Autore Wu Ming I
Titolo La macchina del vento
EdizioneEinaudi, Torino, 2019, Stile Libero Big , pag. 340, cop.fle., dim. 13,7x21,6x2,1 cm , Isbn 978-88-06-24080-6
LettoreLuca Vita, 2019
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia , storia criminale , paesi: Italia: 1920












 

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Indice


  5 Antefatti     (1922-1938)

 17 Parte prima   La guerra strana (novembre 1939 - giugno 1940)

 93 Parte seconda Il linguaggio notturno (giugno 1940 - dicembre 1940)

219 Parte terza   La discesa, il Kairos (gennaio 1941- luglio 1943)

321 Epilogo       (agosto 1943 - ...)


327 Titoli di coda

336 Nota al testo


 

 

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Pagina 1

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Antefatti
(1922-1938)





I.


Da tempo i fascisti scorrazzavano e aggredivano, ammazzavano e incendiavano. Ora preparavano una marcia su Roma, e cosí Bruno Buozzi, il capo del sindacato dei metallurgici, decise di rivolgersi a Orfeo.

I due si erano conosciuti anni prima, quando il cantore, un sincero amico dei proletari, si era esibito per la Fiom di Milano. La sua interpretazione dell' Inno dei lavoratori aveva fatto piangere anche gli operai più burberi:

«Ogni cosa è sudor nostro, | noi disfar, rifar possiamo; | la consegna sia: sorgiamo | troppo lungo fu il dolor!»

Buozzi conosceva i poteri di Orfeo: con la sua cetra e con la voce melodiosa poteva incantare gli uomini, le bestie e gli elementi della natura. Dunque avrebbe potuto ammaliare gli squadristi e fermare l'onda nera, o almeno rallentarla, dando tempo agli operai di respirare e riorganizzarsi, dopo un periodo di sconfitte e umore sotto le scarpe.

Si diedero appuntamento a Pontelagoscuro, dove Buozzi era nato, sulla riva destra dell'Eridano. Orfeo si trovava lí perché voleva noleggiare una barca, raggiungere il delta del fiume e visitare la tomba dell'amico Fetonte, lo sfortunato aviatore precipitato in quei luoghi ai primordi dell'aeronautica.

Non ci volle molto a convincere il cantore: le gesta dei fascisti lo inorridivano, le parole del loro duce gli davano il reflusso di stomaco. Rinviò il viaggio sul fiume, ma quando stava per andare a Ferrara, città del bieco Italo Balbo e dei suoi squadristi, ricevette un telegramma dalla sua terra, la Tracia. Il mittente era il Comune di Adrianopoli, Ufficio servizi funebri:

Dolenti informare vostra moglie ninfa Euridice est deceduta stop apicultore Aristeo volendo fornicare la inseguiva stop mentre ella fuggiva fu morsa da vipera stop anima est presso Ade stop sentite condoglianze.


Orfeo si disperò, ma non intendeva rassegnarsi.

- Compagno Buozzi, sono affranto due volte: per l'aver perso la mia sposa, e perché non posso aiutare te e gli altri compagni. Devo scendere nell'Ade. Devo riportare indietro Euridice.

- Di certo non posso trattenerti, - rispose Buozzi. - Ma giurami che, tornato dagli inferi con tua moglie sana e salva, ti unirai a noi nella lotta al fascismo.

- Giurin giuretta, - disse Orfeo.

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II.


Il sole illuminava l'ergastolo di Santo Stefano. Di fronte a noi, oltre la distesa blu, c'era la linea più scura del litorale, col profilo del Circeo e, piú lontane, le montagne dell'Appennino.

- Ascoltami bene, Erminio, - disse Giacomo, e il racconto cominciò.

La città che mi apparve era Roma. Roma bagnata di sole, come doveva essere la mattina di martedì 5 aprile 1938, anno XVI dell'Era fascista. Vidi Porta Maggiore, poi il mio sguardo imboccò la Prenestina, la percorse superando Villa Gordiani e l'omonima borgata, oltrepassò un nuovo quartiere in costruzione - «il Quarticciolo», lo chiamò Giacomo - e prese uno stradello sulla sinistra. Dopo un centinaio di metri, ecco il piú anonimo dei magazzini. Intorno, solo campagna e rade baracche. Dentro, un ampio laboratorio, luminoso come il mondo quel giorno.

Due uomini discutevano accanto a un macchinario, un abitacolo irto d'antenne e collegato da cavi elettrici a un grande rotore. Nello stanzone, nessun altro a parte loro. Sapevo già che erano scienziati. Accento della Sicilia orientale l'uno, accento romano l'altro, entrambi intorno ai trent'anni. Il primo era un teorico puro: umbratile e raccolto, aveva un volto da frate teologo. L'altro - piú corpulento, mani grosse, guance rubizze - era il tipo che non teme incursioni nella «scienza applicata». La strana macchina ne era un esempio, e che esempio!

A parlare era soprattutto il romano. In preda a un grande fervore, si sfregava le mani e ripeteva cose che l'altro già sapeva: riepilogava com'era stata costruita la macchina, non era sicuro che potesse funzionare ma se avesse funzionato, eh!, se avesse funzionato... sarebbe stata la piú grande rivoluzione di tutti i tempi! Rivoluzione, proprio! Dal latino re-volutio, tornare al punto di partenza con un movimento circolare. Certo, bisognava capire in che condizioni fare l'esperimento. - Però ormai ci siamo, - diceva, - e nun ce posso crede, se penso a com'è stato casuale l'inizio, a quant'è stato bizzarro lo spunto...

A un certo punto si fermò e chiese all'amico: - Ma che hai, Ettore? Ti senti male?

Infatti l'altro, il siculo Ettore, parlava poco, si esprimeva a monosillabi, sovente guardava nel vuoto.

- No, non preoccuparti, tutto a posto, - rassicurò.

Il romano non stava nella pelle, tanto che adesso doveva orinare. - Aspettami qui, - fece all'amico.

Ettore restò solo nel laboratorio.

Sospirò.

Guardò quello che avevano chiamato «veicolo».

Guardò la porta da cui era uscito l'amico.

Infine entrò nell'abitacolo, si allacciò una cintura, si mise un casco da cui spuntavano diodi... Si fermò un istante... Poi tirò una leva.

Il macchinario cominciò a vibrare e ronzare, proprio mentre il romano, vescica svuotata, ancora gongolante, riapriva la porta, vedeva quel che stava per accadere, azzerava il sorriso, sgranava gli occhi e urlava:

- Noooo, che stai a fa'? Sei pazzo? Ettore!

