Autore J. Rodolfo Wilcock
Titolo Il libro dei mostri
EdizioneAdelphi, Milano, 2019 [1978], Fabula 344 , pag. 144, cop.fle., dim. 14x22x1,2 cm , Isbn 978-88-459-3360-8
LettoreGiorgio Crepe, 2019
Classe narrativa italiana












 

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Indice


Anastomos                        13

Geom. Elio Torpo                 15

Mano Lasso                       17

Zulemo Moss                      19

Cap. Luiso Ferrauto              22


[...]


Eperone Stup                    134

Severo Carnio                   136

Nerone Borio                    138

Afrodung Lu                     140

Alasumma                        142


 

 

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Pagina 22

Cap. Luiso Ferrauto





Una volta all'anno, in primavera, il capitano Luiso Ferrauto cambia pelle; dalla pelle vecchia emerge lustro e roseo come un neonato, ma dopo poche ore la pelle nuova riacquista il suo colore normale che è olivastro e pure i capelli, che se ne sono andati con lo scalpo del cranio, ricrescono in fretta, come si addice a un ufficiale della Pubblica Sicurezza. Sua moglie, a lui legata da un amore inconsueto di questi tempi, è solita raccogliere quelle pelli usate di suo marito e riempirle di spugna di plastica color carne, in modo da farne un pupazzo abbastanza presentabile, ben cucito e messo insieme, con la sua uniforme indosso. Ne ha radunati ormai una quindicina, nel garage: altrettanti ufficiali di polizia, così simili a suo marito che è una gioia vederli tutti insieme, così dignitosi, così dritti, così irraggiungibili dalla corruzione. La signora ha fatto installare un apparecchio stereo nel garage e quando il capitano è fuori per servizio, la donna scende a fare ascoltare ai suoi ex-mariti le migliori pagine della lirica mondiale. Assorti, come rapiti, i quindici poliziotti si ascoltano immobili la morte di Desdemona, la meritata uccisione di Scarpia, il bisticcio fatale tra Carmen e Don José, tutti delitti che esigono l'arresto immediato del colpevole, fatti di sangue e di violenza come tante volte ne hanno visti nella loro carriera. Poiché i pupazzi di pelle poliziesca vengono prodotti uno all'anno e ciascuno in età più avanzata del precedente, essi presentano questa insolita caratteristica: che il più giovane dei quindici è il più vecchio dei quindici.

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Pagina 46

Mario Obradour





Mario Obradour è bello sì, ma in fotografia, perché nella realtà riesce abbastanza disgustoso, essendo, come è, identico a un manichino di plastica, o a una statua di cera; persino le sopracciglia sono di una roba felpata e lucida, come di pelle di cavallo, anche la lingua sembra di plastica rossa, i buchi del naso sono rosei e trasparenti, i capelli una resina impeccabile, gli occhi due conchiglie forate, insomma basta dire che quando piove non si bagna. Fa sulla gente una così insolita impressione che a volte quando è presente parlano di lui come se fosse assente. Mario Obradour ne soffre e in fondo vorrebbe apparire un uomo di carne e d'osso; quello che è, tutto sommato, solo che la sua è carne piuttosto dura, oltre che impermeabile, e l'osso, per osso che sia, né in lui né in altro mortale si mostra in superficie. Peraltro alla sua durezza esterna si accompagna un'interna tenerezza, da nessuno ripagata. A volte pensa: «Sono il bello e la bestia in una singola persona, se mi è lecito dire». Ha provato a lavorare alla televisione, uno dei pochi posti dove le due condizioni suddette siano richieste e apprezzate contemporaneamente, ma la lingua rigida gli rende la pronuncia fin troppo dubbia. «Che sarà di me,» Obradour si domanda «quando oltre che duro sarò vecchio?». E qui sbaglia, perché un vecchio duro è assai meglio tollerato che un giovane duro.

Fin dai quattordici anni Mario Obradour si rese conto che l'amore fisico, per quanto strano possa sembrare, non era per lui: rischiava di rompersi qualche organo. Già nei primi giochi erotici con i compagni di scuola, scricchiolii sinistri lo distoglievano dalle normali soddisfazioni di gruppo, talché si era dovuto inventare una sorta di masturbazione precaria sui generis con una pelle di camoscio, di quelle che servono a pulire le automobili, cautamente guidata con le due mani fino all'estasi; e altre estasi che questa del camoscio non ha mai conosciuto. Ogni sei mesi si compra una pelle nuova, e già si avvia come tutti a rimpiangere le pelli di camoscio di un tempo, più morbide, più calde.

