Copertina
Autore Antoine Vitkine
Titolo Mein Kampf. Storia di un libro
EdizioneCairo, Milano, 2010, Saggi , pag. 282, cop.fle., dim. 15x21x2,2 cm , Isbn 978-88-6052-286-3
OriginaleMein Kampf. Histoire d'un livre
EdizioneFlammarion, Paris, 2009
TraduttoreGiovanni Zucca
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe storia contemporanea , storia criminale , storia: Europa , paesi: Germania , paesi: Italia: 1920 , libri , shoah
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Indice


INTRODUZIONE. Il best seller dimenticato                          9

PRIMA PARTE. Prima della guerra. La «bibbia nazista»

 1. La costruzione di un libro                                   17
 2. Nella testa di Adolf Hitler                                  31
 3. Come il Mein Kampf fece il Führer                            45
 4. Il libro del Terzo Reich                                     63
 5. Il Mein Kampf attraversa il mondo                            83
 6. Quando il duce pubblica il Führer                            93
 7. Mon combat, un libro francese                               107
 8. L'orchestrazione francese di una mistificazione tedesca     125
 9. La guerra in marcia                                         143

SECONDA PARTE. Il dopoguerra. Una storia senza fine

10. La prova del crimine: i tedeschi di fronte al Mein Kampf    157
11. Il Mein Kampf, un prodotto da esportazione                  173
12. Un fantasma tedesco                                         183
13. Il Mein Kampf, un libro che ha un futuro                    205
14. Un best seller turco                                        231

CONCLUSIONE. Le sette lezioni del Mein Kampf                    251

Note                                                            257

Ringraziamenti                                                  281


 

 

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Pagina 11

                                                Non finisce. Non finirà mai.

                                          GONTER GRASS, Il passo del gambero



«Cognome: Hitler. Nome: Adolf. Professione: scrittore.» È questa la professione dichiarata dal capo del Partito nazista, a partire dal 1925, sui moduli per la dichiarazione dei redditi spediti al fisco tedesco. Moduli che l'amministrazione ha avuto cura di conservare nel tempo. Adolf Hitler, scrittore: una definizione che appare quanto meno incongrua. Leader di una formazione politica ultranazionalista e razzista, fautore della violenza e dei colpi di mano, tribuno populista, il futuro dittatore non ha nulla del letterato.

Eppure, dopo essere stato condannato per un tentativo di colpo di Stato nel 1923, approfittò di alcuni mesi trascorsi in carcere, nella fortezza di Landsberg, per scrivere un lungo testo che sarebbe stato di lì a poco pubblicato con il titolo Mein Kampf (La mia battaglia). Dichiarandosi uno «scrittore», lega il proprio destino all'opera che ha realizzato.

Arringa di estrema violenza, dai toni apocalittici, redatta in una cella spartana da un agitatore politico megalomane alla guida di un pugno di desperados, il Mein Kampf diventerà uno dei testi politici più venduti di tutti i tempi. Ancor prima che il suo autore salga al potere, nel 1933, viene acquistato da centinaia di migliaia di lettori. Sotto il Terzo Reich il Mein Kampf pone sulla Germania nazista il proprio sigillo. Il numero di copie in circolazione raggiunge la colossale cifra di dodici milioni. Definito la «bibbia nazista», donato a tutte le coppie che si uniscono in matrimonio, edito in versioni condensate e adattato a fumetti, pubblicizzato con metodi innovativi, viene stampato persino in versione braille.

Il Mein Kampf, però, non è un libro solo tedesco, pubblicato e venduto soltanto in Germania. Tutt'altro. Durante gli anni Trenta viene tradotto in una ventina di lingue e diventa un best seller mondiale. Ovunque, i lettori ne sono, a seconda dei casi, affascinati, sedotti o disgustati. In Francia il libro è oggetto di uno scontro editoriale la cui posta in gioco è nientemeno che il destino della nazione di fronte alla Germania hitleriana.

La disfatta del Terzo Reich e la morte del suo autore non hanno cambiato nulla: il Mein Kampf non ha mai smesso di essere un best seller. Dal 1945 in poi, il testo di riferimento del nazismo ha venduto milioni di copie negli altri paesi. Secondo la rivista americana Cabinet, solo la versione in inglese vende ogni anno circa ventimila copie. In Francia un editore d'altri tempi continua a ripubblicarlo, in modo del tutto legale, e il libro compare nella classifica dei titoli di maggior successo anche in altri paesi: in Turchia ne sono state vendute ottantamila copie in un solo anno, in India suscita grande entusiasmo. L'interesse che lo circonda è costante anche in altre nazioni, come la Russia, l'Indonesia, l'Egitto e il Libano. Ciò può apparire inaccettabile, ma è solo la realtà dei fatti: ottant'anni dopo essere stato scritto e a oltre sessant'anni dalla scoperta dei campi di sterminio nazisti il Mein Kampf trova ancora un'eco.

Il libro è scomparso dalle librerie, ma è ancora qui, in quarantena. Frettolosamente relegato in un angolo della memoria, riposto sullo scaffale dei libri maledetti che crediamo di conoscere ma che ci rifiutiamo di aprire, affascinante e al tempo stesso disgustoso. Come un brutto ricordo, di cui non riusciamo a liberarci.

È quanto meno stupefacente scoprire come la vicenda del Mein Kampf sia in gran parte sconosciuta. La storia di questo libro che attraversa i decenni, frutto della mente del responsabile di crimini senza precedenti, è costellata di zone d'ombra. Naturalmente il contenuto del volume è stato più volte esposto, esaminato e spiegato. Ma ciò che non è mai stato oggetto di studio è come è stato realizzato, i commenti che ne hanno accompagnato la pubblicazione, l'impatto che ha avuto sulla nascita e lo sviluppo del Terzo Reich, l'accoglienza da parte del pubblico, la diffusione a livello internazionale, fino al suo itinerario postbellico, per non parlare della domanda più semplice che ci dovremmo porre, e cioè sapere se i milioni di tedeschi che comprarono il libro lo hanno poi anche letto. La maggior parte degli storici ha trascurato questi aspetti, e l'opinione pubblica non se n'è neppure accorta. Si è dovuti arrivare al 2006 perché in Germania venisse pubblicata una ricostruzione minuziosa della storia del Mein Kampf, che si ferma peraltro al 1945. Senza volersi inserire nei dibattiti storiografici che accompagnano il vasto campo della storia del nazismo, la nostra indagine intende solo colmare una lacuna, attraverso il racconto dello strano destino di questo libro.

La finalità, sia detto fin dall'inizio, non è soltanto storica: è anche morale, e forse politica. La storia del Mein Kampf offre lezioni tutt'altro che prive di valore per l'epoca attuale. Indagare su questo libro significa di fatto tentare di rispondere a due domande di enorme portata.

Nel Mein Kampf Hitler aveva già preannunciato la maggior parte dei suoi crimini futuri. Il terrore programmato, il progetto razzista e totalitario, la dichiarata volontà di dominare il mondo: questo non è mai stato un libro oscuro o ermetico. Presentato al pubblico, venduto in libreria fin dal 1925, il Mein Kampf non avrebbe potuto – anzi, dovuto – avvertire il mondo della minaccia che Hitler rappresentava per l'umanità intera? Questo dubbio tormentava per esempio il filosofo tedesco Viktor Klemperer, testimone impotente dell'oppressione nazista: «Com'è possibile che l'opinione pubblica sia venuta a conoscenza di questo libro, e nonostante ciò siamo arrivati ugualmente al regime di Hitler, quando la bibbia del nazionalsocialismo era in circolazione già anni prima che lui prendesse il potere? Questo rimarrà sempre per me il più grande mistero del Terzo Reich».

Non meno inquietante è la seconda domanda: le idee contenute nel Mein Kampf sono vive ancora oggi? C'è in questo libro un fuoco che cova sotto le braci? Il Mein Kampf contiene davvero un veleno come pensavano le forze alleate, che alla fine della Seconda guerra mondiale decisero di bandirlo per sempre?

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La costruzione di un libro



La genesi del «Mein Kampf»

Monaco, capitale della Baviera. Anche se devastato dai bombardamenti della guerra, il centro storico della città è sopravvissuto. Sulla curva di una via pedonale, esiste ancora la birreria Hofbräuhaus, un'autentica istituzione. Fondata agli inizi del Novecento, distrutta durante il secondo conflitto mondiale, fu ricostruita assolutamente identica. Lo stesso nome, la stessa facciata, in tutto e per tutto simile a com'era negli anni Venti, quando vi si tenevano le riunioni politiche dei tanti gruppi e associazioni che pullulavano in una Repubblica di Weimar in ebollizione. All'interno, l'arredo è tipicamente bavarese. Da una parte e dall'altra lunghi tavoli, avventori nei tradizionali costumi bavaresi, con i loro inimitabili cappelli con le piume, mescolati con i turisti. I camerieri si fanno strada fra le conversazioni, le risate e le grida, tenendo in precario equilibrio grandi boccali di birra. Si fatica a credere che proprio in questa birreria Hitler sia diventato Hítler e che, sempre in questa birreria, abbia avuto origine il Mein Kampf.

Nell'autunno del 1919 un giovane caporale smobilitato, senza soldi, senza famiglia e senza lavoro, si trascina per le vie di Monaco, fra taverne e birrerie. In fondo, Adolf Hitler rimpiange la guerra e le trincee. A questo pittore austriaco fallito, questo emarginato che, cercando invano di dare un senso alla propria vita, si era ridotto a un barbone, la Prima guerra mondiale aveva offerto un'esperienza esaltante. «L'epoca più indimenticabile e più sublime della mia esistenza terrena» così la descrive nel Mein Kampf. Grazie alla guerra, Hitler l'austriaco è diventato l'ardente difensore della nazione tedesca, dopo aver assaporato quell'elisir potente e velenoso che è il nazionalismo. Dopo la guerra, deciso a proseguire su quella strada, l'ex caporale offre i suoi servigi agli ufficiali dei servizi d'informazione della Reichswehr, l'esercito tedesco. «Quando l'ho incontrato per la prima volta, mi ha dato l'impressione di un cane randagio alla ricerca di un padrone» racconterà in seguito il capitano Karl Mayr, che gli ordina di spiare l'ambiente degli ultranazionalisti. L'esercito vuole sapere che cosa vi si sta tramando, per poter utilizzare queste nuove fazioni in caso di necessità.

È così ché nel 1919 Hitler entra in contatto con la DAP (Deutsche Arbeiterpartei), il Partito dei lavoratori tedeschi. Si tratta di un gruppuscolo di estrema destra, di recente costituzione, la cui fama non supera i confini della città. Uno dei tanti partiti che predicano un razzismo e un nazionalismo esacerbati. Hitler vi aderisce perché gli è stato ordinato, per servire gli interessi politici dell'esercito. La sua è la tessera numero 555.

Tuttavia, molto presto, l'agente infiltrato si rende conto che le idee e i discorsi della DAP danno forma a ciò che lui stesso pensa, e che fino a quel momento non ha saputo esprimere. Un giorno, durante una riunione, si alza e prende a sua volta la parola. Scopre di avere un talento e una vocazione da oratore.


