Autore Wu Ming
Titolo Proletkult
EdizioneEinaudi, Torino, 2018, Stile Libero Big , pag. 340, cop.fle., dim. 13,6x21,6x1,6 cm , Isbn 978-88-06-23694-6
LettoreCristina Lupo, 2019
Classe narrativa italiana , movimenti , fantascienza , paesi: Russia












 

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Indice


     5   Prologo


    13   Parte prima    Denni

   103   Parte seconda  Nacun

   209   Parte terza    Leonid

   319   Epilogo


   334   Nota al testo

   335   Ringraziamenti


 

 

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Pagina 1

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Pagina 5

Prologo


Tiflis, Georgia, Impero russo, 26 giugno 1907.


Il venditore di frutta ancheggiava di fronte al caravanserraglio, reggendo sulla testa un vassoio di pesche e ciliegie. I piatti della bilancia appesa alla spalla tintinnavano come cimbali, agitati dai passi di una danza scomposta. Cantava con voce di contralto in un miscuglio di lingue. Leonid distinse a malapena la pronuncia storpia delle parole russe.

Koba gli aveva spiegato che gli ambulanti di Tiflis non erano semplici fruttivendoli. Oltre a improvvisare ballate sui fatti del giorno, molti lavoravano per la polizia. Osservavano e riferivano. Spifferavano e tradivano per pochi spiccioli.

Oggi avrai davvero una storia interessante da raccontare, pensò Leonid.

Finse ancora di appassionarsi al giornale che teneva sotto il naso. Sfogliò una pagina, scorse i ghirigori di un titolo in georgiano e rialzò la testa. Abo era sempre davanti al cancello dei giardini. Bottiglia in mano, stessa posizione di un minuto prima. Anche gli sbirri che sorvegliavano la piazza erano immobili. Due alla porta del municipio, quattro sotto la caserma. Rassicurato, Leonid seguí l'incedere di due cammelli carichi di tappeti, studiò gli abiti di un pope armeno, controllò il fruttivendolo alle proprie spalle. Il balletto proseguiva senza pubblico.

Leonid stava per ricominciare la trafila - un'altra pagina di giornale, un'altra occhiata di sguincio - quando Abo lasciò cadere a terra la bottiglia di vino. Il vetro andò in frantumi sui ciottoli. Gendarmi e soldati all'ingresso della caserma si girarono di scatto, ma un attimo dopo tornarono a fissare le due ragazze che stavano lí apposta per intrattenerli.

Kamo, nella sua bella uniforme da capitano, prese a far la spola su e giú per la piazza, invitando i passanti a togliersi dai piedi e incalzando i piú riottosi con le braccia spalancate. La benda sull'occhio gli dava un'aria arcigna e marziale.

Sbraitò quattro ordini in russo, come un vero ufficiale, subito imitato dal venditore ambulante, in una pantomima di strilli.

- Largo! Fate largo!

Leonid avanzò verso la strada da cui dovevano arrivare i carri.

«Tre minuti e sarà tutto finito», aveva detto Kamo.

Senti il rumore degli zoccoli e l'aria si riempi di polvere. La mano scivolò nella sacca che portava a tracolla. Tastò la mela, strappò il picciolo e restò in attesa.

«La potenza di fuoco è la chiave del successo», aveva detto Krasin.

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Pagina 21

Capitolo 2


Sotto la cupola verde di una betulla colossale, due pianoforti a coda, di legno nero, attendono le dita che li suoneranno.

Gli strumenti si stagliano su un tendaggio rosso, innalzato nel giardino con pali e corde.

Bogdanov avanza sul prato. Quand'è stata l'ultima volta che ha messo piede lí? Sebbene sia tra i fondatori del Proletkult, non lo frequenta piú da tempo.

Dietro il sipario, si erge la villa di Arsenij Morozov, una gigantesca torta di panna e meringa, con torrioni in stile moresco e fregi scopiazzati dall'architettura portoghese. In un vecchio romanzo di Tolstoj, il protagonista la definisce «un palazzo stupido e vano eretto per una persona stupida e vana». La frase si è dimostrata vera per tre quarti. Nove anni dopo la pubblicazione, il proprietario si sparò su un piede per provare agli amici di poter resistere al dolore, grazie agli insegnamenti di una disciplina orientale. Morí invece di setticemia. Quanto alla sua magione, è idiota in senso etimologico, come lo è chi non è in grado di vivere insieme agli altri, perché sempre deve farsi notare e attirare l'attenzione, fino ad apparire ridicolo nello sforzo. Tuttavia, grazie alla rivoluzione, la casa di Morozov si è almeno salvata dall'inutilità ed è diventata la sede del Proletkult di Mosca.