L'uomo si precipitò, cercò di sporgersi dentro l'abitacolo, di afferrare una leva per bloccare il processo, ma la mano ormai stringeva il vuoto: Ettore e il macchinario erano evanescenti.

I due si guardarono negli occhi.

- Perché? - chiese l'amico che restava, mentre l'altro andava scomparendo.

- Non lo so nemmeno io, - rispose Ettore. - Addio, Giacomo.

Il macchinario ultimò la propria scomparsa.

Giacomo restò solo. Il laboratorio era pieno di sole. Si accovacciò con la schiena al muro e nascose la testa tra le braccia.


Cosí immaginai l'intera scena, nel teatro della mente, quando Giacomo la raccontò, torrenziale, una mattina di giugno del 1940.

Immaginarla era una cosa: l'essere umano può immaginare l'irreale, vedere il mai avvenuto, è questo a distinguerlo dagli altri animali. Non solo questo, certamente, ma anche. Ascolti una favola e vedi il lupo che parla con l'agnello, la rana invidiosa del bue, la sfida tra la lepre e la tartaruga. Leggi un romanzo e vedi personaggi mai vissuti amarsi, combattere, tradirsi, morire. Leggi l' Odissea e vedi Atena assumere le sembianze di Mente, di Mentore, di Telemaco...

Immaginarla era una cosa. Ma crederla vera, quella scena con la macchina del tempo, era un altro paio di maniche.

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III.


Quando Giacomo raccontò quella storia, la primavera aveva appena ceduto il passo all'estate, Atena era già sull'isola - anche se ancora non lo sapevo - e io stavo al confino da piú di tre anni.

Questa storia non la capisci, se non sai cos'era il confino. Lo so che hai studiato l'argomento, ma non basta aver letto dei libri: bisogna mettersi nei panni di quelli come noi, sentirsi addosso il perché ti mandavano al confino.

Ti mandavano al confino se eri nemico del fascismo, o anche solo poco amico. Spesso bastava non esserne entusiasta.

Ti mandavano al confino perché al dopolavoro qualcuno ti aveva sentito raccontare una barzelletta sul duce, ne giravano di formidabili, non raccontarle sarebbe stato un peccato, ma piú facevano ridere, piú raccontarle era peccato. Le dittature sono permalose.

Ti mandavano al confino perché non facevi il saluto romano. Un tal sabato, nella piazza del paese, non avevi risposto al braccio alzato del centurione o del federale in camicia nera, oppure avevi risposto ma ostentando svogliatezza e forse, chissà, perfino disgusto. Quel mancato gesto, e quel piegarsi degli angoli della bocca, si espandevano nel ricordo dei mastini del regime, finché un giorno non venivano a casa tua, ti strappavano alla sposa e ai bimbi che piangevano, ti facevano perdere il lavoro e ti sbattevano chissà dove, per anni.

Ti mandavano al confino perché uno della milizia voleva fottersi tua moglie e dimmi se non cascava proprio a fagiuolo che una volta, chissà quando, qualcuno ti avesse sentito parlar bene di Matteotti.

Ti mandavano al confino perché avevi chiesto in biblioteca un libro scritto da Tizio, noto bolscevico, o da Caio, noto invertito. Quelli che non piacevano al regime erano sempre «noti» qualcosa, perché il fascismo si presentava come interprete della vox populi.

Ti mandavano al confino perché il Primo Maggio, ricorrenza abolita e vietatissima, avevi messo l'abito buono o la cravatta bella, oppure, in osteria, avevi levato in alto il bicchiere di vino prima di portarlo alle labbra. Gesto che poteva essere solo d'augurio: «Il suddetto brindava spavaldo alla festa dei sovversivi e alla caduta del regime».

Ti mandavano al confino perché avevi deposto fiori sulla tomba di un antifascista, che magari era un tuo parente, forse ucciso a bastonate, forse morto anziano nel suo letto, poco importava, che ci andavi a fare su quella tomba? Era acqua passata, il fascismo aveva trionfato. Chi non si rassegnava era un nemico.

Ti mandavano al confino perché eri sloveno o croato e con tua moglie e i tuoi figli, s'ciavo testardo, continuavi a parlare in sloveno o croato, ma il posto dove stavi era diventato Italia, come Trst o Gorica o Rijeka, e dovevi parlare solo italiano. Primo, perché era la lingua di Dante, e ho detto tutto. Secondo, perché loro dovevano saperlo, cosa andavi cianciando. Metti che raccontavi una barzelletta sul duce: quelli non capivano una parola, ma vi vedevano scompisciarvi. Mica ci voleva un genio per concludere che li pigliavate per i fondelli, e allora prendevano a nerbate te e gli amici tuoi, e poi vi mandavano al confino.


Insomma, bastava poco. Una voce sussurrava all'orecchio dell'autorità: Roverati Mario parla male del regime coi compagni di lavoro, Guerzoni Attilio ha detto che invadere l'Abissinia porterà solo rogne all'Italia... C'era alta densità di spie: delatori in ogni paese, e in ogni quartiere di ogni città. Quelli pagati dall'Ovra - polizia politica dal misterioso acronimo - erano detti «fiduciari», ma parecchi lo rendevano gratis, il servigio, perché il regime sapeva sfruttare l'indole pettegola degli italiani, sapeva farne un'arma, anzi, un intero arsenale.

A decidere la tua sorte - e quella dei tuoi cari, che avrebbero dovuto fare senza di te - era una commissione provinciale. Da un giorno all'altro ti ritrovavi lontanissimo da casa, dalla famiglia, dagli amici, sorvegliato e vessato in mille modi, in un villaggio tra i monti o su un'isola in mezzo al mare. Non potevi difenderti, perché mica ti facevano un processo; nessun bisogno di appiopparti un reato, perché mica era una condanna penale: era una misura amministrativa.

La maggioranza dei confinati era gente che, in fondo, si era limitata a non portare il cervello all'ammasso. In gran parte operai; seguivano i contadini; molto staccati tutti gli altri.

La crème dei confinati, invece, era fatta di autentici, dichiarati, inconfondibili nemici del regime. Dirigenti e militanti clandestini, esponenti dei partiti sciolti nel '26: il Partito socialista, il Comunista, il Repubblicano... E poi gli anarchici. E i membri delle formazioni nuove, come Giustizia e libertà, liberali ma sovversivi, che tra loro si chiamavano compagni e facevano attentati con le bombe, o tempora! I capi di Gielle, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, erano stati uccisi in Francia, dov'erano esuli, nel giugno del '37. Scannati da uno squadrone di sicari su ordine del duce. Quanto ai giellisti rimasti in Italia, erano tutti in galera o al confino.

