Copertina
Autore Edward Whymper
Titolo Scalate nelle Alpi
EdizioneWhite Star, Vercelli, 2005 [1933], I classici dell'avventura , pag. 320, ill., cop.ril., dim. 125x187x23 mm , Isbn 978-88-540-0294-4
OriginaleScalate nelle Alpi
EdizioneJ. Murray, London, 1871
TraduttoreAdolfo Balliano
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe montagna , regioni: Valle d'Aosta , sport
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Indice

Prefazione                                        7

Capitolo 1
Primo viaggio nelle Alpi                         11

Capitolo 2
La mia prima arrampicata sul Cervino             21

Capitolo 3
Nuovi tentativi per scalare il Cervino           41

Capitolo 4
La Valtournanche. Un passaggio diretto tra
il Brèuil e Zermatt (il Breuiljoch). Zermatt.
Ascensione del Grand Tournalin                   73

Capitolo 5
Sesto tentativo di scalata al Cervino            93

Capitolo 6
Da S. Michele, per la strada del Moncenisio,
alla Bérarde, attraverso il Colle delle
Aiguilles d'Arve, il Colle di Martigny e la
Brèche de la Meije                              105

Capitolo 7
Prima ascensione della Pointe des Écrins        123

Capitolo 8
Traversata del Col de Triolet. Ascensioni del
Mont Dolent, dell'Aiguille de Trélatéte
e dell'Aiguille d'Argentière                    143

Capitolo 9
Il Colle di Moming - Zermatt                    161

Capitolo 10
Ascensione del Grand Cornier                    171

Capitolo 11
Ascensione della Dent Blanche                   181

Capitolo 12
Sperduti sul Colle d'Hérens.
Il mio settimo tentativo per scalare il Cervino 189

Capitolo 13
Il Col Dolent                                   205

Capitolo 14
Ascensione dell'Aiguille Verte                  213

Capitolo 15
Il Colle di Talèfre                             223

Capitolo 16
Ascensione della Ruinette - Il Cervino          227

Capitolo 17
La scalata del Cervino                          243

Capitolo 18
La discesa                                      255

Appendice.
Seguito della storia del Cervino                267

Verbale dell'inchiesta ufficiale sulla disgrazia
del Monte Cervino del 14 luglio 1865            293

Mappe delle Alpi Occidentali                    309

 

 

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CAPITOLO 1

PRIMO VIAGGIO NELLE ALPI


Fu il 23 luglio 1860 ch'io partii per compiere il mio primo viaggio nelle Alpi. Mentre il battello si allontanava dalla costa inglese scorgemmo Beacky Head e allora mi ricordai di una certa scalata tentata parecchi anni prima. Mio fratello ed io eravamo allora negli anni in cui nulla pare impossibile e avevamo provato a scalare quella formidabile calcarea scogliera; non la quota più elevata, ma un certo punto più a est, dove era franato un blocco di roccia, conosciuto sotto il nome di «Camino del Diavolo». Da allora abbiamo corso ben altri pericoli, ma forse mai come in quella assurda spedizione rischiammo di romperci l'osso del collo.

Sorvolo su due ascensioni che mi condussero, l'una sulla cima delle torri di Notre-Dame, l'altra al settimo piano d'una casa del Quartiere Latino dove mi recavo a visitare un mio amico artista che trovai in violenta lotta con un usuraio.

