Copertina
Autore Tobias Wolff
Titolo Quell'anno a scuola
EdizioneEinaudi, Torino, 2005, Stile libero , pag. 244, cop.fle., dim. 120x195x15 mm , Isbn 978-88-06-17666-2
OriginaleOld School [2003]
TraduttoreAlessandra Montrucchio
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe narrativa statunitense , scuola
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Indice


  5 Foto di classe
 36 Al fuoco
 47 Frost
 77 Übermensch
112 Quadro di vita vissuta
125 La lingua biforcuta
159 Talora, venuto in odio alla Fortuna
189 Questa è da raccontare
202 Bollettino
215 Professore


239 Nota del traduttore

 

 

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Pagina 5

Foto di classe


Robert Frost venne a trovarci nel novembre del 1960, appena una settimana dopo le elezioni politiche. La dice lunga sulla nostra scuola il fatto che la prospettiva del suo arrivo suscitò piú interesse dello scontro fra Nixon e Kennedy; scontro che, fra l'altro, per quasi tutti noi non era nemmeno tale. Nixon era un tizio perbene e brontolone. Se fosse stato uno dei nostri, gli avremmo incollato le scarpe al pavimento. Ma Kennedy... lui sí che era un combattente, uno capace di ironia, di eleganza senza isterismi. Portava i vestiti giusti. Sua moglie era una gran bella donna. E lui leggeva e scriveva libri, uno dei quali, Perché l'Inghilterra dormí, era una delle letture richieste al mio corso di storia. Kennedy lo riconoscevamo, vedevamo ancora in lui il ragazzo che era stato uno dei beniamini della nostra scuola, furbo e colto, dotato di quella noncuranza quasi formale che, ne trasmetteva la classe ma allo stesso tempo la sminuiva.

Ma non avremmo mai ammesso che la classe contasse molto nell'ammirazione che provavamo per Kennedy. La nostra non era una scuola snob, o per lo meno cosí credeva, e noi facevamo il possibile perché fosse vero. Ognuno svolgeva dei lavoretti. Gli studenti che avevano una borsa di studio potevano dirlo o no, come preferivano; per quanto la riguardava, la scuola non si pronunciava. Era sottinteso che avere un nome importante o essere ricchissimi desse una spintarella ad alcuni ragazzi, ma se il privilegio assicurava loro subito un posto, noi altri preferivamo pensare che fosse un posto a rischio. Da lí sarebbe stato molto difficile andare avanti, e l'unica era cercare di non perderlo parlando troppo del ballo delle debuttanti a cui si era andati o della Jaguar che si era ricevuta per il sedicesimo compleanno. E nel frattempo, in assenza di altre distinzioni, ci sottomettevamo sempre piú a un sistema in cui il rispetto si otteneva solo grazie a ciò che si faceva con le proprie forze.

Questa era l'idea, radicata cosí profondamente da non venire mai espressa; la si respirava insieme all'odore della cera per pavimenti, della lana, dei ragazzi ammassati nelle loro camere surriscaldate. Mai espressa, quindi mai messa in discussione. E un corollario dell'idea era che, qualunque cosa si facesse effettivamente solo con le proprie forze, la scuola l'avrebbe ritenuta una prova di valore al di là di ogni altra considerazione. Il campo era aperto. Come tutte le scuole, la nostra premiava i suoi atleti e loro ne accrescevano il prestigio, soprattutto i lottatori, i quali andavano su e giú per la costa orientale a mettere gaiamente al tappeto torvi ragazzi grugnanti. La scuola apprezzava i lottatori e i giocatori di football, ma anche gli oratori accaniti e gli allievi brillanti, i cantanti e i campioni di scacchi, le ragazze pompon, gli attori, i musicisti, i cervelloni e, non ultimi, gli scribacchini.