Le poltrone di fronte al palcoscenico sono tutte occupate tranne una. Prima di sedersi, Bogdanov scruta i volti dei membri della giuria. Quelli che riconosce sono quelli che si aspettava di trovare. Gli altri sei sono musicisti-operai delle principali fabbriche moscovite, chiamati a esprimere un giudizio «genuinamente proletario» sulle tre opere in gara.

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Pagina 26

Al posto dei pianoforti, trascinati a fatica dietro il sipario, compare sulla scena un musicista armato di fagotto. Un primo suono, grave, si gonfia sotto le fronde degli alberi.

Segue una pausa. Eccessiva. Poi finalmente una nota, solitaria e più acuta.

Un'altra pausa sproporzionata.

Un' altra nota. Bogdanov osserva lo strumento, qualcosa non va. Ha una sordina montata all'estremità, cosí che il suono esce smorzato e l'esecuzione è piú faticosa.

Dalle quinte spunta un secondo fagotto, che interviene subito dopo il primo. Ma il volume della musica rimane basso e le pause piú lunghe della melodia, che muore e rinasce ogni volta.

Giungono un terzo fagotto, un quarto, un quinto. Ognuno con la sua sordina. Dopo un paio di minuti, la formazione si fissa in un ottetto. Il volume aumenta e i silenzi vengono colmati. Il lavoro collettivo ha permesso di superare gli ostacoli dell'ambiente. Ora la musica viaggia da uno strumento all'altro, ma inciampa in continue dissonanze. Ogni fagotto sembra suonare per conto suo.

Eppure, piano piano, senza soluzione di continuità, l'accozzaglia di suoni si tramuta in un'armonia. I musicisti si passano il testimone, sempre piú veloci, e in breve è come avere davanti un unico strumento, alle prese con un solo spartito, e con un timbro piú simile a un violoncello che alla somma di otto fagotti.

«Quando piú attività si combinano tra loro, e le proprietà dell'intero differiscono da quelle delle sue parti, esso si definisce "sistema organizzato"».

Quella strana formazione di otto strumenti uguali ha appena illustrato con la musica uno dei principi della tectologia, la scienza dell'organizzazione. Del resto, qualunque fenomeno può essere descritto in termini tectologici, che si tratti di cellule, di suoni o di formiche. Bogdanov è abituato a spiegare ogni fatto con le leggi universali della scienza che ha inventato. «Furor tectologicus», lo chiama. «Sono organizzato, dunque esisto», gli piace dichiarare imitando Descartes.

Ma ecco un altro principio tradotto in musica: «Le attività di un sistema si congiungono grazie a un elemento comune, detto ingressione».

Gli otto fagotti, dopo l'iniziale cacofonia, sono riusciti a trovare un'ingressione, cioè il tempo e la tonalità comune, la sequenza di accordi e di scale che adesso regola il loro scambio e lo rende sistematico, quindi armonioso. Nel caso della società, l'ingressione è il lavoro. Gli esseri umani si uniscono per dominare l'ambiente con minor sforzo. Mentre il mercato, con i suoi interessi contrapposti, è un fattore disgregante. Una disingressione.

E infatti il complesso mette in musica anche quella, raggiungendo un'impressionante velocità di esecuzione. L'aumento del ritmo costringe all'errore un primo fagottista, poi un secondo. Sono proprio l'ultimo e il penultimo che si sono aggiunti alla formazione, e dopo un altro errore a testa si arrendono, appoggiando lo strumento tra le gambe. I1 terzo a ritirarsi è l'esecutore entrato per terzultimo e cosí via, a dimostrare che quelle cadute non sono veri errori, ma inciampi previsti dallo spartito, in ordine inverso rispetto all'ingresso dei musicisti sulla scena.

«La stabilità di un sistema è determinata dalla piú instabile delle sue parti».