Dopo mi recai in Svizzera. Là vidi gli ultimi raggi del sole morente attardarsi sulle più alte cime dell'Oberland; nella valle di Lanterbrunnen, udii il suono dei campani moltiplicati dall'eco, e le valanghe cadere dalla Jungfrau con un terribile fragore. Poi, per il colle della Gemmi, dopo aver alquanto sostato sulle rive del bel lago di Oeschinen, passai nel Vallese. Attraversando il Gasterenthal avevo trovato una testimonianza concludente sul movimento dei ghiacciai. L'estremità superiore di questa valle è dominata dal ghiacciaio di Tsichingel che scendendo urta contro un erte roccione che lo divide in due parti. Avevo scalato la parte inferiore del ghiacciaio spingendomi sino ai piedi della roccia che lo divide dove mi ero fermato per ammirare il contrasto delle scintillanti guglie di ghiaccio con l'azzurro del cielo, quando d'un tratto, un enorme pezzo di ghiaccio si staccò e s'abbattè sulla parte inferiore con rumore di tuono. Blocchi enormi di ghiaccio mi sorpassarono, rotolando fortunatamente in una direzione diversa dal luogo dove io mi ero seduto. Fuggii e non mi fermai che al di là del ghiacciaio, ma prima di essermi tratto fuori da quel luogo pericoloso, dovevo ricevere un'altra lezione: la morena terminale, che mi sembrava una massa solida, mi franò sotto i piedi, dimostrandomi che la sua superficie era posta su un pendio di ghiaccio liscio come il vetro. Sul sentiero molto scosceso che porta al colle della Gemmi ebbi più di una occasione di osservare le abitudini e i costumi dei muli svizzeri. Il fatto che questi sembrano divertirsi a fregare e a schiacciare le tibie dei turisti contro le staccionate e i muriccioli che fiancheggiano le strade, e che cercano d'inciamparsi nei passaggi pericolosi, quasi a ogni svolta e più particolarmente sui bordi dei precipizi, non credo sia dovuto ai cattivi trattamenti. La loro abitudine esasperante di camminare sull'estremo bordo dei sentieri anche nei punti più pericolosi è certamente il risultato dei loro rapporti con gli uomini. Durante gran parte dell'anno quei muli sono impiegati per il trasporto della legna; i fasci di cui sono carichi sorpassano il basto da ambo le parti ed essi camminano istintivamente sul bordo esteriore del sentiero per evitare l'urto contro le rocce del lato opposto. Fatta l'abitudine, qualunque sia il loro carico, fascio di rami o turisti, i muli continuano a prendere le identiche precauzioni. E questo costume è sovente causa di scene più piacevoli per chi le contempla che per chi ne è l'attore. Due muli si incontrano di fronte, l'uno scende, l'altro sale; entrambi pretendono di passare sul bordo esterno della strada; poiché né l'uno né l'altro intende cedere non v'è altro mezzo per farli proseguire che tirarli per la coda.

Dopo aver visitato i bagni di Leuk, risalii a piedi la valle del Rodano che lasciai a Viège per deviare nel Vispthal, ove ci si aspetterebbe di trovare tracce più apparenti dell'azione dei ghiacci se, come alcuno pretende, questa valle fosse stata un tempo il letto di un ghiacciaio. Mi diressi verso la valle della Saas, dove le mie ricerche mi fecero scalare entrambi i versanti molto oltre il limite della vegetazione e dei sentieri frequentati dai turisti. La vista che si gode dai pendii del Weissmies che domina il versante orientale della valle a 1500 o 1800 metri al disopra del villaggio di Saas è forse una delle più belle che esistano in tutta la catena delle Alpi. D'un solo colpo d'occhio s'abbracciano, dalla base alla sommità, i tre picchi dei Mischabel, oltre tre chilometri di folte foreste, verdi pascoli, guglie di roccia e ghiacciai scintillanti.

I picchi mi parvero, ohimè, inaccessibili in quella direzione.

[...]

Così ebbe termine il mio viaggio dell'anno 1860 nelle Alpi, viaggio durante il quale vidi per la prima volta le loro più alte cime e che mi ispirò la passione delle grandi ascensioni, delle quali, i capitoli che seguono, daranno le descrizioni particolareggiate.