24 febbraio 1920. Quella sera la DAP tiene una riunione alla birreria Hofbräuhaus. Richiamate da un'intensa campagna di affissione, si sono radunate duemila persone. Si trovano davanti uno sconosciuto: Adolf Hitler, trent'anni. Il giovane Hitler si muove ancora all'ombra dei due fondatori, l'ex fabbro Anton Drexler e il suo amico Karl Harrer, ma, quando prende la parola, si fa subito notare per il suo potente talento da oratore, che cattura all'istante il pubblico. L'uditorio è scosso anche dalla violenza delle sue parole, specialmente contro gli ebrei. «Se vogliamo comandare in casa nostra, dobbiamo buttare fuori gli ebrei» dichiara. «Le nostre parole devono avere un'unica utilità, un solo scopo: la lotta» aggiunge subito dopo. Quella sera, stando ai testimoni, Hitler elettrizza il pubblico. «Noi continueremo imperterriti per la nostra strada, fino alla vittoria» proclama con una forza di convinzione che scuote anche i militanti più duri.

Dobbiamo immaginare Adolf Hitler, in camicia scura, appollaiato su un palco improvvisato. Arringa un pubblico eterogeneo, formato da ex militari smobilizzati e semplici cittadini che subiscono le violente ripercussioni degli avvenimenti degli anni precedenti: la sconfitta del 1918, l'umiliante trattato di Versailles che impone risarcimenti e perdite di territori, il cambiamento di regime che vede una monarchia autoritaria trasformarsi in una democrazia parlamentare, la crisi economica, l'inflazione, i comunisti che si agitano, i partiti che vanno in pezzi, gli artisti decadenti con le loro provocazioni. Lo spirito del tempo nutre la loro indignazione e il loro odio. E poi questi ebrei, in passato discriminati e sottomessi a rigorosi numerus clausus, che impedivano loro l'accesso a molte professioni e che ormai, secondo gli agitatori antisemiti, sono dappertutto, anche nel governo. Per tutte queste ragioni, i sostenitori della reazione, dell'autoritarismo e del ripiegamento xenofobo possono contare su un pubblico sempre crescente.

Quel 24 febbraio 1920 Hitler è anche incaricato di leggere la carta del partito. In venticinque punti, essa rivendica una Grande Germania, l'accesso alla cittadinanza riservato solo ai tedeschi, con conseguente esclusione degli ebrei, l'abrogazione del trattato di pace, ma anche alcune misure anticapitaliste. Un programma al tempo stesso nazionalista e socialista, insomma. Ed è proprio per questo che alla fine della riunione viene annunciato che la DAP cambierà nome: d'ora in poi si chiamerà NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei), Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori.

Il successo di Hitler, quella sera all'Hofbräuhaus, non sarà privo di conseguenze. Nel luglio del 1921 diventa il capo della NSDAP, il «Führer», soppiantando altri più esperti e gallonati di lui. Un'ascesa indiscutibilmente rapida, se si pensa che l'uomo è entrato nella DAP/NSDAP in qualità di delatore al servizio dell'esercito. Ma la sua vocazione di oratore gli permette di raccogliere presto i frutti del suo impegno. «La grande massa del popolo non è composta né da professori né da diplomatici. È poco accessibile alle idee astratte, Per contro, la si potrà più facilmente manipolare nel campo dei sentimenti, poiché è lì che si trovano i meccanismi segreti delle sue reazioni» teorizza nel Mein Kampf


Arriva il 1923, un anno difficile per la Germania. Il trattato di Versailles aveva condannato il paese a versare duecentosessantanove miliardi di marchi ai vincitori della Grande guerra, cosa che la disastrata situazione economica non consente di fare. Ecco allora che in gennaio, per accelerare il pagamento, le truppe francesi e belghe occupano il bacino della Ruhr, cuore industriale del paese. Un'umiliazione insopportabile. Un po' in tutta la Germania scoppiano proteste e scioperi. I licenziamenti si moltiplicano, i prezzi si impennano, il marco crolla. L'instabilità politica raggiunge il culmine. Il 26 settembre, a Berlino, il presidente della Repubblica Friedrich Ebert decreta lo stato di emergenza.

Hitler e i suoi hanno l'impressione che la Repubblica di Weimar sia in ginocchio. Forse è arrivata l'ora dell'azione. L'anno prima, dall'altra parte delle Alpi, un certo Benito Mussolini non è forse riuscito ad abbattere la democrazia italiana con una spettacolare marcia su Roma? Perché non potrebbe essere possibile anche in Germania?

Oratore rabbioso nelle birrerie per conto della NSDAP, grazie alla sua capacità di parlare alle masse, Hitler è anche in grado di sfoggiare buone maniere quando vuole farsi accettare nei salotti della borghesia reazionaria di Monaco. Proprio questo è uno dei suoi punti di forza, e una delle ragioni della sua folgorante ascesa. È così che il giovane capo del nuovo partito dei lavoratori convince l'importante generale Erich Ludendorff, ex capo di stato maggiore del Kaiser, a unirsi a lui per tentare un colpo di mano.

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Il 20 dicembre 1924 Leybold comunica a Hitler che è libero. Gli comunica anche che il generale Ludendorff, al suo fianco in occasione del putsch, si è offerto di inviargli una vettura. Hitler risponde che preferisce essere riaccompagnato a Monaco da un amico, il tipografo Adolf Müller, con il quale vuole subito parlare della pubblicazione del suo libro.

Nel primo pomeriggio, con un tempo grigio, freddo e umido, Hitler lascia la sua cella di Landsberg. Nelle valigie dell'ex detenuto si trova il suo dattiloscritto, composto di fogli battuti a macchina, corretti a mano, cancellati, con frasi spesso senza punteggiatura, ma destinati a diventare ben più di una «messa a punto».


La prima pubblicazione

Poco più di un anno dopo il suo arresto Hitler è libero, e gli amici si riuniscono nella sua casa di Monaco per festeggiarlo. Ormai non gli resta che trovare un editore. Essendo fallite tutte le trattative con le case editrici più prestigiose, in genere per ragioni finanziarie, Hitler ripiega sulla piccola casa editrice della NSDAP, la Franz Eher-Verlag. Fondata da Franz Eher all'inizio del secolo, rilevata dai nazisti nel 1920, pubblica molte brochure dalle modeste tirature, oltre al giornale del partito, il Völkischer Beobachter.

La Eher-Verlag è diretta da Max Amann, all'epoca trentacinquenne. Amann è ben lungi dall'essere un uomo di lettere: di intelligenza limitata, pessimo oratore, cattivo scrittore, occupa tuttavia un posto chiave all'interno del sistema della NSDAP. Negli anni Venti, in un'epoca in cui la televisione non esiste e la radio è uno strumento inaccessibile per i nazisti, libri e giornali sono mezzi di propaganda fondamentali. Questo tirapiedi deve il suo potere alla cieca fedeltà a Hitler. Dopo essere stato il suo sergente durante la Grande guerra, l'ha accompagnato nell'ascesa politica: il Führer gli ha affidato la direzione della Eher-Verlag subito dopo aver assunto la guida del partito.

Visitatore assiduo a Landsberg, l'editore ha incoraggiato Hitler a scrivere la propria autobiografia, assicurandogli che si sarebbe venduta bene e che avrebbe potuto trarre profitto dalla recente notorietà. Ragionando da editore desideroso di mettere a segno un gran colpo, Amann spera in qualche rivelazione sui retroscena del putsch. Come lui stesso ha confessato nelle sue memorie pubblicate dopo la guerra, rimane un po' deluso per il fatto di non trovare altro che ripetizioni di cose che aveva già udito mille volte dalla bocca del Führer. E il manoscritto, fra l'altro, lascia molto a desiderare.

Nel giugno del 1924 e nei mesi seguenti, diversi giornali di estrema destra hanno annunciato l'imminente pubblicazione del libro di Adolf Hitler. Ma è stato necessario rinviarla: colmo di goffaggini stilistiche, ripetizioni, imprecisioni, il manoscritto non soddisfa gli amici del Führer. Essi non possono fare a meno di constatare che Hitler scrive così come parla, e che il suo talento è più oratorio che letterario. Alcuni dei suoi più stretti collaboratori si danno il cambio per tentare di migliorarlo da un punto di vista formale, ritoccando lo stile e chiarendo alcune idee. Ci lavorano Rudolf Hess, forte della sua istruzione superiore, Ernst Hanfstaengl, tedesco-americano laureato a Harvard, l'editore Amann e Müller, il tipografo del partito. A questo lavoro impegnativo e faticoso danno un contributo essenziale anche altri due personaggi piuttosto insoliti: il critico musicale del Völkischer Beobachter, Josef Stolzing-Cerny, e un prete, Bernhard Stempfle, ex direttore di un giornale di provincia.

Per diverse settimane, la squadra lavora con ardore. Rispetto al testo iniziale, le modifiche sono numerose, ma non cambiano nulla del contenuto e delle idee sostenute dall'autore. Del resto, le edizioni successive comporteranno ogni volta nuove revisioni.

Nel catalogo della Eher-Verlag, che annuncia la prossima pubblicazione del libro di Hitler, non si parla ancora di Mein Kampf, ma di Quattro anni e mezzo di lotta contro le menzogne, la stupidità e la codardia. Questo in effetti è il titolo che Hitler ha scelto per la sua opera. Amann gli spiega che tale scelta non è d'impatto, ed è poco adatta a vendere il libro. È molto verosimile che proprio Amann abbia avuto l'idea di un titolo ben più conciso: Mein Kampf. Non si può fare a meno di pensare che senza di lui il libro avrebbe forse conosciuto un destino assai diverso.

Il 18 luglio 1925, sette mesi dopo che Hitler ha lasciato la fortezza di Landsberg, il libro fa la sua comparsa sugli scaffali delle librerie. È in vendita al prezzo di dodici marchi, una somma allora considerevole. Il libro, stampato dalla tipografia M. Müller & Figli, è tirato in diecimila esemplari, stoccati in casse intere nei locali della Eher-Verlag, al numero 15 della Thierschstrasse, in un quartiere borghese di Monaco. Di grande formato, conta quattrocento pagine e ha una sovraccoperta sulla quale figura un ritratto in bianco e nero di Hitler, vestito di scuro, gli occhi dardeggianti sul lettore. Su una larga fascia rossa è stampato il titolo. Se si toglie la sovraccoperta, appare una copertina di cartoncino rosso scuro sulla quale si staglia una croce uncinata. La carta è leggera, l'inchiostro di buona qualità. Le parole sono all'inizio stampate in caratteri gotici, ma passano ben presto alle lettere romane, per offrire una maggior leggibilità. Con una concessione alle regole internazionali, il risguardo di copertina indica, in inglese, Copyright by Franz Eher-Verlag, Printed in Germany.

Nel frattempo Hitler, che ha preso gusto alla scrittura, si è impegnato nella redazione del seguito del Mein Kampf, nel grazioso chalet sulle alpi bavaresi che si è concesso, la Haus Wachenfeld, che diventerà il Berghof. Questo secondo volume sarà pubblicato nel dicembre del 1926. Mentre il primo volume mescola autobiografia e idee politiche, il secondo pone essenzialmente l'accento sul progetto politico. Hitler disserta sulla natura dello Stato nazionalsocialista di cui auspica la nascita, sull'ideologia del movimento, la sua organizzazione, la propaganda, la politica estera. Qualche anno più tardi, nel 1930, i due tomi verranno riuniti in un solo volume. La sua carta sottile, il formato tascabile, la copertina scura lo faranno allora somigliare a una bibbia.

