Copertina
Autore Austin Wright
Titolo Tony & Susan
EdizioneAdelphi, Milano, 2011 [1994], Fabula 239 , pag. 412, cop.fle., dim. 14x22x2,8 cm , Isbn 978-88-459-2619-8
OriginaleTony & Susan [1993]
TraduttoreLaura Noulian
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa statunitense
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Indice


Prima                                11

La prima seduta                      19

Primo intermezzo                    131

La seconda seduta                   159

Secondo intermezzo                  249

La terza seduta                     279

Dopo                                393


 

 

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Pagina 13

Tutto è cominciato con la lettera che Susan Morrow ha ricevuto da Edward, il suo primo marito, in settembre. Lui aveva scritto un libro, un romanzo, le andava di leggerlo? L'aveva colta di sorpresa: a parte gli auguri di Natale spediti «con tanti baci» dalla sua seconda moglie, erano vent'anni che non aveva sue notizie.

Così era andata a cercarlo nella memoria. Ricordava che Edward aveva sempre desiderato scrivere: racconti, poesie, bozzetti, qualsiasi cosa potesse essere messa in parole, lo ricordava bene. Era stata la causa principale degli attriti fra loro. Ma Susan credeva che lui ci avesse messo una pietra sopra, quando era entrato nelle assicurazioni. Evidentemente non era così.

Ai tempi ormai vaghi e indistinti del loro matrimonio avevano discusso se fosse il caso o no che Susan leggesse quello che lui scriveva. Edward era un principiante e lei un critico più spietato di quanto avrebbe voluto. Una situazione delicata, tra il disagio della moglie e il risentimento del marito. Adesso, nella lettera, Edward si diceva convinto di aver scritto qualcosa di bello. Nel corso degli anni ne aveva imparate di cose, diceva, sulla vita e sulla scrittura. Voleva dimostrarglielo: sarebbe bastato che leggesse il romanzo e avrebbe potuto giudicare da sé. Lei era il critico migliore che lui avesse mai avuto, diceva. Inoltre, gli serviva il suo aiuto: Edward temeva che il libro, per quanto meritevole, avesse delle carenze. Susan avrebbe capito cosa mancava e avrebbe saputo dirglielo. Prenditi tutto il tempo che ti serve, le aveva scritto, e butta giù due righe di getto, la prima cosa che ti passa per la testa. Firmato: «Il tuo vecchio Edward, che ricorda».

Questa chiusa l'aveva irritata. Le aveva riportato alla mente troppe cose, minacciando la pace che aveva fatto con il proprio passato. Non le piacevano le rievocazioni, non voleva scivolare di nuovo in quella sgradevole disposizione mentale. Però gli aveva risposto di mandare pure il libro. Si vergognava dei propri sospetti, delle proprie obiezioni. Perché si era rivolto a lei, anziché a qualche conoscenza più recente? La infastidiva anche l'imposizione: secondo lui scrivere la prima cosa che le saltava in mente era più facile che riflettere a fondo? Non poteva rifiutare, però, se non voleva fare la parte di quella che non ha superato il passato. Il pacco arrivò una settimana dopo. Sua figlia Dorothy lo portò in cucina, dove stavano mangiando i tramezzini con il burro di arachidi: lei, Dorothy, Henry e Rosie. La scatola era sigillata con lo scotch. Susan prese il manoscritto e lesse la pagina con il titolo:

ANIMALI NOTTURNI
Un romanzo di
Edward Sheffield

Pagine dattiloscritte, ordinate, pulite. Si chiese cosa significasse il titolo. Le piacque il gesto di Edward, riconciliatorio, lusinghiero. Ma avvertì anche una nota falsa, che la mise sull'avviso: così quella sera, quando Arnold, il suo marito vero, rincasò, gli annunciò baldanzosa: Ho avuto notizie di Edward, oggi.

Edward chi?

Arnold!

Ah, Edward. Cosa vuole quel vecchio stronzo?


Questo è successo tre mesi fa. C'è un'inquietudine nella mente di Susan che viene e va, difficile da definire con chiarezza. Quando non è inquieta, si inquieta all'idea di aver dimenticato cosa la inquieta. E anche quando conosce la causa della propria inquietudine, per esempio il timore che Arnold abbia frainteso qualcosa che gli ha detto, o il dubbio di essere stata lei a fraintendere lui, ha la sensazione che in realtà a inquietarla sia qualcos'altro di più importante. Nel frattempo manda avanti la casa, paga i conti, fa le pulizie e spignatta, si occupa dei figli, insegna tre volte a settimana in una scuola superiore, mentre suo marito è in ospedale a riparare i cuori. La sera legge, preferisce i libri alla televisione. Legge per distrarsi dal pensiero di sé.

Non vede l'ora di leggere il romanzo di Edward perché le piace leggere, ed è disposta a credere che lui possa essere migliorato; ma sono tre mesi che rimanda. Il ritardo non è stato intenzionale. Ha messo il manoscritto nell'armadio e se lo è dimenticato, ricordandosene poi solo nei momenti sbagliati, mentre faceva la spesa o accompagnava Dorothy alle lezioni di equitazione o correggeva i compiti degli allievi del primo anno. Quando è libera, se lo dimentica.

