi sola. Sì, ti direi questo. Vattene Federico. Lasciami sola, voglio sapere chi sono, ne ho bisogno.

Pensò che scherzasse, anche se era molto strano sentirla parlare in quel modo. Si chiese se non fosse ubriaca, ma era improbabile perché non aveva mai bevuto in vita sua. Cercando di calmarsi, arrivò alla conclusione di trovarsi semplicemente di fronte a uno di quegli scatti di lieve malumore in lei molto rari.

— Ho sentito bene? — disse con un tono di voce un po' malinconico che da sempre usava per mantenere di fronte a lei il controllo delle situazioni.

A Federico Mayol — Mayol per gli amici — ciò che più piaceva della casa, la sua seconda dimora, era il luogo in cui si trovavano in quel momento, uno spazio senza nome, qualcosa di simile a un cortile parzialmente coperto, tra la cucina e il giardino, che avevano ammobiliato poco a poco. Lì si sentiva piuttosto felice perché, tra le altre cose, poteva contemplare l'orto che lei gli aveva chiesto di avere quando per loro sarebbe arrivata la vecchiaia.

— Ripeto. Ho sentito bene? — disse Mayol aumentando il tono intimidatorio.

Ottenne il contrario di quanto voleva. La moglie, forse spinta dalla stanchezza di aver sopportato per tanti anni quella voce minacciosa, reagì con rabbia, all'improvviso perse un po' della sua paura.

— Certo che hai sentito bene. Finora te l'avevo solo suggerito, ma adesso lo esigo. Voglio che te ne vada da questa casa e da quella di Barcellona. Da tutte e due, hai capito? Voglio che mi lasci in pace.

— Ma sei impazzita?

Lei guardò malinconicamente l'orto. Poi, parlando piano, mentre cercava di dominare la paura che ancora le era rimasta in corpo, disse:

— So benissimo quello che dico. Hai sempre pensato che in amore non amare molto fosse un modo sicuro per essere amati. E ti sei sbagliato, mio povero Federico. Anche se tardi, me ne sono resa conto. Voglio che tu esca dalla mia vita, ci ho pensato molto, voglio rimanere sola, ne ho bisogno.

Mayol la guardò sforzandosi di credere che fosse tutto un incubo irreale. Lei rimase assente, rilassata dopo le ultime parole, con la serenità di un fiume tranquillo e profondo, imperturbabile in tutta la sua estensione di fronte al tramonto. In silenzio guardò oltre l'orto, verso la luce più lontana del crepuscolo dove forse vedeva riflesso il tramonto del suo matrimonio.

— Ma ragioniamo un attimo, Julia. Dimmi che stai scherzando. Che lo fai perché ti annoia sgranare piselli.

Queste ultime parole dovettero sembrarle un'umiliazione. Reagì con violenza.

— Come te lo devo dire? Vedi di lasciarmi in pace. Voglio godermi in libertà i pochi anni di vita che mi restano.

La sera prima avevano festeggiato a Barcellona le nozze d'oro e neanche la mente più perspicace avrebbe potuto intuire che il giorno seguente avrebbe avuto luogo una simile scena coniugale. Era sempre stata un esempio di moglie fedele, e in ogni momento, per mezzo secolo di matrimonio, perfetta madre cristiana dei suoi tre figli e sposa ideale, una donna discreta ed elegante che aveva dedicato tutta la sua vita a Mayol.

– Lo so cosa succede. Sei impazzita qui in campagna. Be', te l'avevo detto. Come saremmo stati bene se fossimo rimasti tranquillamente a Barcellona a parlare di quello che è accaduto ieri. O è per via delle lattughe? — Da giorni trascinavano una discussione stupidissima per colpa di certi cespi di lattuga che lei aveva seminato in uno spazio libero tra le piante di melanzane, senza pensare che ai maggiolini le foglie di melanzana sarebbero piaciute ancor di più di quelle di patata. Per colpa delle lattughe non si poteva fumigare con l'arsenico. – Certo, è per via delle lattughe. Be', Julia, non sono disposto a continuare la discussione. Magari fossimo a Barcellona e non qui a sgranare piselli e a guardare di continuo quest'orto di merda.