Se la scuola aveva uno snobismo da confessare, era il suo orgoglio di essere un luogo letterario, e questo quasi a prescindere dai carismatici scrittori che venivano a visitarla tre volte all'anno. Il preside aveva studiato con Robert Frost ad Amherst; tempo addietro aveva pubblicato una raccolta di poesie, Sonetti contro la tempesta, e adesso gli spiaceva che glielo ricordassero. Sebbene fosse nel catalogo della biblioteca, il libro era sparito e si diceva che il preside lo avesse distrutto. Forse a ragione; ma quanti altri presidi avevano pubblicato almeno una poesia, bella o brutta, per non parlare di un intero volume? L'insegnante responsabile della disciplina, Dean Makepeace, era amico di Hemingway fin dalla Prima guerra mondiale e si diceva che fosse stato il modello per il personaggio di Bill, il compagno di pesca di Jake in Fiesta. Anche gli altri professori di inglese si comportavano come se fossero intimi di Hemingway, nonché di Shakespeare e Hawthorne e Donne. Erano uomini che a noi ricordavano una specie di ordine cavalleresco. Perfino i ragazzi che non avevano sogni libreschi imitavano l'incuranza del loro modo di vestire e le loro rituali schermaglie verbali. E ai tè che il preside organizzava ogni mese, mi colpiva il modo in cui gli altri insegnanti gli orbitavano intorno, quasi si riscaldassero a un fuoco.

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Pagina 54

Robert Frost arrivò mentre eravamo a cena. Quando fece la sua comparsa in refettorio dalla porta laterale, e di lí lo attraversò lentamente insieme al preside, salendo poi con cautela i due scalini che portavano al tavolo dei professori, il solito chiasso si spense nel silenzio. Continuammo a mangiare cercando di non fissarlo, ma non riuscivamo a trattenerci.

Frost sedette alla destra del preside e abbracciò la stanza con lo sguardo. Poi chinò la grande testa bianca e si sistemò con comodo il tovagliolo. Sembrava profondamente assorto nel problema del tovagliolo. Rialzò lo sguardo, assentí a qualcosa che diceva il preside e osservò gravemente il refettorio. Si spalancò la porta della cucina - rumore di pentole, grida -, si richiuse, tornò il silenzio. Poi il professor Makepeace, a capotavola, si alzò, si voltò verso Frost e iniziò ad applaudire. Ogni battito delle sue mani era acuto come uno sparo ma misurato, dignitoso, e anche noi saltammo in piedi in un gran stridore di sedie e facemmo rimbombare il refettorio di applausi e del ritmico tambureggiare dei nostri piedi sul pavimento di quercia. Frost fece un piccolo inchino col capo, ma noi continuammo a far chiasso fino a quando lui non ruppe le sue riserve. Sorrise come un bambino, si sollevò un poco dalla sedia e agitò il tovagliolo verso di noi, come una bandiera bianca.

Per tutta le cena fui consapevole della sua presenza e mi comportai come se lui fosse consapecole della mia. Non ero il solo al mio tavolo a subire quegli impeti di dignità, e l'atmosfera del refettorio era diventata teatrale. Tutto questo dipendeva dallo stesso Frost. La componente spettacolare del suo comportamento - anche la faccenda del tovagliolo, goffa come sembrava, aveva un che di calcolato - saturava la stanza e ci metteva in tensione, niente affatto spiacevolmente, come se a entrare in refettorio fosse stata una bella donna.


Quella sera Frost lesse per noi in cappella. Fu l'unica volta negli anni che passai nella scuola; chi veniva in visita parlava sempre in auditorium. Forse era un segno dei riguardi speciali che gli usava il preside, o forse lo stesso Frost aveva chiesto di leggere lí. Di sicuro era l'edificio piú bello della scuola, famoso, come ci era stato detto spesso, per le sue vetrate istoriate, che qualche ex alunno senza scrupoli aveva saccheggiato in Francia. Perfino nella flebile luce della sera quei vetri rossi brillavano come rubini. Quando prendemmo posto, i banchi scricchiolarono. Ci sedemmo ordinatamente, cupamente, guardando fisso davanti a noi oppure osservando con aria ebete le arcate del soffitto che svanivano nel buio. I lampadari di ferro diffondevano una luce appena sufficiente a proiettare lunghe ombre medievali e a brunire il bronzo delle targhe commemorative, gli oggetti di legno riccamente lavorato, la semplice croce dorata sull'altare.

Frost sedette davanti alla croce con il preside. Teneva le mani sui braccioli intagliati della sedia e la testa china come se meditasse o pregasse, ma io ero seduto avanti e colsi il bagliore del suo sguardo sotto le folte sopracciglia bianche. Stava guardando noi che guardavamo lui. Quando finalmente il preside si alzò per fare la sua presentazione, Frost trasalí e si guardò intorno come se fosse stato mondi e mondi lontano da lí, e ritrovarsi in quel posto rappresentasse un vero enigma.