E quando non se lo dimentica, cerca di sgombrare la mente per leggere il romanzo come merita di essere letto. Il guaio sono i ricordi, che tornano come i boati di un vecchio vulcano. Tutta quell'intimità abbandonata, la conoscenza che lui aveva avuto di lei, e lei di lui, una conoscenza datata. Ricorda l'ammirazione che Edward nutriva per sé stesso, la sua vanità e le sue paure (essere basso); ma tutte queste cose vanno ignorate, se la lettura deve essere equanime. E Susan vuole essere equanime. Ma per essere equanime, deve rinnegare i ricordi e affrontare il libro come un'estranea.

Non riesce a credere che Edward voglia semplicemente farle leggere il romanzo. Deve esserci dell'altro, qualcosa di più personale, forse una nuova svolta nella loro defunta storia d'amore. Susan si domanda cosa, secondo Edward, manchi nel libro. Nella lettera lasciava intendere di non saperlo, ma lei si chiede se non ci sia sotto un messaggio segreto: Susan e Edward, un ineffabile canto d'amore? Che dice: Leggi queste pagine, e quando cercherai quello che manca, troverai Susan.

E se invece fosse un canto d'odio? L'odio sembra un sentimento più verosimile, anche se di quello si erano liberati già da secoli. Se Edward le attribuisse tutte le colpe, allora l'elemento mancante potrebbe essere un veleno, come quello per Biancaneve nella mela rossa. Sarebbe bello sapere quanta ironia c'è in realtà nella lettera di Edward.

Ma anche se si è preparata scrupolosamente, Susan ha continuato a dimenticarsi del manoscritto e a non leggerlo; così alla fine si è convinta di non esserne capace, punto e basta. Questo l'ha resa insieme sprezzante e vergognosa finché, pochi giorni prima di Natale, non è arrivato il solito biglietto d'auguri di Stephanie, stavolta con una postilla di Edward. Lui sarà a Chicago, dice nell'appunto, il prossimo 30 dicembre, si fermerà solo un giorno; ha prenotato una camera al Marriott e spera che riusciranno a vedersi. Questo lì per lì l'ha messa in agitazione, perché di certo lui vorrà parlare del manoscritto che lei non è riuscita a leggere; poi, però, ha tirato un sospiro di sollievo, rendendosi conto che in realtà c'è ancora tempo. Dopo Natale Arnold andrà a un congresso di cardiologi; starà via tre giorni. Lo leggerà allora. Il libro di Edward le terrà la mente occupata, distraendola dal pensiero del viaggio di Arnold; dunque, bando ai sensi di colpa.

Immaginando l'incontro, Susan si chiede come sia Edward adesso. Se lo ricorda biondo, simile a un uccello, gli occhi che guardano veloci da sopra il naso a becco, la magrezza inverosimile, le braccia filiformi, i gomiti puntuti, i genitali spropositati rispetto al fisico pelle e ossa. La voce sommessa di lui, quel suo modo impaziente di mangiarsi le parole, come se pensasse che quello che era obbligato a dire fosse troppo stupido per dirlo davvero.

Chissà se avrà un'aria più compassata o solo più pomposa? Probabilmente avrà preso qualche chilo, e i capelli saranno grigi, a meno che non sia diventato calvo. Susan si chiede cosa penserà Edward di lei. Le piacerebbe che lui notasse quanto sia diventata più tollerante, più permissiva, più generosa, e quante cose sappia più di allora. Ha paura che la differenza fra la Susan ventiquattrenne e la Susan quarantanovenne lo respinga. Di recente ha cambiato occhiali, ma al tempo di Edward non li portava affatto. È ingrassata; i seni sono più grandi; le guance che erano pallide sono rosee, convesse dove un tempo erano concave. I capelli, che all'epoca di Edward erano lunghi, lisci, setosi, sono corti, ordinati, e grigi. Adesso Susan ha un'aria sana e florida; Arnold dice sempre che sembra una sciatrice svedese.

Ora che sta proprio per leggerlo, si domanda che genere di romanzo sia. È un po' come partire senza conoscere la destinazione. La cosa peggiore sarebbe scoprire che il libro non vale niente; questo potrebbe giustificare le scelte che Susan ha fatto in passato, ma la metterebbe a disagio per il parere che deve dare nel presente. Se poi scoprisse che il romanzo vale, la lettura comporterà comunque dei rischi: sarà un viaggio intimo in una mente con cui lei non ha più alcuna dimestichezza, si troverà costretta a contemplare immagini più significative per altri che per lei, confinata con sconosciuti che non ha scelto di frequentare, invitata a condividere abitudini che le sono estranee.

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Pagina 63

Animali notturni 5



Tony Hastings restò a lungo nella radura, guardando verso la direzione in cui si era allontanata la Buick, anche se adesso il buio era totale. La notte era densa e Tony cercò di discernere qualcosa, vagamente consapevole delle differenze fra un'ombra e l'altra; ma non vedeva niente, era come cieco. Dio mio, si disse, se ne sono andati e mi hanno piantato qui! Che razza di scherzo è questo?