— I pochi anni che mi restano — disse lei con parole che apparivano molto meditate, tremendamente serie — voglio godermeli in libertà. Sono stata troppo legata a te, a tutte le tue decisioni, al tuo egoismo. Guardami se puoi. Non ho una personalità, ho solo un orto e, come se non bastasse, ti metti a insultarlo. Ho solo un povero orto e sono un triste vaso da fiori vuoto. Sarai contento. Non so chi sono: questa è l'unica realtà. E soprattutto non so che donna avrei potuto essere se non fossi stata tutta la vita al tuo servizio. Ho deciso, nei pochi anni che mi restano, di provare a capire chi sono realmente, o perlomeno, chi avrei potuto essere e non sono stata. Ne ho bisogno.

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Pagina 17

Rifugiato in un bar di plaza Letamendi, mentre aspettava che cessasse l'improvviso temporale di pioggia e vento, Mayol continuava a ripensare a quanto gli aveva detto la moglie a proposito del fatto di non conoscere se stessa e di voler provare a capire chi diavolo fosse realmente. Non è poi male, pensò Mayol, bisogna ammettere che ne ha tutto il diritto e in fondo non è per niente male domandarsi una cosa del genere. C'è solo un piccolo inconveniente: io vengo abbandonato. Ma per il resto... Però è triste pensare che per cercare di scoprire se stessa mi debba abbandonare per strada. A me, che sono un santo.

Si soffermò a pensare a se stesso.

Chi sono? si chiese all'improvviso. Ed ebbe l'impressione che fuori avesse cominciato a diluviare con maggiore intensità.

Sono, si disse Mayol, parlando molto lentamente tra sé, un uomo d'età avanzata che sembra un po' più giovane, come se avesse un contratto speciale con lo scorrere del tempo. Ho gli occhi di un azzurro intenso, su questo tutti sembrano d'accordo. Sono uno che ogni tanto ha un tic, come il muso di un cane che fiuta un odore. Sono un uomo alto e oserei dire elegante. Sono uno che è sempre stato convinto di somigliare molto al defunto George Sanders, un attore ammirato. Sono uno a cui nessuno ha mai voluto riconoscere tale somiglianza. Sono uno che è seduto in un bar di plaza Letamendi a Barcellona e che non potrebbe essere più smarrito. Sono uno al quale oggi dà fastidio tutto ciò che vede e cerca di vedere il meno possibile. Sono di malumore. Uno che le circostanze costringono velocemente a diventare un altro. E sono anche uno che, una volta trasformatosi in un altro, dovrà comportarsi come se niente fosse, come se continuasse ad appartenere al mondo normale. Sono uno che a volte pensa cose strane. Uno che per essere un altro deve cancellare dai pensieri sua moglie, cancellarla dalla memoria, pensare che non esista più, eliminarla - qui divenne visibilmente nervoso – dimenticarla. Sono senza ombrello. Uno con tre figli, dei quali solo il maggiore lo rende orgoglioso. Uno che pensa che sua figlia non avrebbe dovuto sposare un uomo così vecchio. Uno che detesta il figlio minore, che è un povero presuntuoso. Sono un buon giocatore di poker. Un patriota catalano. Un cattolico che non va a messa. Un uomo che, alla fine della sua vita, sente la lingua coperta di fango e non sa se ingoiarlo o sputarlo. Sono un uomo alto con principi che gli impediscono di avere una fine suicida come l'ammirato George Sanders, che lasciò a Castelldefels un biglietto così sprezzante nei confronti di questo mondo. Sono un uomo alto che a volte pensa cose strane, come per esempio che il suo cocuzzolo tocca il soffitto. Un uomo poco colto, ma capace di pensare con la propria testa. Uno che da cinquant'anni sogna di vivere in un hotel dove non ha mai pagato il conto, perché conosce una buia scala segreta vicino a un montacarichi fuori uso. Sono uno che molte notti se la svigna da quella scala. Uno che adesso cerca una scappatoia per fuggire dalla situazione che lo imprigiona e per non pagare le spese del triste hotel della sua vita. Uno che col passare dei giorni ha sempre più paura di vedere come lentamente marcisca il suo mondo. Sono un mucchio di stracci vecchi, so solo che mi chiamo Federico. Ma, adesso che ci penso, com'è strano chiamarsi Federico.

