Copertina
Autore Vladimir Vojnovic
Titolo Propaganda monumentale
EdizioneGarzanti, Milano, 2004, , pag. 480, cop.fle., dim. 137x205x32 mm , Isbn 978-88-11-66520-5
OriginaleMonumental'naja Prppaganda [2002]
TraduttoreMaria Candida Ghidini
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe narrativa russa
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

PROLOGO



Aprii la busta e ne cadde fuori un ritaglio di giornale tutto storto, delle dimensioni di una scatola di fiammiferi. Dalla città di Dolgov, in un riquadro listato a lutto, un gruppo di compagni annunciava con profondo cordoglio la tragica scomparsa della pensionata Revkina Aglaja Stepanovna, membro del PCUS dal 1933, veterana della seconda guerra mondiale e importante attivista sociale.

Mi meravigliai e pensai che qualcuno mi avesse spedito un pezzo datato. Ma girai il foglietto, lessi le parole «Novità in Internet», «Pagers e instant messaging», «Ispezione fisca» (la fine era tagliata via) e mi meravigliai ancora di più. Al giorno d'oggi chi mai poteva commemorare la militanza nel PCUS?

Evidentemente lo sconosciuto che mi aveva mandato l'annuncio supponeva che io non sarei rimasto indifferente, e non si era sbagliato. Mancavo da Dolgov da tempo, non sapevo che Aglaja avesse raggiunto un'età tanto veneranda e facevo fatica a immaginarmi come avesse potuto vivere nella nostra epoca. Partii subito per Dolgov, mi stabilii nell'ex Casa del Colcosiano, ora Hotel Continental, e ci passai un paio di settimane, intervistando coloro che sapevano anche solo qualcosa degli ultimi anni di Aglaja (o l'Agladiatore o la Fanatica, la gente le cambiava il nome nei modi più disparati per adattarlo al suo carattere). Conoscevo bene la sua biografia passata. L'ho esposta parzialmente nel Conkin e nel Progetto. Non starò a ripetermi, ma ricordo brevemente: giovane e appassionata attivista del Komsomol falsificò i propri documenti, si aggiunse cinque o sei anni e si gettò a capofitto nella lotta di classe. A cavallo, con la giubba di cuoio e la pistola a tamburo, girava per il circondario, espropriava i ricchi kulaki, cacciava i poveri nei colcos. Poi diresse l'orfanotrofio, si sposò con il segretario provinciale del partito, Andrej Revkin, che in seguito bisognò sacrificare per un'alta causa. Nell'autunno del 1941, di fronte alle truppe tedesche che entravano a Dolgov, Aglaja fece saltare la centrale elettrica locale, da dove suo marito, che aveva posizionato le cariche, non fece in tempo a uscire. «La Patria non ti dimenticherà!» gli urlò lei nel telefono, e collegò le estremità dei fili.

Durante la guerra, Aglaja Stepanovna comandò una divisione di partigiani e ciò le valse due onorificenze al valor militare. Dopo la guerra divenne segretario provinciale del partito, finché compagni più rapaci non la «fecero fuori». Tornò alle sue attività prebelliche e di nuovo si mise a dirigere l'orfanotrofio intitolato a F.E. Dzeriinskij. Dove, nel febbraio 1956, la sorprese l'evento storico da cui comincia il nostro racconto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

Nel febbraio 1956, il giorno in cui si concluse il XX Congresso del PCUS, nella Casa provinciale del Ferroviere veniva letta ai dirigenti locali del partito la relazione riservata di Chruscėv sul culto della personalità di Stalin. Leggeva il vicesegretario del Comitato provinciale del partito, Pėtr Klimovic Porosjaninov(3), un tipo pasciuto con le guance rosse, calvo, con le orecchie grasse coperte da una peluria setolosa bianchiccia. Quel suo cognome gli calzava a pennello, ma non era l'unico abitante di Dolgov ad avere un cognome parlante. Ci fu un periodo in cui in città convissero il capo della milicija Tjurjagin, il procuratore Strogij, il suo vice Vorovatij, il giudice Semjakin e l'assessore alla Pubblica istruzione Bogdan Filippovic Necitajlov.

Porosjaninov leggeva lentamente, schioccando le labbra, come se stesse mangiando ciliegie e sputando via i noccioli. Farfugliava, per giunta, e s'inceppava su ogni parola, soprattutto su quelle di origine straniera.