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CAPITOLO 2

LA MIA PRIMA ARRAMPICATA SUL CERVINO


    «Quelle force n'a-t-il pas, fallu pour rompre et pour balayer
    tout ce qui manque à cette pyramide! Car on ne voit autour
    d'elle aucun entassement de fragments; on n'y voit que d'autres
    címes qui sont elles mémes adhèrentes au sol et dont les flancs,
    également déchires, indiquent d'immenses débris, dont on ne mit
    aucune trace dans le voisinage. Sans doute ce sont ces débris
    qui, sous forme de cailloux, de blocs et de sable, remplissent
    nos vallées et nos bassins, où ils sont descendus, les uns par
    le Valais, les autres par la vallée d'Aoste, du cóté de la
    Lombardie». (DE SAUSSURE: Voyages dans les Alpes).



Tra le cime delle Alpi che nessun piede umano aveva ancora calcato, due soprattutto eccitavano la mia ammirazione. L'una era stata parecchie volte oggetto di vani attacchi da parte dei migliori scalatori; l'altra, che la tradizione diceva inaccessibile, era ancora quasi vergine di qualsiasi tentativo. Queste montagne erano il Weisshorn e il Cervino.

Nel 1861, dopo aver visitato i lavori della grande galleria del Moncenisio, gironzolai per una diecina di giorni nelle valli vicine, deciso fermamente di tentare l'ascensione di quelle due cime. Correva voce che la prima fosse stata conquistata e che la seconda dovesse essere attaccata a breve scadenza. Quelle voci vennero confermate al mio arrivo a Chàtillon, all'imbocco della Valtournanche. L'interesse ispiratomi dal Weisshorn subito si spense ma quando seppi che il professor Tyndall si trovava al Breuil e che aveva l'intenzione di coronare la già ottenuta vittoria con una seconda più brillante ancora, il mio desiderio di essere il primo a scalare il Cervino si fece più profondo e più intenso.

Le guide di cui mi ero fino allora servito, mi avevano assai disgustato ed ero portato, molto a torto, oggi lo riconosco, a stimare abbastanza basso il valore di quella classe sociale. Le consideravo come individui buoni tutt'al più ad indicare i migliori sentieri ai turisti e sopratutto robusti consumatori di provviste solide e liquide.

A Chàtillon mi posi alla ricerca di una guida e mi vidi sfilare davanti individui il cui viso esprimeva malizia, orgoglio, invidia, odio, insomma tutte le qualità della mariuoleria e non quelle da me richieste.

[...]

Non mi pare necessario fare qui una descrizione particolareggiata del Cervino, dopo tutto quello che è stato scritto intorno a questa famosa montagna. I lettori di quest'opera non ignorano che la sua vetta s'eleva a 4482 metri al di sopra del livello del mare; si erge bruscamente a tale altezza per mezzo di una serie di scoscendimenti, i quali si possono a ragione chiamare precipizi, con un dislivello di circa 1500 metri dai ghiacciai che fasciano la sua base.

È noto che era l'ultima delle grandi vette alpine la cui ascensione non era stata nemmeno tentata, meno per le difficoltà terribili dell'impresa che per il religioso terrore ispirato dalla sua apparenza invincibile. Pareva che fosse circondata da una specie di cerchio magico che forse era possibile raggiungere ma non oltrepassare. Al di là di questa linea invisibile, l'immaginazione sovreccitata faceva esistere gli spiriti del male: avevano là il loro dominio l'ebreo errante e l'anime dannate. I superstiziosi abitanti delle valli vicine, molti dei quali credevano il Cervino la più alta vetta non solo delle Alpi, ma del mondo, narravano di una città in rovina esistente sulla cima ed abitata dai demoni. Se vi burlavate dei loro terrori superstiziosi, essi tentennavano gravemente il capo e, a testimonianza delle loro parole, vi invitavano a guardare coi vostri occhi le fortezze e le mura ancora in piedi; vi avvertivano di non spingere la temerità fino ad avvicinarvi, perché i demoni esasperati potevano vendicarsi precipitandovi da quelle inaccessibili altezze. Spiriti fermi e ponderati subivano la suggestione della fantastica forma del Cervino e si videro uomini i quali eran soliti parlare e scrivere come esseri ragionevoli, perdere tutto il loro buon senso quando subivano quella misteriosa influenza: farneticavano, cercavano invano le parole e dimenticavano le forme usuali del linguaggio. Lo stesso De-Saussure, così ponderato di solito, alla vista di quella montagna si sentì trasportato dall'entusiasmo e, ispirato da quello spettacolo precorse ulteriori speculazioni geologiche, esprimendo le interessanti idee trascritte in testa a questo capitolo. Da qualunque parte lo si contempli il Cervino ha sempre un aspetto imponente e fuori del comune; per questo e per le impressioni che produce in quelli che lo vedono, si può dire quasi unico tra le montagne. Senza rivali tra le Alpi, non ne ha che un numero assai esiguo nel mondo intero.