Un'orchestra non può suonare un brano che sia troppo difficile anche per uno solo dei suoi elementi. Allo stesso modo, la forza di una catena è data dalla resistenza del suo anello piú debole. La salute di una società, dal malessere degli ultimi.

Ora soltanto un musicista insiste a suonare. Dopo tre scale solitarie, velocissime, il sopravvissuto si ferma sull'ultima nota, e la espande in un lungo vibrato. Subito i compagni riportano gli strumenti alle labbra e si aggiungono con note sempre piú acute, ottenendo questa volta l'effetto di un organo che esegua una maestosa polifonia. Un nuovo sistema, con una nuova ingressione.

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Pagina 39

Capitolo 4


Il salotto della famiglia Igumnov non è piú arredato come un tempo. Brande da ospedale e armadi robusti hanno sfrattato tavoli e sedie imbottite. Anche lo spazio ha cambiato aspetto, suddiviso in tre stanze, ma le pareti affrescate e le bifore posticce testimoniano il cattivo gusto dell'antico padrone. La capoinfermiera Korsak intinge nell'etere un batuffolo di cotone e lo strofina sul braccio di un giovane di vent'anni. Accanto a lui, si è appena sdraiato un uomo sulla sessantina.

Il direttore dell'istituto gli si avvicina. Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij, meglio noto con lo pseudonimo di Bogdanov, passa in rassegna i sintomi della malattia che ha portato a Mosca il paziente. Incarnato pallido, espressione contratta, occhi affossati in un groviglio di rughe. Proprio una brutta cera. Lo chiamano «esaurimento sovietico». Nevrastenia. Colpisce in tutt'Europa, ma qui con particolare virulenza. Per lo piú giovani, senza però risparmiare gli anziani. Suicidi in aumento da un capo all'altro dell'Unione. Uomini terrorizzati da impotenza, polluzioni notturne, eiaculazione precoce, onanofobia. Le donne lamentano meno problemi, ma non significa che stiano meglio. Vergogna di confidarsi a un dottore maschio. Abitudine a soffrire in silenzio. Da Parigi a Mosca, le cause dell'epidemia sono guerra, fame e conflitti sociali. Qui ci sono stati ancora quattro anni di morti, battaglie, il Paese mutato in un'immensa caserma. Con la vittoria sui Bianchi, si pensava che la Storia desse tregua. Al contrario. Cambiare vita è faticoso, anche quando si tratta di migliorarla. La rivoluzione mette alla prova i nervi. Scatena crisi d'identità. Agli operai si chiede di studiare. Alle donne di lavorare come gli uomini. Ai sottoposti di assumersi responsabilità. Ai ribelli di andare al governo. I pezzi grossi del partito sono stremati dal potere. Chiedono vacanze che non li ristorano. Accusano una stanchezza cronica. Hanno bisogno di sangue fresco. Persino Krasin, quell'uomo così brillante, esplosivo come le bombe che costruiva, sognando un ordigno micidiale grande quanto una noce. Se due anni fa ci fosse già stato questo posto, sarebbe guarito. Un vero ciclo di trasfusioni, invece di una sola, in un laboratorio domestico. Donatori, attrezzature, una stanza per il ricovero. Ha guadagnato appena qualche mese di vita, ma non è stato inutile. Niente lo è davvero. Ogni cambiamento modifica l'equilibrio tra un sistema e il suo ambiente. La sua importanza dipende dalla scala di misura. Senza la temporanea remissione di Krasin, Stalin non si sarebbe incuriosito. «Interessante, quindi si può guarire? E come ci siete riusciti?» Senza la curiosità di Stalin, non sarebbe nato l'istituto. Senza l'istituto, non arriverebbero i funzionari esauriti in cerca di sollievo, come questo Filippenko. E senza pazienti come Filippenko, non ci sarebbero i fondi per studiare il collettivismo fisiologico, il comunismo del sangue, che un giorno, come ha scritto la «Pravda», «consentirà di curare le malattie grazie alla vitalità dell'intero corpo sociale».

Bogdanov si china sul malato e lo invita a spalancare la bocca. La lingua pare una bistecca imputridita.

- Avete dormito bene, compagno Filippenko?

- Non piú di ieri, - sbuffa l'altro. - La solita insonnia.

