Autore Alex Williams
CoautoreNick Srnicek
Titolo Manifesto accelerazionista
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2018, manifesti , pag. 62, cop.fle.sov., dim. 11,6x19x0,5 cm , Isbn 978-88-581-3124-4
PrefazioneValerio Mattioli
TraduttoreMarco Cupellaro
LettoreRiccardo Terzi, 2019
Classe politica , movimenti , destra-sinistra












 

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Indice


Manifesto accelerazionista
di Alex Williams e Nick Srnicek          7


Postfazione
di Valerio Mattioli                     39


Bibliografia                            61

 

 

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Pagina 7

01. INTRODUZIONE

Sulla congiuntura


1. All'inizio del secondo decennio del ventunesimo secolo, la civiltà globale si trova ad affrontare un nuovo tipo di cataclismi. Le apocalissi in arrivo ridicolizzano le norme e le strutture organizzative della politica forgiate con la nascita dello Stato-nazione, l'ascesa del capitalismo e le guerre senza precedenti del secolo scorso.


2. Il più significativo di questi sconvolgimenti è il collasso del sistema climatico del pianeta, che in prospettiva mette a rischio la stessa sopravvivenza umana a livello globale. È il pericolo più grave che incombe sull'umanità, ma ad esso si affianca e s'intreccia una serie di problemi minori ma potenzialmente non meno destabilizzanti. L'irreversibile esaurimento delle risorse, in particolare di quelle idriche ed energetiche, lascia intravedere carestie di massa, il crollo di paradigmi economici e nuove guerre calde e fredde. La perdurante crisi finanziaria ha indotto i governi ad accettare la spirale micidiale e paralizzante delle politiche di austerità, della privatizzazione dei servizi di welfare, della disoccupazione di massa e della stagnazione salariale. La crescente automazione dei processi produttivi - che investe anche il «lavoro intellettuale» - è una prova della crisi secolare del capitalismo, che presto non sarà più in grado di assicurare il mantenimento degli standard di vita attuali nemmeno alle ex classi medie del nord globale.


3. A queste catastrofi che accelerano si contrappone l'incapacità della politica odierna di elaborare le nuove idee e modalità organizzative necessarie a trasformare le nostre società per affrontare e scongiurare le devastazioni in arrivo. La crisi acquista forza e velocità, ma la politica langue e arretra. In questa paralisi dell'immaginario politico, il futuro è stato cancellato.


4. Dal 1979 l'ideologia politica egemone nel mondo è il neoliberismo, che ritroviamo, con qualche variante, in tutte le principali potenze economiche. Di fronte alle grandi sfide strutturali poste dai nuovi problemi globali, e in primo luogo dalle crisi creditizie, finanziarie e fiscali iniziate nel 2007 e 2008, i programmi neoliberisti non hanno fatto che riproporre le stesse risposte in forma esasperata. Questa evoluzione del progetto neoliberista - una sorta di «neoliberismo 2.0» - ha dato il via a un nuovo ciclo di aggiustamenti strutturali, che si traduce soprattutto nel promuovere nuove e aggressive incursioni del settore privato in quel che resta di istituzioni e servizi di matrice socialdemocratica, senza curarsi degli effetti economici e sociali negativi che queste politiche generano nell'immediato e delle barriere di fondo create, a lungo termine, dalle nuove crisi globali.