I nemici del regime prima si facevano il carcere preventivo, poi subivano il processo-farsa davanti al Tribunale speciale, dopodiché erano anni di galera, e una volta scontata la pena... Tornare liberi? Non scherziamo, li lasciavi andare cosí, pronti a cospirare di nuovo contro il fascismo? Andavano direttamente dal carcere al confino.

Poi c'erano i confinati religiosi.

Ti mandavano al confino perché eri valdese, pentecostale, testimone di Geova... C'era il Concordato, papa Pio XI aveva chiamato il duce «uomo della Provvidenza», ergo, caro il mio fanatico, tu preghi nel modo sbagliato e contrario allo Stato, e allora ti mandiamo a farlo - come suol dirsi di località sperdute - a casa del diavolo.

Infime, i confinati «comuni», che voleva dire: non politici. Nelle colonie di confino, li chiamavamo «manciuriani».

- Manciuriani? Come mai?

È una lunga storia. Tempo al tempo.


Ti mandavano al confino se eri un magnaccia d'infimi bordo. Quelli d'alto bordo procuravano donne ai gerarchi.

Ti mandavano al confino se eri uno strozzino poco ammanicato. Quelli ammanicati erano, appunto, ammanicati.

Ti mandavano al confino se, femmina, ti piacevano le femmine oppure, maschio, lo pigliavi nel didietro. Per lesbiche e, soprattutto, finocchi il regime non aveva, non poteva avere tolleranza. Il fascismo era italianissimo, apoteosi dell'Italianità, e dato che il maschio italiano vive nel perenne timore di prenderlo in quel posto - teme che possa piacergli -, il fascismo ne era ossessionato. «Mutande di lamiera!», dicevano, quando nei dintorni si aggirava un invertito. Uno cosí, lo sbattevano alle Tremiti.

Ti mandavano al confino se eri troppo matto per vivere fuori dal manicomio ma troppo poco per viverci dentro.

Ti mandavano al confino se non era chiaro cosa facevi nella vita.

Ti mandavano al confino perché...

A volte non lo sapevano nemmeno loro, il perché. Gli stavi sui coglioni e basta.

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Pagina 93

Parte seconda
Il linguaggio notturno
(giugno 1940 - dicembre 1940)





                                - E poi vi è il futuro! - disse l'Uomo molto
                                Giovane. - Pensate dunque! Si potrebbe impiegare
                                tutto il proprio denaro, lasciare che si
                                accumuli con gl'interessi, e lanciarci avanti!
                                - Per poi scoprire una società, - diss'io, -
                                regolata su di una base strettamente comunista.

                                             H. G. WELLS, La macchina del tempo.



19.


L'annuncio di Pasta-e-fagioli lo aspettavamo in tanti, eppure giunse all'improvviso, come la mattana di un bimbo che ha dormito poco. Tanto all'improvviso che gli equipaggi delle navi italiane all'ancora nei porti di Francia, di Gran Bretagna e delle loro colonie non ne seppero nulla fino al momento in cui furono arrestati, e i bastimenti sequestrati. Altre navi erano in mare aperto e furono catturate o affondate. In quarantott'ore l'Italia perdette quasi un terzo della propria flotta mercantile.

Il 14 giugno, i tedeschi entrarono a Parigi. E proprio allora, come chi prende a calci un uomo bloccato a terra e cerca di spacciare per gesto di eroismo la sua vigliaccata, cosí, suonando le fanfare, Pasta-e-fagioli attaccò la Francia. Ma pur godendo di un tale vantaggio, le «nostre» truppe riuscirono a prendere solo Mentone, due passi oltre il confine. Quelli contro di «noi» furono gli unici scontri vittoriosi sostenuti dalla Francia prima di capitolare: gli attaccati si difesero non solo con forza, ma con vero sdegno, e se non fosse stato per la Germania che li piegò all'armistizio, forse non saremmo stati «noi» a occupare Mentone, ma loro a occupare Ventimiglia.

La radio, naturalmente, non la metteva in questi termini.

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Pagina 100

20.


Il piroscafo non tornava. Gli isolani tiravano avanti, come sempre avevano fatto, ma noi eravamo agli sgoccioli. Finiti il caffè, il tè, l'olio, il sale, restammo quasi senza verdura, frutta e carne. Spinelli aveva un piccolo pollaio sul retro della bottega, altri tenevano minuscoli orti, ma nulla che potesse sostenere centinaia di persone.

Il pesce? Prima o poi qualcuno fa questa domanda, e lo capisco: eravamo su un'isola in mezzo al mare. Ma a Ventotene la pesca era povera, fatta da pochi uomini su piccole barche. Quel che tiravano su era lungi dal bastare per tutti, e noi non solo eravamo centinaia, ma venivamo per ultimi, dopo gli isolani e il personale della colonia. Se ci pensi, non è tanto strano che il pesce lo mangiassimo di rado.

Per mettere insieme i menu, capimensa e cuochi dovettero ingegnarsi. Si mangiavano piú che altro lenticchie. In mancanza di sale, per insaporire i cibi usavamo acqua di mare, bleah. In breve, aggiungemmo tutti almeno un buco alla cintura. Noi confinati, s'intende: dirigenti, caporioni e guardie avevano le loro dispense, e mantennero un buon girovita.

Quella penuria fu ancora poca cosa, ma fu la prima e già mi diede da pensare. Non erano cosí anche le nostre città? Anche la piú maestosa delle urbi, anche le metropoli e capita mundi della nostra magniloquente civiltà erano in fondo isole che attendevano piroscafi. La città non produceva il proprio cibo né le materie prime: che avrebbero fatto i suoi abitanti senza i bastimenti, treni e autocarri che ogni giorno varcavano i confini per portare farina da grano coltivato altrove, riso coltivato altrove, olio da olive o girasoli coltivati altrove, verdure e frutta raccolte altrove, carne di bestie allevate altrove, pesce pescato altrove, latte e latticini da mucche pecore capre nutrite e munte altrove, uova di galline che le avevano deposte altrove, stoffe e filati da piante o animali tosati altrove, legno da boschi che crescevano altrove, carbone e metalli da miniere scavate altrove, e senza le cisterne che portavano derivati di petrolio sgorgato da pozzi lontani, i tubi che portavano gas estratto in giacimenti lontani, i fili che portavano energia elettrica ottenuta dall'acqua di cascate lontane... Ogni città era mantenuta dal mondo là fuori, allacciata alla vita, al bíos, come un paziente in fleboclisi. Ogni città - Ferrara, Bologna, Roma - somigliava a Ventotene.

