Autore David Foster Wallace
Titolo Una cosa divertente che non farò mai più
Edizioneminimum fax, Roma, 2017 [1998], Sotterranei 19 , pag. 154, cop.fle., dim. 14,6x21x1,4 cm , Isbn 978-88-7521-837-9
OriginaleA Supposedly Fun Thing I'll Never Do Again [1997]
TraduttoreGabriella D'Angelo, Francesco Piccolo
LettoreElisabetta Cavalli, 2018
Classe narrativa statunitense , viaggi , mare












 

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E allora oggi è sabato 18 marzo e sono seduto nel bar strapieno di gente dell'aeroporto di Fort Lauderdale, e dal momento in cui sono sceso dalla nave da crociera al momento in cui salirò sull'aereo per Chicago devono passare quattro ore che sto cercando di ammazzare facendo il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che ho visto, sentito e fatto per il reportage che mi hanno commissionato.

Ho visto spiagge di zucchero e un'acqua di un blu limpidissimo. Ho visto un completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l'olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato «Mister» in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l'Electric Slide. Ho visto tramonti che sembravano disegnati al computer e una luna tropicale che assomigliava più a una specie di limone dalle dimensioni gigantesche sospeso in aria che alla cara vecchia luna di pietra degli Stati Uniti d'America che ero abituato a vedere.

Ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga.

Devo dire che ho vissuto il reportage commissionatomi con una sorta di fobia della prestazione. L'anno scorso una certa rivista patinata dell'East Coast aveva deciso di mandarmi a una di quelle vecchie e tranquille fiere locali, a farmi fare una specie di reportage, senza darmi nessuna indicazione precisa, ed è rimasta soddisfatta dei risultati. Così adesso mi è stata offerta quest'altra ciliegina tropicale, anche qui senza nessuna indicazione o richiesta specifica. Ma questa volta mi sento più a disagio: il rimborso spese della fiera locale era di ventisette dollari esclusi i giochi a premi. Questa volta Harper's ha sganciato più di tremila dollari senza aver letto neanche una delle mie succose descrizioni ipnotico-sensoriali. Mi continuano a dire – con grande pazienza, al radiotelefono della nave – di non affliggermi per questioni del genere. Credo davvero che questa gente che lavora nei giornali sia in malafede. Dicono che tutto quello che vogliono è una specie di cartolina turistica gigante scritta da uno che ci è stato – vai, ti fai i Caraibi alla grande, torni e racconti quello che hai visto.

Ho visto un sacco di navi bianche veramente enormi. Ho visto frotte di pesciolini con le pinne luccicanti. Ho visto un parrucchino in testa a un ragazzo di tredici anni. (Ai pesci luccicanti piaceva ammucchiarsi tra la carena e il cemento delle banchine ogni volta che attraccavamo.) Ho visto la costa settentrionale della Giamaica. Ho visto e ho sentito la puzza di tutti i 145 gatti che vivono nella villa di Ernest Hemingway a Key West in Florida. Ora conosco la differenza tra Bingo e Superbingo, e cosa significa quando il jackpot del Bingo va «a palla di neve». Ho visto videocamere che praticamente richiedevano un carrello; ho visto valigie fosforescenti e occhiali da sole fosforescenti con cordicelle fosforescenti e più di venti tipi diversi di ciabatte infradito. Ho sentito tamburi da banda di paese e ho mangiato frittelle di sgombro e ho visto una donna in lamé argentato che vomitava a getto dentro un ascensore di vetro. Ho tenuto il ritmo di due quarti puntando il dito verso il cielo esattamente sulla stessa disco music sulla quale odiavo puntare il dito verso il cielo nel 1977.

Ho imparato che in realtà ci sono intensità di blu anche oltre il blu più limpido che si possa immaginare. Ho mangiato più che mai e piatti più sofisticati che mai, per di più nella stessa settimana in cui ho imparato anche la differenza tra beccheggiare nel mare agitato e rollare nel mare agitato. Ho sentito un comico professionista dire seriamente al pubblico: «A parte gli scherzi». Ho visto completi fucsia e giacche rosa mestruo e scaldamuscoli viola e marrone e mocassini bianchi senza calzini. Ho visto croupier professioniste così carine che ti facevano venire voglia di fiondarti al loro tavolo e perdere fino all'ultimo centesimo a blackjack. Ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedevano all'Ufficio Relazioni con gli Ospiti se per fare snorkeling c'è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all'aperto, se l'equipaggio dorme a bordo e a che ora è previsto il Buffet di Mezzanotte. Ora conosco l'esatta differenza mixologica fra uno Slippery Nipple e un Fuzzy Navel. So cos'è un Coco Loco. Sono stato oggetto in una sola settimana di oltre 1500 sorrisi professionali. Mi sono scottato e spellato due volte. Ho fatto tiro al piattello sul mare. È abbastanza? In quei momenti non sembrava mai abbastanza. Ho sentito quanto pesa la cappa del cielo subtropicale. Almeno una dozzina di volte il suono della sirena della nave, un'assordante flatulenza degli dei, mi ha fatto prendere un colpo. Ho assimilato i fondamenti del mah-jong, mi sono visto a stralci una due giorni di bridge contratto, ho imparato come si allaccia il giubbotto salvagente sopra lo smoking e ho perso a scacchi con una bambina di nove anni.

