Copertina
Autore Immanuel Wallerstein
Titolo La retorica del potere
SottotitoloCritica dell'universalismo europeo
EdizioneFazi, Roma, 2007, Le terre Interventi 159 , pag. 130, cop.fle., dim. 13,5x20x1 cm , Isbn 978-88-8112-841-9
OriginaleEuropean Universalism. The Rhetoric of Power [2006]
TraduttoreMauro Di Meglio
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe politica
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Indice


Introduzione.
La politica dell'universalismo al giorno d'oggi    VII

Ringraziamenti                                      XI

LA RETORICA DEL POTERE

1.  Chi ha il diritto a intervenire?
    Valori universali contro barbarie                5

2.  Si può essere non orientalisti?
    Il particolarismo essenzialista                 41

3.  Come conoscere la verità?
    L'universalismo scientifico                     65

4.  Il potere delle idee, le idee del potere:
    dare e ricevere?                                93

Note                                               113

Bibliografia                                       115

Indice analitico                                   119


 

 

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Pagina VII

Introduzione.
La politica dell'universalismo al giorno d'oggi



Nei titoli della stampa di tutto il mondo ricorrono termini ormai familiari: Al Qaeda, Iraq, Kosovo, Ruanda, gulag, globalizzazione, terrorismo. Questi termini evocano immagini. E queste immagini sono state create, per essere offerte a noi, dai leader politici e dai commentatori delle questioni mondiali. Secondo l'opinione di molti, il mondo si presenta oggi come una lotta fra le forze del bene e le forze del male. E tutti noi desideriamo stare dalla parte del bene. Sebbene sia possibile discutere sulla validità di particolari politiche in questa lotta contro il male, tendiamo a non aver alcun dubbio sul fatto che il male vada combattuto, così come, il più delle volte, pochi sono i dubbi su chi e cosa incarni il male.

La retorica dei leader del mondo paneuropeo - in particolare, ma non esclusivamente, di Stati Uniti e Gran Bretagna - come pure i media di larga diffusione e gli intellettuali dell'establishment abbondano di appelli all'universalismo quale principale giustificazione delle loro politiche. E questo è particolarmente vero quando il discorso è relativo alle politiche rivolte agli "altri" – i paesi del mondo non europeo, le popolazioni delle nazioni più povere e "meno sviluppate". Il tono è spesso virtuoso, insolente e arrogante, ma le politiche vengono sempre presentate come l'espressione di valori e verità universali.

Sono tre le principali versioni di questo appello all'universalismo. La prima è la tesi secondo cui le politiche portate avanti dai leader del mondo paneuropeo difendono i "diritti umani" e promuovono qualcosa che si chiama "democrazia". La seconda si presenta nel linguaggio dello scontro di civiltà, la cui premessa è sempre che la civiltà "occidentale" sia superiore alle "altre" civiltà, in quanto l'unica a essere fondata su questi valori e su queste verità universali. La terza versione consiste invece nell'affermazione delle verità scientifiche del mercato, dell'idea secondo cui "non vi è alcuna alternativa", per i governi, se non accettare le leggi dell'economia neoliberista e agire in base a esse.

Si leggano i discorsi pronunciati da George W. Bush o Tony Blair negli ultimi anni (e invero anche quelli dei loro predecessori), o quelli dei loro numerosi accoliti, e vi si troverà la costante reiterazione di questi tre temi. Temi che, peraltro, non sono nuovi. Quel che cercherò di mostrare in questo libro è che essi sono invece temi assai vecchi, che hanno costituito la retorica fondamentale dei potenti lungo tutta la storia del sistema-mondo moderno, a partire almeno dal XVI secolo. Questa retorica ha una storia, come ha una storia l'opposizione a essa. In fin dei conti, il dibattito è ruotato sempre attorno a ciò che si intende per universalismo. Ciò che cercherò di mostrare è che l'universalismo dei potenti è stato un universalismo parziale e distorto, che chiamerò "universalismo europeo", giacché è stato proposto dai leader e dagli intellettuali paneuropei nel loro tentativo di perseguire gli interessi degli strati sociali dominanti del sistema-mondo moderno. Analizzerò inoltre in quali modi potremmo invece muoverci verso un universalismo genuino, che chiamerò "universalismo universale".