Il dottore afferra il polso del paziente, per controllare le pulsazioni.

- Stanotte andrà meglio, vedrete. Mia moglie vi ha già presentato Igor Vasil'evič?

Filippenko guarda il suo vicino e il capannello di camici bianchi che lo attornia.

- Č il donatore? - bisbiglia rivolto a Bogdanov. - Non mi avevate detto che ci saremmo incontrati. Meno gente sa di questa mia malattia e meglio è.

Il direttore lo tranquillizza, le informazioni sulla sua salute non usciranno dall'istituto.

- Anche se la trasfusione sarà indiretta, - aggiunge, - trovo salutare che due individui, prima di condividere il sangue, abbiano modo di conoscersi.

- Sarà anche salutare, - protesta il paziente, - ma non vi pare pericoloso? Un domani il donatore potrebbe rinfacciarmi di essere guarito grazie al suo sangue e...

- Dubito che lo farebbe, - lo interrompe Bogdanov. - Dal momento che anch'egli avrà beneficiato del vostro.

Filippenko aggrotta le sopracciglia. Una maschera di perplessità ostentata.

- Sarebbe a dire?

Bogdanov finge di dedicarsi a un groviglio di tubicini che spunta da un cassetto. Sempre la stessa storia. Dirigenti che frignano e reclamano perché anche il loro sangue verrà succhiato, trasferito nel corpo di un altro. Il collettivismo fisiologico non è un affare da vampiri. Bisogna chiarirlo meglio nel colloquio preliminare. Senza reciprocità, la trasfusione non è davvero terapeutica. Il sangue giovane non basta. Conta anche la gioia dello scambio, il dono vicendevole. I pazienti, invece, sono turbati. Sapere che una parte di loro vivrà dentro un'altra persona non li entusiasma. Neanche si trattasse di un pezzo di cervello, o di liquido seminale.

- Non mi avete risposto, - Filippenko torna all'attacco.

Natal'ja Korsak ripone la boccetta di etere e va in soccorso al marito.

- Il nostro Igor Vasil'evič, - indica il donatore, - è uno degli studenti più brillanti della facoltà di Medicina. Si è offerto volontario per questa trasfusione dopo aver studiato a fondo la teoria che la sottende. Prego, Igor. Volete spiegare voi al compagno Filippenko come avverrà lo scambio?

Il ragazzo pettina con le dita un ciuffo biondo, sistema il cuscino dietro la schiena e si appresta a parlare. Gli uomini in camice si voltano verso di lui. Bogdanov tende l'orecchio, mentre continua a districare i tubi.

- La cura, - esordisce lo studente, - consiste nel trasfondervi un litro del mio sangue.

- Questo mi è chiaro, - si affretta a dire Filippenko.

- Di conseguenza occorrerà... fargli spazio, ovvero levarvene la stessa quantità. E siccome il donatore, cioè io, avrò bisogno proprio di un litro di sangue, ecco che il vostro tornerà buono per sopperire alla mia mancanza.

- Ma cosí vi troverete con un litro di sangue vecchio e malato, - obietta il paziente. - Voi, dottor Bogdanov, - dice per coinvolgerlo, - mi avete detto che il sangue giovane del donatore curerà la mia debolezza, ma allora perché il mio sangue debole non dovrebbe danneggiare lui?

Il direttore si rassegna a parlare. Servono parole semplici. Servono sempre.

- Il sangue del giovane porta nel corpo dell'anziano una maggiore energia; il sangue dell'anziano trasmette al giovane i frutti di una piú lunga esperienza. La condivisione fa la forza.

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Pagina 60

Capitolo 6


Gli esami di Filippenko sono in ritardo, e quello già smania per tornare a Smolensk, al duro lavoro che lo aspetta.

Bogdanov percorre il corridoio a passi nervosi, con una cartella clinica sotto il naso. Come se qua ce la prendessimo comoda.

Scorge un'ombra massiccia che avanza verso di lui. Ramonov, l'economo dell'istituto. Si finge talmente assorto nelle carte da non vederlo, ma alla fine gli concede un saluto distratto.