Adesso i boschi erano silenziosi, Tony non sentiva niente. Dopo un po' l'oscurità cominciò a sembrargli meno fitta; non che ci vedesse meglio, ma il buio non era più così fitto come prima. Tony si trovava in mezzo a una radura circondata dagli alberi; l'unica cosa che riusciva a distinguere era il cielo alto sopra di sé. Osservò le stelle, non tante, non luminose, anche se era in montagna. Distingueva il punto in cui le cime degli alberi toccavano il cielo, ma sotto si stendeva un'oscurità ancora impenetrabile, come una cortina che circondava quella specie di arena.

Certo non s'aspetteranno che me ne vada da qui senza una torcia elettrica, si disse Tony. Che razza di scherzo. Il silenzio cominciò a disfarsi. Gli giunse un rumore lontano, non un suono ma la copia di un suono: erano i camion che passavano sull'autostrada, a chilometri da lì. Sentiva anche un fievole ronzio, ma non sapeva se venisse dagli insetti nascosti nell'erba o fosse solo nelle sue orecchie. Attorno all'arena, la cortina lentamente rivelava qualche forma. Individuò i tronchi e gli spazi vuoti fra un albero e l'altro. Vide un buco nero nel punto in cui era scomparsa la Buick. Riuscì a distinguere il sentiero.

Cosa aspetti? si disse. Era stupido credere che quei tipi potessero tornare. Ma questo Tony lo sapeva benissimo. Il suo problema era chiaro: lo avevano scaricato nel cuore di questa landa selvaggia, una burla di quelle che possono venire in mente alle matricole, e adesso doveva trovare il modo di uscirne. Tutto per avere voluto arrivare nel Maine in una notte.

L'unica domanda da porsi era se sarebbe riuscito a orientarsi nel buio. No, questa non era l'unica domanda. Visto che i suoi occhi si erano abituati all'oscurità si avviò lungo il sentiero. Represse l'impulso di mettersi a correre, c'era troppo cammino da fare. Prese un'andatura regolare.

Tony superò un fiumiciattolo grazie a un ponte di tronchi squadrati; sull'altra sponda il sentiero proseguiva snodandosi tra gli alberi, su e giù per le colline, attraversando tratti di boscaglia fitta e distese più aperte dove crescevano i pini. Laura e Helen lo stavano aspettando nel posto di polizia di Bailey, dovunque fosse questa Bailey. Dovevano essere in pena per lui, che le aveva abbandonate. Quest'idea lo faceva impazzire; come poteva avvisarle? Sto bene, sto arrivando, sono in mezzo a un bosco, tanto vale che schiacciate un pisolino perché ci vorrà un po' prima che riesca ad arrivare. Poi pensò: Alla fine manderanno qualcuno a cercarmi, ma passeranno delle ore prima che ne capiscano la necessità. E poi nessuno penserà di andare a perlustrare un sentiero di terra battuta nascosto fra i boschi.

Nessuno verrà a cercarmi, si disse Tony. Laura, Helen: sto arrivando, sto arrivando! Se si fosse seduto ad aspettare, sarebbe stata la fine. Gli sembrava che la sua stessa vita dipendesse da quella camminata nel bosco.

Continuò a scarpinare, cercando di mantenere un passo uniforme. Non era facile, nel buio, su quel sentiero accidentato. Tony inciampava di continuo nelle pietre e affondava nelle buche; in certi punti gli alberi erano così vicini che il sentiero quasi scompariva. Non ricordava niente del tragitto fatto in auto. La vegetazione si fece molto intricata; perse l'orientamento e si accorse di non seguire più il sentiero per via della sterpaglia sotto i suoi piedi. Lo ritrovò solo al tatto e avanzò zigzagando prudentemente da un lato all'altro del sentiero, le mani alzate per proteggersi gli occhi. Forse sarebbe stato più facile mettersi a dormire e aspettare che facesse giorno. Ma Tony a questo punto voleva solo uscire dal bosco, Laura e Helen lo stavano aspettando.

Offeso e ridicolmente umiliato. Con la rabbia concentrata nei pugni serrati, Tony Hastings camminava a passo regolare, sfidando la cecità dei propri piedi, delle punte, delle piante, dei calcagni. Catalogò le varie idiozie a cui indulgono i bulli e i teppisti, quelli che fanno le prove di coraggio sfidando gli altri in autostrada, quelli che rapiscono un professore universitario e lo abbandonano in mezzo ai boschi. Credono che questo genere di cose sia divertente. Che siano cose da maschi. Cose da duri.

Tony Hastings si sentiva offeso ma rifiutava di sentirsi umiliato. Mi chiamo Tony Hastings, si disse. Insegno matematica all'università. La settimana scorsa ho bocciato tre studenti. Ne ho fatti felici altri quindici, promuovendoli col massimo dei voti. La Legge avrà qualcosina da dire a Ray, a Lou e a Turk. Lo sa Dio se non sono un uomo pacifico, detesto i conflitti, ma se la Legge non interverrà... Giuro: gliela faccio vedere io a questi tre balordi che giocano a fare i pirati della strada.

Lo sdegno lo indurì, allontanando il rischio delle lacrime. Quel pianto da ragazzino, quando i più grandi gli avevano rubato il cappello e poi lo avevano spinto dentro un torrente, correndo via mentre lui annaspava per uscire dall'acqua. Gliela faccio vedere io.