Per ragioni che non avrei saputo esprimere, sentii l'urgenza di comunicare le mie impressioni a Spinelli e Colorni , e una mattina mi misi a cercarli.

Ai due barbuti, nel frattempo, se n'era aggiunto un terzo. Ernesto Rossi , allampanato economista, uno dei giellisti arrestati nel '30, era arrivato sull'isola a novembre, una settimana dopo Giacomo. Non c'era voluto molto perché si incuriosisse della ragnatela di argomenti tessuta, un giorno dopo l'altro, dal filosofo e dall'orologiaio. In quella tarda primavera passeggiavano spesso in terzetto, elucubrando. C'era dunque da evitare l'assembramento.

Li incrociai in via dei Granili e rallentai giusto il tempo di dir loro: - Vorrei parlarvi di una cosa, passo dopo pranzo alla bottega di Altiero.


Trovai Eugenio ed Ernesto sull'uscio. Dentro, Altiero disponeva sul bancone una batteria di minuscoli cacciaviti.

- Andando al nocciolo della questione, - compendiai, dopo aver svolto la mia similitudine, - ogni città è fragile come quest'isola. Se entrassero in crisi i circuiti che la alimentano, anche la piú ricca e potente delle grandi città si ritroverebbe nella condizione che viviamo ora, anzi, in una situazione da subito peggiore: in piena carestia.

- Corretto, - disse Rossi. Colorni annuiva.

- Per far crollare una città, - continuai, - qualunque città, non serve un assedio, non servono le trombe che squillarono a Gerico: basta abbandonarla alla sua insufficienza, al suo stato di dipendenza. E maggiori saranno i progressi della tecnica, maggiore sarà la dipendenza. Man mano che tutto viene elettrificato e meccanizzato, nella città tutto diventa piú fragile, ma quale cittadino ne ha percezione? Forse bisogna essere su un'isola come questa, in un momento come questo, per rendersene conto. Insomma, che ne pensate?

I tre si guardarono, annuendo, poi Ernesto si rivolse a me: - Molto acuto, Squarzanti. E bella coincidenza.

- Coincidenza?

- Se ti dicessimo, - si inserí Eugenio, - che da tempo i nostri discorsi vanno a parare proprio lí?

- Proprio cosí, - confermò Ernesto. - E aggiungo un aspetto fondamentale: bisogna essere su un'isola come questa, in un momento come questo, durante una guerra come questa.

- La guerra è un'occasione, - aggiunse Colorni.

- La stessa invasione nazista d'Europa è un'occasione, - disse Altiero da dentro la bottega.

Io spostavo lo sguardo dall'uno all'altro, confuso e intrigato a ogni frase.

- Temo di non capire.

Altiero aggirò il tavolo da lavoro, ci raggiunse e attaccò col consueto piglio, cedendo ogni tanto all'inflessione romana: - Non solo ogni città, ma ogni Stato nazionale è come Ventotene. Checché ne dica il fascismo, al mondo d'oggi nessuna nazione può essere autarchica, e quanto piú dipende da un complesso sistema di scambi internazionali, tanto piú i suoi capi politici e militari cianciano di «onore nazionale», «supremazia», «sacralità dei confini», «posto al sole», «spazio vitale» eccetera. Come i cervi infoiati, ogni Stato deve mette in mostra un bel palco de corna, e fare a cornate coi rivali, perché ciascuna nazione deve competere con le altre, conquistare risorse lontane, accaparrasse le materie prime eccetera.

- E e dopo aver visto due grandi guerre europee nel giro di vent'anni non abbiamo ancora capito l'antifona, - proseguí Eugenio, - potremmo non avercela, una terza occasione. Abbattere i fascismi non basta. Liberare le nazioni occupate dai tedeschi non basta. Se non vogliamo piú guerre, dobbiamo superare gli Stati nazionali.

- Ma questo noi socialisti lo diciamo da sempre, - obiettai. - Dove starebbe la novità?

- È vero, noi socialisti predichiamo bene, - ribatté Eugenio, - ma razzoliamo male, perché rimandiamo sempre a un dopo: le nazioni scompariranno quando scompariranno le classi, il nuovo ordine si svilupperà quando tutti i Paesi saranno socialisti, e cosí via. E intanto, continuiamo a ragionare nei termini della vecchia politica nazionale. Invece Altiero, Ernesto e io ci stiamo persuadendo che si debba procedere all'inverso: un nuovo ordine che superi gli Stati nazionali è la precondizione per tutto il resto. Per prima cosa, insomma, occorre una federazione europea.

- Ma... Il partito che ne pensa? Ne hai parlato con Pertini ?

- Tempo al tempo, - si inserí Altiero. - Vogliamo prima mettere queste idee nero su bianco, con la massima chiarezza.

- E in che senso l'invasione nazista sarebbe un'occasione? - domandai.

- Il nazismo, occupando buona parte d'Europa, - rispose Rossi, - rende sempre piú chiara e netta la situazione: i popoli hanno un comune nemico, una comune lotta, una comune sorte. Possono vincere insieme per poi tornare a dividersi, cosa che sarebbe molto stupida, o vincere insieme e restare insieme anche dopo.

- Per certi versi, Hitler sta già federando l'Europa, - riassunse Altiero.

Le tempie mi pulsavano. Troppi ragionamenti sul filo del paradosso. Eppure mi sembrava che mancasse qualcosa, e lo dissi.

- Che Cosa? - domandarono all'unisono, sorprendendomi un poco.

- Be'... La forma non è il contenuto. Che contenuto avrebbe quest'Europa federata? Sarebbe capitalista o socialista? Rimarrebbero le divisioni in classi?

- Dopo, - fece Altiero scuotendo appena la testa, come tra sé e sé.

Intanto mi era venuta in mente un'altra obiezione.

- E quest'Europa federata manterrebbe o no le colonie dei singoli Stati? Francia e Gran Bretagna non sono solo Stati nazionali, sono anche imperi. Porterebbero in dote le loro colonie d'Africa e Asia? O l'Europa adotterà il principio dell'autodeterminazione dei popoli e dunque, federandosi tra loro, gli Stati europei rinunceranno ai loro imperi? Mi sembra improbabile. E allora, non ne ricaveremmo solo un Superstato imperialista?

