Copertina
Autore Abraham B. Yehoshua
Titolo Fuoco amico
EdizioneEinaudi, Torino, 2008, Supercoralli , pag. 404, cop.ril.sov., dim. 14x22,2x2,7 cm , Isbn 978-88-06-18433-9
OriginaleEsh yedidutit [2006]
TraduttoreAlessandra Shomroni
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa israeliana
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Pagina 5

- Ecco, - dice Yaari abbracciando forte la moglie, - qui dobbiamo salutarci, - e con una stretta al cuore le consegna il passaporto controllando che non manchi nulla di tutto quello che vi ha infilato dentro: la carta d'imbarco per il volo successivo, il biglietto di ritorno per Israele, il modulo dell'assicurazione medica e due compresse per l'ipertensione. - Ti ho messo le cose piú importanti in un unico posto. Dovrai preoccuparti solo del passaporto -. Ancora una volta l'ammonisce di non cedere alla tentazione di uscire dall'aeroporto durante la sosta prolungata tra i voli. - Stavolta sei sola, non dimenticarlo, io non sono con te e il nostro «ambasciatore» non è piú ambasciatore di niente, cosí se ti cacci nei guai...

- Perché dovrei cacciarmi nei guai? - risponde lei, punta sul vivo. - Se non ricordo male dal nostro viaggio precedente, la città è vicina all'aeroporto, e avrò sei ore di attesa prima del volo successivo.

- Innanzitutto la città non è vicina, e poi cos'altro dovresti fare laggiú? Ci siamo già stati tre anni fa e abbiamo visto tutto quello che valeva la pena di vedere. No, per favore, non mettermi in ansia prima di salutarmi. Sono già un po' di notti che non dormi bene e il viaggio è lungo, ti stancherai. Perché non vai in quel bar carino dove siamo stati l'ultima volta, metti i piedi su una sedia perché non ti si gonfino le caviglie, e lasci passare beatamente il tempo? Ti ho appena comprato un romanzo nuovo...

- Un bar carino? Ma che dici? È un posto squallido. Perché dovrei rinchiudermi lí per sei ore? Perché tu stia con l'animo in pace?

- È l'Africa, Daniela, non l'Europa. E non c'è niente di scontato e di sicuro laggiù. E se vai in città potresti facilmente smarrire la strada, o la nozione del tempo.

- Ma io ricordo strade vuote... poco traffico...

- Appunto, poco traffico e nessuna puntualità. Per cui potresti perdere l'aereo senza nemmeno accorgertene, e a quel punto cosa faremo con te lí, a metà strada? Ti supplico, evitami altre preoccupazioni... Già cosí questo viaggio mi angoscia, mi fa paura.

- Oh, adesso esageri...

- Solo perché il mio amore per te è esagerato...

- Un giorno o l'altro dovremo decidere se è amore o desiderio di dominio...

- Il dominio dell'amore... - conclude Yaari con un sorriso malinconico sintetizzando il nocciolo della sua esistenza, poi abbraccia la moglie. Fra tre anni lei ne compirà sessanta e dalla morte della sorella maggiore, avvenuta più di un anno prima, soffre di una leggera forma di ipertensione, è più distratta e svagata. Però continua ad affascinarlo e a intenerirlo come all'inizio del loro rapporto. Il giorno prima, in vista del viaggio, si è tinta i capelli di una tonalità ambrata e quell'acconciatura dai capelli corti, che la ringiovanisce, lo rende orgoglioso.

Marito e moglie sono davanti all'ingresso del controllo passaporti. Dal centro della cupola di vetro del terminal, già illuminata dai raggi rossi dell'alba, penzola una hanukkiah gigantesca e la fiamma della sua prima candela tremola come se fosse vera.

- Allora alla fine ce l'hai fatta a sfuggirmi... - si rammenta lui. - Non abbiamo fatto l'amore e cosí non ho potuto rilassarmi prima della tua partenza...

- Shh... shh... - Daniela si mette un dito sulle labbra e sorride sgomenta ai passanti. - Fa' attenzione... ti sentono... e poi faresti meglio a essere sincero... neppure tu hai fatto grandi sforzi nell'ultima settimana...