5. Il fatto che la destra - al governo e non - e i potentati economici siano riusciti a imporre un ulteriore giro di vite neoliberista è, almeno in parte, il risultato della perdurante paralisi e della quasi totale inadeguatezza di ciò che rimane della sinistra. Trent'anni di neoliberismo hanno prosciugato qualsiasi pensiero radicale nei partiti politici di sinistra, ormai svuotati e privi di mandato popolare: nel migliore dei casi la loro risposta alle crisi attuali si riduce ad appelli per un ritorno a politiche economiche keynesiane, sebbene sia ormai chiaro che non ci sono più le condizioni che nel dopoguerra consentirono l'ascesa della socialdemocrazia. Non c'è modo di tornare, neanche per decreto, all'epoca del lavoro di massa tipico dell'industria fordista. E purtroppo, nemmeno i regimi neosocialisti della Rivoluzione bolivariana in Sud America, pur apprezzabili per la loro capacità di opporsi ai dogmi del capitalismo contemporaneo, appaiono capaci di proporre un'alternativa che vada al di là del socialismo di metà Novecento. Il movimento organizzato dei lavoratori, costantemente indebolito dai cambiamenti inscritti nel progetto neoliberista, soffre di sclerosi istituzionale e al massimo riesce ad attenuare un po' l'impatto dei nuovi aggiustamenti strutturali. Ma senza un approccio sistematico alla costruzione di una nuova economia, e senza la solidarietà strutturale che occorrerebbe per far passare un simile cambiamento, il movimento dei lavoratori rimane per ora sostanzialmente impotente. Anche i nuovi movimenti sociali emersi dopo la fine della Guerra fredda, e poi ancora dopo il 2008, si sono dimostrati incapaci di elaborare una nuova visione ideologico-politica, spendendo invece molte energie nei processi interni di democrazia diretta e in un'autovalorizzazione affettiva al di là di qualsiasi efficacia strategica, proponendo spesso una versione del localismo neoprimitivista, come se per opporsi alla violenza astratta del capitale globalizzato bastasse la fragile ed effimera «autenticità» della comunità priva di mediazioni.

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02. INTERREGNO

Sugli accelerazionismi


1. Se esiste un sistema che è stato associato a idee di accelerazione, è proprio il capitalismo. Il metabolismo essenziale del capitalismo richiede la crescita economica, attraverso una concorrenza tra i singoli soggetti capitalistici che innesca una progressione crescente di sviluppi tecnologici volti ad acquisire vantaggi competitivi e immancabilmente accompagnati da turbolenze sociali sempre più forti. Nella sua versione ideologica neoliberista, questo processo si autorappresenta come liberazione di forze di distruzione creatrice, che spiana la strada a un'innovazione tecnologica e sociale in costante accelerazione.


2. Il filosofo Nick Land ha acutamente colto questo aspetto, nella miope ma ipnotica convinzione che la velocità del capitalismo sia di per sé sufficiente a produrre una transizione globale verso singolarità tecnologiche senza precedenti. In questa visione del capitale, l'elemento umano può essere alla fine scartato come zavorra di un'intelligenza planetaria astratta che si autocostruisce rapidamente a partire dai frammenti delle civiltà passate. Ma il problema del neoliberismo di Land è che confonde la velocità con l'accelerazione. È vero che ci muoviamo velocemente, ma solo entro un set rigidamente definito e fisso di parametri capitalistici. Ciò che noi sperimentiamo è solo la velocità crescente di un orizzonte locale, il movimento inerziale di un encefalogramma piatto, e non un'accelerazione che sia anche navigazione, processo sperimentale di scoperta nell'ambito di uno spazio universale di possibilità. Questa seconda modalità di accelerazione è invece per noi essenziale.


3. Quel che è peggio, come compresero Deleuze e Guattari, la velocità capitalistica, da sempre, non fa che riterritorializzare con una mano ciò che ha appena deterritorializzato con l'altra. Il progresso rimane costretto nel quadro del plusvalore, della conservazione di un esercito di riserva di lavoratori e della libera circolazione del capitale. La modernità è ridotta agli indicatori statistici della crescita economica, e l'innovazione sociale si carica di incrostazioni e residui kitsch provenienti dal nostro passato comunitario. La deregolamentazione thatcheriano-reaganiana siede comodamente accanto al «ritorno alla semplicità» dei valori familiari e religiosi tradizionali di stampo vittoriano.

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03. MANIFESTO

Sul futuro


1. Noi crediamo che nella sinistra di oggi la principale divisione sia tra chi rimane legato a una politica «della gente», a una folk politics fatta di localismo, di azione diretta e di irriducibile orizzontalismo, e chi inizia a tracciare quella che è, a tutti gli effetti, una politica accelerazionista, una politica a suo agio con una modernità fatta di astrazione, di complessità, di globalità, di tecnologia. I primi si accontentano di aprire piccoli spazi temporanei di relazioni sociali non capitalistiche, eludendo i problemi reali legati alla necessità di affrontare nemici intrinsecamente non locali, astratti, profondamente radicati nell'infrastruttura della nostra quotidianità. In questa politica è insito fin dal principio il fallimento. La politica accelerazionista, invece, intende salvaguardare i vantaggi del tardo capitalismo e, al tempo stesso, andare oltre i limiti del suo sistema di valori, delle sue strutture di governo e delle sue patologie di massa.