All'improvviso sprofondò letteralmente nell'angoscia, perché si accorse di sapere ancora meno di sé rispetto a qualche minuto prima, quando si era chiesto chi fosse. Invaso da un sudore freddo, si rese conto che, insieme a lui, si era raffreddato anche il caffè. Ne ordinò un altro e, mentre lo faceva, rifletté sull'eventualità che il cameriere potesse accorgersi che quel cliente d'età avanzata, quell'uomo che chiedeva la sua attenzione con apparente sicurezza nel gesto, in realtà non era nessuno, o meglio, era il signor Nessuno, chiamato anche Federico. Rifletté su tutto ciò e quando vide che il cameriere continuava a non accorgersi di lui, ricorse a un lieve grido accompagnato da un gesto deliberatamente antiquato, lo chiamò come settant'anni prima aveva visto fare al padre in uno scomparso e rimpianto caffè wagneriano vicino al teatro Coliseum: El Oro del Rhin. Lì suo padre aveva un circolo di amici, e lì lui aveva imparato a chiamare i camerieri con modi consoni a un "signore di Barcellona", una stirpe di gentiluomini in via d'estinzione. Il cameriere si avvicinò mezzo addormentato e confuso, e sebbene Mayol sapesse che era andaluso, in quell'occasione parlò in catalano, e lo fece con un'educazione squisita, con gesti propri della borghesia barcellonese d'inizio secolo. Il cameriere, che sembrava sempre più sonnolento, ascoltò la richiesta e osservò con un certo stupore la vistosa gestualità antiquata di Mayol e, soprattutto, il fazzoletto bianco che spuntava dal taschino superiore della giacca.

Poco dopo, proprio quando gli portarono il secondo caffè, fu Mayol a cadere in uno stato di leggero torpore. Come se il temporale di pioggia e vento l'avesse ipnotizzato, si lasciò dominare da un'immagine che non apparteneva al mondo dei ricordi, era soltanto un sogno recente e per giunta deformato: la moglie gli calzava le pantofole in casa e all'improvviso cambiava violentemente espressione e gridava che ciò che li separava era il timore di vedere la sua faccia e di sentire il timbro potente della sua voce.

Quando Mayol riuscì a distogliere la mente dal sogno, il caffè si era raffreddato nuovamente, ma non se ne rese nemmeno conto perché subito tornò a riflettere angustiato su quanto era successo negli ultimi giorni. Un'ingiustizia totale. Una persona come lui, che aveva dedicato la vita a lavorare per la famiglia, non meritava ciò che gli stava accadendo. Gli si poteva rimproverare solo di aver avuto un'amante dai capelli rossi. A proposito, si disse Mayol, non capisco come abbia fatto Julia a scoprirlo.

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Pagina 82

[...] Accese la televisione e prese tre pastiglie per dormire, rimandando all'indomani la prima ispezione di Oporto. L'effetto fu quasi immediato e Mayol stramazzò fulminato nella stanza di quello strano albergo, si svegliò molte ore dopo di soprassalto perché in sogno stava scappando, ancora una volta, da un albergo che gli era familiare, soprattutto perché da un'infinità di anni non pagava il conto. Aprendo gli occhi si tranquillizzò solo per alcuni secondi, perché quasi subito vide alla televisione, rimasta accesa, un cantante che era una vecchia gloria già quando lui aveva sessant'anni. Non può essere vero, si disse. Ma era proprio vero. Si trattava di un filmato in bianco e nero inserito in un documentario sull'Europa degli anni '50. Il vecchio artista, sicuramente già morto, cantava con enfasi, anche se a Mayol sembrò che, quando la cinepresa si avvicinava, la sua bocca all'improvviso si chiudesse contratta, masticando maledizioni.