- Non è vero, - protesta lui con amarezza a difesa della propria virilità. - Io ne avevo voglia e ho fatto del mio meglio, ma cosa posso fare contro di te? Assumiti le tue responsabilità. Quindi adesso non farmi stare ancora peggio: giurami che non uscirai dall'aeroporto. Dopotutto, cosa sono per te sei ore di riposo?

Nei begli occhi della viaggiatrice si accende un leggero sorriso. Quel curioso accostamento tra il loro mancato rapporto sessuale e lo scalo di Nairobi la sorprende.

- Va bene, - dice esitante, - vedremo... farò uno sforzo... Però smettila di cercarti preoccupazioni inutili. Se non mi hai perso in trentasette anni di matrimonio, non mi perderai neanche questa volta, e la prossima settimana ci rifaremo di tutto... Cosa credi, che io non mi senta frustrata quanto te? Che non provi desiderio?... Desiderio vero...?

E ancor prima che lui abbia il tempo di reagire stringe forte il marito, gli stampa un bacio sulla fronte e sparisce dietro la porta di vetro. Soltanto per sette giorni, è vero, ma siccome da anni non va all'estero senza di lui, Yaari non solo è preoccupato ma anche stupito che sia riuscita a realizzare questo suo desiderio. Erano stati insieme in Africa per una visita ai parenti tre anni prima, e lui conosce la maggior parte dell'itinerario che attende Daniela quel giorno, ma prima che lei arrivi dal cognato, a Morogoro, a notte fonda e dopo due voli, dovrà stare sola per ore, distratta e svagata com'è negli ultimi tempi.


Fuori è ancora buio. I raggi rossastri dell'alba che illuminavano la cupola di vetro sopra la fiamma virtuale della candela di Hanukkah a quanto pare non erano che una suggestione luminosa del nuovo terminal. Vede una sciarpa dimenticata sul sedile posteriore e una prima fitta di nostalgia punge il cuore. È vero, in assenza della moglie potrà godere di maggior libertà, sarà padrone del suo tempo, ma quella frase inattesa, a proposito di un «desiderio vero», torna a colpire la sua frustrazione.

Nonostante l'ora mattutina sa che non ha senso tornare a casa. Non si infilerà nel letto grande e vuoto e non si concederà un po' di riposo. Si lascerà tentare dal lavare i piatti sporchi destinati alla colf, e si cercherà occupazioni inutili. Per un istante considera se anticipare la visita al padre, ma sa che i badanti filippini si seccano se si presenta durante la toilette mattutina. Oltrepassa quindi rapidamente la sua casa d'infanzia e si dirige a sud, verso lo studio di progettazione ereditato dal padre.

Le cime degli alberi mosse dal vento gli fanno tornare in mente il reclamo arrivato sulla sua scrivania qualche giorno prima. Allora cambia rotta, sterza verso ovest, in direzione del lungomare, e del grattacielo Pinsker, da poco ultimato. Giunto sul posto invia col telecomando il segnale al cancello di ferro del parcheggio e sparisce lentamente sottoterra.

La costruzione del grattacielo di trenta piani si è conclusa alla fine dell'estate ma evidentemente la vendita degli appartamenti procede a rilento se cosí presto la mattina non si vedono molte macchine nella penombra dell'ampio parcheggio. La scarsità di inquilini non ha però impedito loro di organizzarsi per protestare contro i difetti di costruzione dell'edificio ai quali, col sopraggiungere in inverno dei temporali, si è aggiunto un nuovo reclamo: sibili, rimbombi e insopportabili ululati nei vani degli ascensori progettati dallo studio di Yaari e installati sotto la sua supervisione.

Basta infatti spingere la pesante porta antincendio tra il parcheggio e l'atrio degli ascensori perché Yaari sia investito da sibili e ululati terribili, nemmeno fosse capitato sulla pista di decollo di un aeroporto. Una settimana prima aveva mandato uno dei suoi ingegneri a verificare il fenomeno, ma quello era tornato solo con nuovi interrogativi. L'aria proveniva dal parcheggio? O dal tetto? Quei sibili molesti erano dovuti a un errato calcolo del rapporto tra le dimensioni delle cabine e la loro capacità di carico, oppure si era aperta una crepa nella parete tra il pannello posteriore degli ascensori e la tromba delle scale e il vento, dall'esterno, si infiltrava da lí? O magari la crepa si era formata nei muri di uno degli appartamenti rimasti invenduti e l'aria, seguendo un percorso tortuoso, si insinuava nei vani degli ascensori. Un paio di giorni prima la ditta produttrice delle cabine aveva acconsentito a mandare un tecnico, una donna esperta nell'individuare problemi di acustica e la loro relativa causa, ma proprio quel giorno l'inverno aveva battuto in ritirata, aveva ripiegato i suoi venti, e il silenzio che regnava nell'edificio non aveva permesso alla signora dall'udito fine di farsi un'idea del problema.