«La bibbia nazista»: è esattamente così, fin dalla sua pubblicazione, che si comincia a definire il Mein Kampf.

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Nella testa di Adolf Hitler



Il libro di un autodidatta

«Ho il dono di saper ridurre tutti i problemi all'essenziale» ebbe a dichiarare un giorno Hitler, svelando in tal modo uno dei segreti del suo successo.

Il Mein Kampf, un grosso volume di settecento pagine dense e dallo stile pesante, martellante e ripetitivo, è ben lontano dal formato di un Libretto Rosso. Ma in un'epoca di effervescenza politica, in cui l'ideologia dell'estrema destra razzista e populista si impone sempre più, rappresenta un riassunto efficace. Scritto con semplicità, mette a disposizione del grande pubblico tutti i testi e le teorie fino ad allora riservati solo a raffinati cenacoli intellettuali. «Hitler riassume, amplifica e modernizza tutto ciò che si può trovare sul mercato delle idee politiche di estrema destra. Mette a disposizione della maggioranza idee fino ad allora appannaggio di individui ben vestiti e malati di elitarismo», sintetizza lo storico Ulrich Herbert. La sua foga e le sue tesi estreme permettono a Hitler di distinguersi dagli ideologi suoi concorrenti, come Arthur Moeller van den Bruck, autore del Terzo Reich. Impregnato di un nazionalismo ardente, questo libro è più rilevante del Mein Kampf, ma anche più moderato.

Hitler si impone grazie a un atteggiamento di assoluta radicalità. Dandosi obiettivi decisamente ambiziosi, sia dal punto di vista delle sue aspirazioni sia per la violenza delle idee che propugna, si costruisce un'immagine in grado di attirare a sé tutti i più feroci avversari della Repubblica di Weimar.

L'altro punto di forza che distingue il Mein Kampf dipende dal contesto particolare nel quale il libro viene pubblicato: esso fornisce risposte alle domande che ossessionano un gran numero di tedeschi. Perché la Germania ha perso la guerra? Perché il paese è precipitato in una modernità politica che ha spazzato via il vecchio ordine e consegnato il potere ai liberali, agli ebrei, ai finanzieri, e le piazze ai marxisti?

Riprendendo le tesi dell'estrema destra tedesca, il Mein Kampf è un libro dalle molte chiavi di lettura, in grado di soddisfare le aspettative più diverse: l'antisemitismo e l'anticomunismo occupano ovviamente un posto di rilievo, l'odio per la Francia è totale, la difesa dell'esercito è sempre inflessibile, e una forma di egualitarismo tendente all'abolizione delle classi sociali offre alla maggioranza un posto nel progetto politico del nazismo. Inoltre, esso soddisfa tutti coloro che potevano nutrire preoccupazioni razziali ed eugenetiche. Di conseguenza, l'opera si rivolge a un largo pubblico e a categorie potenzialmente antagoniste: operai, contadini, borghesi, militari, monarchici, ex combattenti che si possono riconoscere nel percorso compiuto dallo stesso Hitler, ma anche magnati dell'industria, che vedono in lui un uomo d'ordine capace di irretire le classi popolari. In questo libro ognuno può trovare quello che preferisce.

Oggi non si può leggere il Mein Kampf senza avere ben presente che il progetto in esso contenuto è stato realizzato quasi per intero, senza cioè pensare ai crimini commessi dal suo autore. Ma ben diversa era la situazione di chi apriva il Mein Kampf nel 1925, trovandosi sotto gli occhi un libro politico e una testimonianza di bruciante attualità.


Oggi mi appare provvidenziale e fortunata la circostanza che il destino mi abbia assegnato, come luogo di nascita, proprio Braunau sull'Inn. Questa cittadina sorge infatti sulla frontiera dei due Stati tedeschi, la cui riunione sembra, perlomeno a noi giovani, un compito fondamentale, da realizzare a qualunque costo. L'Austria tedesca deve tornare alla grande Patria tedesca, e questo non certo per mere considerazioni di carattere economico: anche se questa riunione, considerata sotto l'aspetto economico, apparisse irrilevante o persino dannosa, essa dovrebbe comunque essere realizzata. Lo stesso sangue appartiene a un Impero comune. Il popolo tedesco non ha alcun diritto morale di perseguire una politica coloniale, finché non riuscirà a riunire tutti i suoi figli in un unico Stato. Solo quando le frontiere del Reich comprenderanno anche l'ultimo tedesco, al quale non si potrà più garantire il sostentamento, la necessità originerà la giustificazione morale della conquista di territori stranieri. In tale caso l'aratro si farà spada, e dalle lacrime della guerra scaturirà per i posteri il pane quotidiano?

Queste sono le prime parole del primo capitolo del Mein Kampf, intitolato «Nella casa paterna». Fin dalle prime frasi si manifestano alcuni tratti essenziali del libro: la pesantezza dello stile, l'abbondanza delle digressioni, l'assenza di argomentazioni strutturate, l'enfasi di stampo romantico, l'intrecciarsi di elementi autobiografici e di affermazioni politiche, tutto ciò che forma questo strano miscuglio di invettive, profezie, ossessioni e pretese teorie scientifiche. E sempre si percepisce, appena affiorante o esplicito, il soffio della violenza.

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Accanto a idee nate da un oscurantismo in gran parte primitivo, risalta anche la modernità politica del nazionalsocialismo. Hitler descrive i princìpi dell'organizzazione di un futuro Stato nazista, e niente viene ignorato: istituzioni, religione, insegnamento, esercito, diplomazia, urbanistica, politica sanitaria, vale a dire eugenetica. «Imporre l'impossibilità per i difettosi di riprodurre discendenti difettosi, significa compiere un'opera di limpida ragione [...] Se occorre si arriverà all'implacabile isolamento degli incurabili, una misura barbara per coloro che avranno la sfortuna di esserne colpiti, ma autentica benedizione per i contemporanei e per i posteri» raccomanda l'autore.

Indicando i suoi scopi, talvolta parla anche dei suoi metodi. Descrive infatti a lungo la sua concezione della propaganda: «La ricettività della grande massa è molto limitata, la sua intelligenza mediocre, e grande la sua smemoratezza. Da ciò deriva che una propaganda efficace, deve limitarsi a pochissimi punti, punti che deve poi ribadire continuamente, finché anche i più tapini siano capaci di raffigurarsi, mediante quelle parole implacabilmente ripetute, i concetti che si voleva restassero loro impressi». E poco oltre: «Il popolo nella sua maggioranza è eminentemente femmineo: i suoi pensieri e le sue azioni sono determinati non tanto da sobrie considerazioni quanto da una sensibilità emotiva». Anche la politica legata alla condizione fisica degli ariani non gli sfugge: «In questo riconoscimento del suo complesso lavoro educativo, lo Stato nazionale deve mirare in primo luogo non a infondere una semplice volontà, ma a educare corpi sani. Solo dopo, in un secondo tempo, viene lo sviluppo delle capacità spirituali».

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Una «banale e terribile» ossessione nei confronti degli ebrei

La più fondamentale delle idee che strutturano la Weltanschauung, la visione del mondo di Hitler, la chiave di volta del suo terribile edificio, si riduce a due parole: «gli ebrei». Non stupirà quindi la scoperta che la parola «ebreo» sia il termine più citato nel Mein Kampf, più di «Germania», ma anche di «razza», «guerra», «marxismo», «Francia», e persino di «nazionalsocialismo». La parola «ebreo» ritorna 373 volte.

Il riferimento agli ebrei è costante, si trova alla base delle lunghe analisi della sconfitta del 1918, e dell'esecrata Repubblica di Weimar, della Francia, degli Stati Uniti e del comunismo. A questo proposito, la detenzione funziona da potente incubatore. Quando esce di prigione, Hitler spiega ai suoi più stretti collaboratori che fino a quel momento era stato fin troppo moderato e che lavorando sul Mein Kampf si è reso conto che la questione ebraica non è soltanto un problema per il popolo tedesco, ma per tutti i popoli, poiché «il giudeo è la peste del mondo».

Per Hitler gli ebrei, oltre a tutti gli altri crimini, mettono in pericolo la purezza della razza ariana.

Il giovane ebreo dai capelli neri spia per ore, con una gioia satanica sul volto, la fanciulla inconsapevole del pericolo, che insozza col suo sangue e rapisce così al popolo di cui è figlia. L'ebreo cerca con ogni mezzo di distruggere le basi su cui poggia la razza del popolo che vuole soggiogare. Come corrompe sistematicamente le donne e le fanciulle, così non si fa scrupolo di abbattere il più possibile le barriere che il sangue crea fra gli altri popoli. Sono stati e sono ancora gli ebrei che hanno portato i negri sul Reno, sempre con il medesimo pensiero segreto e un obiettivo palese: distruggere, con l'imbastardimento che risulta dal meticciato, questa razza bianca che odiano, farla decadere dall'alto livello di civiltà e di organizzazione politica che ha raggiunto e divenirne i padroni.

Il suo antisemitismo è così viscerale, così assoluto, da spingerlo a disumanizzare gli ebrei, facendone un genere a parte, diverso degli umani, prossimo alla condizione animale. È precisamente questa visione, martellata dalla propaganda nazista, che permetterà più tardi ai carnefici nazisti di pensare che lo sterminio del popolo ebraico, e persino dei neonati, come se si trattasse di bestiame, fosse in effetti un modo di proteggere l'umanità o comunque di eliminare degli animali dannosi.

Il più forte contrasto con l'ariano è dato dall'ebreo [...] Poiché, anche se l'istinto di conservazione dell'ebreo non è affatto più debole, anzi è più potente che negli altri popoli, anche se le sue facoltà intellettuali possono facilmente dare l'impressione di non essere in nulla seconde ai doni spirituali di altre razze, egli non soddisfa alla condizione preliminare più essenziale per essere un popolo civilizzatore: non possiede l'idealismo. Nel popolo ebreo la volontà di sacrificio non va oltre il semplice istinto di conservazione dell'individuo. Il sentimento di solidarietà nazionale, che sembra così profondo presso di loro, non è altro che un istinto gregario molto primitivo che si ritrova in molti altri esseri di questo mondo. Bisogna notare, a questo proposito, che l'istinto gregario spinge i membri del branco a prestarsi mutuo soccorso solo quando un pericolo comune rende questo aiuto reciproco utile o assolutamente necessario. Il branco di lupi che ha appena assalito in comune la preda si disperde dopo che la fame degli individui che lo compongono è placata. Accade lo stesso con i cavalli che si uniscono per difendersi da un aggressore, ma che si disperdono subito quando il pericolo è passato.