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Pagina 60

Bene, ragazzi, se mi hanno portato fin qua è perché devo cantare per guadagnarmi la cena, quindi è meglio che canti un po'. Eccovi una poesia. Senza neve, signor Kellogg, ma forse piú tardi possiamo trovargliene un po'. L'ho scritta molti anni fa in Inghilterra, quando mi mancava casa mia. Immagino che sappiate cos'è la nostalgia di casa. Si chiama La riparazione del muro.

Abbassò gli occhi per leggere e George si riafflosciò tra i banchi.

            Qualcosa c'è che non sopporta un muro,
            che sotto vi incunea le zolle rigonfie di gelo,
            e al sole fa cadere le pietre piú alte...

Lesse il primo verso con cautela e lentezza, come se gli fosse appena venuto in mente, poi la sua voce roca si gonfiò come una vela e divenne gioiosa, naturale, e giovane. Sorrisi quando il suo agricoltore disse Che seccatura per me la primavera, perché avevo già capito che il male lavorava dentro di lui: nella calda giornata in cui era venuto al mondo, mentre portava pietre al muro e guardava il suo vicino fare la stessa cosa, colpito dall'inutilità della loro fatica e incapace di resistere alla tentazione di stuzzicare il suo vicino al proposito. Quando avevo letto la poesia, avevo creduto di capire: tutti i muri devono cadere. Ma nella voce di Frost quella scena prendeva nuova vita, e colsi qualcosa che mi ero perso; e cioè che, nonostante l'ironica superiorità del narratore, anche il vicino aveva la sua verità. L'immagine di quell'uomo che si muoveva nell'ombra come un bruto dell'età della pietra armato era già un buon motivo per avere un muro, la prova vivente della convinzione che buone recinzioni fanno buoni vicini. Forse c'è qualcosa che non sopporta un muro, ma abbattilo a tuo rischio e pericolo.

Frost nascondeva bene gli occhi sotto quelle sopracciglia sporgenti, ma di quando in quando lo vedevo spostare lo sguardo dalle pagine a noi senza perdersi una parola. Non leggeva: recitava. Conosceva quelle poesie a memoria, eppure continuava a ostentare di leggerle, fino al punto di fingere di perdere il segno o di avere problemi con la luce.

Tanta goffaggine non toglieva nulla alle sue poesie. Le staccava dalle pagine e le restituiva alla voce, una voce pensosa, a volte capace, a volte incerta. Stampate sotto quel nome importante, le sue poesie assumevano l'aspetto dell'ineluttabilità; dette a voce, si coglievano le esitazioni e le perplessità che vi stavano dietro, il suono di un uomo che le portava alla vita.

Frost continuò a leggere, poesia dopo poesia, finché alcune matricole non cominciarono a tossire e a far scricchiolare i banchi. A quel punto, sollevò la testa e ci osservò. A star seduti, disse, voi ragazzi siete dei campioni. Avete Sitzfleisch, come direbbero i nostri nuovi amiconi, i tedeschi. Basta e avanza per una sera sola, eh? Forse ancora una, che ne dite? Per il vostro Kellogg. Sí? Allora d'accordo. Ho la poesia proprio sotto mano. Credo che il signor Kellogg la conosca.

Senza smettere di guardarci, Frost recitò Fermandosi nel bosco in una sera di neve. Poi, mentre noi applaudivamo, radunò i suoi libri e fogli sciolti. Il preside salí la scala, parlò con Frost, ridiscese e alzò la mano per fare silenzio. Il professor Frost, disse, ha accettato di rispondere a qualche domanda, se ne abbiamo.

Io ne avevo. Come aveva saputo di essere un bravo scrittore nel corso di tutti quegli anni in cui nessun altro lo sapeva? Che cosa si provava a scrivere qualcosa di veramente grande?

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Pagina 106

Davvero non ammira il lavoro di nessun altro scrittore americano?

La cenere della sigaretta che Ayn Rand teneva in mano era cresciuta fino a una lunghezza improbabile, e le cadde in grembo. La spazzò via, poi guardò di traverso la macchia grigia che le aveva lasciato sul nero della gonna. Ce n'è uno, disse. Trovo interessanti i romanzi del signor Mickey Spillane. La sua metafisica forse è soprattutto istintiva, ciò nonostante è abbastanza fondata.

Mickey Spillane? L'autore di gialli?

Consiglierei soprattutto Ti ucciderò. Con Mike Hammer ha creato un vero eroe, uno che non segue la moda di torturarsi dietro a sottigliezze decadenti. Mike distingue il bene dal male e distrugge il male senza esitazioni o rimpianti. Molto insolito. Molto convincente. Potrei anche citare Bacio mortale, sebbene il signor Spillane ci lasci parecchio in sospeso alla fine. Che ne sarà di Mike e della bellissima Velda? Credo che Spillane ci debba un seguito.