Spense il televisore, guardò fuori dalla finestra. Era una giornata grigia, con minaccia evidente di pioggia. Decise di darsi una sistemata, di radersi, di comportarsi come se fosse in netto ritardo in un giorno con molte cose da fare. Questo non gli impedì di ricordarsi della sua condizione di anziano. Noi vecchi, pensò, siamo gli inutili per eccellenza. Ripetendoselo, fece colazione in una pasticceria vicino all'hotel, dove lesse i quotidiani di Oporto che si dilungavano ampiamente sulla sconfitta della squadra di hockey a Barcellona e fornivano bollettini medici sulle condizioni dei tre giocatori feriti dai tifosi del Benfica. C'era persino una fotografia dell'arrivo all'aeroporto in cui, tra i familiari dei giocatori, lo si poteva intravedere di profilo e vicinissimo all'infermiere malinconico. La qual cosa quasi lo emozionò, gli piaceva apparire sui giornali, perché lo faceva sentire qualcuno, rispondendo a una necessità che in definitiva gli aveva inculcato il padre fin da piccolo: essere qualcuno nella vita.

Decise, per passare il tempo libero che aveva in abbondanza — aveva tutto il tempo del mondo — di analizzare la sua condizione di uomo vecchio e inutile per eccellenza. Decise di rifletterci sopra, ma senza considerarsi vecchio. Cambiò tavolino, e lo fece cercando di imitare la velocità di un giovane. Attraversò in diagonale la pasticceria, frenando con i talloni davanti al tavolino più vicino alla porta, da dove si poteva scorgere un panorama grigio, parziale e poco attraente di Oporto. Si chiese che vantaggi potesse avere (perché qualcuno indubbiamente doveva esserci) il fatto di essere un inutile per eccellenza. Ma, non trovando risposta adeguata, smise di pensare, consentendo così che, di fronte a tanta disponibilità, si facesse strada nella sua memoria ciò che gli era stato detto dal suo amico Terrades in una conversazione al club: "Finché non ti verrà in mente di visitare città dove non sei mai stato, non morirai."

Forse Terrades aveva ragione, pensò, e in ogni caso mi conviene che ce l'abbia, infatti finché starò a Oporto e oltretutto apparirò sui giornali, come quando ero un politico in attività, niente mi potrà impedire di sentirmi vivo.

Poi si disse che quelle parole di Terrades erano un ricordo utilissimo per lui, che era un inutile, e inoltre dimostravano che non tutti i suoi ricordi erano privi di vocazione di futuro. Appuntò su un tovagliolo la frase confortante di Terrades, la appuntò per ricordarla esattamente, per non travisarla mai nei giorni a venire. Tornò a guardare il panorama grigio e parziale di Oporto e cercò di analizzare di nuovo la sua condizione di inutile per eccellenza e i vantaggi che poteva offrirgli.

Cominciò a cadere su Oporto una pioggia timida. quasi invisibile e fantomatica. Una piaggia che arrivò subito in Mayol — ogni volta che piove è qualcosa che avviene nel passato, credo abbia detto un poeta argentino — la memoria dei giorni andati, giorni che ancora una volta sentì come irrecuperabili, completamente persi. Pagò e uscì in strada, comprò cartoline con vedute differenti della ribeirinha di Oporto e fermò un taxi con cui gironzolò a lungo per la zona del porto e la foce del fiume Duero. In rua do Ouro, all'altezza dell'imponente Hotel Boavista, vedendo il mare in burrasca e i gabbiani planare impazziti in un paesaggio marino che sembrava uscito da un mondo fantastico — ma in quel caso, da un mondo fantastico estremamente serio — di fronte all'assoluta bellezza di quell'immenso spettacolo, gli sembrò che non fosse poi così arrischiato pensare di aver scovato la città crepuscolare che stava cercando, la città in cui era possibile che almeno una volta nella vita lo visitasse — come senz'altro aveva visitato suo cognato Pablo, così innamorato di quella città — quel raro stato d'animo chiamato allegria.

Nel taxi, pensoso, già oltre rua do Ouro, nel preciso istante in cui si rese conto di essere giunto all'Atlantico, Mayol si disse che quella era la prima volta che vedeva davvero il mare. Lo estasiava guardare le onde che avanzavano verso la riva con malevoli luccichii e si gonfiavano sempre più, rilucenti come fossero di vetro, tese come cobra; aprivano le fauci e restavano quiete, senza fiato, solo un attimo, per poi slanciarsi in avanti con un ruggito accompagnato da echi erranti nell'aria, da echi che, a mo' di litanie — immaginò Mayol — ripetevano mille volte un'unica parola, la parola disperazione, disperazione: una parola dalla quale forse si stava ormai congedando.