Per Hitler gli ebrei non rappresentano soltanto una minaccia per la purezza della razza. All'unisono con molti dei suoi contemporanei, fra i quali il teorico nazista Alfred Rosenberg, da cui è certamente influenzato, Hitler ritiene che gli ebrei incarnino il capitalismo, la finanza cosmopolita e il liberalismo politico, ma al tempo stesso anche il marxismo, il progressismo e il sindacalismo operaio, tutti egualmente detestati dai nazisti. Nessuna contraddizione, poiché Hitler – e anche in questo non è solo – crede ovviamente nell'esistenza di un complotto internazionale ordito dagli ebrei per dominare il mondo, «conformemente allo scopo ultimo della lotta portata avanti dagli ebrei, che consiste non solo nel voler conquistare economicamente il mondo, ma anche nella pretesa di dominarlo politicamente». Gli intellettuali liberali ebrei procederebbero quindi mano nella mano con i sindacalisti operai ebrei, gli ebrei ortodossi con gli ebrei assimilati, i banchieri con i poveri reietti degli shtetl polacchi, tutti uniti dalla volontà di distruggere gli altri popoli. «Mentre l'Inghilterra si adopera a conservare la sua posizione, l'ebreo organizza il suo assalto per conquistare la propria. Egli vede già gli odierni Stati europei come inerti strumenti in suo pugno, sia per la via indiretta di una cosiddetta democrazia mondiale, sia in forma diretta attraverso il bolscevismo russo.»

Hitler crede anche nell'autenticità di un celebre «falso», I Protocolli dei Savi anziani di Sion, all'epoca molto popolare già da una ventina d'anni, e di cui è ormai noto che venne interamente fabbricato dalla polizia segreta russa dello zar.

Tutta l'esistenza di questo popolo poggia su una continua menzogna, come appare nei famosi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Essi si fondano su una falsificazione, lamenta piagnucolando la Frankfurter Allgemeine, e in questo sta la miglior prova che sono veri. Ciò che molti ebrei vorrebbero inconsciamente fare, qui è consapevolmente dichiarato. Ed è quello che conta. Non è importante invece sapere da quale cranio giudaico siano uscite tali rivelazioni; è essenziale però che essi rivelino con orrenda sicurezza la natura e l'attività del popolo ebraico, e li espongano nei loro rapporti interni e nei loro scopi finali. La migliore critica è fatta naturalmente dalla realtà. Colui che esamini lo sviluppo storico degli ultimi cento anni dal punto di vista di questo libro, capirà subito il frastuono della stampa giudaica. Quando questo libro diventerà patrimonio comune di tutto il popolo, il pericolo ebraico potrà essere ritenuto superato.


Lo storico Édouard Husson vede in questo antisemitismo radicale, che sfugge a ogni ragione, una spiegazione dell'eco che il Mein Kampf suscita presso una parte della popolazione tedesca:

La logica profonda di questo libro consiste nel fatto che Hitler offre una risposta a tutti i fallimenti, i suoi personali come quelli della Germania: gli ebrei, sempre loro. Se ha fallito come artista, è colpa degli ebrei, se la Germania ha perduto la Prima guerra mondiale, è per via di una cospirazione ebraica. La sua forza consiste nel fondere insieme autobiografia e destino collettivo. E proprio questo che seduce tanti tedeschi, i quali si riconoscono in lui, a livello personale e individuale.


Agli occhi di un lettore del 1925 il Mein Kampf è un libro «banale e terribile», come l'ha giustamente definito Konrad Heiden, il primo biografo di Hitler. Banale perché riprende tesi, utopie e progetti assai diffusi all'epoca nell'universo dell'estrema destra, e resi popolari da ogni genere di scritti e di discorsi. Un'estrema destra tedesca che si definisce con una parola: völkisch, che deriva da Volk, «popolo». L'ideologia völkisch esalta l'attaccamento al suolo tedesco e l'unità del popolo tedesco fondata sui legami di sangue e di famiglia, e si oppone ai Lumi della ragione, alla democrazia, agli ebrei, agli schiavi, inventa origini mitiche per la Germania, aspira alla potenza, sacralizza la forza, promuove un certo paganesimo. Fondato agli inizi del secolo, il movimento völkisch conosce un notevole sviluppo, con la creazione di molti giornali, leghe, associazioni e partiti, fra i quali figura la NSDAP. Banale è anche la visione del mondo fondata sul razzismo. Hitler riprende, per esempio, le tesi antisemite di Houston Stewart Chamberlain, il quale considera la «razza ebraica» il «principio corruttore dell'umanità». L'influenza di Chamberlain è presente in molti libri dell'epoca, ovviamente in Germania, ma anche in Francia, grazie alla penna di Georges Montandon, e negli Stati Uniti, con Henry Ford.

Quello che Hitler scrive, fatta eccezione ovviamente per gli aspetti biografici, non è uscito dall'immaginazione malata di un mostro che si è abbattuto sulla Germania e sul mondo. Il Mein Kampf è in gran parte un riflesso e un prodotto del suo tempo. È innegabile che Hitler porti l'antisemitismo a un livello estremo, tuttavia il Mein Kampf rivela una verità importante: questo libro non è solamente la testimonianza dell'odio antisemita di uno psicopatico ossessivo che, per oscure ragioni personali, ha deciso di eliminare il popolo ebraico; è la testimonianza di un odio connaturato al mondo occidentale, di un'animosità ancestrale. In un intero capitolo Hitler racconta la storia degli ebrei in Europa a partire dall'impero romano, citando tutti i più vieti e tradizionali luoghi comuni antisemiti, dell'ebreo avaro, usuraio, che sfrutta il lavoro degli altri, manipolatore, protetto dai potenti, infido, bugiardo, disonesto, sessualmente perverso, che odia i non ebrei, dedito a rituali bizzarri e satanici, sempre pronto a ordire complotti, a dividere i popoli per meglio comandare. Alle origini del processo che condurrà fino ad Auschwitz, c'è questo antisemitismo classico, radicato in Europa, costruito nel corso dei secoli, attizzato dal cristianesimo e dalle monarchie. Hitler lo porterà al livello di incandescenza e il corso degli eventi finirà con lo sprofondare il mondo nell'orrore. Il Mein Kampf non è soltanto il libro del Terzo Reich: è un breviario dell'odio, nato dal volto oscuro dell'Occidente.

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I dubbi degli oppositori del nazismo

Mentre a Monaco le macchine della casa editrice del partito girano a pieno ritmo e Hitler è ormai a un passo dal potere, sul fronte avverso l'opposizione appare disunita, disarmata e impotente a fermare la marea nazista che minaccia di sommergere il paese. I tedeschi ostili al nazismo, gli uomini politici, i giornalisti faticano a comprendere questo Hitler, le sue idee e le sue intenzioni. E tuttavia il Mein Kampf è lì sotto i loro occhi, ormai da diversi anni.

Fin dalla sua pubblicazione, nel 1925, al di fuori del movimento völkisch, il libro è accolto con indifferenza, oppure con snobismo e sarcasmo. «Hitler definisce il suo libro un rendiconto. Ebbene, visto lo stato del suo movimento, forse è con se stesso che dovrebbe regolare i conti» scrive il Tagebuch di Berlino. La Neue Zurcher Zeitung invece afferma: «Leggendo questa biografia, pensiamo che queste sterili ruminazioni siano la testimonianza di un agitatore spinto sul palcoscenico in modo artificiale, incapace della minima riflessione pacata e inadatto a comprendere il mondo». Dopo aver riassunto le principali tesi di Hitler, la Frankfurter Zeitung va oltre: «I sostenitori di una politica costruttiva scopriranno di aver ragione, leggendo questo libro. I tempi sono cambiati. Hitler è finito». Il giornale satirico Simplicissimus si accontenta di una caricatura feroce dove un Hitler mingherlino, con la faccia contratta in una smorfia, distribuisce il suo libro a ben pasciuti borghesi.

Tuttavia i primi successi elettorali della NSDAP pongono fine all'indifferenza nei confronti del Mein Kampf. Pioniere in questo campo, Othmar Plöckinger ha studiato le recensioni sui giornali, oltre che vari scritti e pubblicazioni, e ne ha tratto due conclusioni: man mano che i nazisti acquistano potere, si moltiplicano i testi nei quali il Mein Kampf appare come un'importante fonte di informazioni su Hitler; ma i loro redattori generalmente sottovalutano la portata del libro, e ben di rado percepiscono che le idee in esso contenute potrebbero diventare un giorno realtà.

I primi a interessarsi seriamente del libro non sono gli oppositori politici, ma le autorità. Poiché l'ascesa al potere del nazionalsocialismo appare inquietante, vengono commissionati rapporti allo scopo di valutare la minaccia e le intenzioni dei nazisti, visto che queste si basano in particolare sull'opera del Führer. Così, nel rapporto di cento pagine redatto nel 1930 dalla polizia prussiana, il Mein Kampf appare come la fonte principale per conoscere gli obiettivi politici della NSDAP. «Anche se per ragioni tattiche Hitler ha rinunciato alla violenza, da numerosi punti del Mein Kampf appare evidente quanto egli sia deciso a combattere lo Stato repubblicano con manovre violente» conclude l'estensore del documento, senza peraltro proporre di mettere in atto alcuna misura concreta. Ed è solo un esempio fra molti rapporti del tutto simili, che arrivano invariabilmente alle stesse conclusioni. E le cose non vanno diversamente al ministero degli Esteri, che nel 1931 di fronte all'inquietudine che Hitler suscita fuori dai confini nazionali si interroga sui suoi obiettivi di politica estera basandosi ugualmente, in modo esplicito, sul Mein Kampf. Tutti questi documenti sono comunque di ben scarsa utilità, nel momento in cui lo Stato si ritrova impotente di fronte alla legittimità conferita alla NSDAP dal suffragio universale.

Al di fuori degli organismi statali, i commentatori generalmente pensano che il libro rientri più nell'ambito della biografia che del programma, dell'aneddoto più che della politica. Ci si riferisce al Mein Kampf per arrivare a questo genere di conclusioni: «Hitler non ama nessuno. Non ha che un istinto: dominare gli uomini».

Ci si concentra sui dettagli, anziché cercare una visione d'insieme. E così un sindacato di funzionari statali, basandosi su una citazione dal libro, mette in guardia i suoi aderenti riguardo al fatto che il nazionalsocialismo rappresenta un pericolo per la funzione pubblica. Allo stesso modo, una pubblicazione della SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), il Partito socialdemocratico, mette per esempio in evidenza ciò che il libro dice della condizione femminile. Il razzismo estremo del libro è in genere considerato di secondario interesse dai socialdemocratici, ma anche dagli appartenenti al Zentrum cattolico, rispetto alle idee sociali o istituzionali che vi vengono sviluppate. La Chiesa cattolica e quella protestante, entrambe molto forti in Germania, si preoccupano soltanto di capire che cosa dica Hitler sulla religione. Allarmate per l'ostilità nei riguardi del cristianesimo che si palesa nel Mein Kampf e nei discorsi dei gerarchi nazisti, si mostrano del tutto indifferenti riguardo al razzismo e all'antisemitismo. «Il Mein Kampf non ha niente a che vedere con l'odio personale nei confronti degli ebrei, ma soltanto con un odio teorico verso gli ebrei» minimizza un pastore, in una lettera indirizzata alla gerarchia ecclesiastica.