E Ernest Hemingway? pensai. E mi lasciai uscire la domanda di bocca esattamente in questi termini.

Ancora Hemingway! Hemingway e la sua barba! Per favore! In Hemingway c'è tutto quello che non funziona nella letteratura di questo Paese. Premesse deboli. Persone deboli e sconfitte. Un senso assolutamente nefasto della vita. Perché quell'infermiera, com'è che si chiama, Catherine, perché Catherine alla fine deve morire? Non c'è ragione. Serve solo a dare al tenente una tragedia che gli permetta di piangersi addosso. Stronzate illeggibili! E credo che gli altri romanzi siano ancora peggio. In realtà, mi hanno detto che in uno c'è un eroe senza... come possiamo chiamarla? Senza virilità. Appropriatissimo! E che cosa dovremmo imparare da questo misero eunuco al quale il gran barbuto Ernest Hemingway ha dedicato un romanzo intero? La superiore virtú dell'impotenza? No grazie.

A quel punto spostò lo sguardo da me al preside, ignorando la risata e l'applauso del suo coro.

Ma fu Hiram Dufresne a prendere la parola. Ho letto quel libro, disse. Molto tempo fa, però me lo ricordo ancora. Sta parlando di una ferita di guerra.

Non pretendo di saperlo.

Be', signorina Rand, secondo me, lei ci ha parlato di eroismo, e per come la vedo io una ferita di guerra è un segno piú di eroismo che di debolezza.

Ayn Rand si strinse nelle spalle. Dipende. Se un uomo viene ferito durante un'azione che ha intrapreso per la propria felicità, allora può essere eroismo. Se l'ha fatto per gli altri, come sacrificio di sé, la definirei debolezza.

Non credo che nessun uomo sia felice di morire in guerra.

Allora dovrebbe scegliere di non farlo. Ha il supremo diritto di perseguire la propria felicità come vuole, sempre che non violi i diritti di un altro uomo. Ha letto il discorso di John Galt, presumo. È tutto lí.

Tutto questo sembra perfetto, signorina Rand, ma la verità è che può dirlo solo perché tantissimi brav'uomini sono morti lottando. E io ne conoscevo alcuni.

Per favore, lei sta confondendo la domanda. La domanda è: qual era la loro motivazione? Se sono morti lottando per la propria felicità, hanno il mio rispetto. Se si sono sacrificati per la mia, sono morti da deboli e, vorrei aggiungere, irrazionalmente, per non dire immoralmente. Se morire per il cosiddetto pubblico interesse è un bene, se il pubblico interesse è la convalidazione morale di un atto, allora dev'essere un bene anche opprimere, derubare e sacrificare gli altri per il pubblico interesse. Allora si arriva a giustificare il fascismo di un Hitler o un Kennedy. Sí, Kennedy! Ora, signore... lei è un industriale, vero?

Il signor Dufresne ci mise un po' a rispondere. Sebbene la guardasse, sembrava immerso nei propri pensieri. Sí, disse, ho parecchi interessi in patria e all'estero.

Spero che faccia affari per sé, non come servizio pubblico.

In effetti, signorina Rand, penso al mio lavoro proprio come a qualcosa per gli altri. È questo che mi fa andare avanti. Sembrerà sentimentale, ma voglio restituire ciò che mi è stato dato. Mi è stato dato molto, e sono sicuro che è stato dato molto anche a lei.

Allora è sicuro di una falsità. Non mi è stato dato niente. E non ho dubbi che lei esageri il suo stesso debito, come le è stato accuratamente insegnato. Ho sempre detto che l'unica cosa che non va nell'industriale americano è la sua ingenuità. Non ha idea di quanto gli debba questo Paese. Al contrario, accetta la vergogna che gli impongono i parassiti veri, quelli che vorrebbero succhiarlo fino all'osso. Povero bimbo, cerca addirittura la loro benedizione! Ma questa...

Disaccavallò le gambe e si raddrizzò. Questa, disse, è una vera benedizione per voi, in nome dell'individuo, del capitalismo e dello spirito di John Galt. E con il bocchino tracciò una figura nell'aria: il segno del dollaro.