-----

(3) Porosjaninov ricorda il termine porosjata, plurale di porosėnok, porcellino. Altri cognomi parlanti della città di Dolgov (che porta un nome doppiamente significativo: dolg vuol dire «debito» o «dovere», mentre l'aggettivo dolgij significa «di lunga durata») sono: il capo della polizia Tjurjagin, da turjaga, è il termine popolare per «prigione»; il procuratore Strogij, da strogij, severo; il suo vice Vorovatij: vor è il ladro, mentre l'aggettivo vorovatyj significa furbo, furtivo; il giudice Semjakin, dove semjakin è un vocabolo antico per «corte», «tribunale» o «processo» ingiusti o corrotti; infine, il cognome dell'assessore alla Pubblica istruzione Necitajlov significa «analfabeta», perché deriva da ne citat', non leggere.

-----

Porosjaninov leggeva e i membri del collettivo ascoltavano in silenzio, tendendo i volti, i colli taurini e le nuche rasate à la boxeur.

Poi venne il momento delle domande al relatore: ci sarebbe stata una purga nel partito e che cosa bisognava fare dei ritratti di Stalin, toglierli dai muri e strapparli dai libri, come già era stato fatto tante volte con gli ex leader della rivoluzione e gli eroi della guerra civile? Porosjaninov girò involontariamente la testa, sbirciò il ritratto di Stalin appeso vicino a quello di Lenin, si rattrappì tutto, ma disse con fare incerto che no, le purghe non erano nell'aria e con i ritratti bisognava andarci piano. Sebbene avesse commesso qualche errore isolato, Stalin era stato e rimaneva una personalità in vista (il relatore usò proprio quest'espressione) del nostro partito e del movimento comunista mondiale, e nessuno intendeva disconoscere i suoi meriti.

Aglaja Revkina, che in vita sua ne aveva viste di tutti i colori, si trovò impreparata a un colpo simile. Uscendo dal club, qualcuno la sentì dire a voce alta, senza rivolgersi a nessuno in particolare:

«Infangati! Infangati!»

Poiché quella sera le strade non erano per niente fangose, anzi c'era freddo, tormenta e neve, una neve candida addirittura, nessuno prese le parole di Aglaja alla lettera.

«Sì, sì», le diede ragione Valentina Semenovna Bockareva, l'impiegata negli uffici di produzione al Consorzio agrario. «Ma a chi abbiamo creduto!»

Elena Murav'eva riferì di questo dialogo estemporaneo alla sezione locale del MGB, e il suo rapporto fu confermato dalla stessa Bockareva, quando fu invitata a un colloquio di carattere profilattico.

Ma la Bockareva aveva frainteso Aglaja. Di fango si era parlato in senso figurato, ma non quello che intendeva lei.

Tornata a casa, Aglaja non riusciva a darsi pace. Ciò che la sconvolgeva più di tutto non erano certo i crimini di Stalin, bensì le critiche mosse a Stalin. Come osavano? Camminava per tutte e tre le stanze del suo appartamento, si batteva i piccoli pugni duri sulle piccole cosce dure e ripeteva a voce alta, rivolgendosi a invisibili avversari: «Come avete osato? Ma chi vi credete di essere? Su chi avete alzato la mano?»

«Ma voi, discendenti superbi...» veniva a galla da un angolino della memoria qualcosa che sembrava dimenticato da tempo...

Non aveva mai creduto in Dio, ma ora non si sarebbe per nulla stupita se, nel pronunciare il discorso, a Porosjaninov si fosse seccata la lingua o staccato il naso, o gli fosse venuta una paralisi. Troppo sacrileghe erano le parole pronunciate alla Casa del Ferroviere.

Non credeva nel Dio celeste, ma il suo dio terrestre era Stalin. Fin da prima della guerra teneva appeso sopra la scrivania il suo ritratto, quello famoso, con la pipa accesa, il fiammifero che ardeva vicino ai baffi leggermente bruciacchiati; durante la guerra aveva vagato con lei per i boschi dei partigiani e poi era tornato al suo posto. Un quadro modesto, in una semplice cornice di tiglio. Nei momenti di dubbio, in occasione delle decisioni più drammatiche, Aglaja alzava gli occhi al ritratto, e il compagno Stalin, strizzando leggermente gli occhi, con il suo sorrisetto buono e saggio, era come se la ispirasse: «Sì, Aglaja, ce la puoi fare, devi farlo e io sono sicuro che tu ce la farai». Già, in vita sua aveva dovuto prendere decisioni difficili, dure e addirittura crudeli nei confronti di diverse persone, ma aveva fatto tutto per il partito, per il paese, per il popolo e per le generazioni future. Stalin le aveva insegnato che per un'idea nobile vale la pena sacrificare tutto e che non bisogna aver pietà di nessuno.

