Autore H. G. Wells
CoautoreAlvim Corrêa [illustrazioni]
Titolo La guerra dei mondi
EdizioneCastelvecchi, Roma, 2016 , pag. 190, cop.fle., dim. 17x24x2,5 cm , Isbn 978-88-6944-690-0
OriginaleThe War of the Worlds [1906]
TraduttoreGiuseppe Guzzardi, Franco Fiorucci
LettoreDavide Allodi, 2016
Classe fantascienza , illustrazione , ragazzi












 

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Indice


        Libro primo. L'arrivo dei marziani

I.      La vigilia della guerra                          11
II.     La stella cadente                                17
III.    Nella landa di Horsell                           21
IV.     Il cilindro si apre                              25
V.      Il raggio ardente                                29
VI.     Il raggio ardente verso Chobham                  33
VII.    Come raggiunsi casa                              37
VIII.   Venerdì sera                                     41
IX.     Comincia la battaglia                            45
X.      Nella bufera                                     51
XI.     Alla finestra                                    57
XII.    Ciò che vidi della distruzione di Weybridge      63
XIII.   Come incontrai il curato                         73
XIV.    A Londra                                         79
XV.     Che cosa era successo nel Surrey                 89
XVI.    L'esodo da Londra                                97
XVII.   La Thunder Child                                109


        Libro secondo. La Terra dominata dai marziani

XVIII.  Sotto il loro dominio                           121
XIX.    Che cosa vedemmo dalla casa distrutta           129
XX.     I giorni della prigionia                        137
XXI.    La morte del curato                             143
XXII.   Il silenzio                                     147
XXIII.  Quindici giorni di lavoro                       151
XXIV.   Luomo sulla collina di Putney                   155
XXV.    Londra morta                                    169
XXVI.   Relitti                                         177

        Conclusione                                     183



 

 

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Pagina 11




Negli ultimi anni del XIX secolo nessuno avrebbe sospettato che questo mondo fosse attentamente e acutamente osservato da intelligenze superiori a quelle umane, sebbene anch'esse mortali, o che gli uomini, presi dalle loro varie attività, venissero studiati e analizzati con un interesse forse pari a quello con il quale un uomo scruta al microscopio le creature effimere che brulicano e si moltiplicano in una goccia d'acqua.

Con grande autocompiacimento gli uomini andavano avanti e indietro per tutto il globo inseguendo i loro piccoli affari, sereni nella loro certezza di essere i padroni della materia. Probabilmente anche i microbi nel loro vetrino fanno lo stesso.

Nessuno si preoccupava che i più antichi mondi dello spazio potessero essere fonte di pericolo per l'umanità e tutti vi pensavano soltanto come a dei posti nei quali la vita era impossibile, o quantomeno improbabile.

È curioso rievocare alcune delle convinzioni diffuse di quei giorni lontani. Tutt'al più, i terrestri fantasticavano che su Marte potessero esserci altri uomini, forse inferiori a loro e pronti a dare il benvenuto a una missione civilizzatrice.

In realtà, dalle profondità dello spazio, intelligenze che stanno alla nostra come il nostro intelletto sta a quello delle bestie periture, intelligenze vaste, fredde e indifferenti guardavano alla Terra con occhi invidiosi, preparando con calma inesorabile i loro piani contro di noi. E l'inizio del XX secolo segnò la fine della grande illusione.

Il pianeta Marte, quasi non serve ricordarlo al lettore, ruota intorno al sole a una distanza media di trecentosessanta milioni di chilometri e la luce e il calore che riceve dal sole sono appena la metà di quelli assorbiti da questo nostro mondo. Marte, se la teoria della nebulosa è corretta, dovrebbe essere più antico della Terra e lì il ciclo della vita dovrebbe aver iniziato il suo corso molto prima che essa solidificasse del tutto. Il fatto che il suo volume sia più o meno un settimo di quello terrestre deve aver accelerato il suo raffreddamento, sino a fargli raggiungere una temperatura alla quale la vita può avere inizio. Marte è provvisto di aria e acqua e di tutto quanto è necessario per consentire l'esistenza di esseri animati.

Ma l'uomo è talmente presuntuoso e accecato dalla vanità che nessuno scrittore fino alla fine del XIX secolo aveva formulato ipotesi sulla possibilità che laggiù si fosse sviluppata vita intelligente di un livello superiore a quello umano. Né si era compreso che, essendo Marte più vecchio della Terra appena un quarto della sua superficie e più lontano dal sole, non soltanto la nascita della vita sul pianeta era più lontana nel tempo, ma la sua fine doveva essere più vicina.

Il lento raffreddamento, che prima o poi interesserà anche la Terra, è infatti già a uno stadio molto avanzato sul pianeta nostro vicino. Le sue caratteristiche fisiche sono per noi in massima parte un mistero, ma sappiamo che nella regione equatoriale la temperatura di mezzogiorno tocca a stento quella dei nostri inverni più rigidi. L'atmosfera è più rarefatta della nostra, gli oceani si sono ritirati fino a coprire un terzo della superficie totale e, nel lento scorrere delle stagioni, grandi calotte di neve si formano e si sciolgono ai poli, inondando periodicamente le zone temperate.