La lotta tra l'universalismo europeo e l'universalismo universale è la principale contesa ideologica del mondo contemporaneo, e il suo esito sarà fra gli elementi maggiormente decisivi nel determinare il modo in cui sarà strutturato il sistema-mondo che verrà, nel quale entreremo nei prossimi venticinque o cinquant'anni. Non possiamo sottrarci dal prendere posizione. E non possiamo rifugiarci in un atteggiamento ultraparticolaristico, dal quale invocare l'eguale validità di ogni idea particolaristica proposta nel mondo. La ragione sta nel fatto che l'ultraparticolarísmo non è altro che una resa implicita alle forze dell'universalismo europeo e ai potenti di oggi, impegnati nel tentativo di difendere questo sistema-mondo inegualitario e non democratico. Se intendiamo costruire una reale alternativa all'attuale sistema-mondo, è necessario trovare un percorso che ci permetta di formulare e istituzionalizzare l'universalismo universale – un universalismo che è possibile conseguire, ma la cui realizzazione non sarà né necessaria né inevitabile.

I concetti di diritti umani e di democrazia, la superiorità della civiltà occidentale in quanto fondata su valori e verità universali e l'ineluttabilità della subordinazione al "mercato" ci vengono presentati come idee naturali. Ma non sono affatto tali. Sono idee complesse che devono essere analizzate con attenzione, e private dei loro canoni nocivi e superflui, affinché possano essere valutate con equilibrio e poste al servizio di tutti invece che di alcuni. Comprendere in che modo queste idee siano state originariamente imposte, da chi e a quale scopo, è una componente necessaria di questo compito di valutazione. Ed è un compito al quale questo libro prova a offrire un contributo.

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Pagina 10

Sono queste, come è evidente, le quattro tesi principali utilizzate per giustificare ogni successivo "intervento", nella storia del mondo moderno, da parte dei popoli "civilizzati" nelle zone "non civilizzate": la barbarie degli altri; il porre termine a usanze che violavano i valori universali; la difesa degli innocenti contro la crudeltà degli altri; il rendere possibile la diffusione dei valori universali. Ma, come è ovvio, questi interventi possono essere realizzati solo se qualcuno dispone di un'adeguata forza politica/militare. Fu questo il caso della conquista spagnola di gran parte delle Americhe nel XVI secolo. Tuttavia, per quanto forti fossero come incentivi morali per i conquistatori, è evidente che queste argomentazioni furono rafforzate dai benefici materiali immediati che le conquiste apportarono. Fu così che, all'interno delle comunità sottoposte alla conquista, chiunque intese opporsi a queste tesi si trovò di fronte un arduo compito. Queste persone furono costrette ad argomentare, allo stesso tempo, contro convinzioni e interessi. Fu questo il compito che Las Casas si propose.

[...]

Naturalmente, la tesi di Las Casas potrebbe oggi essere considerata come una perorazione del relativismo morale, o perlomeno del relativismo giuridico. Essa fu a quel tempo, proprio come oggi, oggetto di critiche secondo cui questo punto di vista manifesta indifferenza nei confronti delle sofferenze di chi è innocente, delle vittime di queste usanze contrarie al diritto naturale. Fu questa la terza, e più forte, tesi di Sepúlveda. Las Casas la affrontò con cautela. Innanzi tutto, sostenne che un «dovere a liberare gli innocenti [...] non esiste quando vi è qualcuno di più adatto a liberarli». In secondo luogo, affermò che, se la Chiesa aveva affidato il compito di liberare gli innocenti a un sovrano cristiano, «gli altri non devono intraprendere azioni a questo riguardo, affinché non agiscano con intolleranza». E infine, e cosa più importante, Las Casas propose la tesi secondo cui occorre prestare attenzione ad agire conformemente al principio della minimizzazione del danno:

Sebbene riconosciamo che la Chiesa abbia l'obbligo di impedire l'ingiusta morte di persone innocenti, è fondamentale che ciò venga fatto con temperanza, avendo cura a che agli altri popoli non venga arrecato un'offesa maggiore, che sia di impedimento alla loro salvezza e che renda vana e incompiuta la passione di Cristo. (Las Casas [1552] 2000, p. 183)