La stanchezza gli appesantisce i piedi, passo dopo passo incespica cercando di recuperare i chilometri che ha percorso al volante della Buick, srotolati fra lui e la meta.

E se Laura e Helen decidessero di non aspettarlo più? Se pensassero che è scappato? Deve trovare il modo di avvisarle prima che se ne vadano.

Aspetta, Tony. Sì, parla con lui, tranquillizzalo. Vedi, non c'è niente da fare a parte quello che stai già facendo. Tua moglie e tua figlia ti aspetteranno. Augurati che possano avere qualche ora di sonno benedetto, intanto che torni...

Tornare, sì, ma dove? Ecco il problema, dove lo aspettavano? Non aveva considerato questo, sapendo fin troppo bene che quei tipi non lo avrebbero mai aspettato in un posto di polizia. Lo aveva saputo fin dall'inizio, ma era stato preso da altre cose. Adesso le ragioni si chiarivano: quei tipi non porteranno Laura e Helen al posto di polizia per la stessa ragione per cui ti hanno abbandonato in mezzo a un bosco. Ti hanno piantato là perché non stavano affatto portando Laura e Helen al posto di polizia. Questo Tony Hastings lo aveva sempre saputo, solo ora però capì. Quello che capì gli iniettò mercurio nelle vene, stendendo il gelo su ogni cosa, trasformando la rabbia in terrore. Se non avevano portato Laura e Helen alla polizia, dove le avevano portate?

Aspetta, Tony, si disse. Non c'è niente da fare a parte quello che stai già facendo.

Qualche minuto dopo vide un raggio di luce bianca fendere il bosco davanti a lui; il fascio di luce saliva e scendeva come se qualcuno avanzasse facendo oscillare una torcia elettrica. Poi udì il rumore di un'auto che gemeva sulle buche del sentiero. Sì, erano loro, erano tornati a prenderlo. Quel lungo, stupido gioco era finito, erano tornati (se solo avesse avuto la pazienza di ragionarci un po' su...), e tutta la rabbia e il terrore che provava si dissolsero nel sollievo. Dio ti ringrazio! mormorò.

L'onda di luce bianca, avvicinandosi, creava ombre grottesche lambendo gli stecchi e gli spuntoni fra i rami. A un tratto si contrasse, riducendosi a un unico occhio bianco, feroce, che scomparve; poi gli occhi diventarono due e rischiararono come un lampo il bosco attorno: i tronchi, gli arbusti, i massi, e anche Tony Hastings. Nel medesimo momento gli scattò come un segnale d'allarme nella mente: Nasconditi!

Corse verso l'albero che il lampo aveva illuminato, affrettandosi prima che i fari riapparissero, poi sfrecciò attraverso un breve tratto aperto, raggiungendo un masso dietro cui si acquattò, mentre il cono di luce si rifletteva su un masso non lontano da lui. Di nuovo tutto il bosco venne illuminato per un istante, poi subito tornò buio pesto e Tony sentì che l'auto, ora a fari spenti, si fermava di colpo. Mi hanno visto, si disse.

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Pagina 133

UNO



Ogni notte, prima di sprofondare nella propria mente, Susan Morrow adempie alcuni rituali. Porta fuori il cane, fa le coccole al gatto, chiude le porte con il catenaccio. Tre figli al sicuro e una lucina da notte sulle scale. Si lava i denti, si pettina, accende la luce del comodino, a volte fa l'amore. Si stacca da Arnold rotolando verso il lato destro del letto, sprimaccia il cuscino, e aspetta.

Stanotte è diverso perché Arnold non c'è. La libertà, la possibilità di fare qualcosa di sfrenato. Ma Susan reprime l'impulso alla sfrenatezza e stabilisce che stasera sarà come tutte le altre sere, salvo che anziché coricarsi sul lato destro del letto, dando la schiena a Arnold, si spaparanza verso sinistra, godendo dello stato maritale in quello spazio privo di marito. Le viene un pensiero orribile su Arnold a New York, ma reprime anche quello.

Poi come ogni notte aspetta la propria mente, la sente gorgogliare sotto la botola. Posa la testa sul cuscino e aspetta. I rumori biologici la distraggono, avverte nell'orecchio il cambiamento di ritmo del cuore. Il respiro la confonde. A volte il laboratorio intestinale lavora fino a tardi, preparando un carico che le disturberà il sonno. I discorsi della giornata sciolgono la dura superficie della sua mente come le onde di una burrasca. È il momento di chiudere i boccaporti, di riporre progetti e discussioni. Susan mette via Animali notturni: per stasera basta.