Quest'ultimo stadio del raffreddamento della superficie, che per noi è ancora incredibilmente remoto, per gli abitanti di Marte è una realtà. La pressione generata dall'urgenza ha aguzzato la loro intelligenza, aumentandone il potenziale, e reso insensibile il loro cuore. Osservando lo spazio con strumenti e conoscenze che possiamo a stento sognare, ecco che vedono, vicinissimo, a cinquantasei milioni di chilometri, una stella mattutina di speranza, cioè il nostro pianeta, più caldo, verde di vegetazione e grigio di acqua, con un'atmosfera ricca di nubi, chiaro indice di fertilità; un'occhiata attraverso le nuvole mostra larghe estensioni di Paesi densamente abitati e di navi che solcano i mari.

E poi vedono noi: gli uomini, le creature che abitano il pianeta, che siamo ai loro occhi tanto alieni e inferiori quanto possono esserlo per noi le scimmie o i lemuri. Sul piano intellettuale l'uomo ammette che la vita è una continua lotta per la sopravvivenza e sembra che altrettanto pensino gli abitanti di Marte. Il loro mondo sta diventando troppo freddo, mentre il nostro è ancora brulicante di vita, popolato soltanto da animali di specie inferiore. Invadere chi è più vicino al sole è veramente l'unico rimedio alla distruzione che, generazione dopo generazione, si sta abbattendo su di loro.

Prima di giudicarli troppo duramente sarà bene ricordare di quanta spietata e totale distruzione la nostra specie è stata portatrice, non soltanto contro animali, come il bisonte, ormai estinto, o il dodo, ma anche nei confronti di razze umane considerate inferiori. Gli abitanti della Tasmania, benché di aspetto umano, furono letteralmente spazzati via da una guerra di sterminio condotta per cinquant'anni dagli emigranti europei. Siamo forse apostoli della pietà tali da poterci lamentare se i marziani combattono con lo stesso spirito?

Sembra che i marziani abbiano calcolato la loro discesa sulla Terra con sorprendente accuratezza (è evidente che le loro conoscenze matematiche sono molto più avanzate delle nostre) e che abbiano portato avanti i loro preparativi nella totale unanimità. Se i nostri strumenti lo avessero consentito, avremmo potuto intuire l'insorgere dei problemi molto prima del XIX secolo. Uomini come Schiaparelli osservavano il pianeta rosso (strana coincidenza, tra l'altro, che per molti secoli Marte sia stato considerato l'astro della guerra), ma non furono in grado di interpretare i cambiamenti nelle mappe che pure tracciavano così bene. Durante tutto questo tempo i marziani dovevano essersi preparati.

Nel 1894, quando i due pianeti si trovarono in opposizione, fu notata (inizialmente dall'osservatorio di Lick, poi da Perrotin a Nizza, quindi da altri luoghi di osservazione) una gran luce nella faccia illuminata del pianeta. Gli inglesi appresero la notizia leggendo il numero di «Nature» del 2 agosto. Sono propenso a credere che quel fenomeno sia stato provocato dalla fusione dell'immenso cannone, come un profondo pozzo scavato all'interno del pianeta, dal quale spararono i loro proiettili verso di noi. Altri fenomeni, tuttora senza spiegazione, furono osservati nel corso delle due successive opposizioni dei pianeti.

L'inferno piombò su di noi sei anni fa. Mentre Marte si approssimava all'opposizione, Lavelle di Giava mandò in fibrillazione i cavi dei telegrafi fra un osservatorio astronomico e l'altro con l'incredibile notizia di un'immensa esplosione di gas sulla superficie del pianeta, verificatasi intorno alla mezzanotte del giorno 12. Lo spettroscopio, al quale subito ricorse, indicò una massa di gas infiammati, perlopiù idrogeno, che si muoveva a enorme velocità verso la Terra. Questo getto di fuoco divenne invisibile più o meno un quarto d'ora dopo le dodici. Lo considerò come un colossale sbuffo di fuoco sprigionatosi dal pianeta, «come i gas infuocati che escono dalla bocca di un'arma che ha sparato».

La frase risultò poi singolarmente appropriata. Il giorno successivo nessun giornale, se si eccettua un breve trafiletto sul «Daily Telegraph», parlò dell'avvenimento e l'umanità non venne a conoscenza di quello che doveva essere uno dei più grandi pericoli mai corsi dalla razza umana. Io stesso non avrei saputo nulla dell'eruzione se non avessi incontrato a Ottershaw il notissimo astronomo Ogilvy. Era molto eccitato per l'evento e con grande entusiasmo mi invitò per quella sera stessa a un turno di osservazione del pianeta rosso.

Nonostante tutti gli avvenimenti che da allora si sono succeduti, ricordo ancora molto bene quella veglia. L'osservatorio buio e silenzioso, la lanterna oscurata che da un angolo del pavimento emanava un debole riflesso, lo scatto regolare dei meccanismi del telescopio, la sottile fessura nella cupola come un profondo ovale punteggiato dal bagliore delle stelle.