Questo era, secondo Las Casas, un punto cruciale, che illustrò con riferimento alla questione moralmente complessa dei rituali in cui i corpi massacrati dei bambini venivano mangiati. Egli iniziò osservando come non si trattasse di un'usanza presente in tutte le comunità indiane, né che erano numerosi i casi di sacrifici di bambini tra le comunità che la praticavano. Ma ciò sarebbe sembrato un modo di sottrarsi alla questione, se Las Casas non avesse affrontato la realtà di una scelta. Ed è qui che affermò il principio della minimizzazione del danno:

Si aggiunga che la morte di alcuni innocenti è un danno incomparabilmente minore rispetto alle bestemmie degli infedeli contro l'adorabile nome di Cristo, o alle calunnie e all'odio verso la religione cristiana da parte di queste persone e di chi a esse presta ascolto, quando vengono a conoscenza del fatto che molti bambini, vecchi e donne della loro razza sono stati uccisi dai cristiani senza una ragione, come parte di ciò che avviene nella furia della guerra, come è già accaduto. (p. 187)

Las Casas fu implacabile contro ciò che oggi chiameremmo danni collaterali: «È un peccato meritevole di dannazione eterna recar danno a degli innocenti, o ucciderli, per punire i colpevoli, poiché ciò è contrario alla giustizia» (p. 209).

Formulò poi un'ultima argomentazione secondo cui non era lecito che gli spagnoli punissero gli indiani per i peccati che questi potevano aver commesso contro degli innocenti. È «la grande speranza e presunzione che questi infedeli verranno convertiti e correggeranno i propri errori [... poiché] essi non commettono questi peccati con pervicacia, ma certo [...] a causa della loro ignoranza di Dio» (p. 251). E terminò la sua analisi con una perorazione:

Gli spagnoli si sono insinuati, senza dubbio con grande audacia, in questa nuova parte del mondo, di cui non avevano mai sentito parlare in precedenza e in cui, malgrado il volere del loro sovrano, commisero crimini mostruosi e inauditi. Hanno ucciso migliaia di uomini, bruciato i loro villaggi, si sono impadroniti del loro bestiame, hanno distrutto le loro città e commesso crimini abominevoli senza alcuna particolare giustificazione verificabile, con atroce crudeltà contro questa povera gente. È davvero possibile sostenere che questi uomini sanguinari, avidi, crudeli e sediziosi conoscano Dio, al cui culto esortano gli indiani? (p. 256)

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Pagina 17

La ragione per cui ho dedicato così tanto spazio all'analisi dettagliata delle argomentazioni dei due teologi cinquecenteschi è che nulla di ciò che è stato detto successivamente ha aggiunto qualcosa di essenziale al dibattito. Nel XIX secolo, le potenze europee proclamarono di avere una missione civilizzatrice nel mondo coloniale (Fischer-Tiné - Mann, 2004). Lord Curzon, viceré dell'India, ben espresse questa prospettiva ideologica in un discorso tenuto al Byculla Club di Bombay, il 16 novembre del 1905, a un pubblico composto prevalentemente di amministratori coloniali britannici:

[La finalità dell'impero] è combattere per il giusto, respingere le imperfezioni, le ingiustizie o la meschinità, non deviare né verso destra né verso sinistra, non tenere in alcun conto le lusinghe o i plausi o l'odio o le ingiurie [...] ma ricordare che l'Onnipotente ha posto la vostra mano sul più grande dei Suoi aratri [...] guidare un po' più avanti nel tempo il coltro, aver coscienza che, tra quei milioni di persone, avete lasciato, dove prima non esistevano, un po' di giustizia o di felicità o di prosperità, un sentimento di coraggio o di dignità morale, un sussulto di patriottismo, un'alba di illuminismo intellettuale, o un sussulto di obbligo morale. Ciò è quanto basta. È questa la giustificazione per la presenza degli inglesi in India. (citato in Mann, 2004, p. 25)

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Pagina 43

Malgrado l'ignoranza europea delle cosiddette civiltà avanzate dell'Oriente, l'espansione dell'economia-mondo capitalistica si era rivelata inesorabile. Il sistema-mondo dominato dall'Europa si era diffuso dalla sua base euro-americana fino a includere una zona del mondo dopo l'altra, per incorporarle nella propria divisione del lavoro. Il dominio, cosa ben diversa dal semplice contatto, non tollera alcun sentimento di parità culturale. Chi esercita un dominio ha bisogno di considerare se stesso moralmente e storicamente giustificato a essere il gruppo dominante e il principale beneficiario del surplus economico prodotto all'interno del sistema. La curiosità e una vaga consapevolezza della possibilità di trarre qualche insegnamento dal contatto europeo con le cosiddette civiltà avanzate cedettero così il passo all'esigenza di spiegare perché queste zone dovessero essere politicamente ed economicamente subordinate all'Europa, malgrado fossero considerate civiltà "avanzate".

