Copertina
Autore Silvano Vinceti
Titolo Area Marina Protetta di Capo Carbonara
EdizioneArmando, Roma, 2008, Passeggiando nel parco , pag. 128, dvd, ill., cop.fle., dim. 13,5x21,2x0,7 cm , Isbn 978-88-6081-264-3
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe natura , mare , regioni: Sardegna
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Indice

Prefazione di Aldo Cosentino
Direttore Generale Ministero dell'Ambiente
e della Tutela del Territorio e del Mare -
Direzione per la Protezione della Natura          6

Presentazione dell'Area Marina Protetta di
Capo Carbonara di Simone Altzeni
Direttore AMP Capo Carbonara                      7


AREA MARINA PROTETTA DI CAPO CARBONARA
di SILVANO VINCETI                               11

Descrizione Fisica                               20

La Flora                                         24

La Fauna                                         28

La Storia                                        36

L'Arte e l'Archeologia                           54

Tradizioni e Costumi                             73

L'Artigianato                                    79

La Cucina e le Cantine                           90

ITINERARI                                       111

Itinerario 1 Le Gorgonie                        112

Itinerario 2 La Secca di Berni                  116

Itinerario 3 Il Buttiglione                     122

Indirizzi utili                                 125

Bibliografia                                    127


 

 

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Pagina 11

Ci sono tanti modi di viaggiare; in ognuno di essi sospira, respira e verseggia la nostra interiorità. Così, come dalle domande che una persona ci rivolge, possiamo percepire, cogliere molti aspetti della sua personalità e della sua cultura, similmente, gli interessi che muovono ad un viaggio sono indicatori di un certo mondo di valori che incarniamo. Erano questi i pensieri che veleggiavano nella mia mente mentre mi stavo dirigendo all'Area Marina Protetta di Capo Carbonara, collocata nell'estremo sud della Sardegna, in provincia di Cagliari e nel comune di Villasimius. Con la mia équipe televisiva, appena terminate le riprese di uno speciale televisivo sul parco dell'Asinara, lasciavamo il nord della Sardegna e ci stavamo dirigendo al suo estremo lembo. Eravamo allegramente fecondati dalle bellezze naturali, paesaggistiche, storiche e culturali che avevamo vissuto su questa isola e, con visi sorridenti, occhi profumati dall'essenza della bellezza, dell'armonia, speravamo che il nostro spirito fosse di nuovo alimentato da tale nettare divino. Nei giorni precedenti il viaggio, la Sardegna che volevo scoprire, che speravo di sentire, vivere, toccare, si materializzava in letture inerenti la sua storia, gli anfratti riservati e pudici ove albergano i tratti specifici della cultura e della personalità dei Sardi. Si cerca quel che si trova, e si decide di cercare quel che risponde a certe intime esigenze. Le mie curiosità non si dirigevano a quella isola conosciuta, amata e frequentata da molti italiani per le sue acque rigogliosamente belle, pulite. Desideravo conoscere le altre mille sfaccettature della Sardegna, sbirciare fra le pieghe della sua storia, delle sue espressioni culturali, entrare nei sottili e nascosti pertugi delle sue tradizioni popolari, di quel folklore ove vibra l'anima semplice, sanguigna, ingenua e appassionata di questo popolo. Ecco come avevo preparato questo viaggio, un balletto di motivazioni che danzavano componendo e prefigurando quel viaggio a venire, quel mio modo specifico, personale di attraversare, sperimentare, una fetta di quel territorio, un raggio di quella storia, una vibrazione della natura di quel popolo. In quei giorni che precedevano la partenza avevo iniziato un cammino tra libri, fotografie, fantasie, ghiribizzi mentali e aspettative oscillanti fra la luce e l'ombra, il razionale e l'irrazionale.

Pur essendo una giornata d'ottobre la luce era accecante, l'aria calda e sensuale, il paesaggio primitivo e selvaggio riverberava forme, figure, ritmi e cadenze estive.

La macchina aveva macinato pochi chilometri quando fui attratto da una elegante, austera, torre nuragica poggiata in un esteso, lineare prato punzecchiato da piccoli sinuosi rigonfiamenti del terreno. Quel sussurro visivo di una civiltà che aveva colonizzato tutta l'isola circa mille anni prima di Cristo illuminò una narte della mia memoria, attivando una improvvisa scorribanda di immagini e parole immagazzinate nei giorni precedenti. I fisici frammenti e testimonianze del passato, che svettavano imponenti e arditi in quel verde prato, si fondevano e confondevano con simboli e iconografie della storia scritta. La Sardegna calpestata, offesa e, nello stesso tempo, arricchita dalla civiltà fenicia, etrusca, romana. Occupata, violentata dai Saraceni, abbellita e sfruttata dalle repubbliche marinare di Pisa e Genova. L'isola delle ribellioni orgogliose, coraggiose, determinate, delle colonie sardo-puniche; nel 181 avanti Cristo l'ardore impavido dei sardi della Gallura, della Barbagia, si era alzato contro la presenza dei romani.