Certo, rispettava anche gli altri dirigenti, i membri del Politbjuro e i segretari del Comitato centrale, ma nella sua immaginazione loro erano pur sempre uomini. Molto intelligenti, audaci, devoti senza riserve ai nostri ideali, ma uomini. Potevano commettere errori nei pensieri, nelle parole e nelle azioni, mentre lui solo era irraggiungibilmente grande e infallibile, e ogni sua parola, ogni suo atto erano così geniali che ai suoi contemporanei e ai posteri non restava altro che considerarli assoluti e giusti ed eseguirli senza fallo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

La grande statua di Stalin stava al centro di Dolgov, in piazza Stalin, ex della Cattedrale, ex dei Caduti. Era stata eretta nel 1949, in occasione del settantesimo compleanno di Stalin, per iniziativa di Aglaja. A quel tempo, lei era il segretario del Comitato provinciale del partito, ma lo stesso le toccò superare dell'ostruzionismo. Tutti comprendevano quale importante ruolo educativo potesse avere un monumento, e nessuno osò opporsi in modo diretto, ma ci furono occulti nemici del popolo e demagoghi che obiettarono, invocando la disastrosa situazione postbellica. Stavano sempre a ricordare che nella provincia si verificavano interruzioni nell'approvvigionamento, che il popolo era povero, faceva la fame e si gonfiava e non era ancora giunto il momento per progetti così grandiosi, fuori dalla portata del bilancio locale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 132

La seduta cominciò senza lungaggini. Relazionava Porosjaninov. Anche se leggeva, si confondeva i casi e le preposizioni, come uno straniero messosi a studiare il russo in età avanzata. Salejko lo ascoltava, ma non lo sentiva. Captava solo brani di singole frasi. La compagna Revkina, comunista di lunga data e con grandi meriti, negli ultimi tempi manifesta segni di incomprensione. Si è dimostrata incline alla presunzione e all'alterigia. Nel momento in cui il partito, insieme con tutto il popolo sovietico, si è orientato verso il nuovo, la compagna Revkina si è fossilizzata sul vecchio. Considerando i meriti passati, è stata trattata con umanità, con lei si è discusso più di una volta e con pazienza, le è stata spiegata l'essenza della politica del partito e del governo allo stato attuale, ma la compagna Revkina non ha voluto ascoltare l'opinione dei compagni, si ostina nel suo errore, ha sostenuto un raggruppamento antipartitico e con ciò lei stessa si è posta al di fuori delle fila del partito.

Questa volta Aglaja si era ben preparata.

Uscì con le grosse dita nella cintura, si sistemò il giubbotto e si scrollò in modo da far tintinnare gli ordini sul petto.

«Voi», disse rivolta alla sala, «avete pensato bene a cosa state facendo? Se non amate il compagno Stalin, perché allora non l'avete detto quando era vivo? A quel tempo avreste potuto dire: "Ci scusi, compagno Stalin, ma noi non vi amiamo". E non amiamo Molotov e Kaganovic. Se l'aveste detto allora, io adesso rispetterei la vostra posizione. Ma allora voi dicevate di amare molto il compagno Stalin e di essere pronti a gettarvi nel fuoco o in mare per lui...»

In sala regnava un timido silenzio. Aglaja sentì di avere in mano l'uditorio e alzò la voce: «Stalin e i suoi coetanei hanno fatto la rivoluzione. E voi, senza rivoluzione, cosa sareste stati? Nessuno. Stalin vi ha innalzati tutti dalle stalle alle stelle...»

Il primo a riscuotersi fu Necaev, che colpì la caraffa con il coperchietto della caraffa stessa. Trasalì anche Porosjaninov: «Compagna Revkina, non abbiamo bisogno di un corso di alfabetizzazione politica. Parlaci di te».

«Č di me che sto parlando», ribatté Aglaja. «Io, come anche voi tutti, sono cresciuta con il nome di Stalin sulle labbra. Sotto la sua guida abbiamo fatto la collettivizzazione, l'industrializzazione...»

Di nuovo Necaev colpì la caraffa, di nuovo Porosjaninov prese ad agitarsi: «Compagna Revkina, non è necessario che ci racconti la storia del partito, la conosciamo».

«Se la conoscete, allora vi consiglierei di ricordare come Stalin abbia combattuto con l'opposizione e con gli opportunisti. In sostanza, con quelli come voi...».

«Compagna Revkina!» alzò la voce Necaev.

«Non vi garba?» si girò verso di lui Aglaja, sarcastica. «E io penso che anche voi non garbereste al compagno Stalin. A lui non piacevano quelli come voi. Il compagno Stalin amava i comunisti onesti, tutti di un pezzo. Ma quando si trattava di traditori...»

