Copertina
Autore Franz Werfel
Titolo Una scrittura femminile azzurro pallido
EdizioneAdelphi, Milano, 1992 [1991], Fabula 48 , pag. 131, dim. 140x220x10 mm , Isbn 978-88-459-0812-5
OriginaleEine blassblaue Frauenschrift [1955]
TraduttoreRenata Colorni
LettoreRenato di Stefano, 1993
Classe narrativa tedesca
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Pagina 11 [ inizio libro ]

La posta giaceva sul tavolo della prima colazione. Una notevole pila di lettere, perché avendo Leonida da poco festeggiato il suo cinquantesimo compleanno, arrivavano ancora ogni giorno gli auguri dei ritardatari.

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Pagina 40

La famiglia Wormser aveva vissuto qui, a Vienna. Il padre era un medico con molti interessi, un piccolo uomo di complessione delicata e con la barba grigia: parlava poco, e in compenso perfino a tavola aveva l'abitudine di tirar fuori ad un tratto un opuscolo o una rivista medica in cui si immergeva senza badare a niente e a nessuno. Conoscendo lui sono entrato in contatto con «l'intellettuale israelita» "par excellence", con la sua idolatria per la carta stampata, con il suo credo profondo in una scienza esente da pregiudizi, valori che in questo genere di individui prendono il posto, io credo, di ogni istinto e abbandono naturale.

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Pagina 48

Non solo conoscevo l'élite, di questa élite facevo parte io stesso. Nell'epoca che precede l'evento da me definito «parto sociale», il giovane borghese sopravvaluta la difficoltà del gran balzo nel mondo. Per quel che mi riguarda, ad esempio, io non devo affatto la mia stupefacente carriera a qualità personali particolarmente spiccate, ma piuttosto a tre doti di tipo musicale: un finissimo intuito per le umane vanità, il tatto, e infine - considero quest'ultimo il mio talento più importante - l'estrema arrendevolezza, la capacità di imitazione che com'è ovvio affonda le sue radici nella debolezza del mio carattere. Come avrei potuto, altrimenti, diventare da giovane uno dei più ricercati ballerini di valzer della mia generazione, io che non avevo la più vaga idea del passo alternato? Il penoso e ridicolo precettore si presentò dunque come un gran signore agli occhi della fanciulla un tempo adorata. Credo di poter dire che Vera, passato il primo momento di esecrazione, cominciò a guardarmi con crescente meraviglia, mentre i suoi occhi diventavano sempre più grandi, sempre più azzurri. Ma che in me l'antico amore si ridestò di colpo a nuova vita, non è che credo di poterlo dire, lo so con certezza assoluta. Il gioco tra esseri umani, le schermaglie fra uomo e donna, li avevo nel frattempo imparati. Ma questo non era solamente un gioco peccaminoso, era una coazione, la folle coazione a procedere in un certo modo, passo dopo passo, per cadere in una colpa stabilita fin da principio. Credo di poter dire che mi controllavo bene, che non mostravo traccia del mio ardore, e non come in passato per misero orgoglio, ma con la compiaciuta risolutezza di chi va dritto allo scopo. Pensavo e ripensavo a come mettermi ogni giorno nella luce più favorevole sia per tutto ciò che riguarda l'aspetto esteriore, che curavo particolarmente, sia dal punto di vista intellettuale. Riuscii a conquistare Vera non tanto con le piccole ben studiate attenzioni di cui la facevo oggetto, ma piuttosto dandole a intendere che condividevo in cuor mio le sue opinioni spregiudicate e radicali e che soltanto la mia elevata posizione professionale e la ragion di Stato mi inducevano a tenere una linea cosiddetta «mediana». Avvampò, se non ricordo male, avvampò per la gioia quando fu persuasa di avermi guarito dalle «menzogne della convenzione». Aspettai cautamente il momento giusto. Quello che in un modo o nell'altro ciascuno sente come tale. Giunse prima di quanto osassi sperare. Fu il quarto o quinto giorno della mia permanenza a Heidelberg che Vera si diede a me. Non vedo il suo viso, ma sento ancora il rigido stupore che tutta la colmò prima che diventasse mia. Non vedo il luogo dove accadde. È tutto nero. Era una stanza? O si sentiva sotto il cielo notturno uno stormire di fronde? Non vedo nulla, ma serbo in me il senso di quell'attimo meraviglioso. Non era la imperiosa, esigente veemenza di Amelie. Era, la sua, una tensione atterrita, alla quale seguì ad un tratto un alitante rilassarsi della morbida bocca, il cedere sognante delle membra infantili che tenevo fra le braccia, e poi un trepido accostarsi a me, una dolcezza fidente, un credo assoluto. Nessuno al mondo ha mai creduto con la pienezza e il candore di quella ragazza capace di una critica così tagliente. A dispetto dei discorsi liberi di Vera e dei suoi modi spesso selvatici, compresi in quel momento che io ero il primo. Mai fino a quell'ora avevo immaginato che la verginità difesa con tanta asprezza e dolore ha in sé qualcosa di sacro...

