Copertina
Autore Kurt Vonnegut
Titolo La colazione dei campioni
Edizioneeleuthera, Milano, 1999 [1992], , pag. 288, cop.fle., dim. 124x190x18 mm , Isbn 978-88-85060-57-9
OriginaleBreakfast of Champions [1973]
TraduttoreAttilio Veraldi
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe narrativa statunitense
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

PREMESSA



-> L'espressione «La Colazione dei Campioni» è un marchio registrato della General Mills Inc. per indicare un prodotto a base di cereali destinato alla prima colazione. L'uso della stessa espressione come titolo di questo libro non indica alcuna forma di associazione con la General Mills né di pubblicità per essa, e tanto meno tende a screditarne gli ottimi prodotti.

-> Colei alla quale questo libro è dedicato, Phoebe Hurty, non è più tra i vivi, come suol dirsi. Quando la conobbi, verso la fine della Grande Depressione, era una vedova di Indianapolis. Io allora avevo all'incirca sedici anni, lei una quarantina.

Era ricca, ma aveva lavorato ogni giorno feriale della sua vita di adulta e così continuò a fare. Teneva una saggia e divertente rubrica di consigli per gli innamorati disperati sul «Times» di Indianapolis, un ottimo giornale ormai defunto.

Defunto.

Scriveva anche annunci pubblicitari per la William H. Block Company, un grande magazzino che ancora prospera in un edificio disegnato da mio padre. Per una svendita di fine estate di cappellini di paglia scrisse questo annuncio: "Per quel che costano potete anche calcarli in testa al vostro cavallo».

-> Phoebe Hurty m'ingaggiò per scrivere testi pubblicitari per confezioni da giovinetti. Dovevo portare gli abiti che lodavo: faceva parte del lavoro. E così divenni amico dei suoi due figli, che avevano la mia età. Ero sempre lì da loro.

Era sboccata con me e i figli, e anche con le nostre amichette, quando ce le portavamo dietro. Era divertente. Disinibente. Ci insegnò a essere maleducati non solo nei discorsi riguardanti le faccende sessuali ma anche in quelli riguardanti la storia americana e gli eroi famosi, la distribuzione della ricchezza, la scuola, insomma tutto.

Ora io campo facendo il maleducato. Ma ci riesco goffamente. Mi limito, da sempre, a imitare quella maleducazione che in lei, Phoebe Hurty, era piena di grazia. Ormai son convinto che per lei la grazia era più facilmente raggiungibile che per me proprio grazie allo stato d'animo dettato dalla Grande Depressione; lei credeva in quello in cui credevano tanti americani a quel tempo: che una volta raggiunta la prosperità il Paese sarebbe stato felice, giusto e razionale.

Quella parola, Prosperità, non l'ho sentita più nominare. Allora era sinonimo di Paradiso. E Phoebe Hurty aveva finito col convincersi che la maleducazione da lei raccomandata avrebbe dato forma a un paradiso americano.

Ora quella specie di maleducazione è di moda. Ma nessuno più crede in un nuovo paradiso americano. Sento molto la mancanza di Phoebe Hurty.

-> Quanto al sospetto che esprimo in questo libro, e che cioè gli esseri umani siano robot, macchine: occorre tener presente che quando io ero ragazzo quello della gente, in genere uomini, ormai agli ultimi stadi della sifilide, ormai affetti dalla locomotor ataxia, era uno spettacolo comune per le vie del centro di Indianapolis.

Quella gente era infestata da piccoli cavaturaccioli carnivori visibili soltanto al microscopio. Quando questi cavaturaccioli s'eran fatti fuori la carne tra le vertebre delle vittime quelle si saldavano insieme. I sifilitici erano dignitosissimi d'aspetto: eretti, lo sguardo dritto davanti a sé.

Una volta ne vidi uno fermo all'angolo della Meridian Street con la Washington, sul bordo del marciapiede, sotto un orologio sospeso che era stato disegnato da mio padre. Quell'incrocio era noto ai locali come «Il Bivio d'America».

Quel sifilitico era tutto preso a pensare, lì al Bivio d'America, su come fare per indurre le proprie gambe a scendere dal marciapiede e a portarlo dall'altra parte di Washington Street. Si diede una scrollatina come se avesse dentro un motorino inceppato. Il suo problema era il seguente: il cervello, da dove partono le istruzioni per le gambe, gli veniva divorato vivo dai cavaturaccioli. I fili che trasmettono le istruzioni non erano più isolati, o erano stati addirittura divorati. Le valvole lungo tutto l'impianto erano saltate.