Nell'attraversamento della Gallura fui colpito nel ritrovare in parecchi paesi l'araldica, lo stendardo che campeggia nella iconografia bandieristica sarda: i quattro mori bendati. Ancora una volta la via dei sensi si rivelava la più fervida e sanguigna per evocare, mediante spontanea associazione, il richiamo di innumerevoli parole e frasi che avevo immagazzinato nei giorni precedenti la partenza. La storia riprendeva il suo ruolo di protagonista, giganteggiava al centro della mia scena mentale. Un'altra Sardegna, quella più autentica, testarda e gelosa della propria autonomia, amante della libertà, integerrima nel rispetto degli impegni e della parola data, cantava il suo passato, premeva nella memoria per non essere ripudiata, dimenticata, deformata. Il desiderio di ridiventare protagonista della propria vita, del proprio futuro si sostanziò nella nascita e consolidamento dei quattro giudicati, quattro come i mori raffigurati nello stendardo sardo. Quattro forme di repubbliche ripartite nelle diverse aree dell'isola, quattro tentativi di farsi protagonisti delle scelte sociali, civili e politiche. Quattro sogni fattisi realtà, momenti magici e irripetibili di un popolo dominato per secoli da civiltà straniere. Ripentendo ossessivamente quel quattro, mi sembrava di iniettare nel mio corpo una litania, un rito magico, una cantilena popolare che investiva di sensazioni, ritmi e flussi emotivi quel fugace momento della mia esistenza.

Arborea, giudicato della Gallura, fu l'ultimo a cadere, l'ultimo a difendere quel sogno di auto-governo, l'ultimo a resistere ai nuovi padroni che venivano da Pisa e Genova. Due potenti repubbliche marinare che assoggettavano, sottomettevano altre forme di governo politico ad esse molto simili. Dopo alcune ore di un viaggio su strade sofferte e nervose giungemmo, per un errore del guidatore, ad un piccolo, insignificante, sperduto paese nelle colline ad est della provincia di Cagliari. Un claudicante e slabbrato cartello stradale ci informava che eravamo giunti a Goni. Ci fermammo in un bar per chiedere informazioni sulla via più rapida e comoda per giungere a Villasimius, cogliemmo l'occasione per sorseggiare un caffè caldo. Il barista, un uomo con occhi neri e lucenti, attento alle nostre chiacchiere, avendoci riconosciuto come un'équipe televisiva, ci informò che a pochi chilometri fuori dal paese c'era un centro archeologico di notevole interesse, poco conosciuto e normalmente frequentato da turisti stranieri. L'uomo, dai lineamenti saraceni, con l'intenso sguardo tipico dei Sardi, si rivelò essere il sindaco della città e, con una punta di imbarazzo, misto ad un rustico pudore, ci sollecitò la visita al sito, sperando che ne potesse derivare un servizio televisivo in funzione di valorizzazione del luogo.

Con la tipica silenziosa complicità di un gruppo affiatato assentimmo all'invito e, sindaco-barista in testa, ci avviammo al luogo dove il passato ha resistito alle ingiurie del tempo.

Giunti sul posto, ci stava aspettando una piccola, minuta signora che, con tono emozionato e fare infantile, si presentò come la guida del sito archeologico.

Una strettissima entrata lasciò il posto ad un ampio piano dove giaceva, pigro e indolente, un inestimabile tesoro e una preziosa testimonianza di un lontano passato sardo. Non sapevo che i popoli megalitici erano giunti in Sardegna. Rimasi felicemente smarrito, goliardicamente entusiasta della mia ignoranza, o, meglio, di un incomprensibile buco nero sulla storia della sublime isola. Con un certo mestiere nascosi il mio imbarazzo che germogliava e cresceva rapidamente allo scorrere delle parole della guida e di quello che stavo osservando.

Dieci o dodici Menir, poggiati delicatamente sul terreno della rimembranza, facevano bella mostra di sé. Dieci o dodici testimonianze dei popoli megalitici vissuti circa 4000 anni fa mi salutavano cordialmente, erano la testimonianza fisica del mio vuoto culturale.

Quel falso piano era una schioppettate concentrazione di secoli di storia vissuta. Un prezioso distillato di migliaia e migliaia di preghiere, primitivi riti religiosi, appassionati dialoghi spirituali con i cari estinti. Una piccola fetta di terra, blocchi di pietre, rudimentalmente sagomate ove si coglieva a fatica un primo grossolano tentativo di raffigurare sembianze umane. Il primo abbozzo fisico di una fluttuante credenza nella immortalità dell'anima. I Menir, che accarezzavo e toccavo, furono per anonimi volti, dal cuore dolente e nostalgico, oggetti di venerazione, di virtuale presenza dei familiari scomparsi, sommessa e trepidante possibilità di proseguire un dialogo e una presenza, alla cui scomparsa, annichilimento e silenzio eterno, non ci si rassegnava. Vicino a queste anime ospitate nella viva pietra naturale, la infaticabile guida, con l'ardore di una missionaria del passato, ci indicava le vestigia di un altro monumento religioso. Si trattava di un tempio circolare, una strana, perturbante, composizione architettonica, testimonianza della metamorfosi della civiltà megalitica in civiltà mediterranea. Una felice contaminazione di popoli venuti dal freddo Nord, con quelli caldi, fantasiosi, creativi del Mediterraneo.