A questo punto, signori della Corte, mi devo interrompere. Più procedo e più mi sento avviluppato in una giungla. Allora mi ci inoltrai con cupa risolutezza, ma adesso non riesco più a trovare il modo di entrarvi.

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Pagina 54

Dopo cento passi crollò su una panchina. Faticava in quel momento a farsi largo tra le nuvole un pallido raggio di sole ottobrino che spruzzava di luce leggera il prato di fronte a lui.

Forse egli stava sopravvalutando l'intera faccenda. Forse il giovanotto di Vera non era affatto suo figlio. Pater semper incertus, recita già il diritto romano. Non dipendeva soltanto da Vera, ma anche da lui verificare che quello fosse suo figlio. Qualsiasi tribunale avrebbe potuto contestare una simile paternità. Leonida rivolse lo sguardo all'uomo seduto vicino a lui sulla panchina. Era un vecchio signore addormentato. O meglio, non era un vecchio signore, era semplicemente un vecchio. La rognosa bombetta e il rigido e alto colletto di foggia antidiluviana indicavano che si trattava di una vittima dei tempi, di un uomo che come dice una impietosa frase fatta ha conosciuto giorni migliori. Ma chissà, poteva anche essere un cameriere particolare disoccupato da molti anni. Le mani nodose giacevano, pesanti come rimproveri, sulle cosce avvizzite. Mai in vita sua Leonida aveva visto un sonno come quello che dormiva il vecchio accanto a lui. Malgrado la bocca semiaperta con tutti quei tristissimi buchi al posto dei denti, non ci si accorgeva che l'uomo stava respirando. Dappertutto in quel volto glabro correvano, concentrandosi verso gli occhi, grinze e rughe profonde. Erano mulattiere, carrarecce, vie di accesso alla vita, sparse alla rinfusa e poi cresciute ovunque in una landa desolata. Tutto era immobile. Ma gli occhi rovesciati verso l'interno formavano due ombrose cave di sabbia dove tutto finiva. Questo sonno si distingueva dalla morte per un unico fatto, negativo peraltro, e cioè che esso serbava ancora un residuo di spasmo, e di paura, e una piccola, indescrivibile difesa...

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Pagina 131 [ fine libro ]

... Che sia già la malattia della morte, quella malattia che altro non è se non misteriosa, logica conformità con la colpa della vita? Mentre continua a dormire sotto la cappa oppressiva di questa musica perennemente eccitata, Leonida sa con chiarezza indicibile che oggi gli è stata inviata un'offerta di salvezza, oscura, sommessa, irresoluta, come tutte le offerte di questo genere. Sa di non essere stato capace di raccoglierla. Sa che a questa non faranno seguito altre offerte.

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