2. Tutti vogliamo lavorare meno. È interessante chiedersi come mai il più importante economista del dopoguerra fosse convinto che un capitalismo illuminato procedesse inevitabilmente verso una drastica riduzione dell'orario di lavoro. In Possibilità economiche per i nostri nipoti (scritto nel 1930) Keynes preconizzò un futuro capitalistico in cui gli individui sarebbero arrivati a lavorare tre ore al giorno. Quella che si verifica nella realtà è invece la progressiva eliminazione della distinzione tra lavoro e vita, con il lavoro che tende a permeare qualsiasi aspetto della fabbrica sociale emergente.

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4. Noi non vogliamo un ritorno al fordismo. Non può esserci alcun ritorno al fordismo. L'«età dell'oro» del capitalismo presupponeva il paradigma produttivo dell'ordinato contesto di fabbrica, in cui una manodopera (maschile) otteneva sicurezza e uno standard di vita basilare, al prezzo di un'esistenza noiosa e alienante e della repressione sociale. Un simile sistema poggiava su una gerarchia internazionale articolata in colonie, imperi e periferie sottosviluppate; su una gerarchia nazionale basata sul razzismo e sulla discriminazione tra i sessi; e infine su una rigida gerarchia familiare imperniata sulla sottomissione della donna. Per quanti possano sentirne nostalgia, questo regime non solo non è auspicabile, ma è anche concretamente impossibile da ripristinare.


5. Gli accelerazionisti vogliono liberare le forze produttive latenti. In questo progetto, non c'è bisogno di distruggere la piattaforma materiale del neoliberismo: essa va piuttosto reindirizzata verso obiettivi comuni. L'infrastruttura esistente non è una fase del capitalismo da distruggere, ma un trampolino di lancio verso il posteapitalismo.

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7. Noi vogliamo accelerare il processo dell'evoluzione tecnologica, ma non siamo dei tecnoutopisti. Mai credere che la tecnologia da sola possa salvarci: essa è necessaria, sì, ma non sufficiente, e ha bisogno dell'azione sociopolitica. Tecnologia e sociale sono intimamente legati tra loro, e i loro cambiamenti si alimentano e potenziano a vicenda. Mentre i tecnoutopisti sono a favore dell'accelerazione poiché ritengono che essa ponga automaticamente fine al conflitto sociale, la nostra tesi è che la tecnologia vada accelerata per vincere i conflitti sociali.


8. Noi crediamo che non possa esserci postcapitalismo senza pianificazione postcapitalistica. Confidare che dopo una rivoluzione il popolo crei spontaneamente un sistema socioeconomico nuovo che non sia un semplice ritorno al capitalismo è una forma d'ingenuità o, peggio, d'ignoranza. Per agevolare la nascita del postcapitalismo dobbiamo elaborare una mappa cognitiva del sistema esistente e crearci per via speculativa una immagine del futuro sistema economico.


9. A tal fine, la sinistra deve far leva su tutti i progressi tecnologici e scientifici resi possibili dalla società capitalistica. Noi affermiamo che la quantificazione non è un male da estirpare, ma uno strumento che va usato nel modo più efficace possibile. I modelli economici sono necessari per rendere intelligibile un mondo complesso. La crisi finanziaria del 2008 mostra i rischi di un'accettazione cieca, fideistica, dei modelli matematici, ma in questo caso il problema è l'autorità illegittima, non la matematica in sé. Gli strumenti offerti dall'analisi delle reti sociali, dai modelli basati su agenti, dalla big data analytics e dai modelli economici di non equilibrio sono mediatori cognitivi irrinunciabili per comprendere sistemi complessi come l'economia contemporanea. E la sinistra accelerazionista deve alfabetizzarsi in questi ambiti di sapere tecnico.