La burrasca che Susan attende comincia appena sente che le parole dentro la sua testa si articolano da sole. Spuntano dalla botola, sono voci di persone che discutono in sua assenza. La mente di Susan è là sotto, e attraverso gli esili tramezzi le arrivano le voci dalle altre stanze. È un momento allarmante perché il pericolo è sconosciuto. La sua mente emerge e la ingoia, espandendosi fino a costituire un mondo; il paese che si stende attorno a lei le è familiare, ma Susan sa di essere solo una turista. Ogni notte torna a visitare luoghi già visitati e incontra persone che appaiono cambiate rispetto all'ultima visita. Susan si vergogna della lacunosità della sua memoria, sa che ciò che ha dimenticato è più importante di ciò che ricorda. Ha degli ordini, sono chiusi in una busta, ma lei la busta l'ha persa e adesso si ritrova a vagare a piedi nudi, con le gambe paralizzate, perde l'equilibrio e vola in aria, oppure scarpina faticosamente per arrivare in cima alla collina dove l'aspettano i suoi studenti per una lezione che avrebbe dovuto cominciare mezz'ora prima, oppure vede suo padre, affettuoso come sempre, e gli domanda se gli dispiaccia di essere morto, oppure lascia che un allievo silenzioso si sieda sulla cattedra e le allunghi una mano verso il pube, senza raggiungerlo mai; e per tutto il tempo, Susan si sforza di evitare la stanza della morte.

Il biancore del mattino la aggredisce con un istante di pura assenza e Susan viene espulsa nel vuoto del giorno. Quando riconosce le tende a fiori alla finestra e i rami di acero sormontati da una sottile linea di neve, la botola si richiude con un tonfo. Se anche le resta dentro un brandello del sogno, svanirà, a meno che Susan non riesca a inserirlo in un ordine cronologico e a tradurlo in parole. Eppure anche la cronologia, anche le parole lo cancelleranno. La storia che le rimane dentro non è il sogno, quello le sfugge e si rintana accanto a tutti gli altri sogni che ha fatto, sotto la botola, confluendo nell'unico grande sogno ininterrotto, lungo quanto la vita, destinato a proseguire la prossima volta che Susan scenderà là sotto.

Intanto, nella luce fredda e vuota del mattino, sgombra di sogni, Susan Morrow, che all'inizio ignora persino il proprio nome, a poco a poco costruisce la nuova giornata. Martedì. Le otto. Arnold è via, a New York per un congresso. Susan apre gli occhi e tutt'a un tratto la vita reale ha il sopravvento come il trillo di una sveglia. Ha nitido il ricordo della telefonata rassicurante che Arnold le ha fatto la sera prima, riflette sul suo possibile significato. Significa che a New York c'è Marilyn Linwood? La segretaria che forse ha una relazione con suo marito o forse no. Marilyn sta riordinando i documenti nella camera d'albergo di Arnold e aspetta che Susan si svegli: questa giovane trentenne compassata, dall'aria professionale, indossa un sobrio tailleur di tweed, porta gli occhiali, ha i capelli raccolti in una crocchia e il viso piccolo e attento. Riservatissima, è la segretaria perfetta. Alcuni dei suoi segreti si erano svelati al picnic aziendale: bikini giallo, capelli bronzei sciolti sulle spalle, cosce bianche giusto un po' troppo sottili. E quella chi è? aveva domandato il dottor Gaspar, ironico. Non mi dire che quella sarebbe la Linwood?

Ma da quando Susan ha deciso di smetterla con la gelosia le cose sono cambiate. Si sveglia di nuovo e ricorda. Si sente liberata perché ha preso la decisione di non pensare, di accettare quell'incognita per amor di pace, convinta che non sia necessario sapere come stiano davvero le cose. E così facendo ha conferito al proprio matrimonio stabilità e costanza, dopo sedici anni di dubbi.

Oggi è un nuovo giorno, avanti, Susan, alzati. Non ci sono figli da svegliare, perché siamo nelle vacanze di Natale. Quali sono i miei impegni, per oggi? Devi fare il bucato e portare Jeffrey dal veterinario. Forse anche spalare la neve? Da' un'occhiata fuori. Quando si alza e si avvicina alla finestra con la vestaglia per guardare quanta neve c'è (ce n'è giusto un velo in terra, che si scioglierà presto), ha recuperato in pieno l'equilibrio, non ci sono baratri alle sue spalle. Il nuovo giorno dà dei punti di sutura alla ferita notturna, e la sua vita conscia sembra scorrere senza interruzioni.

Durante la giornata fa le seguenti cose, oltre ad altre: fa la doccia, si veste, sveglia i ragazzi, prepara la colazione, va in auto dai Burridge a prendere Rosie. Mette i panni sporchi nella lavatrice che si trova nel seminterrato, rifà i letti, va al supermercato a comprare la margarina, la carne per il pranzo e il latte. Il pranzo per i tre figli e lei. Poi va in biblioteca a restituire dei libri, riordina il soggiorno, porta i regali di Rosie al piano di sopra, e anche quelli di Henry e di Dorothy, i quali a rigore avrebbero dovuto pensarci da sé. Una pausa al pianoforte, le invenzioni di Bach. Torna nel seminterrato, a caricare di nuovo la lavatrice. Il prosciutto è nel forno, Susan fa andare la lavapiatti e apparecchia. La sua mente diurna, che nulla sa dell'altra sua mente, è piena di ciò che non è lì, ma sa tutto quello che c'è da sapere: Rosie è di sopra con Carol, Dorothy è fuori, Henry è con Mike, Arnold è a New York.

E poi c'è Edward. Un lungo tentacolo che arriva dal passato, afferrandola per la mente. Per tutto il giorno Susan continua a domandarsi: Perché penso a Edward? Il ricordo di lui è un riverbero uscito dal sonno, un brandello di sogno, e lo vede balenare come un uccello che vola da un albero all'altro. Arriva troppo veloce, si allontana troppo in fretta. Per non perderlo deve dargli un ordine cronologico, proprio come ai sogni. Ma questa operazione distrugge il ricordo. Il suo ricordo morto di Edward è stato messo dentro grossi volumi rilegati, ma il nuovo Edward è vivo e vegeto e svolazza qui e là, inafferrabile.