Nel taxi, pensoso, già oltre rua do Ouro, mentre inseguiva con gli occhi il volo energico dei gabbiani dell'Atlantico, Mayol capì improvvisamente che essendo un inutile, un inutile per eccellenza, un perfetto inutile nella vita, un vecchio, gli rimaneva ancora la fantastica possibilità di giocare con quell'inutilità e di trovare una giustificazione al suo fallimento, dal momento che a lui, contrariamente a un giovane, era concesso essere inutile, fallire, poter eludere il doloroso dovere di essere attivo, di dover essere qualcuno nella vita, di dover essere un vincente.

Ritornando in hotel, sentì il bisogno impellente di spedire al figlio Juliàn una delle cartoline appena comprate. Fu una necessità vincolata alla certezza definitiva che, dietro al suo dramma personale più ovvio e visibile — essere stato cacciato di casa dalla moglie — si nascondeva un dramma molto più grande. Quel dramma acquattato nell'ombra del dramma più visibile lo conosciamo benissimo, abbiamo già visto fino a che punto Juliàn era stato in grado di resuscitarlo nella mente di Mayol. Quel dramma acquattato dietro al più ovvio, quella tragedia quasi segreta aveva la sua origine, come per molti della sua generazione, nello scoppio della guerra civile, che aveva troncato tutto, proprio quando lui, a quattordici anni, s'apprestava a fare il suo ingresso nella vita.

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Pagina 103

SINTONIZZARSI CON LA CULTURA



A volte ho l'impressione di sorgere da quello che ho scritto come un serpente sorge dalla sua pelle. Θ molto probabile che io abbia qualcosa dell'ofide, del serpente. E credo si possa dire qualcosa del genere anche di Lisbona. Labirintica, con terrazze che offrono viste estenuanti e con l'eterna verità vuota del suo cielo, triste e seducente come nessun'altra, Lisbona è briosa nel suo serpeggiare, è una città che a volte sembra sorgere come un serpente dalla sua pelle. Affascina il visitatore, affascinò Mayol. Per quanto ho potuto sapere, ben presto prese coscienza della condizione di ofide di Lisbona, la città bianca per alcuni, la città azzurro atlantico per me.

Mayol riuscì a scoprire subito la condizione di ofide di Lisbona, con la stessa facilità con cui altri viaggiatori, appena giunti in città, ne scoprono l'essenza sentendo i gemiti rochi di un fado da una radio lontana. Chi viaggia da solo ha un sesto senso, una specie di predisposizione o capacità di percezione di gran lunga superiore a chi viaggia in compagnia e parla incessantemente come un pappagallo e non si accorge di nulla, incapace di captare dettagli come quello colto al volo da Mayol, poche ore dopo il suo arrivo a Lisbona, nella chiesa del monastero di Os Jerónimos dove riconobbe, intagliate nel coro, su due grandi colonne, le forme sinuosamente magiche di due serpenti, e fin dal primo momento le associò intimamente alla città. Lo fece in maniera pedestre ma profondamente intuitiva, e questo perché fu in grado di stabilire quella relazione che, in fondo, è quanto davvero conta.

Mayol collegò il serpente a Lisbona perché aveva sempre sentito dire che le donne sono come serpenti e anche perché gli era sempre sembrato che le città fossero donne e ognuna avesse il suo modo di sedurre. A Mayol Lisbona era piaciuta fin da quando aveva messo piede nelle strade della Baixa ed era andato sino al Cais do Sondré, lo attirò subito la città, soprattutto perché si sentì invaso dall'insolita sensazione di aver trascorso tutta la vita in quelle strade, di essere sempre vissuto lì.