Buona giornata, compagno. L'altro lo ricambia con sussiego. Se sapesse della lettera che sta per planare sulla scrivania del commissario Semaško. «Il compagno Ramonov interferisce nelle questioni cliniche, scavalca le decisioni collettive, gestisce i fondi come meglio crede». E c'è il forte sospetto che ne intaschi una parte. Prima o poi le prove salteranno fuori. Come col predecessore, quell'azero viscido che voleva riempire l'istituto dei suoi amici del Caspio. Diceva in giro: Bogdanov è controrivoluzionario, un antibolscevico! Sai che novità. Un'accusa lunga vent'anni.

Il direttore sprofonda nella cartella clinica e cammina cosí fino alla porta dello studio.

Davanti alla soglia, si aggira impaziente un ragazzo biondissimo, dall'aria efebica e con abiti un po' larghi. In evidente attesa.

- Posso aiutarvi?

- Sí, se sei Aleksandr Bogdanov.

Occhi talmente chiari da essere trasparenti.

- In carne e ossa.

- Sei l'autore di questo libro?

Un volume sottile. Bogdanov scruta la copertina. Stella rossa, la prima edizione.

- Č un mio vecchio racconto, sí.

E questo dev'essere un ammiratore. Uno di quelli che amano ingaggiare discussioni eterne sui viaggi spaziali e la chimica delle comete. Da quando l'istituto ha aperto i battenti, ne capita di gente strana. Eteronauti, marxisti eretici e soprattutto appassionati lettori. Sarà che i suoi romanzi si possono leggere come saggi e i saggi sono pieni di idee da romanzo.

- Cosa posso fare per voi?

- Sono la figlia di Leonid Voloch, l'uomo che ti ha ispirato questo libro. Lo sto cercando.

Bogdanov stringe una mano tiepida e magra. Come tenere in pugno un passero col terrore di soffocarlo. Un volto emerge dalla memoria, i tratti sfumati, intaccati dal tempo. Una dacia in Finlandia, i faraglioni di Capri. Leonid il marziano.

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Pagina 74

Ridono, simili anche in questo. Una delle tante affinità maturate in trent'anni. Il taglio degli occhi, le pieghe sulla fronte, le macchie sul dorso della mano. Due sposi arrivano a condividere anche l'aspetto, come fratello e sorella. Nulla di strano. Per la tectologia, vivere insieme è una forma di congiunzione e quando due sistemi si uniscono, se non sono troppo diversi, tendono ad amalgamarsi. Ma poiché l'uomo è corpo e mente assieme, la congiunzione delle esperienze produce effetti fisici. Segni particolari di coppia.

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Pagina 78

Al congresso di Londra, quella primavera, i bolscevichi avevano ancora una linea comune. Servivano armi e militanti pronti a usarle. Durante la rivoluzione fallita di due anni prima, gli operai di San Pietroburgo avevano sperimentato la violenza dell'esercito. Mai piú si sarebbero fatti trovare impreparati. Non bastavano le bombe artigianali di Leonid Krasin. E nemmeno il denaro raccolto da Gor'kij, il grande scrittore, grazie alla sua fama internazionale. Perfino negli Stati Uniti aveva trovato sostenitori pronti ad aprire il portafoglio. Ma non era sufficiente. Bisognava prendere i soldi là dove stavano. A Londra la proposta fu bocciata. I menscevichi non volevano piú espropri. Niente bombe. Niente insurrezione armata. Quelle sono robe da anarchici. Piuttosto, occorreva stringere i rapporti con i sindacati. In quella tetra chiesetta di Hackney, le parti si invertirono. I bolscevichi si ritrovarono in minoranza. Trockij si mise in mezzo, tentando di mediare. Come possono cambiare le persone.

Sul traghetto di ritorno, in mezzo alla Manica, sotto un cielo carico di nembi, Koba lasciò cadere una domanda sulla scia delle onde.

«Cosa diciamo a Kamo?»

Da mesi i compagni georgiani controllavano un trasporto valori che a intervalli regolari attraversava Tiflis con una scorta non troppo nutrita. Kamo e la sua banda erano pronti ad assaltare il convoglio con la dinamite e nella confusione prendere il denaro.

«Quanto denaro?» domandò Krasin.

Mezzo milione di rubli.

«Facciamolo», suggerí Lenin, sul treno che li riportava in Finlandia.