«Basta! Basta!» si mise a urlare Necaev. «Vi tolgo la parola. Lasciate la tribuna. Lasciate immediatamente la tribuna!»

«No», resistette lei. «Non ho ancora detto tutto. Sono sicura che voi tutti che sedete qui siete d'accordo con quello che sto dicendo. Avrete anche voi le vostre convinzioni.»

Aveva ragione solo a metà. Quelle persone avevano certo le loro convinzioni, che, tuttavia, consistevano soprattutto nel non contrariare a nessun costo i superiori. E a loro il discorso di Aglaja non era piaciuto perché vi coglievano un rimprovero: io sono brava, tutta di un pezzo, ardita, e voi invece vigliacchi, leccapiedi, marionette.

Non desiderando ammettere di essere delle misere nullità, erano tutti indignati, battevano i piedi, urlando «Vergogna!», «Abbasso!», «Basta!», «Sfrontata!»

«Péntiti», gridava dal suo posto la Murav'eva.

Il direttore delle industrie della carne Botvin'ev balzò in piedi gridando: «Via le erbacce dal campo!» e si mise ad agitare le mani come se estirpasse le erbacce.

All'autore di queste righe è capitato una volta di osservare un dramma avicolo. Una povera gallina crestata cadde casualmente in acqua. Per quanto strano sembri, non annegò, ma si inzuppò così tanto che perse tutte le piume fino all'ultima. Gli altri polli, al vederla con un aspetto tanto miserando, si scagliarono addosso all'infelice, quasi fossero rapaci nati. Dunque, anche in queste creature da niente ribollono grandi passioni e cova la disponibilità a finire a beccate il più debole, proprio come facciamo noi. Si erano gettate sulla loro spiumata sorella con strida d'aquila, la beccavano e l'avrebbero uccisa, se non si fosse intromesso il padrone. La gallina venne separata dalle altre, e, passato un po' di tempo per far crescere le piume, fu accolta di nuovo nella famiglia dei polli.

I membri del bureau gridarono a lungo, strillarono, fischiarono e si fecero venire la schiuma alla bocca come in una riunione della setta dei Convulsionari. Il segretario Necaev invano balzava in piedi, colpiva la caraffa, gridava: «Compagni! Compagni!» I compagni non lo sentivano e non lo ascoltavano, rendendosi benissimo conto che il loro atteggiamento sarebbe stato registrato da qualche parte come un accesso psicopatico giustificato dal punto di vista ideologico.

Quando alla fine si calmarono, cominciarono a intervenire i singoli oratori. Lo zootecnico capo Obertockin, il direttore del cementificio Syrcov, il sovrintendente ai bagni pubblici Kolganov e di nuovo la Murav'eva. Tutti biasimavano la Revkina, dicevano che lei si sbagliava, che si ostinava nei suoi errori, mostrava segni di autocompiacimento, presunzione, alterigia, portava acqua al mulino dei nemici, e magari, era lei stessa una nemica. Una frattura nella società sovietica: proprio su questo contavano i nostri avversari. Ora alla Revkina staranno plaudendo, mentalmente se non altro, gli imperialisti internazionali, guardando a lei, il Pentagono starà mettendo a punto i suoi piani d'aggressione, mentre la CIA l'avrà inclusa nelle liste dei suoi agenti volontari.

C'è il pericolo che il lettore contemporaneo percepisca la scena appena descritta come esageratamente grottesca e, basandosi sulla logica, pensi: non può certo essere che decine di persone riunite insieme si mettano a parlare così! Pensate pure quello che volete, ma la gente di allora faceva proprio così, radunandosi a decine e a centinaia nei luoghi chiusi e a migliaia sulle piazze. E possibile che in mezzo a loro non se ne trovasse neanche uno normale che dicesse: ma, concittadini, che razza di assurdità state dicendo? Avete bisogno di andare tutti dritti in manicomio, e d'urgenza anche. Qualche volta se ne trovavano di tipi così. Ma i pazzi erano loro. Perché un uomo normale capisce che opporsi alla follia generale è pericoloso e inutile, mentre è ragionevole prendervi parte. Va anche osservato che alla gente, si sa, piace recitare, e molti si calano facilmente nel ruolo loro assegnato per paura o per la speranza di una degna ricompensa. Il lettore colto di oggi penserà che ormai non ci siano più dei deficienti come quelli da noi descritti. Purtroppo l'autore non può essere d'accordo. Nell'umanità la quantità complessiva di meschinità e stupidità non aumenta né diminuisce, ma, per fortuna, non sempre è richiesta in toto dall'epoca.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 155

Il trattore avanzava verso Aglaja, lei stava lì ferma, a denti stretti e a pugni chiusi. Il trattore si fermò. L'autista, Slava Sirotkin, si sporse fuori dalla cabina e, riparandosi la zazzera dalla pioggia con la manopola di tela catramata, chiese se Aglaja non fosse per caso scappata dal manicomio. Aglaja si accostò sul fianco e, accennando a ciò che il trattore trascinava, chiese:

«Tu quello dove lo stai portando?»