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12. Noi non crediamo che per realizzare tutto questo basti l'azione diretta. La tattica abituale - marciare, innalzare cartelli, creare zone franche temporanee - rischia di diventare un surrogato consolatorio del successo reale. «Almeno abbiamo fatto qualcosa» è il grido di battaglia di chi mette al primo posto l'autostima, non l'efficacia dell'azione. Il solo criterio per riconoscere una buona tattica è che porti a successi significativi. È ora di farla finita con il feticismo di certe forme di lotta. Dobbiamo iniziare a guardare alla politica come a un insieme di sistemi dinamici lacerati da conflitti, adattamenti, controadattamenti e corse strategiche al riarmo. Ciò significa che ogni forma di lotta politica col passare del tempo diventa un'arma spuntata, perde efficacia, poiché gli altri vi si adattano. Non esiste, storicamente, una modalità d'azione politica intoccabile: al contrario, col passare del tempo è sempre più necessario scartare tattiche collaudate, man mano che le forze e i soggetti avversari imparano a neutralizzarle e a contrattaccare efficacemente. L'incapacità di aggiornare le proprie tattiche è uno degli aspetti cruciali della crisi della sinistra contemporanea.


13. È tempo di lasciarsi alle spalle la tendenza a privilegiare la democrazia-come-processo. Il feticismo dell'apertura, dell'orizzontalità e dell'inclusione, tipico di gran parte dell'«estrema» sinistra attuale, è una ricetta d'insuccesso. Anche la segretezza, il verticismo e l'esclusione meritano un posto (ovviamente non esclusivo) in una lotta politica efficace.


14. La democrazia non può essere definita solo attraverso i suoi strumenti: non è semplicemente voto, dibattito, assemblee. La democrazia reale è definita dal suo obiettivo: la padronanza di sé collettiva. È un progetto che deve allineare la politica al lascito dell'Illuminismo: è solo facendo leva sulla nostra capacità di comprendere sempre meglio noi stessi e il nostro mondo (sociale, tecnico, economico, psicologico) che arriveremo all'autogoverno. Se non vogliamo ritrovarci schiavi di un tirannico centralismo totalitario o di un volubile ordine emergente che sfugga al nostro controllo, dobbiamo creare una legittima autorità verticale sotto controllo collettivo, in aggiunta a forme di socialità orizzontali e distribuite. La direzione del Piano deve coniugarsi all'ordine estemporaneo della Rete.

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16. A medio termine ci prefiggiamo tre obiettivi concreti. Innanzi tutto, dobbiamo costruire una infrastruttura intellettuale che - come la Mont Pelerin Society nella rivoluzione neoliberista - si assuma il compito di creare una nuova ideologia, nuovi modelli economici e sociali e una nuova visione del bene che sostituisca e superi gli ideali ormai svuotati che reggono il mondo attuale. Parliamo di infrastruttura perché ciò che occorre è lo sviluppo non solo di idee, ma anche di istituzioni e percorsi concreti per inculcarle, incarnarle e diffonderle.


17. Dobbiamo poi realizzare una riforma dei mezzi di comunicazione su vasta scala. Nonostante l'apparente democratizzazione offerta da Internet e dai social media, i mezzi di comunicazione tradizionali mantengono un ruolo cruciale nel selezionare e definire le narrative, e hanno inoltre le risorse per fare giornalismo investigativo. Avvicinare il più possibile questi organi al controllo popolare è cruciale per smantellare l'attuale rappresentazione dello stato delle cose.


18. Infine, dobbiamo ricostituire varie forme di potere di classe, superando l'idea che un proletariato globale si formi ed esista naturalmente, e cercando invece di saldare le tante e disparate identità proletarie parziali, che spesso si concretizzano in forme postfordiste di lavoro precario.

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22. Dobbiamo rilanciare l'argomento tradizionalmente avanzato a sostegno del postcapitalismo: il capitalismo non è solo un sistema ingiusto e perverso, ma anche un sistema che frena il progresso. Lo sviluppo tecnologico oggi è soffocato dallo stesso capitalismo che lo aveva liberato a suo tempo. L'accelerazionismo è la convinzione di fondo che le capacità tecnologiche possano e debbano essere affrancate dai limiti imposti dalla società capitalistica, e spinte oltre.

[...]

Verso un'epoca di padronanza di sé collettiva, e verso il futuro realmente altro che essa implica e prefigura. Verso il completamento - non l'accantonamento - del programma di autocritica e di autocontrollo propugnato dall'Illuminismo.

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