Conoscere l'opinione dei cristiani sul Mein Kampf non è cosa di poco conto: quando si tratterà di opporsi all'eutanasia dei malati di mente incurabili, o di rifiutare la rimozione dei crocifissi dalle scuole bavaresi, le Chiese interverranno con decisione e successo. Alle persecuzioni antisemite, invece, le autorità religiose – il solo organismo costituito, insieme allo Stato maggiore della Wehrmacht, che poteva pretendere di opporsi a Hitler sotto il Terzo Reich – reagiranno molto timidamente. Infatti il Vaticano, di cui è nota l'ambiguità di fronte al nazismo, rifiutò di mettere all'indice il Mein Kampf, contrariamente a quanto accadde per esempio per Il mito del XX secolo di Rosenberg, come è stato rivelato dagli archivi del Santo Uffizio resi pubblici nel 2003. Fra le autorità religiose solo qualche voce si distingue, come quella del pastore Becker, che rimprovera alla Chiesa la sua incapacità di reagire al razzismo; alla brutalità, al terrore e alle menzogne che costituiscono questa «nuova ideologia».

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Il libro del Terzo Reich



Una fiaba

Nel diario che tiene con grande meticolosità, il 30 gennaio 1933 Joseph Goebbels annota: «Hitler è cancelliere del Reich. Proprio come in una fiaba». Dopo che la NSDAP ha riportato il 33,1 per cento dei suffragi, diventando il primo partito della Germania, il presidente maresciallo Paul von Hindenburg ha nominato Hitler cancelliere, all'interno di un governo di coalizione. «Lo controlleremo senza alcuna difficoltà» pensano i conservatori, da Franz von Papen a Hjalmar Schacht. «Cancelliere, addirittura! Fosse per me, lo farei ministro delle Poste, così potrebbe leccarmi il culo incollando i francobolli» disse in privato il vecchio von Hindenburg, già malato. Che avrà pensato il maresciallo della lettera ricevuta quello stesso giorno, firmata dal generale Ludendorff, suo vecchio collaboratore durante la Grande guerra, ed ex camerata dei tempi del putsch di Monaco, prima che Hitler lo tradisse? Scrive Ludendorff, pur saldo nelle sue convinzioni di estrema destra: «Nominando Hitler alla carica di cancelliere avete consegnato la nostra cara Germania al più grande demagogo di tutti i tempi. Vi predìco che quest'uomo senz'anima trascinerà la Germania negli abissi del disonore. Le generazioni future vi malediranno per quello che avete fatto». von Hindenburg si spegnerà nel 1934, tre anni prima di Ludendorff.

Con Hitler cancelliere, si apre allora un periodo cruciale. Anche se, giorno dopo giorno, le libertà si restringono, e alla fine di febbraio del 1933 l'incendio del Reichstag accresce la repressione, la Germania non è ancora sotto la cappa totalitaria e resta, formalmente, una democrazia. Nuove elezioni devono avere luogo nel mese di marzo. A differenza di altri dittatori moderni, Hitler è giunto legalmente al potere, non per mezzo di un colpo di mano ma alla fine di un lungo processo democratico ed elettorale. Infatti la marcia del nazismo verso íl potere è stata più una successione di scrutini, spogli e campagne elettorali, che una serie di sanguinose battaglie. Ciò significa che l'opinione pubblica gioca un ruolo particolare, più che in qualsiasi altro regime totalitario o autoritario. E questo pone con ancor maggior forza la questione della responsabilità del popolo tedesco nell'ascesa al potere di Hitler, e della sua consapevolezza dei disegni hitleriani.

La stampa nazista incoraggia esplicitamente la lettura del Mein Kampf. Il 31 gennaio, con un gran tempismo, la Eher-Verlag pubblica sul Völkischer Beobachter un inserto pubblicitario intitolato: «Il libro del giorno: il Mein Kampf di Adolf Hitler». In caratteri cubitali: «"Che farà Hitler?" si domandano oggi milioni di tedeschi. Per saperlo, è sufficiente leggere il suo libro. Così potrete conoscere i suoi obiettivi e la sua volontà. Nessuno, seguace o avversario che sia, può più restare indifferente a questo libro». In altre parole, la stampa nazista risponde pubblicamente agli interrogativi dei cittadini che cercano di capire l'esatto valore politico di questo libro vecchio ormai di dieci anni. Alla fine del 1933, l'11 dicembre, ancora il Völkischer Beobachter proclama: «Il libro del nostro Führer contiene per oggi e per il futuro i princìpi definitivi della concezione nazionalsocialista, indispensabili a ogni tedesco e a chiunque voglia penetrare i misteri della nostra dottrina; esso costituisce l'essenza stessa del nazionalsocialismo e deve ormai diventare la bibbia del popolo tedesco».

La vittoria di Hitler ha un impatto evidente sulle vendite. Nel 1933 un milione di tedeschi acquistano il libro, e questo spontaneamente, ancora prima che lo Stato lanci una grande campagna di propaganda e di distribuzione dell'opera. Alla fine dell'anno, conteggiando nel totale le trecentomila copie acquistate prima del 1933, un milione e trecentomila tedeschi hanno in mano il Mein Kampf.

Averlo non significa necessariamente leggerlo. Ma dal 1933 in poi chiunque possieda il Mein Kampf non può ignorare che in questo libro non si trova forse un programma esplicito, ma quanto meno alcune chiavi di comprensione del nazismo. È difficile credere che questo milione di persone, cui si offre l'opportunità di «penetrare i misteri» del regime, non abbia avuto la curiosità, la spinta o la volontà almeno di aprirlo, quel libro. Davanti a un potere le cui logiche profonde possono sembrare oscure, e quindi fonte di inquietudine, chi lascerebbe su uno scaffale un testo che il regime stesso definisce «illuminante»?

Torneremo sulla questione di sapere se questo milione di possessori del Mein Kampf l'hanno letto e compreso, sia nei primi tempi del Reich sia negli anni che seguirono. Resta il fatto che l'ondata di acquisti del 1933 è certamente segno che il Mein Kampf, per il pubblico di massa, non è soltanto un oggetto simbolico, un puro prodotto della propaganda. È un libro che si compra perché offre delle risposte.

Le ultime elezioni degne di tale nome si tengono mentre l'opera del Führer è il best seller del giorno, e la Eher-Verlag, a Monaco, rischia quotidianamente di esaurire le scorte di magazzino e deve quindi continuamente ristamparlo. Il 5 marzo 1933 la NSDAP ottiene il 43,9 per cento dei consensi, il che significa dodici milioni di elettori. Il 22 marzo viene aperto il campo di concentramento di Dachau; il 23 marzo, Hitler ottiene i pieni poteri; il 7 aprile le prime leggi razziali escludono gli ebrei dagli incarichi pubblici; il 22 giugno la SPD viene messa fuori legge; il 14 luglio la NSDAP diventa partito unico; il 12 novembre, dopo un referendum, la Germania lascia la Società delle Nazioni, antenata dell'ONU.

Il progetto annunciato nel Mein Kampf sta diventando realtà.


«Il libro del popolo tedesco»

Una volta al potere, i nazisti mettono il loro dispositivo di propaganda al servizio della promozione del libro presso le masse popolari. Vengono utilizzati tutti i moderni strumenti di marketing. Si moltiplicano le pubblicità nei giornali, come quella, sbalorditiva, in cui il Mein Kampf si presenta accanto a un annuncio per la macchina da cucire Singer. Non viene dimenticato neanche il cinema, e lo prova un film promozionale diffuso nelle sale in cui compare una serie di comuni cittadini tedeschi, dalla madre di famiglia al vegliardo, passando per l'operaio e il contadino, immersi nella lettura dell'opera. «Il Mein Kampf è la prima pietra della costruzione della Germania, il testo vitale del popolo tedesco» scandisce la voce fuori campo che si accompagna a una musica cadenzata. Vengono stampati anche dei manifesti, e in occasione della «settimana del libro tedesco», che si tiene tutti gli anni, appaiono anche pannelli pubblicitari che rappresentano dei volumi giganteschi, alti fra i due e i tre metri.

La Eher-Verlag – divenuta ormai il braccio armato della cultura di regime – incita i tedeschi da un capo all'altro del Reich ad acquistare il Mein Kampf e, se occorre, sa come forzare loro la mano. Basta una decisione politica, che contribuisce direttamente all'aumento delle vendite: a partire dal 1936, il ministero degli Interni dichiara di «auspicare» ufficialmente che tutte le coppie che si uniscono in matrimonio ricevano una copia del Mein Kampf. Più precisamente, saranno i municipi che compreranno il libro dalle edizioni Eher e lo distribuiranno agli sposi. All'interno è inserito un breve messaggio, generalmente così formulato: «Alla giovane coppia, con tutti gli auguri di felicità dalla municipalità di ...». Il numero di copie distribuito in questo modo oscilla fra le ottocentomila e i quattro milioni. Negli album di famiglia capita di ritrovare fotografie in bianco e nero in cui, sui gradini del municipio, una giovane coppia un po' impacciata sorride al fotografo. La sposa indossa un lungo abito bianco ornato da un collo di pelliccia, lo sposo un abito scuro e un fiore all'occhiello. Una foto di matrimonio simile a molte altre, tranne che per un dettaglio: l'uomo tiene fra le mani una copia del Mein Kampf. Anche se non è mai stato nazista. Migliaia di fotografie come queste dormono nei solai della Germania.

Come rivela Plöckinger, le ragioni che sottendono a tale decisione non sono scevre di preoccupazioni prosaiche. La Eher-Verlag deve fronteggiare una situazione di sovrapproduzione e cerca in tutti i modi di smaltire le scorte. Va rilevato che i municipi sono liberi di rifiutare, e in effetti alcuni lo fanno, con il pretesto di non avere abbastanza fondi, come quello di Lipsia, il cui borgomastro, Karl Fredrich Goerdeler, nel luglio del 1944 parteciperà all'attentato contro Hitler.

La Eher-Verlag e l'amministrazione spingono le biblioteche pubbliche ad acquistare íl libro, e lo stesso vale per i membri della NSDAP (il cui numero aumenta fino a raggiungere circa i dieci milioni), da ciascuno dei quali si pretende almeno una minima conoscenza del Mein Kampf. Le autorità dal canto loro esercitano ogni genere di pressione sui funzionari, perché acquistino l'opera. Così, nella Wehrmacht, presso la quale è impiegato un numero rilevante di funzionari, non vi è alcun obbligo di possedere il Mein Kampf, ma il ministro della Difesa, Werner von Blomberg, dichiara che «ogni ufficiale deve conoscere il pensiero di Hitler». Il ministro ha anche in mente di renderne obbligatoria la lettura per ogni soldato. Di fronte allo scarso entusiasmo della gerarchia militare, si deve accontentare di farlo comprare da tutte le biblioteche militari.

Alcune aziende, ansiose di compiacere il regime, comprano stock interi per offrirli ai propri dipendenti. Alla Krupp vengono organizzate cerimonie di consegna dell'opera; alla Commerzbank si celebra il commiato di un dipendente che va in pensione offrendogli il libro, accompagnato da questa dedica: «Al signor [...], in ringraziamento dei suoi [...] anni di fedele collaborazione». Nel luglio del 1934 anche la direzione delle ferrovie ordina che sia consegnata una copia del libro ai propri dipendenti, come riconoscimento dei loro meriti.