«Cosa?» chiese Sirotkin.

«Sai chi stai trascinando?» gridò lei per sovrastare il rumore del motore.

«E chi?» Sirotkin si tirò di nuovo dentro la cabina e prese da dietro l'orecchio una sigaretta, lì custodita per scorta.

«Lo sai che quello è Stalin?»

«E chi altri? Certo che è lui.»

«Be', e allora dove lo stai portando?»

«Hanno ordinato di trasferirlo alla stazione», disse Sirotkin mettendosi a fumare. «E là, credo, lo mandano a fondere. Il paese ha un bisogno disperato di metallo per il cosmo.»

«Metallo?» s'indignò Aglaja. «E per te questo sarebbe metallo? Questo è il monumento al compagno Stalin. Noi, tutto il popolo, l'abbiamo eretto. L'abbiamo innalzato quando la gente non aveva il pane e non aveva di che nutrire i bambini. Noi ci siamo privati di tutto per metterlo qui. E tu lo trascini nel fango come una trave qualsiasi. Non ti vergogni?»

Il trattorista si stupì:

«E perché mi dovrei vergognare, mammetta? Come si dice, si vergogna chi conosce la gogna, insomma, io sono solo un trattorista. Mi dicono: trasporta, e io trasporto. Se non mi dicono niente, io vado a farmi una fumatina, ecco tutto», mostrò come avrebbe fatto a fumare, «e niente domande.»

«E se ti agganciassero dietro Lenin, anche lui lo porteresti via?»

«Mammetta, lasciamo stare la politica. Č affare di quelli là, con le teste fini. E io sono un trattorista. Sessantasei rubli al mese, be', poi mi presto se qualcuno deve arare l'orto o cose del genere. Ma chi agganciare e chi portare via, mammetta, quello lo decide il nostro caposquadra Dubilin. Lui mi fa, poniamo, Sirotkin, tu devi portare questo là. E io cosa gli dico? Mi dice di andare là e io non ci vado? Che quello non lo faccio o che altro? Quindi, mammetta, spostati e andiamo avanti.»

Sirotkin si mise di nuovo ai comandi, ma Aglaja si piazzò di nuovo davanti al trattore. Sirotkin lasciò la leva, si buttò all'indietro e cedette.

«Ascolta, figliolo», gli disse dolcemente Aglaja, «e che ne dici se...»

Serafim Butylko vide che Aglaja si mise a sedere nella cabina accanto al trattorista, quello si diede da fare con i comandi, il trattore si mosse in avanti, fece una larga curva e trascinò la sua trave nella direzione opposta.

A un osservatore estraneo sarebbe sembrato strano l'itinerario compiuto poi dal trattore. Dopo avere percorso un tragitto lungo e tortuoso insieme all'opera d'arte che trascinava, si ritrovò alla periferia nord della città presso l'ingresso dell'azienda auto trasporti del consorzio Mezkolchoztroj. Qui Sirotkin lasciò Aglaja sul trattore acceso e corse a cercare il suo amico Saska Lyvkov, autista di autogru. Saska non era lì, dissero che stava lavorando alla stazione, allo spostamento dei ritratti in occasione dell'imminente anniversario della Rivoluzione di ottobre. Sul frontone della stazione prima erano appesi Marx, Engels, Lenin, Stalin, ma ora rimanevano solo Marx e Lenin. Engels l'avevano tolto per amor di simmetria.

Trovarono Saska al buffet, dove, dopo aver spostato i ritratti, stava bevendo e cianciando del più e del meno con la barista Antonina. Lo portarono via dalla barista e andarono direttamente alla casa dove viveva Aglaja. Davanti c'era il trattore, poi veniva la statua e dietro ancora l'autogru. Portarono la statua fino alla finestra e la lasciarono lì. Accorsero naturalmente gli inquilini, che si misero a guardare cosa sarebbe successo. Venne fuori che si trattava di portare il monumento nell'appartamento di Aglaja. Le dimensioni lo consentivano. La statua era alta due metri e mezzo, e il soffitto di Aglaja tre metri e dieci centimetri. Saska, che era quello che se ne intendeva, fece un sopralluogo e disse:

«Lo faremo passare dalla finestra.»