Ogilvy si muoveva irrequieto, invisibile ma udibile. Guardando attraverso il telescopio si vedeva un cerchio blu scuro, con il piccolo pianeta rotondo che galleggiava nel campo visivo. Appariva piccolo, splendente e tranquillo, appena segnato da strisce trasversali, un po' schiacciato ai poli. Così piccolo e argenteo, somigliava a una capocchia di spillo! Pareva tremolasse, ma in realtà era il meccanismo del telescopio a vibrare mentre ne seguiva il movimento. Guardando fisso il pianeta avevo la sensazione che diventasse ora più grande ora più piccolo, che si avvicinasse e si allontanasse, ma dipendeva dal fatto che avevo gli occhi stanchi. Ci separavano sessantaquattro milioni di chilometri, più di sessanta milioni di chilometri di vuoto assoluto. Pochi si rendono conto di quanto sia immensa la vacuità nella quale naviga la materia che compone l'universo.

Ricordo che nelle vicinanze c'erano tre deboli luci (tre stelle infinitamente lontane) e tutto attorno l'imperscrutabile oscurità dello spazio profondo. Se avete presente quanto può apparire buia una fredda notte stellata, pensate che attraverso il telescopio la sensazione diventa più intensa. Invisibile a causa della sua lontananza e delle ridotte dimensioni, la Cosa inviata per portare sulla Terra lotte, disastri e morte volava verso di me, con moto rapido e costante, divorando a ogni minuto molte migliaia di chilometri. Non potevo immaginare tutto questo osservando il pianeta, nessuno al mondo poteva indovinare la forma di quel missile infallibile.

Quella notte ci fu un'altra esplosione di gas sul lontano pianeta, e io la vidi. Un rosso guizzo sulla superficie e un lievissimo rilievo sul profilo, proprio quando il cronometro indicava la mezzanotte. Riferii la cosa a Ogilvy e lui prese il mio posto. La notte era calda, avevo sete e mi spostai nell'oscurità muovendomi con cautela verso il tavolino sul quale c'era il sifone da seltz, mentre Ogilvv, osservando la striscia di gas che veniva verso di noi, si lasciava sfuggire sospiri di stupore.

Quella notte un altro missile iniziava il suo viaggio da Marte verso la Terra, a distanza di circa ventiquattr'ore dal precedente. Ricordo che mi appoggiai al tavolo, nel buio, mentre davanti ai miei occhi si muovevano macchie verdi e rosse. In quel momento desideravo avere a disposizione del fuoco per poter fumare, non immaginando minimamente il significato del bagliore che avevo visto e neanche le sue conseguenze. Ogilvy rimase attaccato al telescopio fino all'una, poi lasciò perdere; accesa una lanterna, ci dirigemmo verso casa sua. Sotto di noi, nell'oscurità, stavano Ottershaw e Chertsey, con le loro centinaia di abitanti che dormivano pacificamente.

Quella notte Ogilvy fece molte ipotesi sulle condizioni di Marte e rise sprezzante della comune teoria secondo la quale su quel pianeta sarebbero esistiti individui impegnati allora a mandarci segnali. Era invece sua convinzione che fosse in corso una pioggia di meteoriti, o una violenta attività vulcanica. Mi spiegò quanto fosse improbabile che l'evoluzione organica avesse potuto prendere l'identica direzione su due pianeti adiacenti.

«Le possibilità che su Marte ci siano delle creature simili all'uomo sono una su un milione», disse.

Centinaia di osservatori videro la fiammata quella notte, anche la seguente e l'altra ancora, e così per dieci notti: una fiammata ogni notte. Nessuno sulla Terra fu in grado di spiegarsi perché dopo la decima quelle fiammate smisero di apparire. Forse i gas provocati dalle accensioni infastidivano i marziani. Dense nubi di fumo e polvere, che il più potente tra i telescopi mostrava come piccole, grigie masse fluttuanti, si allargavano attraverso la limpida atmosfera del pianeta oscurandone i tratti più familiari.

Alla fine anche i quotidiani si occuparono di quelle perturbazioni e ovunque vennero pubblicati articoli sui vulcani di Marte. Ricordo che il settimanale satirico «Punch» ne trasse un felice spunto per la vignetta politica.

Nessuno sospettava che quei proiettili lanciati dai marziani corressero verso la Terra alla velocità di molti chilometri al secondo attraverso lo spazio siderale, giorno dopo giorno e ora dopo ora più vicini. Oggi mi sembra straordinariamente incredibile che con quella minaccia incombente sopra di noi gli uomini potessero continuare a occuparsi delle loro insignificanti faccende. Ricordo la felicità di Markham quando riuscì a procurarsi una nuova fotografia del pianeta per la rivista illustrata che dirigeva in quel periodo. All'epoca la gente non aveva un'idea chiara dell'abbondanza e dello spirito di iniziativa delle riviste del XIX secolo. Per quel che mi riguarda, ero impegnatissimo a imparare ad andare in bicicletta e assorbito da una serie di articoli che si occupavano dei possibili sviluppi delle idee morali con il progredire della civiltà.

Una notte (il primo missile poteva già essere ad appena sedici milioni di chilometri di distanza) andai a fare una passeggiata con mia moglie. Il cielo era stellato e le mostravo i segni dello zodiaco; le indicai Marte, un puntino luminoso che si dirigeva verso lo zenit, sul quale erano orientati moltissimi telescopi.