I 2000-2500 metri del picco attuale contano numerose creste ben definite e molte altre meno marcate. La più continua è quella che si dirige verso nord-est; la vetta si trova alla sua estremità superiore e il picco dell'Hòrnli forma la sua estremità inferiore. Un'altra cresta ben segnata discende dalla cima fino a quella detta Furggen Grat. Il pendio della montagna compreso tra queste due creste costituisce il versante orientale della montagna. Un'altra cresta un po' meno continua delle precedenti, discende nella direzione sud-ovest e la parte della montagna compresa tra queste e la seconda cresta, quella che si vede dal Breuil. Questa sezione non forma un'unica parete come quella limitata dalla prima e dalla seconda cresta: precipizi formidabili la spezzano ed è maculata da vasti nevati e solcata da nevosi canaloni. L'altro versante della montagna, di fronte al ghiacciaio di Zmutt, non può tanto facilmente essere descritto. Vi sono, da questa parte, precipizi più apparenti che reali ve ne sono di perpendicolari e di quelli che strapiombano, ghiacciai quasi piani e altri sospesi; ghiacciai i cui grandi seracchi si spezzano sopra rupi più grandi ancora ed i cui detriti, ricomponendosi, formano un nuovo ghiacciaio; creste spaccate dal gelo e che il vento e la pioggia hanno trasformato in guglie e torrioni; dappertutto si vedono i segni di un incessante travaglio, evidente dimostrazione delle forze che dall'origine del mondo continuano la loro opera di distruzione sull'enorme massa, riducendola in atomi e disgregandola. La maggior parte dei turisti vede per la prima volta il Cervino o da Zermatt o da Valtournanche. Dalla valle di Zermatt la base della montagna appare più ribelle e le pareti e le creste sembrano straordinariamente scoscese. Il turista che risale penosamente la valle, cerca invano da lungi all'orizzonte il maraviglioso spettacolo che deve ricompensare le sue fatiche, ma non è che ad un chilometro e mezzo a nord, oltre Zermatt che il Cervino diventa visibile. Improvvisamente il Gigante appare in tutto il suo splendore là, dove il sentiero gira attorno a una roccia e non nel punto in cui si sarebbe creduto dovesse presentarsi. Bisogna alzare il capo per contemplarlo poiché par che vi domini. Nonostante questa impressione la vetta del Cervino, vista da questo punto, fa con l'occhio un angolo minore di 16 gradi, mentre il Dom, visto dallo stesso punto fa un angolo più aperto senza tuttavia attirare l'attenzione; in questi casi non bisogna fidarsi troppo dell'impressione visiva.

Dal Breuil, in Valtournanche, l'aspetto della montagna è quasi ugualmente imponente; l'impressione, però, è meno viva perché lo spettatore vi si è in qualche modo già preparato risalendo la valle. Da quest'ultimo punto di osservazione la montagna appare formata da una serie di masse piramidali che fan pensare a coni giganteschi. Invece dall'altro versante, quello di Zermatt, essa si fa notare per la vasta e uniforme distesa di pareti lisce e a picco e per la semplicità dei contorni. È dunque naturale il supporre che sarebbe stato più facile trovare un cammino per giungere alla vetta sul versante che pareva costituito da un ammasso di roccioni, che da qualsiasi altra parte. Il versante orientale di Zermatt, appariva dalla base al sommo una parete liscia e scoscesa, impossibile a superarsi. I precipizi spaventosi che strapiombano sul ghiacciaio di Z'Mutt impedivano qualsiasi tentativo da quella parte; altro non rimaneva dunque che il versante della Valtournanche; infatti si vedrà che tutti i tentativi di scalate ebbero il Breuil come punto di partenza.