Mario Obradour ha il vantaggio che non si sporca. Il resto, son quasi tutti svantaggi. Persino gli uccellini, quando si siede su una panchina del Parco Comunale, gli fanno i bisogni in testa, come se fosse una statua o un monumento. Una volta, sentendosi internamente fondere da un calore ignoto, volle rivolgere la parola a una ragazza in un negozio; balbettante dall'emozione tese il braccio, e la ragazza ci appese la borsetta, distratta. Siamo sempre presi per quel che sembriamo.

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Pagina 48

Effio Daudaben





Chissà per quale stravaganza genetica dei genitori, Effio Daudaben è nato ominide e più esattamente del genere Australopithecus. È tutto coperto di peli tra il marrone e il grigio, ha il viso prognato di una scimmia e anche coi piedi può fare molte cose che noi possiamo fare soltanto con le mani. Per queste sue caratteristiche abnormi è molto noto nei circoli paleontologici di tutto il mondo, come unico esemplare vivente di ominide fossile; altrettanto noto è nei circoli dediti allo studio della semiotica strutturalistica, che egli ha scelto prima come hobby e in seguito come professione, per i suoi saggi su praticamente qualunque argomento. Questi saggi sono in realtà incomprensibili, nemmeno si riesce a capire che cosa sia in realtà la semiotica, dicasi strutturale che di altro tipo, la quale ne costituisce il presupposto e l'argomento. Effio Daudaben scrive con i piedi, ma se volesse potrebbe anche scrivere con le due mani, quella destra e quella sinistra:

«Una cosa è concepire la realtà come segno e un'altra ben diversa è concepire l'inconscio come realtà; al che la condanna cade da sé ove il condannato mostri qualche volontà di colloquio. Ci sembra che proprio attraverso proposte come questa potrebbe passare una corretta linea di rinnovamento culturale, quando un giorno ci sarà fra gli altri da affrontare anche il problema del significante. L'importante è risolvere la vecchia storia della letteratura in una sociologia della letteratura, mediante il connubio, direi istituzionale, tra lo strutturalismo e la semiologia...».

Certo, non si può pretendere vedute luminose da una scimmia. O forse sarà che ai primordi, come sostengono non pochi paleontologi, la razza preumana usava esprimersi in termini confusi e grandiloquenti, come conscia di uno splendido avvenire intellettuale ancora intravisto soltanto attraverso le brume della lingua nascente? Se così fosse, immenso diverrebbe il valor filologico di questi documenti, retaggio di un'età remota. Per non parlare del prezioso suggerimento che l'uomo primigenio abbia cominciato a scrivere, come Effio Daudaben, con uno o due piedi.

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Pagina 60

Resio Bombi





Tra il fuoco di un incendio e il crollo di un trave che in tale occasione gli è caduto sulla testa, Resio Bombi ha perso il dono dei sensi: non vede più e non sente, non percepisce sapori né odori, e del tatto gli rimane appena quel che basta per ritrovare il solito divano e starsene lì buono, non importa se nella luce o nell'ombra, tanto per lui è lo stesso. D'aspetto non è allettante, la sua testa sembra una coscia d'agnello lessa, con un buco per la bocca e due buchini per respirare; ma la sua compagnia è istruttiva. Dall'eterna tenebra racconta:

«Scendevamo per un pendio erboso tra le querce e i castani e i raggi di sole che tra le foglie calavano sui nostri capelli giovani fino alla grande sorgente che si dilatava tra i massi di basalto in uno stagno di acque fluenti e chiare dove nudi giocavamo sotto gli alberi ombrosi nel caldo del mezzogiorno e eravamo tutti belli e diversi e talvolta ci baciavamo...».

Memoria della felicità, solo bene di Resio Bombi: raccogliamo qua e là per tempo lembi di vita, che presto sarà anche nostra la sua sorte.

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Pagina 72

Massenio Loppi





Lolla era e è ancora la fidanzata di Massenio Loppi, un bel giovanotto abbronzato e sportivo, sprizzante salute e allegria; il quale però da un po' di tempo è diventato un miraggio. Addio quindi ogni speranza di incontri amorosi, di cedenti dialoghi, di tête-à-têtes al chiaro di luna: anche se lo inseguisse sul deserto dietro casa su una jeep, Massenio sfuggirebbe verso le montagne; e se sul mare che si stende davanti a casa cercasse di raggiungerlo con la barca, parimenti si allontanerebbe Massenio, tremulo sull'orizzonte. Quanto al chiaro di luna, Massenio Loppi si fa vedere solo di giorno: sul deserto al primo mattino, sul mare al tramonto. Talvolta lo si vede sui trampoli, talvolta cammina agilmente sulle acque, e in certe occasioni la Fata Morgana gli innalza intorno muri, colonnate e archi, e dietro, castelli con torri e nelle torri finestre luminose e alle finestre confuse donne che lo chiamano per sedurlo, o forse chiamano Lolla, per schernirla. Altri giorni Massenio Loppi appare in tre punti contemporaneamente dell'orizzonte, ripetuto, e Lolla si dispera, perché non sa su quale dei tre fissare lo sguardo. Insomma il fidanzamento si svolge abbastanza normalmente; magari non approderà mai a nulla, ma questo è scontato quando si ama, visto che l'altro è sempre e comunque irraggiungibile, e non si sa su quale delle sue false immagini fissare lo sguardo.