Era una notte calda. Mentre tornavamo a casa ci passò accanto, facendo baldoria, una comitiva di escursionisti provenienti da Chertsey o Isleworth. Nelle case, le finestre illuminate al primo piano, quelle delle camere da letto, indicavano che gli abitanti erano pronti per coricarsi. In lontananza, dalla stazione ferroviaria, si sentiva il cigolare e lo sferragliare dei treni smistati, attutiti dalla distanza in una melodia. Mia moglie mi indicò le luci rosse, verdi e gialle dei segnalatori che si stagliavano contro il cielo sospesi al loro cavo. Tutto sembrava così sicuro e tranquillo.

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Leatherhead è a circa venti chilometri da Maybury Hill. L'odore di fieno riempiva l'aria, attraverso i campi lussureggianti oltre Pyrford. I margini della strada erano coperti da moltissimi cespugli di biancospino. Il cannoneggiamento pesante che tanto bruscamente era iniziato, si era interrotto altrettanto bruscamente, lasciando la serata pacifica e silente. Fummo a Leatherhead senza disavventure intorno alle nove di sera e il cavallo ebbe un'ora di tempo per riposare, mentre io cenavo con i cugini e affidavo loro mia moglie.

Mia moglie era rimasta curiosamente in silenzio per tutto il viaggio e sembrava angosciata da tristi presagi. Le parlai per rassicurarla, facendole notare che, dato il loro peso, i marziani non potevano lasciare la fossa. Tutt'al più potevano strisciarne fuori. Lei però mi rispondeva a monosillabi. Se non fosse stato per la mia promessa al locandiere avrebbe probabilmente insistito perché passassi la notte a Leatherhead. Ah, l'avesse fatto! Il suo viso, ricordo, quando ci separammo era molto pallido. Dal canto mio ero stato fortemente eccitato per tutto il giorno. Qualcosa di simile alla febbre da guerra che talvolta stravolge la comunità civile mi era entrata nel sangue e, nel mio intimo, non ero poi così preoccupato di dover tornare quella notte stessa a Maybury. Un po' temevo che l'ultima scarica di fucili che avevo udito rappresentasse lo sterminio degli invasori marziani. Posso spiegare meglio il mio stato d'animo aggiungendo che mi sarebbe piaciuto essere testimone della conclusione della vicenda.

Erano quasi le undici quando mi misi sulla via del ritorno. La notte era insolitamente buia; mentre uscivo dal vialetto illuminato della casa dei cugini mi parve del tutto nera, l'aria sempre calda e gravida. Sopra di me si addensavano rapide dense nubi, sebbene non vi fosse un alito di vento ad agitare i rami intorno a noi. Il domestico di mio cugino accese tutte e due le lampade. Fortunatamente conoscevo molto bene la strada. Mia moglie rimase immobile nella cornice di luce della soglia, fissandomi finché non saltai dentro al calesse. A quel punto si voltò di scatto ed entrò in casa, lasciando che fossero i miei cugini, uno accanto all'altra, ad augurarmi buona fortuna.

All'inizio ero un po' triste, contagiato dalle paure di mia moglie, ma ben presto i miei pensieri tornarono a occuparsi dei marziani. In quel momento non avevo idea del corso dei combattimenti della serata. Mi erano anche ignote le circostanze che avevano innescato il conflitto. Quando passai attraverso Ockham (al ritorno presi quella strada e non quella che attraversa Send e Old Woking) vidi all'orizzonte, verso ovest, un bagliore sanguigno, che man mano che mi avvicinavo saliva verso il cielo. Le nubi del temporale che stava sopraggiungendo si mischiavano con quelle masse di fumo nero e rosso.

Ripley Street era deserta e, a eccezione di qualche finestra illuminata, il villaggio non dava segni di vita. Eppure evitai per un pelo un incidente all'incrocio con la strada per Pyrford, dove c'era un assembramento di persone che mi volgevano le spalle. Nessuno mi rivolse la parola mentre passavo e ignoro se fossero al corrente di quanto stava accadendo oltre la collina; non so se le case silenziose che superavo fossero immerse in un sonno tranquillo, o abbandonate, o abitate da persone terrorizzate, in trepida attesa di terribili eventi notturni.

Da Ripley passai nella valle del Wey e, finché non fui a Pyrford, il bagliore rossastro scomparve alla mia vista; ma mentre risalivo la collinetta dietro la chiesa di Pyrford ricomparve, e gli alberi intorno tremolarono alle prime avvisaglie del temporale. Udii i rintocchi della mezzanotte provenire dal campanile della chiesa di Pyrford, alle mie spalle, e poi mi apparve la sagoma della collina di Maybury, con le cime degli alberi e i tetti neri che si stagliavano nel rosso.

Proprio mentre osservavo tutto questo, una sinistra luminescenza verde illuminò la strada intorno a me, rendendo visibili i boschi lontani verso Addlestone. Sentii uno strappo alle redini. Le nuvole ondeggianti erano state trafitte, se posso esprimermi in questo modo, da un nastro verde incandescente, che le aveva istantaneamente illuminate andando a cadere nei campi alla mia sinistra. La terza stella cadente!