Le mani si alzarono. Approvato all'unanimità.

A Koba spettò il compito di portare a Kamo la buona novella.

Koba & Kamo. I georgiani. Amici d'infanzia, si erano fatti espellere insieme dal seminario. Da preti mancati a rivoluzionari il passo non è troppo lungo. Da preti a banditi, ancora piú breve. Rubavano le armi per i bolscevichi, le procuravano con ogni mezzo necessario. Kamo non era un brigante da romanzo di Dumas. Non aveva bisogno di ammantare le proprie gesta di romanticismo. Agli arresti resisteva. Dalle prigioni evadeva. E quando, fallita la rivoluzione, i cosacchi lo avevano torturato per ottenere nomi e indirizzi, non gli avevano tolto una parola.

Era l'uomo giusto per la piú grande rapina che avessero mai tentato.

Serviva un compagno che tenesse le comunicazioni. Qualcuno che non fosse noto alle autorità del Caucaso.

Leonid Voloch aveva combattuto in marina, conosceva le armi. Era un militante determinato. Aveva quell'anello al dito, «per colpire piú duro». Aveva tutto e non aveva niente. Era perfetto.

Leonid accettò, entusiasta, e partí per la Georgia con il compagno Koba.

«Non farti ingannare dalle apparenze. Quello zoppica e ha un braccio leso, ma è scaltro come pochi. Sei in buone mani. Non perderlo di vista».

Un buon consiglio.

Lenin, invece, se n'è accorto tardi, che il georgiano era uno da tenere d'occhio. Nel frattempo, Koba ha cambiato nome di battaglia. «Uomo d'acciaio». Stalin.

Ma questa è Storia recente. Non la Storia di prima. Non quella della grande rapina di Tiflis col suo bottino di trecentoquarantamila rubli. Al prezzo di svariati morti, e della nevrastenia di Leonid.

Secondo la leggenda, Kamo sfrecciò fuori dal caos alla guida di un carro, sul quale i suoi uomini avevano trasferito il malloppo. Andò dritto incontro alla polizia, che arrivava in soccorso. Si alzò a cassetta, mostrando la sua sfavillante uniforme da ufficiale di cavalleria, e senza un attimo di esitazione gridò: «Porto in salvo il denaro! Correte alla piazza!»

Quelli non se lo fecero ripetere e Kamo fu di parola. Portò il denaro al sicuro.

In Finlandia.

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Pagina 105

Capitolo 12


Erano i primi giorni di primavera del 1908. La stessa primavera che a Mosca ancora vestiva di ghiaccio le strade, lí a Capri metteva voglia di sbottonarsi la camicia e annusare la brezza dal mare.

Sulla banchina di Marina Grande, l'andirivieni di carretti, facchini e locandieri s'accendeva in attesa del battello da Napoli, unico momento di trambusto della giornata. Per il resto, l'insenatura viveva al ritmo dei pescatori, che uscivano all'alba in cerca di corallo e di notte con le lampade per attirare i totani.

Bogdanov si fece largo nella piccola folla e raggiunse il pontile.

Si trovava sull'isola da una settimana, ospite di Gor'kij, al secondo piano di villa Blaesus. Dimora da signori, con cinque camere da letto, cuoco e servitù. Al clima insolito si era abituato in fretta, ma quando usciva in terrazza per la colazione, e ammirava la vista sui faraglioni bianchi, ancora si stupiva che quella terra minuscola, ritiro di aristocratici e di bel mondo, fosse diventata un crocevia di rivoluzionari. E di spie.

[...]

Piú lo frequentava e piú si rendeva conto che il limite di Gor'kij non era la scarsa attitudine per la filosofia. Il suo vero problema era non saper decidere tra due innamoramenti: da un lato sé stesso, dall'altro la società. Quando la voce interiore gli sussurrava «io, io, IO», subito si sentiva colpevole per non aver pensato «noi, noi, NOI». Allora, per dimostrarsi all'altezza del suo ruolo intellettuale, scriveva un peana per l'Umanità, l'unico vero Dio che bisognava costruite e adorare insieme, sciogliendo le identità in un'anima cosmica. Il giorno seguente, però, l'idea di una simile fusione lo preoccupava, perché lo avrebbe privato dell'ammirazione altrui, e quindi si buttava in cerca di adulatori e trionfi personali, fino a che il senso di colpa non lo spronava a una piú radicale condanna dell'individuo. Alto sul piedistallo, gridava «noi» con tutto il fiato ma il suo era soltanto un plurale maiestatis.