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Ora, nonostante il rumore martellante di un gruppo elettrogeno, la fattoria appare buia e la sua facciata un po' spettrale. Al pianterreno è accesa una luce. - È la cucina, - spiega Sijin Kuang a Daniela, che d'un tratto sente di non avere piú nemmeno le forze per scaricare la valigia. - Di certo suo cognato l'aspetta -. Poi la ragazza prende un pacco dal sedile posteriore dell'auto e accompagna l'ospite in direzione della luce.

Se sua sorella sapesse fin dove si è spinta per far rivivere la sua memoria sarebbe soddisfatta, e magari addirittura orgogliosa di lei. Ma di sicuro avrebbe anche timore, come ne ha lei ora, dell'incontro con il vedovo.

- Eccolo, - dice l'infermiera indicando un'alta sagoma sulla soglia di casa.

Anziché correre incontro alla cognata, abbracciarla e aiutarla a portare la valigia, Yirmiyahu rimane immobile, distante, in attesa che le due donne gli si avvicinino. Solo a quel punto abbraccia Daniela con forza, e accarezza con affetto la spalla dell'infermiera nera che l'ha accompagnata fin li.

- Cos'è successo? - domanda in inglese. - Già pensavo che ti fossi pentita e all'ultimo minuto avessi rinunciato a venire.

- Perché? Volevi forse che mi pentissi?

- No, non volevo niente.

Lui insiste a parlare in inglese, per riguardo verso Sijin Kuang, silenziosa come una statua accanto a lui e con il pacco ancora fra le braccia come se stesse per porgerlo in offerta.

Ma commosso forse dalla presenza della cognata che ha fatto tutta quella strada per arrivare fin lí, l'abbraccia ancora una volta, le prende la maniglia del trolley, e Daniela ha l'impressione che il corpo di Yirmy emani un odore nuovo, pungente.

- C'è dell'acqua calda -. Lui insiste a parlare in un inglese un po' incerto. - Ma se vuoi bere una tazza di tè prima di andare a dormire, andiamo in cucina.

I tre si recano nell'ampio locale in cui troneggiano un frigorifero gigantesco, forni e fornelli, e anche una specie di stufa che forse è un antico scaldabagno. Grosse pentole e padelle, mestoli e ramaioli, grattugie e coltelli suggeriscono che lí si prepara parecchio cibo, e per molte persone. In un angolo c'è una catasta di legna tagliata e sui tavoli da pranzo sono allineate decine di contenitori di plastica vuoti. Daniela si guarda in giro mentre Yirmiyahu prende il pacco dalle mani dell'infermiera sudanese, la ringrazia per il disturbo e la congeda augurandole la buonanotte.

- Le ho chiesto di comprarti delle lenzuola nuove, - dice, - perché ti senta perfettamente a tuo agio nel nuovo letto.

Daniela arrossisce. A quel punto dovrebbe dire: «Perché? Non avresti dovuto», ma non riesce a obiettare nulla dinanzi alla sensibilità dimostrata dal cognato. Lui sa bene che anche lei, come sua sorella, ha bisogno di lenzuola nuove in un luogo estraneo.

Yirmiyahu mette il bollitore dell'acqua sul fuoco e lei lo osserva. Ha perso parecchi capelli dal loro ultimo incontro, e la cute nuda, alla moda dei giovani che si rasano la testa di proposito, ma attempata, desta in lei una leggera preoccupazione.

- Ti ho portato dei giornali israeliani.

- Mi hai portato dei giornali?

- Anche riviste e supplementi di quotidiani. La hostess li ha raccolti in aereo e me li ha messi in una busta: sceglierai tu quello che ti interessa.