La Eher-Verlag si sforza in seguito di diversificare l'offerta. Fino all'autunno del 1944, quando la stampa viene interrotta, escono dalla tipografia decine di edizioni differenti. Oltre all'edizione classica, cartonata, si trovano edizioni tascabili, ma anche edizioni di lusso (con la copertina in pelle o in lino intrecciato), edizioni di prestigio (con la copertina in marmo, riservate ai gerarchi nazisti), ma anche edizioni da campagna militare, concepite espressamente per i soldati e tirate in ottocentocinquantamila copie. Ci sono prezzi per tutte le tasche: qualche marco per le edizioni tascabili, cinque marchi e settanta per l'edizione cartonata, fino a ventiquattro marchi per una copia di lusso rilegata in pelle, o addirittura alcune centinaia di marchi per le edizioni di maggior prestigio.

Nessuno viene dimenticato. Poiché gli handicappati fisici, contrariamente a quelli mentali, non vengono considerati dannosi, qualche anima caritatevole pensa al loro nutrimento intellettuale: dal 1933, il Mein Kampf viene pubblicato in un'edizione in braille, costituita da sei grossi volumi. Un curioso oggetto, che oggi può essere consultato alla biblioteca universitaria di Monaco.

Il 13 febbraio 1939 una circolare della cancelleria del Partito nazista afferma che «la diffusione più ampia possibile del libro Mein Kampf è dovere essenziale di tutti gli organismi di partito e di tutte le associazioni che gli sono collegate. L'obiettivo da raggiungere è che un giorno ogni famiglia tedesca, anche la più modesta, possieda l'opera fondamentale del Führer».

Non c'è quindi da stupirsi se il fenomeno esplode. Nel 1938 un manifesto celebra «il libro dei tedeschi», rivendicando quattro milioni di copie già vendute. Pronunciando un discorso davanti ai rappresentanti delle arti e delle lettere, Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda, si meraviglia: «Oggi ci sembra quasi un miracolo che quest'opera scritta da un uomo solitario, sul tavolino della cella di una prigione, sia diventato il libro di maggior successo di tutti i tempi». Alla fine del Terzo Reich, secondo le cifre ricostruite da Plöckinger, il numero di copie distribuite del Mein Kampf è arrivato a dodici milioni e quattrocentocinquantamila. Una cifra colossale, superiore a quella fino ad allora stimata, poiché gli storici in precedenza si erano fermati a dieci milioni.

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Quando il duce pubblica il Führer



Mussolini, inaspettato agente letterario di Adolf Hitler

Venezia, 14 giugno 1934. Sulla pista del piccolo aeroporto Nicelli, nella calura di inizio estate, il duce attende il Führer. Mussolini e il nuovo cancelliere del Reich stanno per incontrarsi per la prima volta. Per Hitler si tratta anche del primo viaggio ufficiale fuori dalla Germania. Quando il Cessna con l'insegna della croce uncinata si ferma, Mussolini avanza verso l'illustre visitatore. Racchiuso nella sua elegante uniforme, stringe a lungo la mano di Adolf Hitler, che indossa invece un insignificante abito civile sotto un impermeabile di gomma beige. Il tedesco fa una magra figura a fianco di un Mussolini dall'ottimo aspetto, ed è visibilmente a disagio, impressionato dall'idea di incontrare il duce. Al potere dal 1922, quest'ultimo è agli occhi di Hitler un augusto fratello maggiore, il precursore del fascismo e della rivoluzione sociale e nazionale, insomma un mito.

Un «grande uomo» per il quale Hitler, nel Mein Kampf, confessa «la più profonda ammirazione». Nel 1923, a Landsberg, descriveva il nuovo padrone di Roma come qualcuno che, «pieno di fervido amore per il suo popolo, non venne a patti col nemico interno dell'Italia ma volle annientarlo con ogni mezzo. Ciò che farà annoverare Mussolini fra i grandi di questa Terra è la decisione di non spartirsi l'Italia col marxismo, ma di salvare la sua patria dal marxismo distruggendolo. Di fronte a lui, quanto appaiono meschini i nostri statisti tedeschi! E da quale nausea si è colti nel vedere queste nullità osar criticare chi è mille volte più grande di loro!».

Questo incontro, con il capo del Partito fascista italiano, il Führer della NSDAP lo aveva lungamente desiderato. Prima di arrivare alla cancelleria, aveva già invano sollecitato un incontro con l'italiano. Ancora prima, nel 1926, appena uscito da Landsberg, aveva chiesto all'ambasciata italiana una foto con dedica del duce, ma era stato gentilmente messo alla porta. Hitler aveva ugualmente fatto sistemare nel suo ufficio a Monaco un busto di Mussolini.

Si aggiunga che nel Mein Kampf, dove mette alla gogna popoli e nazioni, l'Italia è l'unico paese che incontra pienamente la sua approvazione. Con questa nazione auspica persino un'alleanza, prevedendo una spartizione delle conquiste. Alla Germania il continente, mentre «l'avvenire dell'Italia dipende da uno sviluppo territoriale i cui elementi sono raggruppati intorno al bacino del Mediterraneo» scrive. Tale alleanza ha anche un obiettivo strategico: accerchiare la Francia.

Quel giorno a Venezia, tuttavia, i capi degli unici due Stati fascisti d'Europa, che si appartano nel parco di Villa Pisani per un lungo colloquio a quattr'occhi, sono quasi nemici. La loro discussione è tempestosa, Hitler si giustifica con un interminabile monologo, Mussolini fa fuoco e fiamme. Oggetto del loro disaccordo: l'Austria.

Mussolini, il cui paese si era opposto militarmente alla Germania durante la Grande guerra, teme l'imperialismo tedesco e soprattutto l'Anschluss, il progetto nazista di annessione dell'Austria. Roma non ne vuole sapere, di una Germania in grado di minacciare l'accesso italiano ai Balcani e che oltretutto ha messo gli occhi, nell'Italia del Nord, sul Tirolo filotedesco. Per il momento, malgrado le affinità ideologiche tra i due uomini, a prevalere sono le considerazioni geopolitiche.

A peggiorare le cose, agli inizi, del 1934 il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, protetto da Mussolini, è stato assassinato da alcuni nazisti locali, spingendo il duce a dislocare sulla frontiera austriaca alcune divisioni pronte a intervenire. Poi, in febbraio, l'Italia si è ufficialmente schierata al fianco di Francia e Inghilterra, contro la Germania, per difendere l'integrità dell'Austria. Da allora, la diplomazia italiana ha moltiplicato i contatti con i francesi e gli inglesi in vista di una possibile alleanza, e ha in progetto una conferenza fra il duce e il presidente del Consiglio francese.

A Venezia, quel 14 giugno, l'atmosfera è carica di elettricità. Mentre i due leader assistono in serata a un concerto di Verdi e Wagner, Hitler tenta in tutti i modi di far colpo sull'italiano, il quale non nasconde in privato la scarsa simpatia che gli ispira il tedesco. Un «pazzo», «un Attila», un «assassino», così lo definisce con quelli che gli sono più vicini, e dichiara di non apprezzarne l'estremismo né l'antisemitismo radicale, e tanto meno le teorie razziali, che giudica assurde.

Ci vorrà l'inesorabile crescita della potenza tedesca, la firma di un accordo sull'Austria e la superficialità delle diplomazie occidentali, incapaci di attirare l'Italia dalla loro parte, per far sì che Germania e Italia finiscano, nel 1936, con l'allearsi dopo due anni di reciproci sospetti.

È questa complicata relazione fra i due uomini e i loro regimi che condizionerà ulteriormente la memoria collettiva italiana. In particolare per quanto riguarda la questione dell'antisemitismo. Spesso si parlerà di un Mussolini poco portato agli eccessi hitleriani, debolmente antisemita, addirittura circondato di ebrei, che finirà sì con il mettere in opera una politica di discriminazione razziale, ma molto moderata. E sarà solo quando il duce diventerà, alla guida della Repubblica di Salò, una specie di burattino manovrato da Hitler che le forze tedesche deporteranno ottomila ebrei italiani, fino a quel momento preservati dallo sterminio. Tutto questo è vero, ma in realtà molto più complesso di quanto si pensi. Ed è intorno al Mein Kampf che si cristallizzano le autentiche poste in gioco e le verità nascoste di questa storia.

È dal marzo del 1934, tre mesi prima dell'incontro di Venezia, che nelle librerie italiane si trova un'opera intitolata La mia battaglia. Si tratta della versione italiana del libro di Hitler. Niente di strano, in fondo, vista la reale vicinanza ideologica tra il fascismo e il nazionalsocialismo. Tuttavia, all'epoca le cose non vanno affatto lisce fra Hitler e Mussolini.

Tutto risale al mese di febbraio del 1933. Esattamente una settimana dopo la nomina di Hitler a cancelliere da parte del presidente von Hindenburg, Rudolf Hess, il vecchio compagno di cella di Landsberg, e Max Amann, il direttore della Eher-Verlag, partono in volo per Roma. Hanno una missione: negoziare nel più breve tempo possibile la vendita dei diritti di traduzione del Mein Kampf in Italia.

Secondo le recenti ricerche di Giorgio Fabre, uno storico italiano dall'approccio innovativo, Mussolini accetta di pagare a Hitler una somma che per l'epoca è astronomica. Sborsa infatti non meno di ventimila dollari quando, per avere un termine di confronto, nello stesso periodo l'editore inglese e quello americano offrono rispettivamente l'uno mille e l'altro cinquecento dollari per i diritti di traduzione del Mein Kampf. Secondo Fabre, la ragione è semplice: in vista delle decisive elezioni legislative del marzo 1933 i nazisti hanno bisogno di fondi per affrontare la campagna elettorale, e intendono avvalersi del contributo di Mussolini. Quanto al duce, vede l'occasione di fare un gesto di amicizia diplomatica nei confronti del Führer. Ma, a dimostrazione della sua ambivalenza nei riguardi di Hitler, insiste perché la somma sia versata «anonimamente e in contanti». Da parte sua, temendo di rimanere in debito con l'italiano, il tedesco cambia idea e rifiuta di utilizzare quel denaro durante la campagna.

Il risultato è che nel 1933 l'Italia di fatto possiede i diritti di traduzione del Mein Kampf. Ora si tratta di pubblicare il libro, e quindi di trovare un editore. Come rivela Fabre, Mussolini sceglie di occuparsene personalmente. È un primo segno dell'importanza che, malgrado le tensioni internazionali, il duce assegna all'opera del suo omologo tedesco.


Un editore prestigioso

L'editore de La mia battaglia incarna tutta la complessità, ma anche il gioco di false apparenze della storia della pubblicazione italiana del Mein Kampf. Valentino Bompiani, trentaseienne, fondatore quattro anni prima della casa editrice che porta il suo nome, è all'epoca uno degli editori più in vista della scena culturale italiana. Attento alle nuove tendenze letterarie, desideroso di promuovere opere al passo con la modernità, pubblica Giuseppe Antonio Borgese, Massimo Bontempelli e il giovane Alberto Moravia, ma anche scrittori europei, russi e americani che fanno a pugni con l'accademismo ufficiale in voga nell'Italia fascista.

Dopo la guerra, in virtù dei problemi con la censura, specie a causa del libro Americana a cura di Elio Vittorini, godrà della reputazione di editore abbastanza antifascista, e di difensore, sia pur discreto, della democrazia e della libertà sotto il regime mussoliniano. Proseguirà una brillante carriera nel mondo delle lettere, scrivendo egli stesso pièces teatrali, dando alle stampe un Dizionario delle opere e dei personaggi destinato a diventare un classico, e pubblicando scrittori di grande rilievo come Pirandello, Moravia e Umberto Eco. «La scelta dei suoi autori, la pubblicazione delle sue antologie e critiche letterarie lo avevano rapidamente trasformato in un protagonista dello sviluppo della letteratura italiana del XX secolo» scriverà il New York Times alla sua morte, nel 1992.