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Pagina 152

Edward aveva abbandonato gli studi di legge per diventare scrittore. Questa scelta sorprese Susan: secondo lei prima di dedicarsi alla scrittura avrebbe dovuto scoprire se sapeva scrivere. Lui però non aveva dubbi. Ne parlarono a lungo. Edward le spiegò lungamente la sua decisione e chiarì il loro futuro e il ruolo che lei vi avrebbe avuto. Il padre di Susan andò a Chicago per cercare di dissuaderlo, ma Edward dichiarò che proprio la potenza del suo impulso a scrivere, impedendogli di studiare per gli esami, gli aveva rivelato come la scelta di studiare legge fosse un errore. Sono stati gli altri a convincermi, raccontò Edward. Io di mio ho sempre voluto scrivere.

Quando Susan seppe che per tutto quel tempo lui non aveva fatto altro che scrivere le sue cose, si stupì che non le avesse mai mostrato niente. Edward si giustificò sostenendo di non sentirsi pronto, era ancora in fasce come scrittore. Le chiese di aiutarlo, e lei accettò. Era un'epoca di alti ideali, quella. La sua segreta inquietudine era un fatto egoistico, borghese (prima di allora Susan non si era mai preoccupata di essere borghese). La speranza di avere una casa confortevole, dei bambini, e di intraprendere la carriera universitaria con un dottorato di ricerca: tutto questo era da borghesi. Ma gli scrittori quanto guadagnano? domandò Susan, ansiosa, avendo sentito dire che la maggior parte dei poeti e dei romanzieri si manteneva facendo altri lavori. Ma chi vuole guadagnare? ribatté Edward. Con il tuo lavoro, con il tuo stipendio, riusciremo sempre a tirare avanti. Lei avrebbe insegnato, lui avrebbe scritto. E avrebbe dedicato i suoi libri a lei, senza la quale niente di tutto questo eccetera eccetera.

Il padre nel corso della sua visita la interrogò con delicatezza. Davvero vuoi rinunciare a tutto? Ma a cosa mai sto rinunciando, papà? replicò lei. Coraggiosa, determinata. Per me cosa c'è meglio di questo? E i tuoi progetti? I due anni di specialistica? Lo studio mi ha già dato quello che poteva darmi, rispose Susan. Senza la specialistica non avrei avuto il posto d'insegnante.

La seconda estate da sposati la trascorsero a Chicago, così Susan avrebbe potuto guadagnare un po' di più, insegnando ai corsi estivi. Adesso lei leggeva quello che Edward scriveva; se non tutto, almeno una parte. Lui le chiedeva di essere totalmente franca, ma lei imparò che era meglio non esserlo. Le poesie di Edward erano brevi ed estemporanee: frammenti nostalgici, memorie di luoghi o di stati d'animo. C'erano anche dei versi erotici, in cui parlava di quanto straordinario fosse scoparla, e celebrava l'attesa, l'atto, e il languore dopo l'atto. Ma le espressioni che usava, specialmente sui suoi seni morbidi e piatti, la infastidivano. Le venne il sospetto che, volendo, anche lei avrebbe potuto scrivere le stesse cose. In seguito Susan coltivò quella convinzione perché le consentiva di vedere Edward come un bluff; questo l'aiutò poi a lasciarselo alle spalle, ma allora un simile pensiero sarebbe stato un'eresia contro la fede di cui aveva bisogno.

Poesie e bozzetti. A un certo punto lui smise di mostrarglieli. Lei sperò che non fosse per colpa di qualcosa che gli aveva detto. Edward alluse a un progetto più impegnativo: aveva cominciato a scrivere un romanzo, ma non le aveva detto niente perché andava sgrossato. Era molto lungo. Susan capì che si trattava di una storia autobiografica: in milleduecento pagine Edward era arrivato ai dodici anni del giovane Eddie.

Durante il secondo autunno del loro matrimonio, suo marito diventò molto scorbutico. Le cose non andavano bene. Stava lavorando a un progetto che richiedeva una concentrazione speciale. Di cosa si tratta? domandò Susan. Stai scrivendo un nuovo romanzo? O forse un poema? Lui non volle rispondere: lavorava meglio quando non aveva nessuno appollaiato sulla spalla a sbirciargli i fogli. Era un errore mostrare un lavoro incompiuto. Ho bisogno di andare via per un po', da solo, disse.

Senza di me? Edward aveva bisogno di stare nel cottage vicino al fiume, dove poteva scrivere indisturbato. E io? domandò Susan. Tu devi insegnare, disse Edward. Hai un contratto da onorare.