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Pagina 78

Elviridio Tatti





Con poca spesa di corrente e di attenzione ospedaliera, Elviridio Tatti veniva tenuto in vita in camera di rianimazione. Erano passati due anni dall'incidente, e si discuteva se continuare a mantenerlo in quello stato o no, secondo la regola deontologica che detta: «Il diritto di morire con dignità, o la sospensione del ricorso a mezzi straordinari per prolungare la vita del corpo, se vi sono prove che la morte biologica è inevitabile, sono di competenza del paziente o dei suoi familiari», quando le infermiere si accorsero che nel frattempo Elviridio Tatti era andato acquistando una forma tra le più imbarazzanti che possa presentare un malato, e cioè la forma toroidale, che è quella di una gomma di camion. La grossa ciambella aveva perso gli arti, poi ritrovati rinsecchiti in fondo al letto, e la testa si era ridotta a un tubicino, non dissimile dalla valvola che serve a gonfiare, appunto, una gomma di camion. In queste mutate condizioni il quesito deontologico diventava senza risposta. L'elettroencefalografo, applicato alla suddetta valvola o meglio detto al suo cappuccio, fornisce come prima un encefalogramma a onda zero, che è l'equivalente della morte biologica, ma il toro di Elviridio Tatti continua a pulsare e a gonfiarsi ritmicamente, anche se con l'aiuto del respiratore o pneumotorace; solo che - per non citare che uno tra i tanti problemi insolubili - dove è adesso il torace del toro? La domanda sembra persino puerile, tuttavia, se la si paragona a quella che nessuno osa porsi: dove è adesso l'anima di Elviridio?

È già difficile per una persona normale, come noi o buona parte di noi, decidere dove si trova in un dato momento la propria anima: quanto mai lo sarà, quando il soggetto della domanda è un copertone di camion. A parte la suddetta pulsazione, il solo segno di vita che dà ormai Elviridio Tatti, o quasi, è un puzzo inconfondibile e insopportabile, appunto di gomma bruciata. Il problema si presenta in questi termini: c'è, nel polmone artificiale, una grossa ciambella inerte, la cui sola caratteristica discernibile è il puzzo; si sa che questa ciambella si chiama Elviridio Tatti, e si sa che a questo Elviridio Tatti corrisponde un'anima, che però non si sa che cosa sia. Non ci impone forse il principio di Occam, quello che vieta di moltiplicare inutilmente i concetti, di trarre come conclusione che l'anima di Elviridio Tatti è il suo puzzo? E non sarà lo stesso anche per noi altri tutti? Dal momento che siamo tutti come lui tenuti in camera di rianimazione, fino alla morte biologica inevitabile?

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Pagina 95

Dott. Vet. Lurio Tontino





Già prima di diventare un asteroide il veterinario Tontino era molto portato agli scherzi; ora che gira tra Pallade e Cerere, tra Giunone e Vesta, Eros e Icaro e i Troiani, i suoi scherzi hanno assunto proporzioni per così dire cosmiche: è stato lui con un meteorite che lo seguiva come un cane a rendere inagibile l'aeroporto di Abidjan nella Costa d'Avorio, in modo da impedire l'atterraggio di Paolo VI; è stato lui con una valanga a seppellire Fidel Castro nei pressi di Saint Moritz. Scherzi di cattivo gusto, si dirà, ma forse i soli scherzi nelle possibilità di un asteroide. La sua orbita è molto ellittica e quando gli tocca passare nelle vicinanze di Mercurio il caldo gli dà alla testa e gli fa combinare disastri che difficilmente si possono definire scherzi: ha fatto stampare a una casa editrice ventidue milioni di copie dei Discorsi di Mussolini, ha fatto sciogliere improvvisamente i ghiacci antartici, ha deviato nubi di insetti africani su Varsavia. La sua posizione planetaria mette il dottor Lurio Tontino al riparo da ritorsioni; nel suo piccolo è un astro e non è che si possa far molto contro gli astri: serenamente percorrono le loro orbite e intanto decidono i nostri destini. È vero che ciascun astro intende fare a modo suo, e tira dalla sua parte senza curarsi di quello che hanno deciso gli altri; ma è anche vero che i nostri destini sono già da sé un tale groviglio inestricabile che nessun astro, nemmeno una stella di prima grandezza, potrebbe migliorarli: si può soltanto peggiorarli. Non è solo il veterinario Tantino a farci cadere dalle scale o a lasciarci senza batteria: asteroidi soltanto ce ne sono tremila, e astri in genere chissà quanti. Così va il mondo, chiunque lo può vedere.