Immediatamente dopo questa apparizione, d'un viola accecante per il contrasto, dardeggiò il primo lampo del temporale imminente e il tuono esplose come un razzo. Il cavallo strinse il morso e partì al galoppo.

Correvamo lungo il lieve declivio che c'è ai piedi della collina di Maybury. Una volta iniziati, i lampi si succedettero a ritmo frenetico, come non avevo mai visto. Il tuono cominciava prima che il precedente fosse finito, accompagnato da uno strano crepitio, più simile al rumore prodotto da una gigantesca macchina elettrica che non al normale rimbombare delle scariche di un temporale. Quella luce mi accecava e mi confondeva e, mentre correvamo lungo la discesa, una sottile grandine mi colpiva il volto.

Da principio non mi curai che della strada che stava davanti a me, ma poi, di colpo, la mia attenzione fu attirata da qualcosa che si muoveva rapidamente dal lato opposto della collina di Maybury. Sulle prime lo scambiai per il tetto bagnato di una casa, ma un lampo seguito da un altro mi mostrò che quella Cosa si muoveva con un veloce movimento circolare. Fu una visione evanescente, un momento di profonda oscurità, poi un lampo illuminò tutto a giorno e la massa rossastra dell'orfanotrofio sulla sommità della collina, le verdi cime dei pini e quell'inconsueto oggetto vennero fuori chiari e brillanti.

Che cosa vidi! Come possa descriverlo? Un tripode mostruoso alto più di molte case che schiacciava nel suo veloce incedere piccoli pini; un marchingegno di metallo scintillante che avanzava, attraversando ora i campi di erica; dalla struttura penzolavano articolati cavi d'acciaio e lo stridore metallico si confondeva con il rombo del tuono. Un lampo, e fu di nuovo chiaramente visibile, poggiato su un arto e con gli altri due sollevati. Svanì e riapparve subito dopo, al lampo successivo, a circa un centinaio di metri di distanza. Riuscite a immaginare uno sgabello con tre gambe che viene fatto ruotare velocemente e alternativamente sui tre piedi? Questa fu l'impressione che quell'oggetto mi fece, alla luce dei lampi. Ma al posto di uno sgabello dovete immaginare un enorme corpo metallico su un tripode.

Improvvisamente gli alberi che mi stavano davanti si scostarono, come un fascio di canne al passaggio di un uomo; vennero sradicati e un secondo tripode apparve, correndo — così almeno mi parve — nella mia direzione; e io gli andavo incontro! Alla vista del secondo mostro il coraggio si dissolse. Senza fermarmi a guardare diedi uno strattone alle redini, per indurre il cavallo a girare a destra. Subito dopo il calesse si ribaltò e le stanghe si spezzarono fragorosamente mentre io venivo scaraventato di lato, dentro una pozza d'acqua.

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Se i marziani avessero voluto soltanto la distruzione dell'uomo già al lunedì avrebbero potuto annientare l'intera popolazione londinese, data la lentezza con cui questa lasciava la città. Non solo lungo la strada per Barnet, ma anche attraverso Edgware e Waltham Abbey e lungo le strade verso est, per Southend e Shoeburyness, e a sud del Tamigi, a Deal e Broadstairs, si riversava un'analoga folla convulsa. A chi in quel mattino di giugno avesse potuto levarsi in volo con una mongolfiera nel cielo azzurro di Londra, tutte le strade che uscivano dal disorientante labirinto delle vie cittadine dirigendosi verso nord e verso est sarebbero apparse punteggiate di nero dal flusso dei fuggitivi, di cui ogni punto rappresentava un'umana sofferenza di terrore e di difficoltà fisica. Nel capitolo precedente ho riportato il racconto di mio fratello sulla strada di Chipping Barnet per permettere ai lettori di figurarsi come poteva apparire quello sciamare di teste agli occhi di una di esse. Mai prima, nella Storia del mondo, si era vista una tale massa di uomini muoversi e soffrire assieme come in quell'occasione. Le leggendarie orde di Goti e Unni, i più grandi eserciti che l'Asia avesse mai visto, non sarebbero stati che una goccia in quell'enorme corrente umana. E non era una marcia disciplinata; era un fuggi fuggi disordinato (un fuggi fuggi gigantesco e terribile) senza ordine e senza meta, sei milioni di persone disarmate e senza provviste che procedevano disperatamente, a capofitto nell'ignoto. Era l'inizio della disfatta della civiltà, del massacro del genere umano.

Quell'ipotetico uomo in mongolfiera avrebbe potuto osservare l'intrico delle strade che si espandevano da tutte le parti. Le case, le chiese, i giardini (che erano già stati abbandonati) risaltavano come in una carta geografica in rilievo che a sud sembrava macchiata. Nella regione di Ealing, di Richmond, di Wimbledon era come se una macchia d'inchiostro fosse caduta da una penna gigantesca. Una macchia che si allargava e s'ingigantiva continuamente, estendendo le sue propaggini in tutte le direzioni; si raccoglieva tutto attorno ai punti in cui il terreno era più elevato e scorreva velocemente sui crinali delle vallate, proprio come fa l'inchiostro sulla carta assorbente.