In realtà, come rivela Guido Bonsaver, uno storico di Oxford che ha avuto accesso nel 2007 ad archivi inediti, Bompiani non fu alieno dal collaborare con il regime. Per esempio, sollecitò l' imprimatur di Mussolini stesso quando pubblicò un'opera sui Patti lateranensi con il Vaticano. E questo in un momento in cui niente lo obbligava a un simile comportamento. Pubblicò inoltre una biografia di Hitler firmata da Theodor Heuss, un oppositore tedesco del Führer, in una versione purgata, vale a dire quasi falsificata, priva di ogni riferimento al fascismo o al nazismo.

Ma Bonsaver riferisce un episodio ancora più decisivo, e rimasto sconosciuto: nel 1932 Bompiani chiede e ottiene un colloquio con il duce. Il 30 marzo i due uomini si vedono in privato. L'esito dell'incontro evidentemente è positivo, quanto basta perché l'editore faccia pervenire a Mussolini, qualche mese più tardi, copia di uno dei suoi articoli nel quale sostiene il progetto del regime di istituire un consorzio per promuovere gli autori italiani all'estero.

Si può ritenere che Valentino Bompiani abbia lasciato in Mussolini un'impressione positiva, perché nel luglio del 1933 l'ufficio stampa del duce lo contatta per proporgli di pubblicare il Mein Kampf. Certo, Mussolini si è dapprima rivolto a Mondadori, editore più importante – e ancora più impegnato nella collaborazione con il regime fascista – che ha però rifiutato, dubitando dell'esito commerciale di una simile pubblicazione, giudicata «di interesse spiccatamente interno per la Germania». Mondadori pubblica anche numerosi libri antinazisti e il Mein Kampf non rientra nella sua linea editoriale. Bompiani, invece, accetta immediatamente e con sollecitudine. Le condizioni delle autorità sono semplici: l'editore finanzia la traduzione e la stampa e in cambio percepirà gli introiti delle vendite del libro. L'accordo viene concluso verbalmente, perché il regime preferisce che non rimangano tracce scritte. Persino per i fascisti italiani il Mein Kampf puzza di zolfo.

Nelle sue memorie, apparse nel 1973, Bompiani evita accuratamente di approfondire questo episodio della sua carriera e preferisce sorvolare: attribuisce l'idea di pubblicare il Mein Kampf al suo traduttore, Angelo Treves. Lui avrebbe invece avuto soltanto un ruolo passivo. In un'intervista rilasciata nel 1984 a una giornalista di la Repubblica, Bompiani ritorna di nuovo sulla questione e precisa la sua versione dei fatti, in contraddizione con la verità storica: «Me lo propose un professore ebreo: Angelo Treves. Mi stupiva che fosse proprio lui, ebreo, a propormi di stampare quel libro. Il Mein Kampf allora era la bibbia nazista». Anche se l'iniziativa del progetto spetta esclusivamente a Bompiani, il traduttore del Mein Kampf è in effetti un ebreo.

La malafede di Bompiani non manca di una certa ironia: quando nel 1933 i tedeschi hanno venduto i diritti dell'opera, hanno espressamente preteso che né l'editore né il traduttore fossero ebrei. Ma Valentino Bompiani, all'oscuro di tale clausola, ha affidato la traduzione ad Angelo Treves. Quando La mia battaglia sarà pubblicato, l'editore deciderà dunque di far sparire il nome del traduttore.

Treves fu cancellato così bene da questa storia che bisognerà attendere un articolo apparso nel 2007 perché il suo ruolo venga portato alla luce. Bompiani non si rivolge certo a Treves senza motivo: ottimo conoscitore del tedesco, questo ex massone fu fino al 1921 un collaboratore di Comunismo, la rivista filobolscevica dei socialisti della Terza Internazionale, per poi diventare un militante fascista e sostenere con entusiasmo l'avventura mussoliniana. Un ebreo fascista? Si tratta di un percorso tutt'altro che stupefacente. Agli inizi degli anni Trenta gli ebrei italiani sono, in percentuale, più numerosi all'interno del partito fascista che nell'intera popolazione italiana. Soltanto dopo le leggi razziali del 1938 saranno esclusi dal partito e diventeranno vittime di una discriminazione di Stato.

Perché dunque Treves, italiano e fascista, ma al tempo stesso ebreo, ha accettato di tradurre il Mein Kampf, questo pamphlet violentemente antisemita? Nella sua intervista con la giornalista di la Repubblica, al di là delle falsità riguardo al proprio ruolo, Bompiani lascia forse intravedere qualche frammento di verità. Stando all'editore, ecco ciò che Treves avrebbe risposto davanti al suo stupore per il fatto che un ebreo volesse tradurre e proporre il Mein Kampf ai lettori italiani: «"Bisogna far conoscere chi è Hitler, lì dentro c'è scritto tutto, c'è il suo programma", insisteva Treves. Aveva ragione lui, naturalmente. Per avere il permesso dalla censura fascista, chiedemmo la prefazione allo stesso Hitler».

Se Bompiani dice il vero – ma, dopo tutto, ciò che afferma sembra verosimile – Treves avrebbe accettato di tradurre il Mein Kampf per mettere in guardia l'opinione pubblica italiana riguardo al pericolo nazista. La stessa posizione espressa in Francia dalla LICA, organizzazione ebraica antirazzista, che esattamente nello stesso periodo, come avremo modo di vedere, sosteneva la pubblicazione del Mein Kampf in francese. Resta il fatto che Treves avrà poco tempo per constatare gli effetti esercitati dal libro: morirà nel 1937 e sarà sepolto nel cimitero ebraico di Vercelli. Poco prima di morire, aveva tradotto per Bompiani il romanzo Varsavia, opera del grande autore yiddish Shalom Asch. Un libro sull'ebraismo polacco, di cui forse presentiva l'imminente scomparsa.

Lo stesso Bompiani, che non è certo antisemita e pubblica numerosi autori ebrei, non potrebbe aver voluto dare alle stampe il Mein Kampf per mettere in guardia gli italiani riguardo al pericolo nazista? E quando nel 1984 cita le motivazioni di Treves, non parla forse anche delle proprie intenzioni? L'ipotesi merita di essere considerata. In ogni caso, questo è ciò che l'editore sosterrà nel 1949, in una lettera indirizzata all'amico Curzio Malaparte: «Stampai il Mein Kampf e il mio solo rammarico è che non tutti gli italiani lo abbiano letto abbastanza, perché in quel caso, forse, molte cose sarebbero cambiate e molte disgrazie sarebbero state evitate». Giustificazione a posteriori o augurio sincero? Se guardiamo ai fatti, la posizione di Bompiani è quanto meno ambivalente. Certo non è impossibile che, dopo aver assistito alla catastrofe in cui l'alleanza con la Germania aveva trascinato l'Italia, il Bompiani editore del Mein Kampf abbia finalmente compreso che in quel libro si trovava l'annuncio delle sciagure a venire. Un ammonimento che egli aveva sfiorato senza vederlo, preso com'era dal desiderio di compiacere Mussolini e di portare a termine un buon affare, la lucidità ottenebrata dai sogni di grandezza suscitati dall'alleanza con il potente vicino tedesco, cui avevano finito per soccombere anche molti intellettuali italiani.


La pubblicazione di «La mia battaglia»: una svolta antisemita

Bompiani decide di non pubblicare integralmente i due volumi del Mein Kampf. Ritiene che il primo volume, apparso nel 1925 e più autobiografico, non possa interessare il pubblico italiano. L'editore sceglie dunque di pubblicare solo il secondo volume, quello in cui vengono esposti esclusivamente la dottrina e il programma del nazionalsocialismo. L'opera del Führer è al tempo stesso una biografia e un progetto politico, ed è quel progetto che l'editore intende offrire ai suoi lettori. In questa logica, fa però un'eccezione: viene incluso, anche se appartiene al primo volume, il capitolo più razzista, intitolato «Popolo e razza». La quarta di copertina redatta dall'editore è priva di ambiguità riguardo al contenuto dell'opera: «Hitler indica le vie da seguire per dar vita al nuovo Stato, il "Terzo Reich". Dalla sua teoria della razza e del popolo ricava le leggi, le direttive del futuro Stato nazionale tedesco. Enuncia le sue idee in fatto di religione, di capitalismo, di democrazia, di Stato, di maggioranze, di sindacati, di minoranze etniche».

Questo secondo volume appare dunque nel marzo del 1934, con il titolo La mia battaglia. Ha una copertina che rappresenta una bandiera con la croce uncinata, nello stile grafico tipico del futurismo dell'epoca, consta di quattrocento pagine ed è venduto a sedici lire. Il libro ottiene un successo immediato, tanto che nel mese di settembre è già stato ristampato due volte. Fino al 1940 vi saranno dodici ristampe.

[...]


Come nota Fabre, non vi è dubbio che la pubblicazione in Italia del libro del Führer segni l'inizio di una campagna razzista e antisemita, sia sulla stampa di regime sia in certi circoli intellettuali, che precede la proclamazione di un razzismo di Stato che avverrà ufficialmente quattro anni dopo. Nel 1938, infatti, una volta definitivamente siglata l'alleanza con il Terzo Reich, Mussolini mette in opera la sua personale politica antisemita, peraltro assai meno violenta di quella tedesca. Il segnale di partenza viene dato il 15 luglio 1938, quando Mussolini fa pubblicare un manifesto antisemita di cui è il diretto ispiratore. E il 5 agosto esce la rivista La difesa della razza, il cui primo editoriale dichiara : «È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». Le leggi razziali, ricalcate sul modello tedesco, vengono promulgate il 18 settembre 1938. Esse escludono gli ebrei dall'esercito, dal partito nonché da scuole e università, vietano l'esercizio di determinate professioni, impongono il censimento e vietano il matrimonio con persone non di razza ebraica. Quanto alla definizione di ebreo, è anch'essa ripresa dalle leggi di Norimberga: chiunque abbia entrambi i genitori ebrei, oppure tre dei nonni, viene considerato a sua volta ebreo, che si sia convertito o meno. Ciò detto, tuttavia, a differenza che in Germania le leggi italiane verranno applicate con una certa elasticità e senza troppi eccessi di zelo. E soprattutto esse non condurranno mai, fatta eccezione per il periodo dell'occupazione tedesca dell'Italia del Nord, all'eliminazione fisica degli ebrei.

Non è la pubblicazione in Italia del Mein Kampf a scatenare la svolta antisemita del regime, ma non si può negare che l'abbia accompagnata e forse anche incoraggiata. Ed è lecito pensare che in un'opinione pubblica italiana pesantemente condizionata dal fascismo, la cui propaganda esaltava l'alleanza con la Germania, la lettura del Mein Kampf, a partire dal 1934, possa aver avuto un effetto non trascurabile sull'accettazione della svolta e sulla conseguente, progressiva esclusione degli ebrei dalla sfera pubblica. Mentre in precedenza i cinquantamila ebrei italiani erano particolarmente ben integrati e non erano oggetto di alcuna reale ostilità, la propaganda antisemita conduce una parte della popolazione a prenderne poco alla volta le distanze. La logica antisemita del regime fascista culminerà, ancor prima della caduta di Mussolini e della nascita della Repubblica fantoccio di Salò, avvenute nella seconda metà del 1943, nella creazione di campi di internamento, come quello di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, in cui saranno rinchiusi centinaia di ebrei italiani, quelli definiti dallo stesso Mussolini, solo pochi anni prima, «buoni cittadini».