«E come?» chiese Aglaja.

«Con una leva. Archimede, mammetta, diceva: con una leva ti rovescio quello che vuoi. Ecco cosa. Ci si fa sotto, si vira, si fa uno sforzetto e lo si ficca dentro. Aguzzando l'ingegno, mammetta, dentro casa ti ci metto anche un elefante.»

Adesso è difficile anche solo immaginare come abbiano soddisfatto questa insolita richiesta, ma nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, con l'aiuto della gru, di quattro braccia e quattro bottiglie di vodka, il Generalissimo di ghisa fu sollevato, introdotto dalla finestra e sistemato nel soggiorno di Aglaja Revkina, nell'angolo tra le due finestre, delle quali una dava sul cortile a sud e l'altra guardava a est verso l'azienda auto trasporti di via Rozenblum. Naturalmente, il Generalissimo non riusciva a stare in piedi da solo sulle sue gambe, richiedeva almeno un piedistallo. Saska Lykov procurò una lamiera da cinque millimetri e la saldò alla statua. E per giunta, lo fece completamente gratis.

Ai tempi andati, quando si alloggiava qualcuno che non aveva casa presso qualcun altro che ne era fin troppo provvisto, ciò era detto coabitazione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 241

Alla fine dell'estate 1969 si verificò un evento molto importante. Georgij Zukov e sua moglie Elizaveta, avendo deciso di festeggiare il quinto compleanno del figlioletto Vanja, comprarono dal controllore di un treno di passaggio un fusto di alcol polacco e invitarono gli amici. L'alcol risultò essere metilico, gli Zukov morirono tutti e due, uno degli ospiti seguì il loro esempio e altri tre persero la vista.

Valentina, la portinaia, pianse a dirotto per una settimana l'unico suo figlio, voleva togliersi la vita, ma poi capì di non averne il diritto, doveva vivere per il nipotino Van'ka.

Ma per il resto, quella fu una buona annata.

Nella «Pravda di Dolgov» apparve un articolo intitolato Fedeltà. Era stato scritto da tempo. Già all'inizio del '65, Aglaja aveva ricevuto la visita di un giornalista. Le aveva fatto un mucchio di domande. E scrisse subito l'articolo, che però allora non vide la luce. Aglaja sentì dire che il materiale di tanto in tanto veniva tolto dalle cartellette di redazione, e preparato per la stampa, ma poi, all'ultimo, si decideva che non era ancora giunto il momento. Ed ecco che, alla fin fine, il momento era giunto. Ne era venuto fuori un grosso articolo, su due pagine nel taglio basso. Vi si raccontava tutta l'eroica biografia di Aglaja Revkina, per la verità qua e là un po' ritoccata. Si parlava delle sue convinzioni incrollabili. Delle prove e delle persecuzioni, attraverso le quali aveva saggiato la fedeltà ai propri ideali, al partito, alla rivoluzione e allo Stato. Ed era descritta nella maniera più dettagliata l'impresa principale della sua vita: la cura per un prezioso monumento, un capolavoro della propaganda monumentale. Vi si esprimeva la speranza che non sarebbe stato lontano il giorno in cui il capolavoro avrebbe occupato il proprio posto sul piedistallo che lo aspettava.

Č difficile ritenere una coincidenza il fatto che il giorno dopo la pubblicazione dell'articolo galoppò (sulle proprie gambe) fin da lei un corriere con un corto messaggio: «Egregia Aglaja Stepanovna! La prego di passare con urgenza al Comitato provinciale. Porosjaninov.»

Aveva una gran voglia di mandare a quel paese il mittente, attraverso il corriere, ma la curiosità ebbe la meglio.

Mentre si preparava, pensava se non fosse il caso di indossare il giubbetto con tutti gli ordini, ma decise che per il momento sarebbe stato un po' eccessivo. Si agghindò con un completo blu scuro, con sotto la camicetta bianca, sulla giacca le mostrine degli ordini e i distintivi universitari dei vari corsi di partito.

Il suo ex ufficio non aveva più l'aria modesta di quando c'era lei: la scrivania e l'armadio erano nuovi, di betulla della Carelia, un pesante lampadario di bronzo con gli amorini, un soffice divano di pelle, un tavolino basso con le riviste «Ogonek» e «Rabotnica», e sopra la testa di Porosjaninov due ritratti: Lenin e Breznev.