Sul volto di Yirmy compare un sorriso ironico e nei suoi occhi si accende una nuova scintilla.

- Dove sono?

Nonostante la stanchezza Daniela si china verso la valigia e gli tende una busta rigonfia. Per un istante sembra che lui esiti a toccarla, come se lei gli porgesse qualcosa di disgustoso. Poi la prende, si avvicina velocemente alla stufa scaldabagno, apre uno sportello che lascia intravedere una lingua di fuoco bluastra, e senza esitazione la butta dentro.

- Un momento, - Daniela si lascia sfuggire un piccolo grido, - aspetta...

- È quello il loro posto, almeno per me, - dice Yirmiyahu, con un sorriso maligno ma anche con un'aria di leggera soddisfazione.

Daniela impallidisce, tuttavia come al solito mantiene il controllo.

- Può darsi che per te sia quello il loro posto, però prima di bruciarli avresti potuto avvertirmi.

- Perché?

- Perché nella busta c'era anche un rossetto che ho comprato all'aeroporto per la mia colf.

- Troppo tardi, - dice lui sottovoce ma senza pentimento. - Il fuoco è forte.

Ora lei lo guarda con astio, offesa. A casa dei suoi genitori era solito leggere ogni giornale su cui potesse mettere mano. Lui le restituisce uno sguardo affettuoso.

- Non prendertela. Non fa niente. Sono solo giornali che in ogni caso sarebbero finiti cosí. Invece di buttarli nella pattumiera li ho gettati nel fuoco. E alla tua colf potrai sempre comprare qualcos'altro. Spero che tu non mi abbia portato altri regali di questo tipo.

- No -. Daniela si rannicchia sulla sedia. - Era tutto, non c'è altro. Solo una cosuccia... una scatola di candele di Hanukkah...

- Candele? Perché proprio candele di Hanukkah?

- Perché siamo a Hanukkah, te ne sei dimenticato? Pensavo che avremmo potuto accenderle insieme questa settimana. Cosí... è una festa che mi piace...

- Siamo a Hanukkah? Non lo sapevo, davvero. È tanto che non controllo il calendario. E questa sera, ad esempio, quante candele si accendono?

- Dato che la festa è cominciata ieri se ne accendono due.

- Due? - Yirmiyahu sembra divertito dal fatto che la cognata abbia avuto l'idea di portare in Africa delle candele di Hanukkah. - Dove sono? Mostramele.

Lei ha un attimo di esitazione, poi tira fuori la scatola e gliela porge, con l'insolita speranza che magari ora lui acconsenta ad accendere lí, a mezzanotte, quelle candele, per mitigare in qualche modo l'improvvisa nostalgia che lei sente per il marito e i figli.

Ma Yirmiyahu, con lo stesso gesto repentino di prima, un po' folle, torna ad aprire lo sportello e fa fare alle candele la stessa fine dei giornali israeliani, già andati in fumo.

- Che ti prende? - Daniela si alza furibonda, continuando però a mantenere il controllo di sé, come davanti a un alunno che ha commesso una stupidaggine.

- Niente. Non arrabbiarti. Ho semplicemente deciso che qui mi sarei preso una pausa da tutto questo.

- Da tutto questo cosa?

- Da tutto questo minestrone ebraico... israeliano... per piacere, lasciami in pace. In fondo sei venuta solo a piangere tua sorella.

- Che intendi dire con «lasciami in pace»? - Lei gli parla in tono dolce, senza rabbia, provando pena in cuor suo per quell'uomo grande e grosso dalla testa pelata, rossa e liscia.

- Lo capirai cosa intendo dire. Voglio tranquillità. Non voglio sapere niente. Starmene lontano da tutto. Non mi sogno nemmeno di sapere il nome del primo ministro.

- Ma lo sai.

- No, non lo so e non voglio che tu me lo dica. Non voglio saperlo, esattamente come tu non sai il nome del primo ministro tanzaniano, o cinese. Lasciami in pace con tutte queste cose. Anzi, ripensandoci, forse in fondo ho fatto male a non insistere che anche Amotz venisse con te. Ho paura che ti annoierai qui da sola durante una visita cosí lunga.