Bene, quell'uomo sembrava vecchio, anzi vecchissimo, benché non dovesse avere più d'una trentina d'anni. Stava lì, tutto concentrato, dopodiché sgambettò un paio di volte come una ballerina di varietà.

Non c'è dubbio che a me, ch'ero un ragazzo, apparisse come una macchina.

-> Sono portato inoltre a vedere gli esseri umani come delle enormi provette ribollenti di reazioni chimiche. Quand'ero ragazzo vedevo una quantità di gente col gozzo. Altrettanto succedeva a Dwayne Hoover, il concessionario della Pontiac protagonista di questo libro. Quegli infelici mortali avevano tiroidi talmente gonfie da dare l'impressione che in gola gli fossero spuntate delle zucchine.

Poi saltò fuori che per condurre una vita normale non dovevano fare altro che consumare un tantinello meno d'un trecentomillesimo di grammo di iodio al giorno.

Quanto a mia madre, si rovinò il cervello con i prodotti chimici che avrebbero dovuto farla dormire.

Quando mi sento depresso prendo una pillolina e mi rianimo.

E così via.

Perciò quando creo il personaggio di un romanzo provo la forte tentazione di dire che è quel che è a causa d'un impianto di fili difettoso o di microscopiche quantità di sostanze chimiche da lui ingerite o non ingerite in quel particolare giorno.

-> Cosa penso personalmente di questo mio libro? Mi butta completamente giù; ma tutti i miei libri mi buttano giù. D'un romanzo particolarmente imbarazzante il mio amico Knox Burger una volta disse: «... dà l'impressione di essere stato scritto da Philboyd Studge». Che è colui che penso d'essere quando scrivo ciò che sono apparentemente programmato a scrivere.

-> Questo libro è il regalo che mi faccio per il mio cinquantesimo compleanno. Mi sento come se stessi superando il culmine d'un tetto... dopo essermi arrampicato su per una delle falde.

A cinquant'anni sono programmato a comportarmi in modo infantile: vilipendere il «Vessillo a stelle e strisce», scarabocchiare una bandiera nazista, un buco di culo e tant'altre cose. Per dare un'idea della maturità delle illustrazioni da me eseguite per questo libro, ecco il mio disegno d'un buco di culo:

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

-> Questo è il racconto dell'incontro di due uomini bianchi, solitari, macilenti e abbastanza anziani, su un pianeta che andava rapidamente morendo.

Uno dei due era uno scrittore di fantascienza di nome Kilgore Trout. A quel tempo non era nessuno e immaginava che la propria vita fosse finita. Si sbagliava: in seguito a quell'incontro, divenne uno degli esseri umani più amati e rispettati della storia.

Colui col quale s'incontrò era un rivenditore d'auto, un concessionario della Pontiac di nome Dwayne Hoover. Dwayne Hoover era sul punto d'impazzire.

-> State a sentire:

Trout e Hoover erano cittadini degli Stati Uniti d'America, Paese per brevità chiamato direttamente America. Questo che segue era il suo inno nazionale, un'autentica cretinata, come tante altre cose che quel Paese era portato a prendere sul serio:

Oh, dimmi, distingui alla prima luce dell'alba
quella che salutammo con tanta fierezza all'ultimo
bagliore
del crepuscolo?
Le cui larghe strisce e lucenti stelle,
per tutto il periglioso scontro
di sugli spalti vedemmo fileggiare
eroicamente?
E la rossa vampa dei razzi, le bombe
deflagranti nell'aria,
per tutta la notte prova ci diedero
che la nostra bandiera era ancora lì.
Oh, dimmi, ondeggia ancora quel vessillo
a stelle e strisce
sulla terra del libero e sulla patria
del prode?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

-> Dwayne era vedovo. La notte viveva solo in una casa bellissima a Fairchild Heights, la più ambita zona residenziale della città. Per costruirvi una casa occorrevano allora almeno centomila dollari. Ogni casa aveva almeno un ettaro di terreno tutt'intorno.

La notte, l'unico compagno di Dwayne era un cane da riporto Labrador di nome Sparky. A causa di un incidente d'auto di molti anni prima, Sparky non poteva agitare la coda, quindi non poteva trasmettere agli altri cani i sensi della sua amicizia: doveva battagliare in continuazione. E aveva le orecchie a brandelli. Era una cicatrice unica.

-> Dwayne aveva una domestica nera che si chiamava Lottie Davis. Gli puliva la casa ogni giorno, poi gli preparava la cena e gliela serviva. Dopodiché se ne andava a casa. Discendeva da schiavi.