Un'emozione simile l'ho provata anch'io quattro anni fa quando, appena arrivato a Lisbona, dove avrei passato venti mesi indimenticabili, ho avuto il sentore, camminando lungo rua do Ouro, che fosse una strada da sempre familiare. Sono rimasto a Lisbona quasi due anni, lavorando come portiere all'Hotel Internacional, in praηa do Rossio. Fu il mio primo impiego, avevo vent'anni e i primi mesi, quando ancora non lavoravo all'Internacional, li avevo passati esclusivamente a leggere, a leggere molto e a praticare la saudade, un sentimento che mi ha sempre affascinato nonostante non sappia poi bene in cosa consista, forse mi piace proprio per questo, perché può essere qualsiasi cosa a seconda della volontà di ognuno.

Il fatto è che lavoravo tutto il giorno all'Internacional e leggevo durante le ore libere fino a quando, alcuni mesi dopo il mio arrivo, cominciò a interessarmi anche la possibilità di avere una fidanzata. Ci ho messo mesi, questo sì, prima di decidermi a corteggiare le ragazze. Fu il tempo necessario per togliermi di dosso la paura del mondo e delle donne. L'eccessiva protezione dei miei genitori era la causa di quella paura. Per questo avevo abbandonato Siviglia e le comodità dell'affetto familiare. Non potevo continuare a essere per tutta la vita un figlio protetto. Perciò ho smesso di aiutare mio padre nel negozio di filatelia, accanto alla Torre del Oro. Sentivo la necessità d'essere un impiegato vero e proprio, non uno fittizio alle dipendenze del padre.

Dopo alcuni mesi a Lisbona, ben piazzato con il lavoro che mi aveva trovato un parente non appena mi ero diplomato in Turismo, cominciai a superare i miei problemi con il mondo, conobbi gente di tutti i tipi e abbandonai l'ambiente protettivo e castrante di Siviglia, ebbi persino delle ragazze.

Non voglio dire molto di me, solo che ricordo che già da bambino vedevo gli altri conversare nelle strade e mi chiedevo di cosa parlassero e se veramente avessero qualcosa da dirsi. A volte mi avvicinavo e di colpo smettevano di chiacchierare, come se temessero che mi intromettessi nei loro discorsi. Diventato uno studente di Turismo, ogni tanto andavo nei bar con l'intenzione di aprirmi al mondo, ma riuscivo soltanto a parlare con il cameriere, mi porti una bibita, e poco più tardi, me ne porti un'altra. C'è molta gente con cui comunicare a questo mondo, mi diceva mia madre, quasi soffrendo nel vedermi così timido, così chiuso, intrattenermi solo con i parenti o scambiare spezzoni di frasi con gli abitanti del quartiere o con i ritardati mentali che studiavano Turismo con me. A volte vedevo le persone che viaggiavano sui mezzi pubblici conversare animatamente tra loro. Mi domandavo dove andassero così chiassose e di cosa discorressero. Vivono la loro vita, mi diceva mia madre, lasciali in pace. Così, in fondo, dimostrava di non volere che io mi svincolassi dalla sua ferrea tutela. Ho fatto bene a lasciare Siviglia, a migrare come fanno gli uccelli, come dopotutto hanno fatto i miei genitori quando – avevo dieci anni – abbandonarono Madrid e se ne andarono con il negozio di filatelia da un'altra parte, verso sud.

Ho fatto bene ad andare a vivere a Lisbona e poi, dopo alcuni mesi, credo d'aver fatto bene ad abbandonare Lisbona e ad andare in cerca di nuovi ambienti. Negli ultimi quattro anni sono diventato l'esatto opposto di un timido. Θ chiaro che appartengo a quella specie di persone che non si spaventano di fronte alle difficoltà. In pochissimo tempo ho imparato a istaurare rapporti e a non avere una paura incredibile del mondo.

Sono soddisfatto di esser diventato una persona disinvolta. A molti sembrerà una sciocchezza, ma per me è stato qualcosa di molto importante. Se non mi fossi scosso, sono sicuro che avrei avuto parecchi problemi. Non voglio neanche pensare a ciò che sarebbe stato di me se fossi rimasto accanto a mio padre a vendere francobolli. Meno male che mi è saltato in mente di studiare Turismo, è un corso ridicolo ma è meglio di niente. La mia famiglia non poteva permettersi altro e non mi lamento. Mi è bastato per spiccare il volo, per entrare in pieno nella vita, l'unica cosa che in realtà mi interessava: sfuggire al destino di figlio protetto che sembravano aver programmato. Ma adesso basta parlare del mio passato. A volte sorgo da quello che scrivo come un serpente dalla sua pelle, ma credo mi farà bene ritornare nei miei alloggiamenti invernali, dove per ora sto meglio.