[...]

La notte sarebbe trascorsa senza inconvenienti se le pulci non mi avessero tormentato con furia crudele: un gruppo di esse eseguì un fandango indiavolato sulla mia faccia al suono della musica che una loro simile eseguì con fili di fieno sul mio orecchio. I due Carrel sgusciarono senza rumore fuori della capanna prima dell'alba e se n'andarono. Noi invece non partimmo che alle sette e li seguimmo senza premura, avendo lasciata nella baita la parte non indispensabile dei nostri bagagli.

Lentamente salimmo i pendii, stellati di genzianelle, che si stendevano tra il nostro rifugio notturno e il ghiacciaio del Leone; sorpassati i pascoli dove sonnecchiavano le mucche, attraversammo mucchi di pietrame e giungemmo al ghiacciaio. Vecchi strati di neve dura si stendevano sulla sua sponda destra, ossia alla nostra sinistra; li raggiungemmo e in tal modo pervenimmo alla base del ghiacciaio con discreta facilità. Ma via via che salivamo, le crepacce aumentavano e ben presto fummo arrestati da alcune troppo larghe per poterle valicare scalinando. Cercammo una più facile strada, portandoci naturalmente verso le rocce inferiori della Testa del Leone, strapiombanti sul lato ovest del ghiacciaio. Una dura arrampicata ci portò in breve tempo sul filo della cresta che discende verso sud; di qui fino al Colle del Leone, seguimmo una specie di lunga scala naturale che potemmo scalare quasi senza servirci delle mani; denominai questo passaggio il Grand Escalier. A questo punto fummo costretti a salire obliquamente per le scoscese rocce della Téte du Lyon che si innalzano al di sopra del canalone. Questo passaggio subisce molti cambiamenti a seconda delle stagioni e delle annate. Nel 1861 presentava vere difficoltà poiché l'estate eccezionalmente calda di quell'anno aveva quasi ridotto al nulla le masse di neve che di solito vi sono accumulate e le rocce rimaste scoperte là dove di solito la neve tocca la parete non ci offrivano che pochissime fessure e scarsi appigli. Nondimeno raggiungemmo il colle alle dieci e mezza, e i nostri sguardi poterono abbracciare il grandioso bacino dal quale nasce il ghiacciaio di Z'Mutt. Immediatamente decidemmo di passare la notte sul colle, attratti dai vantaggi che ci offriva il luogo benché questo non ci permettesse eccessiva libertà. Da un lato un muro di roccia a picco, strapiombante sul ghiacciaio di Tiefenmatten; dall'altra pendii molto scoscesi di neve indurita scendevano al Ghiacciaio del Leone, solcati da piccoli ruscelli e da valanghe di pietre. A nord s'innalzava il grande picco del Cervino; a sud erano i precipizi della Téte du Lyon. Gettando una bottiglia sul ghiacciaio di Tiefenmatten se ne ode il rumore della caduta solo dieci o dodici secondi dopo; però non avevamo a temere nulla né da questa parte né dall'altra. Nemmeno dovevamo temer sorprese dalla parte della Téte du Lyon poiché sporgenze di roccia proteggevano il posto da noi scelto per il bivacco di quella notte. Quivi facemmo una siesta abbastanza lunga, scaldando le nostre membra al sole, guardando o ascoltando i Carrel che vedevamo o udivamo a intervalli molto al di sopra di noi, sulla cresta che conduce alla cima. A mezzogiorno scendemmo alla baita ove ci caricammo delle tende e di molti altri oggetti e nonostante il peso di tutta questa roba, giungemmo al colle alle sei di sera. La nostra tenda era stata fatta su disegno di Francis Galton e mal rispondeva ai nostri bisogni. Vista a Londra, sul suolo piano, essa faceva assai bella figura, ma sulle Alpi la faccenda era ben diversa e veramente non serviva a nulla. Costruita in stoffa leggera si apriva come si apre un libro; una delle due estremità non doveva mai aprirsi, l'altra era chiusa per mezzo di tendine di tela; si montava su due alpenstoks, e i due lati erano tanto lunghi da poterli rimboccare. Ai bordi inferiori erano cucite parecchie corde ma la sua solidità era basata sopratutto su di una corda, che passando sotto la parte superiore attraverso ad anelli di ferro avvitati al sommo degli alpenstoks, era da ambo i capi attaccata a robusti picchetti.