Per la prima volta Daniela si sente offesa.

- Non mi annoierò, non ti preoccupare per me. E la mia visita non sarà nemmeno lunga, e se farai fatica a sopportarmi, l'abbrevierò. Me ne tornerò a casa prima. Tu fai quello che devi fare. Mi sono anche portata un libro, ma non provare a buttarlo nel fuoco.

- Se è tuo, non lo tocco.

- Già l'infermiera che hai mandato a prendermi mi aveva avvertito... a proposito, è davvero animista?

- Perché «davvero»?

- Voglio dire, crede negli spiriti?

- Che c'è di male?

- Niente. E una ragazza che fa colpo... ha un portamento aristocratico...

- Tu non te lo puoi ricordare, perché non eri ancora nata, ma prima della fondazione di Israele agli angoli delle strade di Gerusalemme c'erano dei sudanesi come lei, alti e nerissimi, avvolti in tuniche, che tostavano sul fuoco di piccole stufette arachidi straordinarie, saporitissime, e le vendevano in coni fatti coi fogli di giornale. Ma a quel tempo tu non eri ancora nata.

- No, non ancora...

- Tutta la famiglia di Sijin Kuang è stata uccisa nella guerra civile nel Sudan meridionale, ma lei è diventata una donna molto tenera e umana.

- È vero. Mi ha detto che non sei venuto a prendermi all'aeroporto perché avevi paura di incontrare altri israeliani. Perché avrebbero dovuto esserci degli israeliani sul mio aereo?

- Su ogni aereo che vola tra due punti del globo c'è almeno un israeliano.

- Non su quello che mi ha portato qui.

- Ne sei sicura?

- Sicura.

- Ed ebreo?

- Ebreo?

- Magari sul tuo aereo c'era un ebreo.

- Ma come si fa a saperlo?

- Pensa un po': non volevo incontrare nemmeno quello.

- Addirittura?

- Addirittura.

- Perché? Sei arrabbiato con...

- No, non sono affatto arrabbiato, ma voglio prendermi un po' di riposo. Ho settant'anni, e ho il diritto di starmene un po' per conto mio. E se non per una separazione definitiva, allora almeno temporanea. Diciamo che mi sto prendendo una pausa. Una pausa dal mio popolo, dagli ebrei in generale e dagli israeliani in particolare.

- Anche da me?

- Da te? - Yirmiyahu guarda con affetto la cognata, versa dell'acqua bollente nella sua tazza e avvicina un fiammifero all'ultimissima sigaretta che lei si ficca in bocca. - Con te non ho scelta, tu rimarrai per sempre la mia sorellina, come ti ho detto quando avevi dieci anni. E se ti sei spinta fino in Africa per far rivivere la memoria di Shuli e piangerla con me, è tuo pieno diritto. Chi, come me, sa quanto le volevi bene e quanto lei ne voleva a te? Però ti avverto, piangere insieme va bene, ma non farmi prediche.

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Daniela è sbalordita nel vedere che i tre facchini che avevano portato le ceste di vimini a Dar es Salaam li hanno preceduti e sono arrivati a dar loro il benvenuto accanto ai binari di Morogoro. - No, - le spiega Yirmiyahu, - ti sembrano gli stessi uomini. Ma appartengono semplicemente alla stessa tribú, e forse sono anche imparentati tra loro. Però come abbiano fatto a sapere che siamo su questo treno e abbiamo bisogno di aiuto, questo non lo capirò mai.

I nuovi portatori li precedono alla stazione di servizio dove li aspetta la fedele Land Rover, pulita e lavata, con il cofano sollevato perché Sijin Kuang possa controllarla. Il filtro dell'olio è stato sostituito, il carburatore pulito, le candele rimesse a nuovo e ora la scintilla scoccherà piú veloce e precisa. Mentre i portatori svuotano le grosse ceste e ne sistemano il contenuto in scatole di cartone, Sijin Kuang infila la testa nel vano motore per accertarsi che tutte le sue richieste siano state esaudite.

Yirmiyahu distribuisce intorno a sé banconote e monete. Le grosse ceste di vimini cambieranno mano piú di una volta prima di tornare, per vie tortuose, al mercato della città.