Per quanto ho potuto sapere, nonostante la sua lunga esperienza di vita arrivò anche per Mayol il momento di capire cosa volesse dire avere problemi nell'istaurare un rapporto con gli sconosciuti. Certamente non ne aveva quando viveva a Barcellona, ma sia a Oporto che a Lisbona si era trovato in difficoltà al momento di entrare in contatto con qualcuno. Θ molto probabile che a Barcellona non abbia mai avuto problemi di questo tipo, parlava con amici, familiari o conoscenti. Ma quando si era aperto al mondo, aveva scoperto di non essere socievole come pensava. Abbiamo già visto il suo fallimento a Oporto, per esempio quando aveva voluto indagare sulle tracce che il cognato Pablo aveva lasciato in quella città. E a Lisbona ebbe le stesse difficoltà nello stringere rapporti con gente nuova. Sembro un adolescente, arrivò a pensare, vergognandosi della propria incapacità di entrare in contatto con sconosciuti e anche di quella aggiungerei – d'iniziare una nuova vita lontano da Barcellona.

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Pagina 149

Quando finì il nervoso bombardamento di domande e mi diede l'opportunità di rispondere, gli dissi di parlarmi nella sua lingua, perché anch'io ero spagnolo.

– Diamine! – disse. – Di dov'è? Vediamo, mi lasci indovinare. Della Cantabria?

Avevo sorriso.

– Non ha indovinato. Sono di Madrid, ma anche di Siviglia... E lei signor Mayol? Il suo cognome sembra catalano.

– In effetti. Sono catalano – disse.

E divenne malinconico.

– Non sono mai stato nella sua terra – gli avevo detto – ma, mi creda, ho sempre avuto voglia di conoscerla.

- E cosa ci fa un madrileno o un sivigliano, o quel che è lei, qui a Madeira?

– Ci vivo – avevo risposto.

Non avevo ancora finito di rispondere che Mayol, obbedendo a un'urgenza impossibile da rimandare, mi disse che andava alla toilette ma che sarebbe tornato subito. Quando riapparve, come se ci avesse pensato mentre era in bagno, mi fece a bruciapelo questa domanda:

– Ci sono indipendentisti sull'isola?

Gli spiegai che a Madeira non aveva vissuto nessuno fino a quando non l'avevano scoperta nel XV secolo i portoghesi.

– Che immagine impressionante se ci si pensa un poco approfonditamente! – commentò. – Un'isola deserta per secoli e secoli.

Gli spiegai che l'assenza di abitanti sino all'arrivo dei portoghesi rendeva inconcepibile qualsiasi idea d'indipendenza e aggiunsi che questo non era, per esempio, il caso delle Canarie che, in fin dei conti, erano state abitate daiGuanci prima dell'arivo degli spagnoli.

Gli chiesi scherzando:

– Non sarà venuto a Madeira con l'intenzione d'organizzare un movimento indipendentista?

La prese seriamente.

– Crede che alla mia età sia in grado di fare una cosa del genere? Sono venuto in vacanza. Stanco della famiglia – divenne pensieroso, sembrava di nuovo malinconico. – O meglio, sono venuto perché sono venuto e in realtà non so perché sono qui. Non faccio altro che arrivare in una città e, come se stessi fuggendo da qualcosa, me ne vado immediatamente in un'altra. Sono stato a Oporto, il giorno dopo ero già a Lisbona, oggi a Funchal. Domani non mi sorprenderebbe se me ne andassi a Capo Verde.

– Non le piace l'hotel?

– Sì, ma magari avesse una succursale a Capo Verde e un'altra sullo stretto di Magellano. Ma guardi un po' cosa le dico...

Gli spiegai che andare a Capo Verde, al sud del sud di Madeira, era alquanto kafkiano, perché non c'erano voli diretti, sarebbe dovuto risalire fino a Lisbona e da lì prendere un aereo che, sorvolando Madeira, lo lasciasse a Capo Verde. Doveva, pertanto, andare kafkianamente verso il settentrione per poi scendere oltre il luogo in cui si trovava quando se n'era andato verso nord.