[...]

Era uno di quei pomeriggi passati sugli scogli, la filibusta al gran completo, a staccare patelle dalle rocce e mangiarle crude, come ostriche proletarie. In quelle occasioni, Gor'kij si esaltava e sul sentiero del ritorno, sotto le prime stelle, cercava di convincere tutti che le liti nel partito erano tempeste in un samovàr.

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Pagina 122

[...] Č impossibile risalire alla sorgente di una storia. Come un fiume, che nasce dall'incontro di molti ruscelli, e solo per convenzione si può stabilire qual è il corso principale. Chi racconta, non è mai soltanto un narratore. Anche a lui capita di ascoltare. Chi adesso ascolta, piú tardi narrerà. La storia passa di bocca in bocca, non si può distinguere il contributo di ciascuno. E anche quando si tratta di un libro, quanto della sua storia è già nelle pagine e quanto viene dal lettore? La materia allo stato puro non esiste. Ogni parola di un testo è in relazione con altre parole, contenute in altri libri e in altre menti.

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Pagina 137

Forse un maestro di scacchi muoveva i pezzi come si suona un violoncello, immaginando e agendo in un unico gesto, non uno prima e l'altro dopo, mente e poi corpo, piani e poi mondo.

Un empiriomonista come lui avrebbe dovuto saperlo. La mente è corpo. L'azione è già pensiero. Lo scultore lavora insieme alla pietra. La forma nasce insieme al contenuto.

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Pagina 164

Ma Denni... viene da un pianeta lontano, cioè dalle pagine di una trilogia letteraria, e non fa che portare alle estreme conseguenze ciò che lui stesso ha scritto. Di più: Denni viene da duecento anni nel futuro ed è lí a suggerire che ci sarà sempre conflitto. Che l'unica società pacificata è quella morta e il solo equilibrio possibile è quello dinamico e precario tra umanità e ambiente. Questo, in effetti, dice il marxismo: nel divenire del mondo presto o tardi tutto viene superato, anche il marxismo stesso. Ma le vestali del dogma non hanno mai potuto accettarlo.

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Pagina 169

Lo scontro piú acceso avvenne nella casa delle associazioni del Terzo, in rue de Bretagne. Lí, sotto le travi del soffitto basso, Bogdanov pronunciò l'arringa difensiva, sapendo che non gli avrebbe evitato la condanna, ma almeno sarebbe rimasta agli atti. Disse che quello di Lenin era un partito-padre. Un partito che si rivolgeva alla classe operaia per dirigerla, come un padre premuroso con i figli, ma non per educarla. E le poche volte che ci provava, era un vecchio maestro che trasmette agli scolari un sapere in forma di fede e non di conoscenza collettiva. Cosí non sarebbe nata una cultura proletaria in grado di spazzare via quella borghese, perché i lavoratori non avevano una visione del mondo sistematica, un pensiero organizzato che desse piú forza a ciò che già sapevano. Il partito li impegnava su questioni secondarie, come la diatriba se partecipare o no alla Duma, oppure li eccitava con iniezioni di coscienza di classe, nella versione piú compatibile alla sopravvivenza del partito stesso.

Ciò che gli eretici proponevano - una rivoluzione culturale; formare degli intellettuali operai che fossero scrittori, artisti, scienziati, ingegneri; finanche immaginare di colmare con l'Umanità lo spazio di Dio - poteva essere un grande azzardo, ma era pur sempre qualcosa. Lunačarskij aveva ben detto: «Forse noi ci sbagliamo, ma cerchiamo». Accontentarsi del dogma, trasformare i testi di Marx in una Bibbia, e farlo paradossalmente in nome dell'Illuminismo significava arrendersi a un destino che non sarebbe mai stato quello di Bogdanov.

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Pagina 280

Era la dimostrazione che il Proletkult interpretava un'esigenza concreta. Proletkult era il divenire, era lo spostamento del punto di vista, il movimento che cambia il modo di organizzare l'esperienza del mondo. Cioè la realtà.

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