(Per la verità, ho fatto tiro verso il piattello, sul mare.)

Ho mercanteggiato per dei gioielli senza valore con ragazzini malnutriti. Ora conosco ogni possibile giustificazione o scusa per chi spenda tremila dollari per andarsi a fare una crociera ai Caraibi. Mi sono mangiato le mani per aver rifiutato autentica marijuana giamaicana da un giamaicano autentico.

Una volta ho visto dalla balaustra del ponte scoperto, molto più in basso e a destra della coda della carena, una cosa che mi è sembrata essere la pinna di uno squalo, mimetizzata nella scia del motore di dritta, violenta come le cascate del Niagara. Ho sentito – e non ho parole per descriverla – una musichetta da ascensore in versione reggae. Ho capito cosa significa avere paura del proprio water. Ho imparato ad avere il «piede marino» e ora mi piacerebbe perderlo. Ho assaggiato il caviale e mi sono trovato d'accordo con il giudizio del bambino che mi sedeva accanto: fa schifo.

Ora ho capito bene cosa significa duty free.

Ora conosco la velocità massima in nodi di una nave da crociera. (Anche se non ho ancora ben capito cos'è un nodo.) Ho mangiato escargot, anatra, salmone affumicato dell'Alaska, salmone con finocchi, pellicano al marzapane e un'omelette fatta con quelle che venivano definite «tracce di tartufo etrusco». Ho sentito persone sedute sulle sdraio sul ponte dire che non è tanto il caldo, ma l'umidità. Sono stato – completamente, professionalmente e come mi era stato promesso – viziato.

Ho osservato e catalogato, con ribrezzo, ogni tipo di eritemi, cheratinosi, lesioni pre-melanoma, macchie da mal di fegato, eczemi, verruche, cisti papulari, pancioni, celluliti femorali, vene varicose, trattamenti al collagene e al silicone, tinture orribili, trapianti di capelli malriusciti – insomma, ho visto un sacco di gente seminuda che avrei preferito non vedere seminuda. Mi sono sentito depresso come non mi sentivo dalla pubertà e ho riempito quasi tre taccuini per capire se era un Problema Mio o un Problema Loro.

Ho acquisito e nutrito un rancore che potrebbe anche durare tutta la vita verso il direttore d'hotel della nave – il cui nome era signor Dermatis e che io da allora in poi ho battezzato signor Dermatitis – un rispetto quasi ossequioso per il mio cameriere e un'ardente passione per la cameriera della mia cabina del corridoio sul ponte 10, Petra, Petra dalle fossette e dalle sopracciglia ampie e candide, che indossava divise sempre bianche inamidate e fruscianti e profumava del disinfettante al cedro norvegese che passava nei bagni; e che puliva ogni centimetro praticabile della mia cabina almeno dieci volte al giorno, ma che non si è mai fatta sorprendere nell'atto di pulire – una figura di eleganza magica e duratura, meritevole di una cartolina tutta dedicata a lei.

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Viaggiare in mare per la prima volta è un'occasione per capire che l'oceano non è uno solo. Il mare cambia. Le onde dell'Atlantico che si gonfiano al largo della costa orientale degli Stati Uniti sono opache, senza luce e insignificanti. Intorno alla Giamaica, invece, il mare è di un azzurro lattiginoso e trasparente. Al largo delle isole Cayman è blu elettrico e al largo di Cozumel è quasi viola. Lo stesso vale per le spiagge. Si può dire a occhio nudo che la sabbia della Florida del Sud viene dalle rocce: fa male sotto i piedi nudi e ha quella specie di luccichio minerale. Ma quella di Ocho Rios assomiglia più allo zucchero di canna, e quella di Cozumel allo zucchero raffinato, e in alcuni posti lungo la costa della Grand Cayman la consistenza della sabbia sembra farina o silicato, di un bianco irreale e vaporoso come il bianco delle nuvole. L'unica vera costante nella topografia nautica dei Caraibi toccati dalla m.n. Nadir ha a che fare con un che di irreale e con una ricercatezza che sembra artificiale – è impossibile da descrivere bene, ma la definizione più plausibile cui riesco a pensare è che sembra tutto costoso.