Più oltre, al di là delle colline azzurre a sud del fiume, i marziani si muovevano scintillanti; con metodo e tranquillità emettevano la loro nube velenosa che poi, dalla loro altezza, provvedevano a scacciare con i soffi di vapore. A quel punto prendevano possesso dell'area che avevano appena conquistato. Davano l'impressione che il loro obiettivo non fosse lo sterminio degli uomini, quanto la loro demoralizzazione, oltre alla sconfitta delle difese organizzate. Ogni deposito di armi che incontrarono fu fatto saltare, tagliarono i fili del telegrafo e in alcuni punti distrussero le linee ferroviarie. Il genere umano era ormai ridotto all'impotenza. Per quel giorno diedero l'impressione di non avere fretta di estendere la loro presenza e rimasero tutto il tempo nella zona centrale di Londra. Del resto è probabile che in città, quel lunedì mattina, una grande quantità di persone fosse rimasta chiusa nelle proprie abitazioni. Di sicuro parecchi vi persero la vita soffocati dal fumo nero.

Fino a quasi mezzogiorno il porto di Londra offrì uno spettacolo strabiliante. Battelli a vapore e barche di ogni genere erano all'ancora, con gli equipaggi tentati dalle grandi cifre di denaro offerte dai fuggitivi. Si racconta anche che non pochi di coloro che cercarono di arrivare alle navi nuotando furono respinti a colpi di remo; parecchi annegarono. Attorno all'una ci fu una confusione enorme a causa di un residuo di fumo nero che si aggirava nell'aria fra le arcate del Blackfriars Bridge. Ci furono scontri, la gente si accapigliò e, a un certo punto, diverse imbarcazioni, piccole e grandi, finirono ammassate contro l'arcata nord del Tower Bridge. Scaricatori di porto e marinai furono costretti ad affrontare la folla che li assaliva e dovettero lottare duramente per respingerla. Per salire a bordo di barche e navi la gente aveva preso anche a passare dai piloni del ponte, lasciandosi calare dall'alto.

Un'ora più tardi, quando un marziano apparve al di là del Big Ben e avanzò nel fiume, in quel tratto non rimanevano che relitti.

Nel prosieguo del racconto riferirò della caduta del quinto cilindro. Il sesto cadde a Wimbledon. Mio fratello, che in quel momento si trovava in un prato, intento a sorvegliare il calesse e le due donne che vi dormivano dentro, scorse il bagliore di colore verde levarsi al di là delle colline. Il giorno dopo, il martedì, il gruppetto di mio fratello, ancora determinato a prendere il mare, proseguì verso Colchester, attraversando la campagna brulicante di folla. Fu confermata la notizia che tutta Londra era stata occupata dai marziani. Li avevano già avvistati ad Highgate e persino a Neasden, o almeno così si disse; ma mio fratello li vide soltanto il giorno successivo.

Intanto la gente cominciava ad avvertire la fame. A mano a mano che i morsi aumentavano, scemava il rispetto per la proprietà privata. I contadini dovevano stare fuori a difendere con le armi le stalle, i granai e anche i frutti ancora acerbi nelle campagne. In tanti, compreso mio fratello, si diressero verso est, mentre non pochi tornarono sui loro passi, verso Londra, in cerca di cibo. Questi ultimi erano soprattutto coloro che, abitando nelle zone settentrionali della città, avevano soltanto sentito parlare del fumo nero, senza mai averlo visto. Mio fratello venne a sapere che più o meno la metà dei membri del governo erano riuniti a Birmingham e stavano predisponendo enormi quantità di potenti esplosivi che dovevano essere utilizzati come mine da spargere nelle Midlands.

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Dopo aver mangiato ci spostammo di nuovo nel retrocucina e credo che mi addormentai, perché quando mi guardai attorno mi ritrovai da solo. I colpi, con le loro vibrazioni, continuavano con un'insistenza estenuante. Sottovoce chiamai alcune volte il curato, poi, con cautela, mi mossi verso la cucina.

C'era ancora un filo di luce e così riuscii a vederlo, dall'altra parte del locale, come appoggiato alla fessura nella parete, intento a osservarli. Era curvo e non vedevo la sua testa.

Potevo sentire un certo numero di rumori, simili a quelli delle fabbriche. I colpi continuavano a far tremare tutta la stanza. Attraverso la fessura nel muro vidi la cima di un albero, con la luce del sole che le dava un colore dorato, e il cielo azzurro. Per un po' non mi mossi e rimasi a guardare il curato, poi avanzai stando curvo e facendo molta attenzione a dove mettevo i piedi per evitare di far rumore calpestando i cocci.