– Allora non posso più continuare a scendere verticalmente come ho fatto finora?

Strana domanda, quella domanda mi era sembrata davvero insolita ma anche originale e persino letteraria. Non so come cominciammo a parlare di navi mercantili e lui finì per raccontarmi che aveva appena visto all'orizzonte un vascello fantasma bianco, e lo collegò con la minuziosa narrazione – osservai che si soffermava molto sui dettagli – della conversazione stravagante, su cui nutriva delle perplessità, sostenuta un'ora prima davanti a lui da due cittadini di Funchal, che si erano dilettati a parlare a voce alta di Etica: questo mi spinse a dirgli – si consolidò in quell'istante il flusso di mutua attrazione e simpatia che si era creato poco a poco tra di noi - che sicuramente aveva visto due imitatori di Bouvard e Pécuchet. Da lì all'invitarlo agli incontri serali del Café Campanario mancava solo un piccolo passo, che feci generosamente.

– Ma se è mio nipote! – aveva detto Mayol, due ore dopo, vedendo Pablo.

A sua volta Pablo, mezzo impaurito e quasi balbettando, aveva detto:

– Ma, zio Federico, cosa ci fai da queste parti? Non sei un fantasma? Perché tu sei lo zio Federico... O no?

– In carne e ossa. Tuo zio. Hai la stessa faccia di quando avevi quindici anni e volevi diventare un calciatore. Ci sei riuscito? No, non mi sembra, l'avrei saputo... ma ascolta, è impressionante, non sei cambiato quasi per nulla, figliolo. Non ci posso credere.

Neanch'io, com'è logico, potevo credere a quanto stava accadendo.

– Ma cosa ci fai da queste parti? – insistette Pablo. – E la zia Julia? Θ qui con te?

– No. Ha preferito rimanere a Barcellona – disse Mayol. – Io sto facendo il giro del mondo in trenta giorni.

Pablo guardò lo zio con rinnovato stupore.

– Il giro del mondo? – gli disse, e si lanciò verso di lui, abbracciandolo emozionato. Per alcuni interminabili minuti parlarono a lungo e ampiamente delle rispettive famiglie. Ogni tanto si riabbracciavano e sembrava che volessero andare avanti così all'infinito. Quando finalmente si calmarono un po' e cominciarono a parlare di Oporto, mi convertii nell'involontario testimone della ricostruzione minuziosa dei loro movimenti e dei loro orari in quella città in cui erano capitati entrambi non molto tempo prima senza incontrarsi nella casualità delle strade.

– Hai bevuto parecchio – disse all'improvviso Mayol al nipote.

– E allora? – rispose questi con aggressività. – Non sei né mia moglie né mio padre, mi sembra, e inoltre sono abbastanza grandicello per bere quanto mi pare. Non sarai mica venuto a Funchal per farmi da padre?

- Ma cos'hai figliolo? Non pensavo fossi un alcolizzato. Hai qualche problema?

Pablo parlò senza mezzi termini e si lasciò trasportare dalla franchezza che a volte l'alcol porta con sé, disse:

– Mal d'amore, zio Federico. Ti sembra poco? Sono rimasto senza moglie e le lavanderie mi importano quanto un fico secco. E quest'uomo che ti accompagna, questo giovinastro direttore d'hotel, questo pezzo di pane s'è preso Rita. Rita era mia moglie. Questo tipo, quant'è vero Iddio, me l'ha rubata, eppure lo stimo. Ti sembra poco? Le cose non potrebbero andarmi peggio di così. Sono diventato un disgraziato e un divorziato, e faccio pena. Guardami, zio Federico, faccio pena.

Invece di guardare lui, Mayol guardò me, e sembrava mi stesse per chiedere perché avessi rubato la moglie al nipote. Per fortuna, in quel preciso istante, arrivò lo zoppo Esteves, il mio distinto principale.

– Bene, – disse a Mayol – cosa ci fa lei da queste parti? L'hanno invitata ai nostri incontri?

– Si direbbe – disse Mayol, rallegrandosi nel vedere Esteves.

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