È dura per Susan ricordare la propria acquiescenza, e ancora di più trascendere il disprezzo che provò per Edward in seguito. Come aveva potuto sottomettersi con tanta mansuetudine? Ma lui era sessualmente fedele, così lei accettò di restare da sola a Chicago. Edward si trasferì nel cottage e le telefonava una sera sì e una no. Lei, nelle lettere che scriveva ai genitori, cercava di indorare la pillola, vantandosi del loro anticonformismo, della lotta di Edward nella natura selvaggia, della vita straordinaria che conducevano. Purtroppo Edward tornò a casa più depresso che mai. Non ha funzionato, disse. Doveva ricominciare daccapo. Ricominciare cosa? Era una faccenda troppo privata per verbalizzarla. Solo più tardi Susan arrivò a emettere il suo verdetto ufficiale: Edward era un bluff e lei una boccalona. L'unica cosa buona di quell'ottobre, le viene da dire, fu che incontrò Arnold. Lui faceva l'internato all'ospedale e viveva nell'appartamento sopra al loro. Successe che alla moglie di Arnold venne un brutto esaurimento nervoso e dovettero ricoverarla. Alla fine tutti, tranne Selena, avrebbero convenuto che quella faccenda era stata una vera fortuna per ognuno di loro.

Ma vent'anni di matrimonio (certo non idilliaci) ora consentono a Susan di domandarsi, senza pregiudizi, cosa sarebbe successo se fosse rimasta con Edward. Mettendo fra le dovute parentesi Rosie, Dorothy e Henry, Susan non ha più paura di domandarsi se una vita da Stephanie sarebbe stata necessariamente meno bella di una vita da Susan.

A volte Susan chiedeva a Edward perché volesse scrivere. Non perché volesse essere uno scrittore, ma perché volesse scrivere. E lui le dava ogni volta una risposta diversa. È come mangiare e bere. Si scrive perché tutto muore, si scrive per salvare quello che muore. Si scrive perché il mondo è un caos inarticolato, e non riesci a vederlo finché non ne disegni la mappa con le parole. Si scrive perché scrivere è come mettersi gli occhiali quando si ha la vista debole. No, si scrive perché si legge, si scrive per ripetere a proprio uso e consumo le storie della nostra vita. Si scrive perché nella mente c'è un brusio, e scrivere è come tracciare un sentiero nel brusio per riuscire a raccapezzare un senso di sé. No, si scrive perché si è chiusi nel guscio del proprio cranio. Scrivere significa mandare come una sonda nei crani altrui, aspettando che qualcuno risponda. L'unico modo per farti capire perché scrivo, aveva detto Edward, sarebbe mostrarti ciò che scrivo, ma non sono ancora pronto.

Lei pensava che fosse una bella cosa. Edward presentava la scrittura come una necessità primaria. Susan aveva solo un timore: che Edward non riuscisse a ricavare un appagamento sufficiente da ciò che sarebbe stato capace di scrivere. E quando venne a sapere che aveva rinunciato alla scrittura per mettersi a vendere assicurazioni, sperò che avesse trovato un modo per rendere altrettanto appagante la nuova attività.

Un'altra cosa la inquietava del credo di Edward; se scrivere era una necessità primaria, come avrebbero fatto i suoi allievi? O lei stessa? Anche se scriveva delle lettere, e teneva ogni tanto un diario, e appuntava qualche ricordo su un taccuino, lei non era una scrittrice. Come sarebbe sopravvissuta?

Be', lei era una lettrice. Se Edward non poteva vivere senza scrivere, lei non poteva vivere senza leggere. E se non ci fossi io, caro Edward, dice Susan, tu non avresti ragione di esistere. Lui era una trasmittente che operava consumando le proprie risorse; lei era una ricevente, e più riceveva più si caricava. Susan poteva affrontare il caos che aveva nella mente coltivandolo mediante le articolazioni mentali altrui, cioè con la lettura, un'attività che aveva praticato per tutta la vita e grazie alla quale aveva potuto creare l'interessante architettura, l'interessante geografia del proprio io. Nel corso degli anni Susan aveva costruito un paese florido e civile, pieno di storia e di cultura, con paesaggi e panorami che, al tempo in cui Edward voleva trasmettere al mondo le proprie visioni, nemmeno si sarebbe sognata. Come sembrano esili le visioni di Edward rispetto alle terre che Susan ha conosciuto poi. Con generosità, negli anni lei ha continuato ad augurargli di riuscire a raggiungere un buon livello culturale. Ed ecco che arriva Animali notturni. Non è sicura che il romanzo riveli un buon livello culturale, ma certo contiene una visione che Edward esprime efficacemente, e Susan è contenta per lui.

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UNO



Svegliati, adesso. Luce, un riquadro bianco, la finestra, la botola si chiude sulla mente che si sta ritraendo. Un vuoto decerebrato prima che l'altra mente, luminosa e superficiale, l'accolga con i dati temporali: Buongiorno, Susan, è un nuovo giorno della settimana, l'ora è quella che segna l'orologio, vestiti e affronta i compiti della giornata.

Questa mente è ordinata e organizzata. Eppure per un po' un mondo sfuggente continua a mandare i suoi bagliori, come i segni del ghiaccio su una finestra. Un mondo dove tutto è collegato: Edward, Tony, le diverse menti di Susan, una cosa conduce all'altra e viceversa, ogni elemento è identico agli altri e intercambiabile. A mano a mano che i bagliori svaniscono ricompaiono le differenze, e ancora una volta Susan è la lettrice, Edward lo scrittore. Tuttavia dentro conserva una strana immagine di sé in veste di scrittrice, come se non ci fosse differenza.