Quando arrivai vicino al mio compagno di viaggio gli toccai una gamba e lui ebbe un soprassalto così forte che all'esterno un calcinaccio cadde al suolo facendo un gran rumore. Lo afferrai per il braccio, credendo che potesse mettersi a gridare; poi rimanemmo a lungo immobili, come rattrappiti. Quel calcinaccio caduto aveva formato un'altra apertura che, dopo essere montato su una trave, mi permise di osservare ciò che fino alla sera prima era stata una normale e quieta via suburbana. Quale cambiamento! Il quinto cilindro doveva essere precipitato proprio nel mezzo del primo edificio in cui eravamo entrati. In conseguenza del colpo, la costruzione era stata completamente rasa al suolo. Il cilindro era penetrato profondamente sotto le fondamenta della casa, in una fossa ancora più profonda di quella che avevo visto a Woking. Tutto attorno la terra era "schizzata" via, bisogna proprio dire così, "schizzata" lontano, creando mucchi che nascondevano le costruzioni vicine. Era lo stesso effetto che si può ottenere sferrando un colpo di martello sul fango. La parte posteriore della casa dove eravamo noi era molto danneggiata; quella anteriore, compreso il pian terreno, era distrutta. Solo la cucina e il retrocucina, fortunatamente per noi, avevano resistito. Eravamo prigionieri al loro interno, come sepolti da detriti, completamente circondati dalle tonnellate di terra che c'erano da tutte le parti, escluso nel cratere in cui era caduto il cilindro.

Vicino a noi i marziani stavano scavando un pozzo e da quel lavoro proveniva il rumore martellante che sentivamo. Ogni tanto, un soffio di vapore verde oscurava la nostra visuale.

Al centro della voragine che aveva prodotto, il cilindro era già aperto. Dalla parte opposta rispetto alla casa, in mezzo ai cespugli schiacciati dal terriccio che era volato a causa dell'impatto del cilindro, c'era una macchina enorme senza conducente. Si stagliava immobile e nera, contro il cielo della sera. Forse avrei dovuto già dire che in un primo momento la mia attenzione fu attratta proprio dal formidabile strumento meccanico che stava procedendo nello scavo, nonché dalle strane creature che strisciavano sui mucchi di terra tutto intorno. Fui subito incuriosito dalla macchina. Era uno di quei congegni complicatissimi che da allora furono chiamati "automi" e che tanto progresso hanno consentito all'uomo. Allora mi parve una sorta di ragno metallico a cinque zampe, articolate e snelle nei movimenti; attorno al corpo principale, una serie di comandi, sbarre e altri elementi che si muovevano, allungandosi e riuscendo ad afferrare gli oggetti. Per la maggior parte quelle "braccia" erano in posizione ritratta, soltanto tre di loro stavano lavorando: sistemavano una serie di sbarre e piastre sul coperchio del cilindro. L'automa disponeva quegli oggetti, che dovevano avere una funzione di irrobustimento del cilindro, su un cumulo di terra che era dietro di lui.

Il suo gesto era così veloce, seppur complesso e preciso, che per un po' stentai a credere che si trattasse di una macchina. Avevo già visto in azione le macchine da guerra, coordinate e mosse in maniera straordinaria, ma quella era tutta un'altra cosa. Chi non ha visto quei congegni e si deve accontentare delle riproduzioni fatte dai pittori, oppure delle descrizioni non esatte fatte da testimoni come me, non può figurarsi con esattezza quell'imitazione di una forma vivente.

In modo particolare, mi riferisco a uno dei primi libri che furono pubblicati per raccontare lo sbarco dei marziani. Evidentemente l'autore aveva fatto soltanto uno studio superficiale. Perciò presentò quelle macchine come strutture rigide con tre piedi inclinati, senza intelligenza e senza flessibilità: il che lasciava intendere che le loro possibilità di movimento fossero limitate.

Quel libro illustrato fu molto venduto e molto letto e io lo cito soltanto per mettere in guardia dall'immagine sbagliata che ha accreditato. Perché quelle figure, così descritte, assomigliavano ai marziani che io avevo visto più o meno come una bambola assomiglia a un uomo. Secondo me il libro sarebbe stato più realistico senza le illustrazioni.

In un primo momento, l'automa non mi sembrò una macchina ma una creatura simile ai granchi, con una possente corazza lucida, rispetto alla quale il marziano che la governava muovendo i suoi arti delicati sembrava costituirne il cervello. Dopo un po' che osservavo la scena notai che la corazza, scura e rilucente come cuoio, assomigliava ai corpi che si stavano muovendo dalla parte opposta e riuscii ad apprezzare in pieno l'abilità e le capacità di lavoro di quel congegno.

Successivamente la mia attenzione si spostò sui veri marziani. Avendoli già visti in un'altra occasione, sebbene di sfuggita, non fui più assalito dal senso di nausea che avevo provato la prima volta. E poi in quel momento ero nascosto, non più preso dal bisogno di fare qualcosa.