Il vento che soffiava tra le rocce d'attorno, s'ingolfò nella nostra breccia come se uscisse da un enorme mantice, rendendo così impossibile di tener fissati al suolo i due lati della tenda e i pioli, per quanto solidamente piantati, non tenevano più di cinque minuti. Poiché la nostra tenda dimostrava un vivissimo desiderio di volarsene sulla cima della Dent Blanche, giudicammo opportuno piegarla e servircene come giaciglio; venuta la notte ci avviluppammo ben bene dentro, cercando di rendere la nostra posizione meno disagevole possibile.

Era d'attorno un silenzio impressionante; nessun essere vivente era vicino al nostro bivacco, poiché già da parecchio tempo i Carrel eran tornati sui propri passi e non potevamo più udirli; le valanghe avevano finito di cadere e il freddo intenso aveva congelata l'acqua che ancora un momento prima cantava nelle scannellature dei ruscelli; la temperatura era freddissima. L'acqua contenuta nella bottiglia, posta sotto la mia testa era divenuta un blocco di ghiaccio; del resto in tutto ciò non v'era nulla di anormale se si pensa che noi eravamo in un canalone ove s'infilavano, soffiando, tutti i venti. Per qualche tempo tuttavia sonnecchiammo, ma a mezzanotte circa, fummo bruscamente svegliati del tutto da una formidabile esplosione avvenuta molto al disopra del nostro bivacco, seguita da pochi istanti di silenzio terrificante. Una enorme massa di roccia staccatasi dalla montagna, scendeva, abbattendosi su di noi. La mia guida era balzata in piedi e gridava a mani giunte:

- Mio Dio, siamo perduti!

Udimmo i blocchi di quella terribile valanga precipitarsi a valle gli uni dopo gli altri, nei precipizi, balzando e rimbalzando di scoscendimento in scoscendimento, urtandosi nella tremenda corsa con assordante fracasso. Sembravano molto vicini a noi mentre in realtà dovevano essere assai lontani, ma qualche frammento che nello stesso momento volò dalle rocce strapiombanti sotto cui ci eravamo riparati, passando proprio sopra le nostre teste, aumentò la nostra paura e il mio compagno, terrorizzato, passò il rimanente della nottata a tremar di spavento e a borbottare tra i denti esclamazioni di terrore.

Al nascer del giorno eravamo in marcia e cominciammo a scalare la cresta sud-ovest. Ora non si trattava più di bighellonare con le mani in tasca, bisognava conquistare, mani e piedi ogni metro di salita. Tuttavia la scalata era veramente piacevole e interessante; le rocce molto solide erano spoglie di detriti, gli appigli, benché poco numerosi, erano netti e sicuri; non v'era che da far assegnamento su noi stessi. Poiché tale era la nostra opinione, ci mettemmo a cantare per svegliare gli echi dei precipizi... Nessuna risposta! Non ancora; attendiamo un po'; tutto assume qui proporzioni colossali. Bisogna contare fino a dodici e allora soltanto le pareti della Dent d'Hérens distanti parecchi chilometri rinviavano vibrazioni di una straordinaria chiarezza, dolci e melodiose.