Questo fatto è così interessante da costringerla a fermarsi mentre è in cucina dopo colazione, un piatto in una mano, uno nell'altra, per cercare di capire cosa significhi a livello razionale. Si osserva. Vede delle parole. Susan parla incessantemente con sé stessa. Questo fa di lei una scrittrice?

Susan riflette. Se scrivere è l'impeto del pensiero che si fa linguaggio, tutti scrivono. Bisogna distinguere. Le parole che Susan prepara prima di pronunciarle sono discorso, non scrittura. Le parole che invece non sono destinate a essere pronunciate sono fantasticheria. Se Susan è una scrittrice, questo deve riguardare altre parole che non attengono né al discorso né alla fantasticheria, parole come quelle che formula adesso: la sua abitudine a generalizzare. Il suo modo di fissare regole e leggi e di descrivere le cose. Lo fa costantemente, imballa i propri pensieri in parole da conservare in vista di un loro uso successivo. Ecco un'altra generalizzazione: la scrittura è mettere da parte le parole in vista di un uso successivo.

Le aspirazioni letterarie di Susan son state sempre modeste: lettere, un diario tenuto a intermittenza, ricordi dei genitori. Ogni tanto una lettera al direttore del giornale sul tema dei diritti delle donne. Un tempo, certo, aveva avuto ambizioni più grandi, così come aveva desiderato ardentemente essere una compositrice, una pattinatrice, un giudice della corte suprema. Aveva rinunciato senza rimpianto, come se quello a cui rinunciava non fosse la scrittura ma qualcosa di meno importante.

Susan ha bisogno di distinguere fra la scrittrice che si è rifiutata di diventare e la scrittrice che è sempre stata. Sicuramente ciò che ha rifiutato non è lo scrivere in sé, quanto il passo successivo, la diffusione: i compromessi, la promozione, necessari per indurre gli altri a leggere il proprio lavoro. Una vasta attività riassumibile in un'unica parola: la pubblicazione. Mentre lavora per casa in questa giornata luminosa con il cielo che si sta coprendo e il rischio che nevichi, Susan pensa che è stato un peccato, perché rinunciando alla pubblicazione ha rinunciato alla possibilità di essere l'oggetto di una conversazione letteraria, di leggere le conseguenze delle proprie parole in altre parole fuori nel mondo. Un peccato dal punto di vista della sua vanità, pensando a Edward (che ha dato inizio a tutto questo), poiché Susan sa che la sua mente vale quanto quella di lui, e che se avesse dedicato questi anni a praticare l'arte, avrebbe potuto scrivere un romanzo bello quanto il suo.

Allora perché Susan non si è dedicata alla scrittura? Altre cose si sono affermate con maggior forza. Quali? Il marito, i figli, l'insegnamento agli studenti di una scuola superiore? Le serve un altro motivo. Qualcosa nell'impegno necessario per arrivare alla pubblicazione le aveva ispirato una sottile ripugnanza. Lo aveva capito ai vecchi tempi, quando Edward lottava con la scrittura. E lo aveva sentito anche quando aveva provato a scrivere lei. Una disonestà, una certa subdola falsificazione, cui era indotta dal fatto di scrivere perché qualcun altro leggesse. Una sgradevole impressione di mendacità. Ecco cosa infettava allora e ancora infetta persino i suoi sforzi più modesti, le sue lettere, i suoi biglietti d'auguri, che sono sempre mendaci indipendentemente da ciò che Susan dice o non dice.

La presenza dell'altro: ecco la causa. È l'altro, il lettore, a contaminare ciò che Susan scrive. Questa pregiudiziale presenza del lettore, dei sui gusti, della sua pura e semplice alterità, condizionano ciò che Susan scrive come potrebbero fare un produttore di Hollywood o un esperto di ricerche di mercato. Tuttavia anche nella scrittura inedita che Susan ha nell'anima esiste uno scarto fra la scrittura in sé e la frase con cui Susan la esplicita. La frase semplifica. E se non semplifica son guai, perché allora Susan si impantana nel vizio aggiuntivo dell'astrusità. Lei crea una frase limpida potando, esagerando, distorcendo, e coprendo ciò che manca come con una vernice. Questo le dà una tale illusione di chiarezza o di profondità che preferirà la sua frase alla verità e dimenticherà presto che non è la verità.

La disonestà intrinseca della scrittura corrompe anche la memoria. Susan scrive i suoi ricordi in forma di racconto, ma il racconto non procede per lampi a differenza della memoria, il racconto si costruisce nel tempo e dispone di cellule in cui vengono immagazzinati i lampi, a mano a mano che arrivano. Il racconto trasforma la memoria in un testo, liberando la mente dal bisogno di scavare e di inseguire. L'Edward dei suoi ricordi è uno di questi testi, così come il primo Arnold e il suo matrimonio, mediante numerosi scritti di tanto tempo fa. Adesso che è obbligata a rileggere questi antichi testi, Susan non può fare a meno di riscriverli. Anche adesso sta riscrivendo, e con il massimo accanimento, facendo del suo meglio per risuscitare l'illusione di un ricordo vivo, dato che il racconto convenzionale è morto stecchito.

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