Il nucleo della spiegazione elaborata fu di straordinaria semplicità. Solo la "civiltà" europea, che affondava le proprie radici nel mondo dell'antichità greco-romana (e secondo alcuni anche nel mondo del Vecchio Testamento), poteva aver prodotto la "modernità" – un termine onnicomprensivo per un groviglio di usanze, norme e consuetudini che prosperavano nell'economia-mondo capitalistica. E poiché la modernità era considerata, per definizione, l'incarnazione dei veri valori universali, dell'universalismo, essa non era solo un bene morale ma anche una necessità storica. Doveva esservi, doveva esservi sempre stato qualcosa, nelle civiltà avanzate non europee, di incompatibile con la marcia degli uomini verso la modernità e il vero universalismo. A differenza della civiltà europea, che si sosteneva fosse intrinsecamente progressiva, le altre civiltà avanzate dovevano in qualche modo essere state congelate nelle loro traiettorie, e pertanto incapaci di trasformarsi in una qualche versione della modernità senza l'intervento di forze esterne (ossia europee).

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Pagina 62

È più utile iniziare quest'analisi da un prospettiva realistica. Esiste di fatto un sistema-mondo moderno, assai diverso da tutti i sistemi storici precedenti. Si tratta di un'economia-mondo capitalistica, che ebbe origine in Europa e nelle Americhe nel corso del lungo XVI secolo. Una volta consolidatasi, essa seguì la sua logica interna e le sue esigenze strutturali per espandersi geograficamente. Per farlo, sviluppò le capacità militari e tecnologiche e così, nel corso del XIX secolo, fu in grado di abbracciare l'intero globo. Inoltre, questo sistema-mondo ha operato secondo principi assai diversi da quelli dei precedenti sistemi-mondo, sebbene non sia questo qui l'oggetto del mio interesse (cfr. Wallerstein, 1995).

Fra le specificità dell'economia-mondo capitalistica vi è stato lo sviluppo di una nuova epistemologia, poi utilizzata come elemento cruciale nel mantenimento della sua capacità di operare. È questa l'epistemologia di cui ho discusso, di cui Montesquieu si è occupato nelle Lettere persiane e che Said ha attaccato con tanto vigore nel suo Orientalismo. È il sistema-mondo moderno che ha reificato quelle distinzioni binarie, e in particolare quella fra l'universalismo (che si ritiene sia incarnato dai gruppi dominanti) e il particolarismo (attribuito a tutti coloro che sono dominati).

Ma, dopo il 1945, questo sistema-mondo fu sottoposto a violenti attacchi dal suo interno e venne in parte demolito dapprima dai movimenti di liberazione nazionale e poi dalla rivoluzione mondiale del 1968. Subì inoltre un indebolimento strutturale della capacità di far sì che l'incessante accumulazione di capitale rimanesse la propria raison d'étre (cfr. Wallerstein, 1998). Questo significa che siamo chiamati non solo a sostituire questo sistema-mondo morente con un altro sistema-mondo che sia significativamente migliore, ma anche a prendere in considerazione i modi in cui sia possibile ricostruire le nostre strutture del sapere secondo modalità che ci consentano di essere non orientalisti.

Essere non orientalisti significa accettare la persistente tensione fra l'esigenza di universalizzare le nostre percezioni, le nostre analisi e le nostre asserzioni di valore e l'esigenza di difendere le nostre radici particolaristiche contro l'attacco da parte di chi, pur proponendo percezioni, analisi e asserzioni di valore particolaristiche, sostiene di affermare proposizioni universali. Ciò che ci viene richiesto è, allo stesso tempo, di universalizzare i nostri particolari e di particolarizzare i nostri universali, nella forma di un costante scambio dialettico che ci permetta di pervenire a nuove sintesi che siano a loro volta, ovviamente, subito messe in discussione. Ma non si tratta di un gioco semplice.

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