Potei allora constatare che si trattava delle creature meno terrestri che potessi immaginare. Avevano il corpo grande e rotondo (o meglio, la loro testa era rotonda) del diametro di circa un metro e venti e nella parte anteriore ognuno di loro aveva un volto. Questa faccia era priva di narici (e infatti pareva che i marziani non sentissero gli odori), mentre aveva due grandi occhi scuri sotto i quali c'era una sorta di becco carnoso. Dietro alla testa o corpo, non so quale sia la definizione più giusta, c'era un timpano (successivamente fu appurato che si trattava di un orecchio) che peraltro nella nostra atmosfera, più densa della loro di origine, doveva essere praticamente inutile. Tutto attorno alla bocca spuntavano sedici tentacoli, divisi in due gruppi di otto. L'eminente professor Howes chiamò questi gruppi di tentacoli "mani", abbastanza appropriatamente. Anche la prima volta che avevo visto i marziani avevo avuto l'impressione che cercassero di sollevarsi su questi arti, ma che non ci riuscissero per l'aumento di peso conseguente alle diverse condizioni in cui si trovavano sulla Terra. Si è supposto, comunque, che su Marte i marziani riescano a camminare con facilità su questa sorta di mani.

Mi pare anche giusto far presente che l'interno, così come fu poi constatato, era altrettanto semplice. Per la maggior parte era formato da materia cerebrale, da cui si dipartivano i nervi verso gli occhi, l'orecchio e i tentacoli tattili. Vicino a questo "cervello" c'erano i polmoni, senz'altro complessi, all'altezza dei quali si trovavano la bocca e il cuore. La fatica respiratoria, originata dalla nostra atmosfera più densa e dalla maggiore forza di gravità, si notava chiaramente dal movimento accelerato della pelle.

Questi erano gli organi dei marziani. Sembrerà strano a noi umani, ma del nostro apparato digerente, che si trova al centro del nostro organismo, non avevano nulla. I marziani erano delle teste: soltanto delle teste. Non avevano interiora. Non mangiavano, per cui non avevano nemmeno bisogno di digerire. Si nutrivano, invece, iniettandosi nelle vene il sangue fresco preso da altri esseri viventi. Ho assistito io stesso a questa operazione, come racconterò a tempo debito. Non riuscii tuttavia ad assistere al fatto per intero, sicché, a costo di sembrare schizzinoso, non posso costringermi a narrarlo. Mi limiterò a dire che il sangue ricavato da un animale ancora in vita, in genere da un essere umano, veniva aspirato attraverso una canna nel canale ricevente...

Il solo pensiero di una tale cosa è senza alcun dubbio orribile per noi; d'altra parte forse dovremmo chiederci se la nostra abitudine alimentare di mangiare carne non potrebbe risultare disgustosa, per esempio, a un coniglio che fosse dotato di intelligenza.

I vantaggi fisiologici del sistema dei marziani sono senz'altro evidenti, se si tiene conto della grande perdita di tempo ed energia che comportano per gli uomini la nutrizione e la digestione. Il corpo umano è formato almeno per metà di ghiandole, canali e organi la cui funzione è quella di trasformare in sangue il cibo ingerito. La digestione e la reazione che essa provoca sul sistema nervoso hanno la capacità di incidere sulla nostra resistenza, sull'umore e sulla mente.

Gli uomini sono contenti o scontenti a seconda che abbiano o no problemi di fegato, o che lo stomaco funzioni più o meno bene. I marziani, invece, erano esenti da tutte queste variazioni di umore.

Il loro innegabile gradimento per gli uomini fu spiegabile analizzando i resti delle provviste che avevano portato da Marte. Si trattava, stando ai pezzi ormai degenerati di cui gli uomini vennero in possesso, di creature bipedi, dotate di scheletro leggero di silicio (come quelli delle spugne silicee) e di una struttura muscolare debole. In piedi erano alte circa un metro e mezzo; avevano teste rotonde e diritte, con grandi occhi incassati in orbite molto dure.

Ciascun cilindro ne conteneva due o tre, tutti uccisi prima di arrivare sulla Terra. Dato che mi sto dilungando in questa descrizione voglio aggiungere qualche altro dettaglio, per aiutare il lettore a immaginarsi meglio quelle creature così pericolose, che non ha avuto modo di vedere direttamente.

Fisiologicamente i marziani erano diversi da noi almeno in altri tre punti. Il loro organismo non richiedeva il sonno, così come non lo richiede il nostro cuore. Dato che non dovevano ristorare una massa muscolare importante, quella forma di periodico annientamento gli era sconosciuta.

A quanto pare non sentivano la stanchezza, se non in minima parte. È chiaro infatti che sulla Terra non potevano muoversi senza sforzo, eppure continuarono a farlo fino alla fine. Lavoravano tutta la giornata come sulla Terra riescono a fare soltanto le formiche. Inoltre, per quanto incredibile possa sembrare al nostro mondo, i marziani non avevano sesso, cosa che permetteva loro di ignorare le emozioni tumultuose che da ciò derivano all'uomo. Non ci sono dubbi che, durante la guerra, un piccolo marziano nacque sulla Terra. Venne trovato attaccato al suo procreatore, come germogliato, come succede con i bulbi dei gigli o con alcuni tipi di protozoi.

Questo modo di riprodursi non riguardava l'uomo e gli altri esseri viventi sulla Terra, anche se è stato certamente il modo di riproduzione originario. I due processi di riproduzione operano in modo parallelo in alcune specie di animali inferiori e tra i primi parenti dei vertebrati, i cosiddetti "tunicati", ma l'evoluzione ha portato all'affermarsi della riproduzione sessuata. Su Marte, invece, pare che abbia prevalso l'altro modo.

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