Si scambiarono sguardi muti, le fronti aggrottate. Forse, fin lí, non mi avevano ritenuto all'altezza di porre un simile dubbio.

- Sulla questione delle colonie e degli imperi occorre un supplemento di riflessione, - disse Colorni.

- Già, è probabile che nemmeno fra noi tre la pensiamo esattamente allo stesso modo, - chiosò Rossi.

- No, no, no! - sbottò Spinelli. - Tutto ciò dopo, dopo! Altrimenti dividiamo subito le forze.

- Forze? - domandai. - Quali forze?

- Quelle che aggregheremo, - rispose. Fissava il vuoto, o il futuro innanzi a sé, con sguardo ardente da profeta. - È vero, la forma non è il contenuto, ma certi contenuti in certe forme non possono entrare, ecco perché servono nuove forme. Si illude chi pensa che si possano evitare le guerre mantenendo gli Stati nazionali. Ragion per cui, l'azione prioritaria è unire quelli che sono d'accordo su quest'obiettivo e prioritariamente su questo, e sono certo che ne troveremo molti in tutti i partiti: tra i socialisti, tra i cattolici, tra i liberali...

- E persino tra i comunisti, - aggiunse Colorni.

Spinelli storse le labbra.

- I comunisti? - domandai. - Che rapporto avrebbe con l'Urss quest'Europa federata?

- Non ha senso domandarselo ora, - tagliò corto Spinelli. - Ogni equilibrio sta saltando. Bisogna tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge. La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!

- Bella frase, Altiero, segnatela, - disse Ernesto.

Me ne andai perplesso, ma per certi versi consolato. Non ero l'unico a perdermi in rêveries. A Ventotene, ciascuno di noi si fissava su qualcosa: io sui miti greci, quei tre sull'Europa unita... E Giacomo?

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La fatidica sera, dovevano essere circa le ventitre e ancora si chiacchierava, mormorando per non disturbare chi, nonostante il vento e le pulci, riusciva a dormire. Per l'ennesima volta ci stavamo chiedendo quanto sarebbe durata la guerra, e cosa ci avrebbe portato in sorte, e per quanti anni ancora saremmo rimasti al confino. Lamentavamo la nostra impotenza, l'impossibilità di agire...

La frase fu detta a bassa voce, ma per noi, che quella voce non la udivamo da giorni, fu come sentire un tuono.

- Devo dirvi una cosa molto importante.

Nel buio ci girammo verso il letto di Giacomo, sorpresi. Fu cosí che, avuta la nostra attenzione, fece la domanda, e il nome.

- Avete mai sentito parlare di Ettore Majorana ?

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23.


Ci raccogliemmo intorno a Giacomo in sei o sette, parlando a voce ancora piú bassa, soprattutto per non farci udire da Caramella.

- Majorana, hai detto? Il nome non mi è nuovo.

- Ma sí, ne hanno scritto i giornali, due anni fa, quand'eravamo a Ponza. È quello scienziato scomparso, uno del giro di Enrico Fermi , un cervellone. Pare lo abbiano cercato ovunque, pure nei conventi, ma niente.

- Anche tu, Giacomo, eri del giro di Fermi, giusto?

- Infatti. Majorana lo conosco, è un caro amico. Ebbene, non è semplicemente scomparso. Non si è ammazzato, e non si è nemmeno dileguato alla Mattia Pascal.

- Che ha fatto, allora?

Una pausa, forse il tempo di dirsi: è arrivato il momento, uno, due...

Tre. - È andato nel futuro.

Nel silenzio che segui, perfino al buio indovinai le espressioni sbigottite. Non era difficile: anch'io me ne sentivo una in faccia. Inspirammo...

... ed espirammo. Più di uno fece un piccolo sbuffo, equivalente sussurrato del ridere.

- Vi prego di credermi, - continuò Giacomo, - non è una burla e nemmeno delirio. Nel '38 avevo messo a punto un prototipo di macchina del tempo. Conoscete il romanzo di Herbert George Wells , lo scrittore inglese? Una macchina del tempo, come quella del suo romanzo, per viaggiare nel passato o nel futuro! - E poi, con una chiara nota d'orgoglio: - L'ho costruita con le mie mani.

Ricordai il suo sussulto, i suoi tentennamenti in quel giorno di novembre, quand'ero stato io a nominare Wells per primo.

- E Majorana che c'entra? - domandò Ravaioli.

- Era l'unica altra persona a conoscenza dell'esperimento, e mi ha dato consigli utili. Un giorno è arrivato a Roma all'insaputa di tutti, proveniente da Napoli, dove aveva una cattedra di Fisica teorica. Era già cercato dalla famiglia e dalla polizia, ma io non lo sapevo. Giorni prima aveva spedito una lettera al suo preside di facoltà: c'era scritto che avrebbe preso il piroscafo Palermo-Napoli e si sarebbe buttato in mare. Ma poche ore dopo, aveva scritto un altro messaggio, dicendo che il mare lo aveva «rifiutato». Insomma, aveva cambiato idea. Dopo, nessuno lo ha piú visto. A parte me.

In qualunque altra situazione, con un simile esordio, Giacomo avrebbe trovato orecchie attente, curiose di sapere dove sarebbe andato a parare. Ma bisogna capire com'eravamo noi in quei giorni e ancor piú in quelle notti: indeboliti da una dieta insufficiente, inquieti, preoccupati per le sorti del Paese, dei nostri cari, dei compagni all'estero... La maggior parte di noi aveva poca pazienza, e dunque poca voglia di sentire storie, tantomeno storie fantastiche o addirittura vaneggiamenti. Perciò il giudizio fu dato subito: Pontecorboli era un folle, uno dei tanti che arrivavano al confino già matti o inclini a diventarlo. Mentre parlava, sentii che alcuni tornavano nei loro letti, sicuramente scuotendo il capo. Udii commenti a fior di labbra.

- Bah!

- Poveretto...

- L'è andà.

Anche Giacomo li udí, e perse coraggio. Il tono si fece implorante, il sussurro divenne quasi un gemito.

- Vi sto dicendo la verità! Majorana è venuto nel mio laboratorio e gli ho mostrato il prototipo. Sono uscito un momento dalla stanza e, per chissà quale motivo, ha deciso di collaudare la macchina di persona, senza nessuna preparazione. Sono tornato troppo tardi: la macchina stava già svanendo, ed è svanita con lui dentro, di fronte a me.

E ora svanisco io di fronte a voi, dovette pensare.

Ho cercato di parlare come meglio potevo e invece, ancora una volta,, ho grugnito.