Lottie Davis e Dwayne non parlavano molto, anche se si trovavano molto simpatici. Quasi tutti i suoi discorsi Dwayne li dedicava al cane. Ruzzava con lui sul pavimento e gli diceva cose così: «Tu e io, Sparky», oppure «Come sta il mio amichetto?» e così via.

E poiché la cosa andò avanti immutata anche dopo che Dwayne cominciò ad impazzire, Lottie non si accorse di alcun cambiamento.

-> Kilgore Trout possedeva un pappagallo che si chiamava Bill. Come Dwayne Hoover, anche lui era completamente solo la notte, a parte il suo parrocchetto.

Ma mentre Dwayne andava cianciando d'amore al suo Labrador, al suo parrocchetto Trout sorrideva e bisbigliava cose a proposito della fine del mondo.

«Da un momento all'altro» diceva. «E sarebbe ora, tra l'altro».

Lui aveva una sua teoria: presto l'atmosfera sarebbe diventata irrespirabile.

E immaginava che quando l'atmosfera sarebbe diventata velenosa, Bill se ne sarebbe andato qualche minuto prima di lui. A tal riguardo lo prendeva anche in giro: «Come andiamo con la respirazione, Bill?» diceva; oppure: «Mi pare che ti sei buscato un po' d'enfisema, Bill»; o ancora: «Non abbiamo mai parlato di che tipo di funerale ti piacerebbe, Bill. Non mi hai neppure mai detto di che religione sei». E così via.

Diceva a Bill che l'umanità meritava di fare una morte orribile per essere stata tanto feroce da rovinare un pianeta così bello. «Siamo tutti degli Eliogabali, Bill» gli diceva. Così si chiamava un imperatore romano che si fece fare da uno scultore un toro di ferro, vuoto dentro e di grandezza naturale, con uno sportello che si chiudeva da fuori. Il toro aveva la bocca spalancata, e questa era la sola altra apertura verso l'esterno.

Eliogabalo faceva entrare una creatura umana per lo sportello, che poi veniva chiuso da fuori. I rumori che l'essere umano faceva all'interno del toro venivano fuori dalla bocca spalancata. L'imperatore invitava gente a una bella festa, con abbondanza di cibo e vini e belle donne e bei ragazzini, dopodiché faceva accendere della ramaglia da un servo. La ramaglia stava sotto a della legna che stava sotto al toro.

-> Trout faceva un'altra cosa che certuni avrebbero giudicato eccentrica: chiamava gli specchi falle. Lo divertiva pensare che gli specchi fossero buchi tra due universi.

Se vedeva un bambino davanti a uno specchio, scuoteva il dito con aria d'ammonimento e diceva, tutto serio: «Non avvicinarti troppo a quella falla. Non vuoi essere risucchiato in un altro universo, vero?».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 115

-> Quando Dwayne Hoover vide Harry LeSabre, il suo direttore delle vendite, in calzamaglia verde lattuga, gonnellino di paglia e tutto il resto, stentò a credere ai propri occhi. Perciò s'impose di non vedere. Se ne andò nel suo ufficio, anch'esso ingombro di ukulele e ananas.

Francine Pefko, la sua segretaria, aveva un aspetto normale, a parte una ghirlanda di fiori intorno al collo e un fiore dietro l'orecchio. Gli sorrise. Si trattava di una vedova di guerra con labbra come cuscini di divano e capelli rosso acceso. Adorava Dwayne. E adorava anche la Settimana Hawaiana.

«Aloha» gli disse.

-> Harry LeSabre, intanto, era stato distrutto da Dwayne.

Quando gli s'era presentato combinato in quella ridicola maniera, ne aveva atteso la reazione con ogni molecola del proprio corpo. E, per un attimo, ognuna di queste aveva cessato la propria attività, aveva posto una certa distanza tra sé e le consorelle e, tutte insieme, erano rimaste in attesa di sapere se la loro galassia, che rispondeva al nome di Harry LeSabre, si sarebbe dissolta o no.

Quando poi Dwayne s'era comportato come se lui, Harry, fosse invisibile, sempre lui, Harry, aveva concluso di essersi rivelato un travestito ributtante e che pertanto doveva considerarsi licenziato.

Così aveva chiuso gli occhi, col desiderio di non riaprirli mai più. Il suo cuore aveva poi inviato il seguente messaggio alle molecole: "Per ragioni evidenti a tutti noi, questa galassia è dissolta!».