«Salve, Aglaja Stepanovna!» la salutò gioiosamente Porosjaninov. Sgusciò dalla scrivania, le andò incontro e allargò le braccia per un supposto abbraccio, ma si era dimenticato con chi aveva a che fare. Lei borbottò un «salve» indistinto e si scostò. Lui fu perspicace, non insistette, le indicò una delle poltrone e si lasciò cadere sull'altra. Stette un po' zitto, quasi non avesse pensato a come iniziare la conversazione, fece una risatina e disse, guardandola negli occhi:

«Eccoci qua. Per cominciare, non staremo a rivangare il passato. Tu hai sofferto per la tua integrità, questo è stato compreso e considerato. Si sta pensando che sia tempo di correggere certi eccessi, perciò ti rendo noto che la risoluzione riguardo la tua esclusione è stata annullata. L'anzianità rimane ininterrotta, puoi farti registrare tramite la residenza e poi ci metteremo a posto. Hai qualche domanda a questo proposito?»

«Sì», disse Aglaja, «io pretendo delle scuse.»

«Cosa?» si stupì Porosjaninov.

«Insomma, voi mi dovete bene delle scuse.»

«Già.» Porosjaninov sospirò, la guardò e disse con sentimento: «Aglaja Stepanovna! Mia cara compagna di partito! Lo sai bene che il nostro partito riconosce e corregge i propri errori, ma non si scusa.»

«Va bene», convenne Aglaja. «Allora un'altra domanda. Quand'è che riabilitate Stalin?»

Porosjaninov si turbò. Ci pensò su un po'.

«Per prima cosa», disse lui, «visto che, a differenza di Stalin, sei stata completamente riabilitata, hai il diritto di dire "noi", non "voi". Allora qual è la tua domanda?»

«Quand'è che noi riabilitiamo Stalin», cambiò il pronome lei.

«Ma a te che cacchio te ne frega?» chiese Porosjaninov e si mise a guardare fisso Aglaja senza battere ciglio.

«Cosa?» rimase sconcertata Aglaja.

Si stava ripetendo la stessa situazione che si era creata con Marat. Ma Marat era comunque suo figlio, mentre questo...

«Non fa niente, lasciamo stare», disse Porosjaninov e passò a un tono ufficiale: «Da noi nel partito, Aglaja Stepanovna, si pensa, e anche Stalin lo pensava, che non sono i singoli eroi che fanno la storia, ma il popolo sotto la guida del partito comunista. In questa fase con a capo il primo leninista, il compagno Breznev, quella stazione», non le diede il tempo di reagire, «noi l'abbiamo già passata e ci siamo già trasferiti su un altro treno. Noi, i dirigenti del partito della provincia, ci siamo dati da fare per farti passare a una pensione personale a livello nazionale. E c'è di più: ecco qua un buono di soggiorno per Soci, ti verrà pagato il biglietto, ferroviario o d'aereo. Stai un po' là, curati, fatti la sauna, non trascurare nessun trattamento: massaggi, bagni di fango, la doccia di Charcot. Fa benissimo, l'ho provata anch'io. Ti rimetti in forze, ritorni e vieni qua. Se lo vorrai, ti troveremo un lavoro dignitoso nel partito. Se non ne avrai voglia, riposati, leggi, studiati i classici del marxismoleninismo.»

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 308

Subkin fu battezzato in casa da un ex vicino di Aglaja, il figlio di padre Egorij, prete anche lui, padre Dionisij, da bambino noto come Deniska. In seguito fu difficile abituarsi a un altro nome e così fu chiamato pope Deniska, e poi ancora pope Radischia, dal colore che col tempo aveva preso il suo naso pretesco. Anche il pope Radischia a Dolgov era considerato un dissidente, dopo che aveva compiuto un piccolo atto di teppismo. Le autorità locali del partito avevano chiuso l'unica chiesa della città, quella di Cosma e Damiano, e Radischia vi si era opposto in un modo quanto mai osceno. Ottenebrato dall'alcol, con la tonaca indosso aveva pisciato giù dal campanile sull'assessore agli affari religiosi, il compagno Sikodanov. Per cui le autorità civili lo avevano messo dentro per una decina di giorni, mentre quelle religiose lo avevano spretato. La gerarchia ecclesiastica lo accusava anche di avere poca considerazione del canone durante la liturgia, i riti e la predicazione, e di celebrare la messa in modo molto personale.

Lui non considerò legittima la sospensione e continuò a pascere il proprio gregge. Ufficiosamente, e con ogni possibile infrazione del canone, a casa propria o a domicilio, battezzava, sposava, comunicava, commemorava, benediceva l'acqua, i pani pasquali e le proprietà.