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CAPITOLO 17

LA SCALATA DEL CERVINO


Il 13 luglio 1865 partimmo da Zermatt alle cinque e trenta in un chiaro e terso mattino. Eravamo in otto: Croz, il vecchio Pierre e i suoi due figli Lord Francis Douglas, Hadow, Hudson ed io. Per maggior sicurezza, ogni turista aveva la sua guida. Il più giovane dei fratelli Taugwalder toccò a me; fiero di partecipare alla nostra spedizione e felice di mostrare la sua destrezza, il giovanotto camminava molto bene. Io ero incaricato del trasporto degli otri che racchiudevano le provviste del vino; ogni volta che se ne spillò, durante la giornata, ebbi cura di colmare il vuoto con acqua; così avvenne che alla sosta seguente essi furon trovati più pieni che alla partenza. Questo fenomeno che aveva del miracoloso fu considerato come buon presagio.

Era nostra intenzione non salire troppo durante il primo giorno; perciò camminammo senza alcuna fretta. Alle otto e venti riprendemmo gli oggetti deposti nella cappella del Lac Noir, poi continuammo a scalare la cresta che unisce l'Hòrnli al Cervino. Alle undici e trenta giungemmo alla base del picco principale; allora lasciata la cresta, ci convenne contornare alcune sporgenze rocciose per raggiungere il versante orientale. Trovandoci sulla montagna stessa, constatammo con grande stupore che alcuni pendii che visti dal Riffel oppure dal ghiacciaio di Furggen apparivano assolutamente inaccessibili, erano invece così facili da scalare che ci fu possibile salire quasi a passo di corsa.

Prima di mezzogiorno, a un'altezza di 3350 metri, avevamo trovato una posizione eccellente per la tenda. Croz e il giovane Pierre proseguirono oltre per vedere quale fosse l'itinerario migliore che avremmo dovuto seguire la mattina dopo. Attraversarono l'estremità superiore dei nevati che discendono dal ghiacciaio di Furggen, e disparvero dietro un angolo di roccia, per ricomparire poco dopo molto in alto in atto di salire rapidamente.

Costruimmo una solida piattaforma in un luogo riparato per drizzarvi la tenda, poi attendemmo impazienti il ritorno delle due guide. Le pietre che essi facevano rotolare segnalavano la loro presenza molto in alto: potevamo dunque supporre che l'ascensione sarebbe stata facile. Finalmente, verso le tre, le vedemmo tornare, apparentemente molto eccitate:

- Pierre, che ne pensano?

- Nulla di buono, Monsieur. Ma giunte presso di noi, le guide si espressero ben altrimenti: tutto andava a meraviglia, non il minimo ostacolo, non una sola difficoltà. Avremmo potuto raggiungere la vetta e tornare facilmente il giorno stesso.

Il resto della giornata trascorse serenamente; gli uni si scaldarono al sole, gli altri eseguirono degli schizzi, o raccolsero esemplari per le loro collezioni; poi, lo splendido tramonto ci fu promessa di una giornata meravigliosa; rientrammo nella tenda ove ci preparammo a trascorrere la notte. Dopo il pasto serale, ciascuno s'avvolse nella coperta a sacco. Lord Francis Douglas ed io occupammo la tenda con i Taugwalder; i nostri compagni preferirono coricarsi all'aria aperta. Il crepuscolo si era già spento da un pezzo e gli echi della montagna risuonavano ancora delle nostre risate e dei canti delle guide, poiché eravamo pieni di allegria e non temevamo alcun pericolo.