Da oggi sarò ancora piú solo.

Provai pietà per l'amico. Non volevo lasciarlo cosí, ad annegare con le proprie parole nel buio del camerone. Pensai a una domanda che fosse sensata, almeno formalmente. Una domanda che contenesse un segnale di fiducia e al tempo stesso un appiglio, un ramo per non affondare nelle sabbie mobili.

- E quando è svanito, dov'era diretto?

Nella risposta di Giacomo colsi gratitudine: - Me lo chiedo ogni giorno, davvero non ne ho idea. Ho però idea di come si possa viaggiare nel tempo, e credo che potremmo arrivare a farlo, proprio noi, qui sull'isola! Posso costruire un'altra macchina. Potremmo andare avanti di alcuni anni e vedere come va la guerra: vedere se sta finendo, se è già finita, se è ancora lontana dal finire... Procedendo per tentativi, troveremmo sicuramente il momento giusto, la fine del fascismo, il momento di ricostruire l'Italia, e cosí ci arriveremmo ancora giovani! O almeno, non ancora vecchi.

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Pagina 158

Ricordo la comunista Camilla Ravera. Afflitta da malanni mai chiariti, durante la primavera era uscita a stento dal padiglione. Le avevano concesso di occupare una stanzetta, in origine pensata per la custode, e stava quasi sempre a letto, lamentando debolezza e un cerchio alla testa. Buona parte del cibo che provava a mangiare le causava disturbi, specialmente il pane e la pasta, cosí si nutriva di riso, verdura, frutta e pochissimo altro. La penuria di giugno l'aveva patita ben piú di noi: peggio di lei erano stati solo i tisici piú gravi.

Con l'estate, però, la Ravera se ne usci dal padiglione, al braccio di Terracini, per venire a Cala Rossano. Era pallida e magra, ma le bastò qualche mattina in spiaggia, adagiata su una sdraio, perché oltre al colore riacquistasse il suo tipico buonumore.

Un giorno di brezza e onde spumose trovammo il mare pieno di meduse. Animali imperscrutabili, composti quasi solo d'acqua. Ombrelli fatti di pioggia, come trompe-l'œil fluttuanti, figure di Magritte in movimento. I loro tentacoli sprigionavano un veleno urticante. Ne ricordavo l'effetto sulla gamba di un cuginetto, una lontana estate a Porto Garibaldi, che ancora si chiamava Magnavacca. Ricordavo quanto aveva urlato, in lacrime, correndo di qua e di là sulla battigia. Dei bambini piú grandi mi avevano insegnato un trucco, e cosí lo avevo messo in pratica: - Vieni, Nino, ci penso io! - Gli avevo fatto la pipi sulla gamba. Non aveva funzionato.

Per poter nuotare senza rischi, i confinati catturarono le meduse una dopo l'altra, e una dopo l'altra le gettarono in un mucchio sulla sabbia. Un cumulo di almeno cinquanta esemplari, vivo, agonizzante. Meduse che gemevano mute, i tentacoli mossi dal vento, sotto il sole che le uccideva.

La scena mi fece scaréz, ribrezzo, e commentai: - Almeno Perseo la testa mozzata della Medusa la mise dentro una bisaccia...

Ernesto Rossi, che non solo aveva partecipato alla caccia, ma si era seduto accanto al mucchio senza il minimo disgusto, s'incuriosí e mi chiese: - Quel macabro reperto che fine fece? Ho fatto il mio bravo liceo, e ho bene in mente la statua del Cellini, ma la storia, intendo dire nei dettagli, non la ricordo...

Mi accovacciai di fianco a lui, e guardando il mare blu spiegai: - Per prima cosa, va detto che dal collo aperto della Medusa uscirono, come in un parto, il cavallo alato Pegaso, che tutti ricordiamo, e un gigante di nome Crisaore. Perseo mise la testa nella bisaccia, con l'intenzione di donarla ad Atena. La testa con gli occhi sbarrati era un'arma, bastava puntarla verso un nemico per pietrificarlo, e una ciocca dei capelli-serpenti era sufficiente a respingere un esercito.

- Avrebbe fatto comodo agli inglesi a Dunkerque! - commentò Rossi. - E gli farebbe comodo anche adesso.

Da due settimane, infatti, era in corso la Battaglia della Manica, tra aerei britannici e tedeschi.

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Pagina 162

- E che problemi hai avuto con Coppola? - chiese Spinelli.

- La mia idea di tesi era I mari Adriatico, Ionio e Tirreno e gli arcipelaghi d'Italia nei miti greci. Per forza il relatore doveva essere lui, che aveva la cattedra di Letteratura greca. E ha accettato, anzi, li per lí era entusiasta, ma quando ha letto l'indice e l'introduzione... Lí sono cominciati i problemi. Quel che volevo dire nella tesi, a lui non andava bene per niente.

- E cos'è che volevi dire?

- Davvero vi interessa? - domandai, guardando prima l'uno e poi l'altro. - Non vorrei dilungarmi e annoiarvi...

- Stai scherzando? Siamo a Ventotene! Abbiamo tutto il tempo del mondo!

Il tempo del mondo, già.

E cosí esposi la prolessi della, mia tesi, e nel mentre pensai che non l'avevo mai esposta a nessuno. Mi era rimasta in gola nel marzo del '36.

- Volevo mostrare come, nel mito greco, i mari d'Italia siano sempre spazi aperti e illimitati, e il solcarli sia occasione di incontri inattesi e sorprendenti tra popoli diversi e diverse razze umane, tra uomini e divinità, tra uomini, animali e mostri. Incontri che spesso avvengono nel segno del conflitto aperto, ma più spesso nel segno di un conflitto ambiguo, intriso di seduzione, o nel segno dell'accoglienza, dell'apertura al mescolarsi, anche dell'erotismo. Il conflitto aperto è per esempio quello tra gli Achei e Polifemo, sull'isola Lachea. Il conflitto ambiguo e intriso di seduzione è invece quello tra Odisseo e Circe, proprio laggiù, - e indicai col dito il promontorio, oltre il mare. - Odisseo deve resistere a una seduzione anche quando incontra la sirene, nello Stretto di Messina. Quanto all'accoglienza, possiamo citare Eolo, che ospita Odisseo per un mese nel suo palazzo a Lipari, e ovviamente Nausicaa e i Feaci, che Odisseo incontra nello Ionio, naufragando a Corfù. E questo solo limitandoci all' Odissea. Volevo anche sottolineare che in molti di quei miti l'incontro via mare è occasione di rapporti sessuali non solo tra diversi popoli, ma tra umani e non umani, rapporti che generano sempre nuove ibridazioni. Ecco qual era l'impianto della mia tesi.