La saga della pubblicazione italiana del Mein Kampf ha un epilogo. Il 3 marzo 1938, quattro mesi prima della proclamazione delle leggi razziali, il Führer si reca in visita ufficiale a Roma. Il clima politico, questa volta, è improntato all'amicizia italo-germanica. I festeggiamenti sono grandiosi e per sette giorni si susseguono sfilate, raduni e spettacoli vari. È il momento scelto da Bompiani per pubblicare il primo volume del Mein Kampf, quello scritto a Landsberg, con il titolo La mia vita. Accade che La mia vita sia anche il titolo dell'autobiografia che Mussolini ha scritto nel 1911. Mentre si trovava in carcere. Un caso, ovviamente. La storia che ammicca sorniona. In occasione della visita del capo del Terzo Reich in Italia, Bompiani fa stampare dei manifesti come strumento di promozione delle vendite. Su di essi compaiono Hítler e Mussolini, fianco a fianco. Sotto l'immagine, lo slogan «Leggete La mia vita», mentre la parte superiore del manifesto riporta, a caratteri cubitali, una sola parola in tedesco: «Wilkommen», Benvenuto...

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Il 30 aprile Hitler si suicida nel suo bunker di Berlino sotto assedio. Nei giorni immediatamente precedenti ha dettato il suo testamento politico: «È falso che io abbia voluto la guerra nel 1939. Essa è stata desiderata e provocata esclusivamente dai politicanti internazionali di razza ebraica, o comunque dediti a servire gli interessi ebraici». Hitler non ha mai smesso di credere ai propri miti.

«[...] e dalle lacrime della guerra scaturirà per i posteri il pane quotidiano» avverte il Führer fin dalle prime righe del suo libro. Nel 1945 il mondo dei «posteri» di Hitler somiglia a un immenso campo di rovine e desolazione. Sul fronte occidentale sono morti trentanove milioni di uomini, in maggioranza civili, fra i quali venti milioni di sovietici, «esseri inferiori» destinati allo sterminio, «seguaci del bolscevismo giudaico». Fra le vittime, i due terzi degli ebrei d'Europa, quasi sei milioni di persone, tra cui un milione e mezzo di bambini, metodicamente sterminati.

Mentre procedono verso il cuore dell'Europa, le truppe alleate scoprono l'inconcepibile realtà: i campi di concentramento e sterminio. «Anche i più preparati fra noi sono rimasti stupefatti e profondamente umiliati per il genere umano» scrive nel suo diario di guerra il comandante Jean Braine quando nel 1945, con le truppe del generale de Lattre, libera il campo di concentramento di Wiesengrund.

Alcuni ufficiali alleati costringono gli abitanti dei dintorni a vedere da vicino queste fabbriche di morte. Si sono subito posti la questione della conoscenza del nazismo, dei suoi progetti e dei suoi crimini, da parte della gente comune; la questione, in sostanza, delle responsabilità del popolo tedesco. Come potevano coloro che vivevano nei dintorni dei campi non sapere nulla? In ogni caso, anche se davvero ne erano all'oscuro, ora sembra necessario metterli di fronte ai crimini commessi. In quel momento migliaia di tedeschi scoprono le camere a gas e i campi accanto ai quali hanno vissuto per anni, senza voler sapere, senza voler capire, praticamente indifferenti. «Noi non sapevamo» dichiarano.

Proprio come loro, la Germania e il mondo prendono coscienza dei crimini commessi da Hitler e dai suoi. I tedeschi, che avevano fra le mani dodici milioni di copie del Mein Kampf, insieme a tutti coloro che nel mondo intero avevano dubitato dell'importanza e del significato di quel libro, sono costretti ad ammettere che il progetto di Hitler è diventato realtà, e che le parole avevano un senso.

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CONCLUSIONE
Le sette lezioni del Mein Kampf



Perché mai, oggi, nella nostra società prospera e civilizzata, nel cuore di un continente che vive in pace e si crede «fuori dalla storia» dovremmo preoccuparci del Mein Kampf, un libro ereditato da un passato lontano, eppure ancora così presente? Quali lezioni possiamo trarre dalla traiettoria non comune del libro di Hitler, dalla cella a Landsberg fino al pantheon del Terzo Reich, dalle rovine di Monaco alle strade di Istanbul?


Prima lezione: il destino avuto da questo libro ci ricorda di fare attenzione ai progetti politici fanatici e violenti, e a non sottovalutarli mai, soprattutto quando vengono resi pubblici e sono portati avanti da uomini in grado di attuarli. È quasi impossibile che visioni del mondo e della società di tipo fascista, ultranazionalista, razzista e antidemocratico si rivelino prive di conseguenze. Le parole hanno un senso e incidono sulla realtà, a volte nel peggiore dei modi.

Gli ultimi cinquant'anni mostrano alcuni esempi strabilianti di tragedie annunciate, nero su bianco, da testi noti e pubblicati: il Libretto rosso di Mao, dottrina totalitaria in nome della quale i militanti della Rivoluzione culturale causarono la morte di un numero tra i dieci e i venti milioni di persone. Tung Panevat, il giornale degli ideologi dei khmer rossi, e il folle progetto esposto nella carta del Partito comunista di Pol Pot sono all'origine del massacro di due, forse tre milioni di cambogiani. E ancora, nel Ruanda, il Manifesto dei Babatu e la sua follia razzialista, o la rivista Kangura con i suoi appelli allo sterminio dei tutsi. Per non parlare del Memorandum dell'Accademia serba delle scienze e delle arti, redatto nel 1986 da un gruppo di intellettuali serbi che faceva capo a Dobrica Cosic. Questo testo paranoico, che ebbe grande influenza su Slobodan Milosevic, conteneva una serie di affermazioni storiche che si potrebbero qualificare come deliranti, dichiarava che i serbi erano stati ridotti in schiavitù dalle altre etnie jugoslave e chiedeva a gran voce che fossero tutti riuniti sotto un unico stato, se necessario anche a costo di una guerra.


Seconda lezione, in rapporto dialettico con la precedente: il ricordo del Mein Kampf e del modo in cui in passato fu sottovalutato, con le tragiche conseguenze che sappiamo, non è da intendere come una bussola per il nostro tempo. Nel senso che non dobbiamo fare dell'amara esperienza degli anni Trenta un quadro di riferimento assoluto. L'errore dei contemporanei, in quegli anni, consistette non solo nell'ignorare quello che era un esplicito avvertimento, ma anche nell'incapacità di capire la novità incarnata dal nazismo. La lezione rimane valida. Oggi quindi bisogna vedere il nazionalismo estremista indiano e turco, l'islamismo e i proclami sulla distruzione di Israele lanciati da certi Stati nella loro specificità, e non come espressione di un rinnovato nazismo. Sarebbe un altro errore, dopo aver sottovalutato il pericolo nazista, agitare a ogni piè sospinto lo spettro degli anni Trenta.


Terza lezione: l'assenza di reazione davanti al Mein Kampf deriva più dalla mancanza di una reale volontà politica che dalla scarsa conoscenza del testo. Oggi sappiamo che il libro, prima della guerra, è stato letto di più e capito meglio di quanto non si sia a lungo ritenuto. Ma cogliere tra le righe il futuro non offre soluzioni già pronte: occorrono coraggio, immaginazione e volontà. «Ho capito il silenzio del mondo davanti ad Auschwitz quando ho visto cos'era successo in Ruanda» ha scritto Rony Brauman. La passività dell'Europa di fronte alla pulizia etnica nella ex Jugoslavia, e la frase di Mitterrand durante l'assedio di Sarajevo – «Non bisogna aggiungere la guerra alla guerra» – sono la prova che agire non è mai una cosa facile.


Quarta lezione: la barbarie può coesistere tranquillamente con la democrazia più avanzata, e quest'ultima non è affatto un baluardo contro l'efferatezza.

Il nazismo si è annidato nelle crepe della democrazia. In Germania si affermò in contemporanea con l'avanzata delle libertà fondamentali, del regno della pubblica opinione e del riconoscimento delle minoranze religiose. Hitler è un prodotto della Germania democratica degli anni Trenta. E il Mein Kampf è fondamentalmente moderno, al contrario di quello che sarebbe facile (e comodo) credere. Tolti gli specifici riferimenti storici, questo libro in cui si parla di parlamento, di partiti, di scienza e di numerosi concetti a noi familiari avrebbe potuto essere scritto nel XXI secolo.

È perché il Mein Kampf ricorda alle nazioni civili che il trionfo delle idee democratiche non ci preserva dai passi indietro, che la ragione democratica non è un credo universale dell'umanità. Una lezione utile, nel momento in cui le nostre società tentate dall'irenismo devono affrontare il disordine e la violenza politica, in Africa, in Oriente, alle porte dell'Europa e anche nel suo cuore.


Quinta lezione: l'antisemitismo radicale, dichiarato dalla futura guida della Germania dieci anni prima di arrivare al potere, ha giocato un ruolo determinante nel crimine dei crimini nazista, la Shoah. Il Mein Kampf è il trait d'union fra Auschwitz e l'antisemitismo. Esso pone dunque il problema della responsabilità dell'Europa nella Shoah. E costituisce un avvertimento sempre attuale sulle conseguenze dell'antisemitismo e del razzismo.


Sesta lezione: parossismo di odio antisemita, il Mein Kampf incarna anche la negazione della società democratica, delle libertà fondamentali, dei Lumi, del progressismo, del meticciato e dell'eguaglianza tra gli individui. La lezione è necessaria, per evitare che in un prossimo futuro il ricordo del nazismo si riduca a fare di quel periodo unicamente un faccia a faccia, gli ebrei contro i nazisti. Questo è ciò che tende ad accadere per l'effetto congiunto della tardiva scoperta a livello di massa della Shoah, e di una ricostruzione europea che cancella le disuguaglianze del passato con un eccesso di sovrapposizione degli ebrei alla memoria dell'Olocausto.

Il mondo libero è stato la prima vittima delle idee naziste. Il Mein Kampf riguarda tutti noi.


Settima lezione: non serve a nulla mettere al bando il Mein Kampf, è inutile tenerlo a distanza o celarlo nei luoghi reconditi dell'inconscio collettivo, quand'anche ciò fosse possibile. Il Mein Kampf è tra noi, e ci resterà ancora a lungo.

Sarebbe meglio, sia in Occidente che altrove, provare a trarne qualche utile lezione. Sarebbe meglio insegnare al maggior numero possibile di persone a decodificarlo, a capirne la portata, a comprendere le condizioni storiche che hanno permesso a questo libro di diventare quello che è diventato. Questo libro, che ancor oggi rappresenta agli occhi di alcuni un modello, contiene in sé il proprio antidoto. Quello che conta, è non scordarlo mai.

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