-> Dwayne intanto ignorava completamente tutto questo. S'appoggiò alla scrivania di Francine Pefko e fu sul punto di rivelarle il proprio malessere. Invece l'avvertì: "Per non si sa quali ragioni, questa è proprio una giornataccia. Perciò niente barzellette e niente scherzi. Tutto deve scorrere liscio. Chiunque sia un tantino tocco deve stare alla larga. E niente telefonate».

Francine gli disse che i gemelli stavano aspettando nel suo ufficio. "Credo che alla grotta stia succedendo qualcosa di antipatico» gli annunciò.

Dwayne le fu grato per quel messaggio tanto semplice e chiaro. I gemelli erano i suoi due fratellastri più piccoli, Lyle e Kyle Hoover. La grotta era la Sacra Grotta del Miracolo, una trappola per turisti poco fuori Shepherdstown, a sud, che Dwayne possedeva in società con Lyle e Kyle. Era l'unica fonte di introiti per i due gemelli, che vivevano in due identiche casette di legno gialle ai due lati del negozio di souvenirs che nascondeva l'ingresso della grotta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 126

-> Kilgore Trout pensava alle sirene a vapore che lui aveva conosciuto e sentito, e alla distruzione del West Virginia che aveva reso possibile quei loro suoni. Immaginava che quel laceranti stridii fossero volati via nello spazio insieme col calore. Si sbagliava.

Come molti autori di fantascienza, Trout non capiva niente di scienza e i particolari tecnici l'annoiavano a morte. In realtà, nessun fischio di sirena s'era allontanato di molto dalla Terra, e per la seguente ragione: il suono poteva viaggiare solo nell'atmosfera e, in termini relativi, l'atmosfera della Terra non era spessa neppure quanto la buccia di una mela. Al di là esisteva il vuoto perfetto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 129

-> Trout, ch'era rimasto ormai con pochi soldi, ordinò una tazza di caffè. Poi chiese a un uomo molto vecchio che stava seduto sullo sgabello accanto, lì al banco, se aveva lavorato nelle miniere di carbone.

Il vecchio rispose così: «Da quando avevo dieci anni fino ai sessantadue».

«Contento d'esserne fuori adesso?» chiese Trout.

«Cristo» rispose il vecchio, «non ne sei mai fuori... neanche quando dormo. Io sogno miniere».

Trout gli chiese poi che cosa si provava a lavorare per un'industria il cui compito era quello di distruggere l'ambiente, e il vecchio rispose che di solito era troppo stanco per preoccuparsi di queste cose.

-> «E anche se te ne preoccupi non conta» aggiunse poi, «se non possiedi quello per cui ti preoccupi». E fece notare che i diritti per lo sfruttamento minerario dell'intera contea nella quale si trovavano appartenevano alla Società Mineraria Rosewater, che li aveva acquistati subito dopo la fine della Guerra Civile. «La legge» proseguì, «dice che quando uno possiede qualcosa sotto terra e vuole arrivarci per prendersela, devi permettergli di sconvolgere tutto quello che si trova tra la superficie e ciò che possiede».

Trout non collegò la Società Mineraria Rosewater con Eliot Rosewater, il suo unico ammiratore; credeva ancora che Eliot Rosewater fosse un minorenne.

La verità era che gli antenati di Rosewater erano stati tra i principali distruttori della superficie e della popolazione del West Virginia.

-> «A me non sembra giusto, però» confidò il vecchio minatore a Trout, «che uno possa possedere cose che stanno sotto la fattoria o il bosco o la casa di un altro. E che ogni volta che quello vuole arrivare alle cose che stanno là sotto per prendersele abbia il diritto di sconvolgere quello che ci sta sopra. I diritti di quelli che stanno sopra la superficie sono ben poca cosa in confronto ai diritti di quelli che posseggono le cose che stanno sotto».

Ricordò poi di quando lui e gli altri minatori avevano cercato di costringere la Società Mineraria Rosewater a trattarli come esseri umani. Avevano spesso combattuto delle piccole guerre contro la polizia privata della Società, la polizia dello Stato e la Guardia Nazionale.

«Non ho mai visto un Rosewater» disse, «ma vincevano sempre loro. Camminavo su roba dei Rosewater, scavavo buchi per i Rosewater, abitavo in una casa dei Rosewater, mangiavo cibo dei Rosewater. Combattevo contro i Rosewater, chiunque fossero, e loro vincevano sempre e mi lasciavano steso a terra tramortito. Chiedi alla gente di qui e chiunque ti dirà: tutta questa parte di mondo, per quel che ci riguarda, è dei Rosewater».

| << |  <  |