Lí per lí tacquero entrambi, le labbra schiuse. Il tempo di due battiti di palpebre, poi sbottarono quasi all'unisono.

- Ah! Ah! Ah! - fece Rossi. - Ma come t'è venuto in mente di presentare una cosa del genere?

- Ah! Ah! Ah! - fece Spinelli. - L'impiastro nun l'ho mai visto in faccia, ma me l'immagino lo stesso, mentre legge 'sta roba...

- Lo so bene, di aver agito senza considerazione. Mi sa che ero rapito, irretito dall'originalità e dalla forza della mia interpretazione. Perlomeno, a me sembrava originale e forte. Per quanto riguarda la faccia, con tutto il suo parlare di razza ariana, Coppola è scuro di pelle e ha chiaramente antenati saraceni, ma giuro che l'ho visto sbiancare.

- Quindi, in un certo senso, avrebbe dovuto ringraziarti! - disse Spinelli.

- Invece si è incazzato, e parecchio. Ha detto che le mie erano «insensatezze», che la cosa importante dei mari d'Italia era che fossero, appunto, «d'Italia», e ha attaccato una manfrina sulle nostre tradizioni, citando Pasta-e-fagioli, blaterando di noi italiani che «fin dall' Odissea e prima» - ha detto proprio così - siamo «popolo di poeti, di artisti, di eroi, di navigatori, di trasmigratori»... In soldoni, per i fascisti Odisseo era italiano.

- L'italiano era Polifemo, se proprio vogliamo, - disse Rossi.

- «Popolo di santi, poeti e cannibali», - declamò Spinelli.

- Insomma, mi ha chiesto, o per meglio dire intimato, di cambiare completamente l'impianto della tesi, allo scopo di «celebrare l'italianità dell'ambientazione dei miti classici». Poi mi ha beccato la polizia...

- Ma tu lo avresti fatto? - mi chiese Spinelli. - Intendo dire, le avresti scritte quelle scempiaggini?

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Pagina 200

Il primo venerdí di novembre - o era il secondo? - tornò a Ventotene Ursula Colorni. Aveva con sé le due figlie piccole, Silvia, di due anni, e Renata, di uno, ed era al quinto mese di una nuova gravidanza.

Mi rendo conto che, per il modo... poco casto in cui ho accennato a lei in un paio di occasioni, potrebbe sembrare che la considerassi solo una bella donna, la sposa di un marito invidiato dagli altri maschi... Me compreso... Ma no, non è cosí. Certo, la totale mancanza di vita erotica si faceva sentire, e dava ai miei pensieri, e a quelli di tutti, inevitabili torsioni. Torsioni che oggi, rievocando quei giorni, è difficile invertire, però no, non ho mai... Le mancherei di rispetto se... Già il poco che allora sapevo di lei bastava per stimarla come compagna.

Ursula, che di cognome faceva Hirschmann, aveva militato nella gioventú della Spd, il partito socialdemocratico tedesco, poi si era avvicinata alla Kpd, il partito comunista. Di entrambi serbava un cattivo ricordo.

A quello che era stato il partito di Bebel e Kautsky, Ursula rimproverava la passività, l'essere rimasto imbelle di fronte all'ascesa di Hitler. I capi socialdemocratici avevano creduto il nazismo un momentaneo scoppio di follia, un fenomeno di breve durata, e piú volte avevano frenato la classe operaia, esortandola a non reagire alle violenze, a «non accettare provocazioni». Quel precedente le faceva ammirare gli antifascisti italiani al confino: la colpiva che si fossero rifiutati di fare il saluto romano, e avessero affrontato botte e carcere, finché non avevano vinto e l'obbligo era stato tolto. La rivedo al tavolo della nostra mensa, in uno dei suoi soggiorni a Ventotene, forse proprio nell'autunno del '40. La risento che dice, costruendo le frasi un po' all'italiana e un po' alla tedesca: - I sozialisti italiani hanno come tutti gli antifascisti in Europa fatto errori, ma piú dignità dei nostri hanno dimostrato. Quando dopo il fuoco del Reichstag furono incarcerati, alcuni capi della Spd ai compagni piú giovani di fare il saluto nazista raccomandavano! Il nazismo durerà poco, dicevano, alzate la mano e Heil, Hitler, dite, cosí potrete tornare a casa, a continuare la vita di partito. Ma il partito ormai non esisteva più.

E Pertini, scuotendo la testa: - Eh, cara Ursula, anche qui ne abbiamo dette e fatte di belinate, non molto diverse da quelle che racconti...

E Ursula che si mette a ridere: - Questa parola non l'ho mai sentita prima: «Belinate»! Cinque anni che sono in Italia e ogni giorno ne imparo una nuova. Cosí tanti sinonimi avete! Il tedesco è piú povero.

Ursula ed Eugenio si erano conosciuti nel '32, in una biblioteca berlinese di cui non ricordo il nome, dove lui stava studiando Leibniz. Si erano frequentati, ma soltanto come amici, benché lui fosse già innamorato.

Dopo la vittoria di Hitler, Ursula era espatriata in Francia, mentre Eugenio era tornato in Italia. Nel '34 aveva vinto un concorso per insegnare Storia e Filosofia nelle scuole superiori, e si era trasferito a Trieste. Insegnava e cospirava, e sospirava pensando a Ursula.

Intanto, a Parigi, lei si era avvicinata ai comunisti in esilio, per poi ritrarsene con disgusto. L'avevano respinta il settarismo e il verbalismo: invece di costruire un'opposizione al regime, la stampa della Kpd si incarogniva a denunciare «deviazionisti» e «trotskisti», arrivando a pubblicarne nome, cognome e indirizzo, che equivaleva a segnalarli alla Gestapo.

Costruire un'opposizione no, ma fantasticarla sí: «Imprekor» e la «Rote Fahne» descrivevano nei dettagli scioperi, manifestazioni e sommosse che non avevano mai avuto luogo. Ingigantivano minimi episodi di resistenza, e quando non c'erano li inventavano, fino a dipingere un Paese in rivolta contro Hitler, che intanto era passato con il rullo compressore.