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Pagina 172

Gli studi dei borsisti si trovavano nel seminterrato, e cinque di essi venivano assegnati ai migliori della sesta classe all'inizio di ogni anno. Il seminterrato aveva un'entrata propria, in modo che loro potessero andare e venire anche quando la biblioteca era chiusa. Non mi piaceva quel posto; l'aria era stantia, i lunghi scaffali di periodici intristivano nel diafano, polveroso ammasso della loro obsolescenza. In quella tiepida notte di maggio, il seminterrato sembrava vuoto: non un suono, non una luce che filtrasse sotto le porte. Bussai comunque a quella di Bill, poi provai ad abbassare la maniglia.

Non avrei dovuto. Non avevo il diritto di farlo, e non avevo il diritto di leggere il quaderno posato sulla sua scrivania. Però lo portai fuori dallo studio, mi rannicchiai in fondo a una fila di scaffali e cominciai a sfogliarlo sotto la fioca luce gialla. Oltre mille pagine scritte senza un titolo, senza capitoli, senza alcuna forma apparente. Non lessi parola per parola, ma lessi gran parte del quaderno, abbastanza per essere sopraffatto dalla sua schiettezza e infelicità, e per capire perché non avrebbe mai potuto mostrarne nemmeno una pagina a nessuno.

Quel venerdí pomeriggio, alla fine delle lezioni, un ragazzo venne in camera mia per dirmi che dovevo andare nell'ufficio del Dean. Non me ne preoccupai. Hemingway sarebbe arrivato la settimana dopo, e presumevo che il professor Makepeace volesse darmi qualche dritta su come comportarmi col suo vecchio amico.

Faceva un caldo umido. Noi del sesto anno avevamo il privilegio di prendere il sole in cortile, e a quell'ora il prato era affollato di ragazzi pallidi e pelosi che si ungevano d'olio mentre si urlavano frasi al di sopra delle loro radio a transistor, tutte sintonizzate sulla stessa stazione e sulla stessa canzone. Mi fermai a fare quattro chiacchiere con dei compagni, poi mi incamminai.

La signora Busk, segretaria del Dean, era una donna bassa, col seno grosso e una spruzzata di nei in faccia. Quando arrivai io faceva capolino dal suo ufficio e scrutava lungo il corridoio. Dove sei stato? disse. Ti stanno aspettando tutti.

Tutti?

Andò a bussare alla porta di Makepeace. È qui, disse, poi fece un passo indietro. Entra.

Il preside era in piedi, di fronte alla scrivania del professor Makepeace. Mi indicò una sedia sulla sua sinistra. Sulle tre sedie allineate davanti alla mia sedevano il professor Ramsey, il professor Lambert e tal Goss, presidente dello Student Honor Council. Il professor Lambert era il mio insegnante di francese, un parigino azzimato che fumava la pipa e portava colletti che sembravano sempre troppo stretti. Il professor Makepeace non c'era. Nonostante un condizionatore sferragliasse attaccato a una finestra, la stanza era calda e il faccione rubizzo del professor Ramsey luccicava come un prosciutto.

Non sapevo di cosa si trattasse, ma all'inizio della settimana si era spettegolato a proposito di qualche imbroglio all'esame finale di francese. Io ero pulito, e non avevo visto niente da dover riferire.

Il preside si appoggiò di schiena alla scrivania e prese a fissare il pavimento tra i miei piedi. Non mi aveva guardato direttamente da quando ero entrato. Va bene, disse, sentiamo.

Signore?

Sono sicuro che hai una storia da raccontarci. Siamo pronti ad ascoltarla.

È molto semplice, disse il professor Lambert. Di' la verità.

Mi spiace, dissi. Non capisco.

Cosí peggiori soltanto le cose, disse Goss. Era un tipo segaligno e con la voce acuta; per via della polio, a una gamba portava un apparecchio ortopedico. Avevo votato per lui, ma non mi piaceva.

Allora, disse il preside. Non riesci a pensare a nessun motivo per cui oggi ci troviamo qui. Mentre parlava teneva gli occhi sul pavimento. Avevo la sensazione che negasse deliberatamente di riconoscermi. Di solito, il suo sguardo intelligente catturava il mio; visto che però quello sguardo non c'era, mi ritrovai a fissargli il porro in mezzo alla fronte.

Onestamente, signore, sono perplesso.

Ah! disse Goss.

Per favore, gli disse il professor Lambert. On se calme.

Il preside si protese sulla scrivania, agguantò un foglio e me lo allungò. Era la prima pagina di Ballo estivo com'era apparsa su «Cantiamo». La riga sotto il titolo diceva di Susan Friedman. Il nome mi sconvolse.

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