Io presenziai al battesimo di Subkin per caso. Era ormai la metà degli anni Settanta. Dovevo restituirgli un libro, mi pare Gilas, che mi aveva dato da leggere, come al solito in una notte. La mattina mi ficcai in seno il libro e mi diressi da Subkin. A dir la verità, avevo un po' di paura. Sapevo che la casa di Subkin era sotto costante controllo, neanche poi tanto segreto, che tutti quelli che entravano o uscivano di là erano segnati. E potevano anche essere fermati. E se mi fermavano e trovavano il libro? Che cosa avrei detto? Che l'avevo casualmente trovato per strada? Che qualcuno me lo aveva affibbiato? Magari avrei potuto dire che mi stavo proprio recando al KGB per consegnarlo. Per farla breve, ero terrorizzato, ma ci andai lo stesso. Dopo essere salito al primo piano bussai come convenuto: toc-toc, poi toc-toc-toc e ancora un toc. La porta fu aperta da Antonina, con un grembiule a fiori e un grosso boccale nella mano sinistra. Vedendomi, si portò un dito alle labbra e sussurrò:

«Mark Semenovic si sta battezzando.»

«Allora sarà per un'altra volta», dissi io.

«Piccioncino, cosa se ne sta lì a sussurrare!» sentii l'energica voce di Subkin. «Venga qua! Non abbia paura.»

Entrai nella stanza.

E qui non si può fare a meno di descrivere quell'abitazione, almeno per sommi capi. Solo il cielo sa cosa fosse diventata quella camera durante la permanenza di Subkin. Tutte e quattro le pareti, dal pavimento al soffitto, erano occupate da rozzi scaffali zeppi di libri. Alcuni erano perfino appoggiati in orizzontale su quelli che stavano in piedi. Vi erano anche ammucchiati carte, manoscritti, lettere, giornali ingialliti. Ma sulle mensole non ci stava tutto, altre montagne, pile, mucchi di libri, vecchi giornali e altre carte si ammassavano sul pavimento sotto gli scaffali. Di libri e carte era coperta per metà l'unica finestra della camera. E poi vanno menzionate anche le fotografie. Moltissime fotografie, dello stesso Subkin, di Antonina, dei conoscenti, degli amici. Subkin ne aveva così tante che io naturalmente non potevo conoscere tutti, ma c'erano l'Ammiraglio, Raspadov, Sveta Zurkina e anch'io, in varie versioni. La cosa più interessante, tuttavia, di quella esposizione permanente erano gli eroi, la cui squadra era cambiata in modo radicale dai tempi in cui avevo fatto conoscenza con Subkin. Anche prima cambiava, ma gradualmente. Mi ricordo che fra i ritratti c'erano quelli di Lenin, Marx, Dzeriinskij, Puskin, Lev Tolstoj, Gor'kij, Majakovskij. Poi Gor'kij fu sostituito da Hemingway e Majakovskij da Pasternak. Un tempo l'esposizione vantava nonno Ho, Fidel Castro e Che Guevara. Ora tutti quelli che stavano in quell'elenco erano spariti, sulle mensole li avevano sostituiti icone a buon mercato e i ritratti di Sacharov, Solzenicyn, padre Pavel Florenskij e padre Ioann di Kronstadt.

Quando entrai nella camera, trovai Subkin con un aspetto molto strano. Aveva indosso soltanto i mutandoni risvoltati e tenuti su da una cintura militare con una patacca di ottone. Era in piedi, scalzo, dentro una bacinella smaltata piena d'acqua e accanto a lui trafficava pope Radischia, a quel tempo ancora abbastanza giovane, ma già sciatto, non molto pulito, con la barba arruffata nella quale da sempre deperiva uno scarafaggio. Riguardo allo scarafaggio, sarà anche un brutto tiro della memoria, è difficile pensare che se ne stesse lì senza cadere. Ma il fatto è che io me lo ricordo proprio così, padre Radischia, con uno scarafaggio sempre presente nella barba.

Descrivendo pope Radischia prevedo già l'accusa di malevolenza e addirittura di sacrilegio. Lo so, diranno di me che non ho niente di sacro, che mi faccio beffe della fede, della chiesa, e che nell'immagine di pope Radischia raffiguro tutti gli uomini di chiesa. Dirò subito che le cose non stanno così. Non rido della fede e della chiesa, in complesso provo rispetto per il clero e nell'immagine di pope Radischia raffiguro soltanto pope Radischia. Lui personalmente, solo e unico nel suo genere. Mi è capitato di incontrare molti altri preti, e tutti erano straordinariamente accurati. Si lavavano ogni giorno, denti compresi, si pettinavano la barba e si cambiavano d'abito, lavavano i vestiti, li mandavano in tintoria. Ma pope Radischia era proprio così e io cosa posso farci?

| << |  <  |