- Nella parlata ebreotedesca, - disse quella volta Colorai, - c'è un termine adatto per questo fenomeno: Trepverter. Avete presente quando, a una cena o a una festa, qualcuno vi rivolge un'osservazione mordace, un motto sarcastico che vi mette a disagio davanti a tutti, e voi vorreste avere una replica arguta, la frase giusta che rimetta al suo posto l'arrogante, ma non vi viene in mente nulla? E avete presente quando trovate la risposta perfetta, la battuta che l'avrebbe distrutto, ma ormai è tardi e non potete piú usarla? Bene, in yiddish si dice Trepverter, le «parole delle scale», perché la battuta viene in mente sulle scale, quando già te ne stai andando.

E Ursula, dopo averci pensato: - In tedesco Treppenworte sarebbe. Ma non si usa.

E Pertini, un tempo esule a Parigi e Nizza: - In francese si usa eccome, lo chiamano l' esprit de l'escalier.

- Ecco, - concluse Colorni, - la stampa clandestina dei comunisti tedeschi era piena di Trepverter. L'insurrezione immaginata dopo. La resistenza de l'escalier.

Ma, in fondo, non erano de l'escalier tutti i discorsi che facevamo a Ventotene? Se al fascismo si fosse risposto al momento opportuno, nessuno di noi sarebbe stato lí.

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Pagina 241

- Io lo sapevo, - continuò Giacomo, - che qua tornavo a morirci, Ermi'... Ma speravo... di non peggiorare cosí in fretta... Riuscire a fare gli esperimenti... Finire l'equazione... regalare a voi compagni il segreto dell'isola.

- Ma tu ce l'hai regalato, Giacomo. Io adesso lo conosco.

- È... una lotta contro questo tempo, Ermi'... E 'sto tempo... non deve vincere... Io ho sempre voluto... scappare da 'sto tempo, che mi fa schifo...

Sí, era stato il disgusto per il tempo che ci era toccato in sorte ad avviare la reazione a catena. Dal disgusto e dall'attrito quotidiano contro il nostro tempo era scaturita ogni sovrapposizione, fantasticheria, vaticinio... e cortocircuito. La macchina del tempo, Giustizia e libertà, la nuova fisica, il Nobel a Fermi, la scomparsa di Majorana, le lezioni di Viviani, la mia tesi, Ventotene...

Da una tasca del paletot, Giacomo tirò fuori alcuni fogli ripiegati. - Guarda questi, Ermi', - disse.

Copriva quelle carte un fitto cespugliame di numeri, lettere, simboli, parentesi.

- Niente di 'sta roba funziona... L'equazione... non torna... non può tornare... Avevi ragione, non stava lí il segreto... Avevi ragione... Io ho farneticato... però farneticando... ho detto delle verità... - Di nuovo sorrise, e gli zigomi scoppiarono fuori dal volto. - Io sono... l'orologio in piazza.

- L'orologio?

- Sí. Andando per conto mio... ogni tanto ho azzeccato l'ora giusta... Tu me l'hai fatto capi', e ti ringrazio... Almeno muoio... co' tutte le rotelle a posto... Però prima che muoia... me la devi di' tu una cosa.

- Cosa?

- Vorrei sape' finalmente... perché cazzo li chiamate manciuriani.

Scoppiai a ridere, poi gli raccontai l'origine del nomignolo.

- E io... chissà che me credevo... - commentò.

Sospirai, alzai gli occhi verso il cielo azzurro, e guardai il blu del mare, il mare che a Ventotene vedevamo sempre, sempre. Ma quel giorno io non vidi il mare fascistizzato di Goffredo Coppola e Poseidone, non vidi il mare carceriere, il mare che ostacolava le fughe, causava naufragi e impediva ritorni. No, quel giorno io vidi il mio mare, il mare che avrei voluto raccontare nella tesi, il mare dell'apertura e degli incontri, delle possibilità, del futuro. E lo vidi mentre il mio amico moriva, mentre riempiva d'aria, per le ultime volte, il poco che restava dei suoi polmoni.

- E adesso? - gli chiesi.

- Adesso... manca l'epilogo, Ermi'. Dobbiamo finire... il libro.

Per l'ultima volta trassi di tasca La macchina del tempo, e lessi le ultime due paginette.

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Pagina 305

Da quell'ultimo incontro, sogno, rêverie, chiamalo come vuoi, è passato piú di un quarto di secolo.

Quando mi hai detto che volevi intervistarmi, naturalmente mi sono chiesto il perché. Ci sono tanti ex confinati illustri, ritenuti testimoni ben piú lucidi. Pertini è presidente della Camera dei deputati, Longo segretario generale del Partito comunista, Terracini presidente dell'Associazione nazionale perseguitati politici. Spinelli è presidente di un importante centro studi, e fa campagne per l'Europa unita insieme alla moglie, Ursula Hirschmann. Si sposarono dopo la morte di Eugenio, io non li ho mai piú incontrati... Ma sto divagando. Ci sono ex confinati ai vertici dei partiti, dei sindacati, del mondo della cultura... Io su Ventotene ho scritto solo qualche articolo nell'immediato dopoguerra, ma il mio modo di raccontare il confino fu ritenuto troppo bizzarro e come memorialista fui accantonato, e mi lasciai accantonare. Forse non ero stato all'altezza del compito, mi dissi. Forse quel che mi premeva scrivere non era ciò che serviva. Ho rilasciato interviste, poche, su quand'ero partigiano a Ferrara, ma sul confino mi sono azzittito, e poi ho vissuto la mia vita, cercando di ricostruirmi, come ha fatto il Paese. Insomma, con te mi sono messo sulla difensiva. E adesso lo sai, quando si parla di tesi di laurea, per me è un dito che preme su un vulnus.

Quando poi mi hai detto che quei vecchi articoli li avevi letti, e la tua tesi non sarebbe stata genericamente sul confino a Ventotene, ma proprio su di me, sul confinato socialista Erminio Squarzanti, la perplessità è aumentata: perché una tesi su di me? E tu cosa mi hai risposto?

Perché lei è stato coinvolto in alcuni episodi strani perduti nelle pieghe delle ricostruzioni e delle memorie.

Lei è colui che a Ventotene fu vicino a Giacomo Pontecorboli, la cui storia è una delle più misteriose e perturbanti del confino.

Lei è colui che convinse Pertini a non firmare il manifesto di Spinelli e Rossi per un'Europa federata.

Lei ha avuto un ruolo importante negli eventi del 26 luglio 1943, quando, in pratica, i confinati presero la direzione della colonia.

E io ho pensato: ho fatto tutte queste cose? Tutte insieme?

E ti ho detto: va bene, ma non ho risposte per ogni domanda.

Poi il passato è tornato all'assalto: i ricordi, le rêveries.

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