Questo tempio circolare, ottimamente conservato, era composto da un primo cerchio esterno di grezze pietre a mo' di colonne e da cerchi concentrici di massi stilizzati di dimensioni più piccole; al centro, una tomba con un grande masso riportante un vano centrale, che troneggiava e svettava possente verso il cielo, sovrastava un piccolo loculo che, in passato, aveva ospitato resti umani. Le parole della ciarliera guida si mescolavano a grappoli di idee, rivoli di emozioni che la vista del tempio faceva scaturire in me.

Il cerchio con grande carica energetica, il cerchio con valenza religiosa, il cerchio con caratteri simbolici e magici, aveva trovato una prima traduzione filosofica e teologica in Pitagora e nella sua scuola. Il cerchio come spazio sacrale, luogo che viene delimitato da tale figura geometrica, ambito di trascendenza e centro di energie benigne o di riflesso di una potenza sovraumana, si ritrova in molti popoli primitivi, in comunità africane. Mentre osservavo e ascoltavo distrattamente la solerte accompagnatrice, mi avvolgeva, con un manto di culturale calore e di intima affinità, con quel che stavo vivendo, la concezione sul cerchio magistralmente espressa dal grande psicologo e filosofo Karl Jung. Jung evidenzia che il cerchio magico è un primitivo archetipo, cioè un modello innato di carattere universale che ci portiamo nel grembo genetico e che si dispiega nelle manifestazioni storiche dell'uomo, assumendo forme e modalità diverse ma mantenendo il carattere essenziale di sacralità, di trascendenza rispetto al profano, di spazio sovra-umano. Cullato, avvinto, sprofondato in tali idee, l'Area Marina Protetta di Capo Carbonara, nostra meta, luogo dove dovevamo girare uno speciale televisivo, mi appariva sbiadita, remota, momentaneamente sospesa nella interiore altalena di emozioni, evocazioni, riflessioni e constatazioni.

Terminata, da parte dell'esperta del piccolo paese di Gori, la lunga e appassionata esposizione storico-archeologica del tempio a cerchio, ero in procinto di congedarmi da lei, quando, guardandomi con occhi fermi e anticipatori di un'altra primizia del passato, mi disse che il sito nascondeva un altro gioiello dell'antichità collocata in un piccolo appezzamento di terreno. Uscimmo dal luogo ove eravamo, attraversammo la strada, entrammo in un piccolo lembo di terreno circondato da folti alberi, ed ecco apparire un'altra tomba chiamata domus de janas.

Una delicata, raffinata, composizione funeraria, stilizzata nella cruda pietra, uscita dalla mano della storia, rotolata in quel piccolo appezzamento circa 500 o 600 anni dopo i Menir e il tempio a cerchio.

Pietra arenaria, punteggiata da muschi dai colori verdi, seppia, marroni rossastri. Costruzione che sfoggia il desiderio di ricongiungersi con la madre terra in un abbraccio eterno. Musa ispiratrice di gente semplice e analfabeta che esorcizzò il terrore della morte, vestendola di un abito simbolico che, provvisto di ali fantastiche e toccato dalla leggenda popolare, chiamò tale tomba "la casa delle fate". Il viaggio in queste dense tracce del passato si era concluso. Dovevamo ripartire per la nostra destinazione, per iniziare un altro viaggio. Salutai con sincero affetto quella minuta, magra signora, dal cuore e dallo spirito esuberante e aitante, e riprendemmo il viaggio soddisfatti di questa fascinosa variante. Le diverse Sardegne che portavo nel cuore e nella mente stavano vestendo di un delicato vestito, intrecciato di storia e mito, religione e magia, le mute acque che mi stavano aspettando. Avevano dato pathos, profondità e anima alle splendide spiagge dell'area protetta che mi attendevano. Ero sicuro che invisibili e silenziose vele, sospinte dalla ricchezza del passato, avrebbero dato colore, sapore, e reso spiritualmente spumeggianti le onde di quel mare. Sentivo che la bellezza naturale che mi aspettava avrebbe amoreggiato con altre bellezze che avevo scoperto nel viaggio, e che l'insieme poteva intonare un canto all'uomo e alla natura, al presente e al passato, dove perdermi in esso sarebbe stato un momentaneo sorso esistenziale di tono paradisiaco.

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