Il giorno 14, prima dell'alba, ci riunimmo davanti alla tenda e partimmo che era già abbastanza chiaro per dirigerci. Il giovane Pierre ci accompagnò come guida e suo fratello tornò a Zermatt. Seguimmo la direzione che le guide avevano preso il giorno prima e, in capo a qualche istante, contornammo la sporgenza che, dalla tenda, ci nascondeva il versante orientale della montagna. Allora potemmo abbracciare con lo sguardo la grande parete che sorgeva davanti a noi, alta quasi mille metri, come una gigantesca scala naturale. Alcuni punti erano abbastanza difficili ma non incontrammo ostacoli tali da fermarci: quando ci imbattevamo in qualche difficoltà insormontabile, ci era sempre possibile contornarla, piegando a destra o a sinistra. Durante la maggior parte di questa scalata non avemmo in realtà da ricorrere all'aiuto della corda; Hudson ed io, camminavamo a turno in testa alla comitiva. Alle sei e venti eravamo a 3900 metri e sostammo circa mezz'ora; poi continuammo a salire senza fermarci fino alle dieci; allora soltanto ci permettemmo un'altra fermata di cinquanta minuti, a 4270 metri.

Per due volte passammo sulla cresta nord-est che seguimmo per breve tratto, ma senza alcun vantaggio, poiché essa era, per quasi tutta la sua estensione, molto più spezzata e scoscesa e sempre più difficile da scalare del versante orientale. Tuttavia per timore delle valanghe di pietra, ce ne allontanammo il meno possibile.

Eravamo allora giunti alla base di quella parte del Cervino che, vista dal Riffelberg o da Zermatt, appare assolutamente a picco ed anche strapiombante sulla valle; non ci era possibile continuar a salire per il versante orientale. Per qualche tempo, dovemmo scalare, seguendo la neve, la cresta che discende verso Zermatt; poi di comune accordo, piegammo verso destra, cioè sul versante settentrionale della montagna.

Prima di effettuare questo cambiamento di direzione, avevamo modificato l'ordine di marcia; Croz era alla testa della colonna, io lo seguivo, Hudson era il terzo; Hadow e il vecchio Pierre formavano la retroguardia.

- Ed ora - disse Croz mettendosi in marcia - le cose cambiano. L'ascensione si faceva sempre più difficile ed erano necessarie le più grandi precauzioni. In certi punti quasi non si trovavano appigli e perciò era indispensabile porre a capo della comitiva coloro che avevano il piede più sicuro.

Linclinazione generale di questo versante non raggiungeva i 40 gradi, la neve accumulandosi aveva riempito gli interstizi delle rocce; i rari frammenti che spuntavano qua e là erano talvolta ricoperti da un sottile strato di ghiaccio formato dalla neve fusa e gelatasi poi quasi immediatamente; era, su piccola scala, la ripetizione dei 215 metri che fanno capo alla vetta degli Ecrins, con questa differenza però, che la parete degli Ecrins aveva un'inclinazione che superava i 50 gradi, mentre quella del Cervino non raggiungeva i 40 gradi.

Questo passaggio non presentava difficoltà per uno scalatore esercitato e, come nel resto dell'ascensione, Hudson non richiese alcuna assistenza. Più volte, avendomi Groz teso la mano per sostenermi in qualche difficile passo, volgendomi offrii lo stesso aiuto a Hudson; ma egli non l'accettò mai dicendo che era inutile. Invece Hadow evidentemente non era allenato a simili scalate così che occorreva aiutarlo continuamente. Bisogna dire tuttavia, che la difficoltà che provava nel seguirci in quel mal passo, era dovuta semplicemente ed esclusivamente alla sua mancanza di esperienza in materia.

Questa parte, la sola veramente difficile dell'ascensione, non si estendeva molto. La traversammo, quasi orizzontalmente dapprima, per una lunghezza di circa 120 metri, poi salimmo verso la vetta per più di 20 metri, indi dovemmo tornare sulla cresta che scende verso Zermatt. Un lungo e difficile giro che dovemmo compiere per contornare una sporgenza rocciosa ci ricondusse nuovamente sulla neve. Giunti a questo punto l'ultimo dubbio scomparve; il Cervino era nostro poiché non avevamo più da scalare che una sessantina di metri su un nevato facilissimo.

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