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Non vi posso dare l'idea delle dimensioni surreali di tutto: la nave, le funi, i nodi, l'ancora, il molo, l'immensa volta di lapislazzuli del cielo. I Caraibi sono, come sempre, senza odori. Il pavimento del ponte 12 è fatto di tavole senza il minimo interstizio fra l'una e l'altra, dello stesso tipo di sughero che emana quel buon odore nelle saune.

Comunque, guardare giù da molto in alto i vostri connazionali che ondeggiano nei loro sandali costosi in porti devastati dalla miseria non è fra i momenti più divertenti di una crociera extralusso 7NC.

C'è qualcosa di inequivocabilmente capronesco in un turista americano che si muove all'interno di un gruppo. Hanno una certa flemma avida. Anzi, abbiamo. Nel porto diventiamo automaticamente Peregrinatores Americani, Die Lumpenamerikaner. Gli Orrendi. Per me, la caproscopofobia (= terrore patologico di essere considerato un caprone) è una ragione persino più forte della semi-agorafobia per decidere di restare sulla nave quando attracchiamo nel porto. È nel porto che mi sento coinvolto più di ogni altro momento, colpevole di associazione percepita. Raramente sono uscito dagli Stati Uniti finora, e mai come membro di un gregge ad alto reddito, e nel porto – persino da quassù, sul ponte 12, mentre guardo soltanto – ho una nuova e spiacevole coscienza di essere americano, allo stesso modo in cui mi rendo improvvisamente conto di essere bianco ogni volta che sono attorniato da molte persone non bianche. Non riesco a immaginare che idea hanno loro di noi, gli impassibili messicani e giamaicani, e soprattutto i chierichetti non-ariani dell'equipaggio della Nadir. Per tutta la settimana mi sono ritrovato a fare tutto il possibile per distinguermi, agli occhi dell'equipaggio, dal gregge di caproni di cui faccio parte, per discolparmi in qualche modo: evito le macchine fotografiche, gli occhiali da sole; i capi caraibici dai colori pastello; mi do un gran da fare per portare io il mio vassoio al buffet e sono prodigo di ringraziamenti per ogni minimo servizio. Dal momento che molti dei miei compagni di crociera urlano, io vado orgoglioso della scelta di rivolgermi a voce bassissima ai membri dell'equipaggio che hanno una stentata conoscenza dell'inglese.


Alle 10.35 ci sono soltanto una o due nuvolette in un cielo così blu che fa avvilire. Finora ogni alba in porto era stata nuvolosa. Poi il sole che risale è come se raccogliesse le forze per cacciare via le nuvole, e per un'ora circa il cielo sembra frammentato. Poi finalmente verso le otto un blu infinito si apre come un occhio e rimane così per l'intera mattinata, con una o due nuvole lontane, come in scala ridotta. Tra il personale del porto laggiù c'è un formicaio di manovratori ammassati con funi e walkie-talkie, mentre da destra un'altra meganave, bianca e luccicante, avanza lentamente verso il molo.

E poi nella tarda mattinata le nuvole isolate si avvicinano l'una all'altra e nel primo pomeriggio cominciano a incastrarsi come pezzi di un puzzle da riordinare e prima di sera il puzzle sarà risolto e tornerà ad avere il colore delle vecchie monete da dieci cent.

Ma naturalmente anche tutto il mio comportamento di ostentata decolpevolizzazione è motivato da una preoccupazione consapevole e in qualche modo accondiscendente sul modo in cui posso apparire agli occhi degli altri che è (questa preoccupazione) tipica del cento per cento degli americani benestanti. Una parte della mia diffusa disperazione in questa crociera extralusso è che, a prescindere da come mi comporto, non posso sfuggire alla mia sostanziale e sgradevole americanità. Questa disperazione raggiunge il suo apice nel porto, sul ponte, mentre guardo il gruppo di cui non posso fare a meno di far parte. Se rimango quassù o vado anch'io laggiù, non importa, sono un turista americano, e quindi sono ex officio grasso, flaccido, rosso in viso, rumoroso, volgare, autoindulgente, narcisista, viziato, esibizionista, vergognoso, disperato e ingordo: l'unica specie al mondo di caprone carnivoro.

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