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Pagina 113

Dott. Arrigo Ploz





Tutti conoscono i validi contributi del dott. Arrigo Ploz alla metafisica; non tutti sanno però che il più valido di quei contributi è la sua semplice e pura esistenza. Un giorno il dott. Ploz cominciò a diventare sempre più piccolo finché non si ridusse al nulla. Da allora nessuno lo ha più visto ma è certo che il dott. Ploz non ha smesso di esistere; soltanto che ora, essendo il nulla, nulleggia e null'altro. Sua moglie, ferita dalla sua mancanza nel suo orgoglio di moglie, fa finta che ci sia e persino parla con lui, cioè con il nulla; i suoi allievi continuano a non studiare sotto la sua guida, e la Rivista di Filosofia continua a pubblicare i suoi articoli, magari su una pagina in bianco. Quel che nessuno sa è dove sia il dott. Ploz, come sia, né che cosa pensi di tutto questo.

Di certo si sa tuttavia che dal suo nulla, nel frattempo, il dott. Ploz ha inventato, o diremmo meglio re-inventato, i numeri naturali, positivi e negativi, quelli frazionari, quelli irreali, quelli immaginari, quelli trasfiniti, quelli infinitesimali, nonché le loro radici e quadrati in quantità sbalorditiva; parimenti, per passare il tempo, l'ha inventato, e con esso lo spazio. Ha inventato buona parte dell'arte moderna, i quadri a tela vuota, gli orifizi di numerose sculture, i libri non scritti, tra cui i due capitoli in bianco del Tristram Shandy di Sterne, e l'intera dottrina filosofica di Martin Heidegger. Mirna la cameriera a ore commenta: «Avvedi il dottore come si dà daffare!». Essendo adesso il suo padrone egli stesso un buco nell'universo, vorrebbe passarci di quando in quando uno straccio per pulirlo, ma dove è? Qualunque cosa si dica di lui è vera, perché non c'è modo di dimostrare che non lo sia. In lui convivono tutte le cose che non esistono, tutti i circoli quadrati, tutte le faine che leggono queste righe, tutti i cigni bianchi che sono neri, tutte le soluzioni del problema nazionale, la storia e la psicanalisi, la religione cattolica e Dio. Quest'ultima ipotesi, che sia diventato Dio, ne farebbe anche l'inventore asserito delle cose che esistono, di tutti noi, di tutto.

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Pagina 132

Olimpiero Fraglie





Olimpiero Fraglie non sarebbe brutto se non fosse così verde: in lui la clorofilla a predomina su quella b, quindi più che verdegiallo Olimpiero tende al verdeazzurro, con qualche tocco di verdeviola nei capelli e nelle ciglia; gli occhi sono di un verde quasi nero, ma puntano purtroppo in diverse direzioni; nondimeno sono molto espressivi e specialmente quando è arrabbiato roteano nel biancogiallo rossiccio delle orbite con un effetto sconvolgente. Il colore in lui s'accorda con l'ambiente, perché Olimpiero vive nella verdura: coltiva un orto in cima a un colle cintato tutt'intorno da precipizi, e questa stessa inaccessibilità delle sue faccende le rende alquanto misteriose: a qualunque ora lo si può vedere, da lontano, da valle, che trasporta mucchi voluminosi di rami secchi da un posto all'altro, o di erba medica per i conigli, o addirittura letame raccolto chissà dove. Chi l'ha avvicinato, dice che manda un odore delizioso, di resina di pino, d'eucalipto, di lauro, secondo le giornate. Non compera mai niente, neppure un pezzo di pane, essendo in grado come felicemente è di trasformare l'energia della luce in energia chimica, come le piante; e a questo scopo gira nudo o quasi nudo, per esporsi meglio alla luce. Anche il corpo ce l'ha coperto di peli verdi, per aiutare la fotosintesi. Si racconta pure che in lui convivano i due sessi, il che lo porta all'autosufficienza: ha un organo genitale maschile e uno femminile, e così si capisce che stia sempre lassù, sulla sua rupe, a scopare se stesso tutta la notte, come dicono in paese. Peraltro quando parla sembra una vecchietta, sebbene sia ancora giovane, né si capisce bene quel che dice, ammesso che dica qualcosa.

Intanto è diventato un'attrazione turistica: l'albergo nuovo sull'alto colle posto di fronte al suo ha fatto sistemare un cannocchiale su un treppiede «per dare un'occhiata all'uomo verde». I commenti dei turisti si lasciano immaginare: di fronte alla natura, l'uomo di città si sente a disagio. Quasi tutti domandano, per esempio, se Olimpiero ha moglie: l'idea che sia moglie di se stesso li stupisce, eppure è la norma tra i vegetali.

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