Un aereo atterra su una pista poco lontana. «Sono passati solo due giorni da quando sono arrivata, - pensa Daniela tra sé, - e fra quattro ripartirò».

Per la quarta volta durante questa visita Yirmiyahu si scusa con l'ospite per essere costretto a confinarla sul sedile posteriore mentre Sijin Kuang prende posto al volante.

- Che c'è? Hai smesso di guidare in Africa? - gli domanda Daniela leggermente contrariata. - Ti è sempre piaciuto farlo, e quand'eri giovane non ti importava di venirmi a prendere a qualsiasi ora della notte, ovunque mi trovassi.

A Yirmiyahu piace sempre guidare, anche se in Africa le strade sono piuttosto accidentate, ma quando Sijin Kuang lo accompagna le cede volentieri il volante perché avere il controllo dell'automobile è per lei una sorta di consolazione. Un surrogato della sua sessualità perduta.

Daniela è sbalordita da quel modo di esprimersi. Che volgarità. Che ne sa lui della sessualità di Sijin Kuang?

Yirmiyahu si volta indietro con l'intero corpo per parlare meglio con la cognata che fa scudo agli occhi con le mani per proteggersi dal sole, ora proprio di fronte all'automobile diretta a ovest.

Lui non ne sa nulla. Un uomo bianco non può capire la sessualità di un'orfana africana. E non si sognerebbe mai di spiarla per scoprire la verità. Non ha nemmeno nessun pregiudizio di tipo etnico nei suoi confronti. Però sente dentro di sé, nel profondo, che il ricordo del massacro della sua famiglia avvenuto davanti ai suoi occhi smorza il suo istinto sessuale. Questo almeno è quello che crede, perché è quello che è successo anche a Shuli. Quel «fuoco amico» aveva bruciato la poca sensualità che c"era in lei.

- No, per favore, non tornare a ripetere quella frase.

- Perché?

- Suona cinica. Lasciala perdere. Fallo per me.

- Ti sbagli, non è cinica, è un modo pratico di descrivere quanto è avvenuto, e anche un po' poetico...

- Sei testardo, Yirmy...

- Non sono io il testardo, ma Shuli, tua sorella. E siccome io non sono riuscito a evitarle la sofferenza, ho accettato di non avere piú rapporti con lei. E ho fatto bene, perché in fondo quelli erano i soli momenti in cui lui non poteva essere con noi.

- Lui chi?

- Come fai a non capire?

- Eyal?

- È ovvio.

Daniela è inorridita. - Non poteva essere con voi? Che intendi dire?

Il sole scompare dietro una grossa nube. Sijin Kuang accende i fari dell'auto e si concentra nella guida. Dopo parecchie ore trascorse con i due bianchi sente che la loro conversazione sta prendendo una certa piega.

A partire dal momento della sua morte Eyal era sempre stato con loro, ovunque, in ogni istante. Yirmy e Shuli avevano concordato di poterlo nominare liberamente, ogni volta che lo volevano, non importa di cosa parlassero. Non sempre desideravano evocarne il ricordo, ma sapevano comunque di poterlo fare. Potevano piangere per lui, o per se stessi, compatirsi o arrabbiarsi, maledire chi si era affrettato a sparargli, oppure il contrario, giustificare l'errore. E se il personaggio di un film, o una melodia a un concerto, risvegliava in Yirmy, o in Shuli, il ricordo del figlio, ognuno di loro aveva la libertà di dire una parola a metà film, o a metà concerto. A volte si accontentavano di un sospiro, di toccarsi l'un l'altra, di guardarsi. Ma nessuno dei due era autorizzato a dire basta, mi fa male, lasciamo riposare nostro figlio in pace. Anche durante un pasto, o a una gita, o a una festa con gli amici, mentre facevano spese in un negozio e persino quando raccontavano una barzelletta, o ridevano di qualcosa, potevano nominare Eyal.

Ma non durante i rapporti sessuali. In quei momenti erano solo loro due, un uomo e una donna, e il figlio, vivo o morto, non avrebbe trovato posto nel loro letto, nella loro stanza. Se vi si fosse insinuato, se alla vista di una gamba nuda, o a una carezza della mano, si fosse sovrapposto il suo ricordo, l'eccitazione si sarebbe subito smorzata, e l'atmosfera si sarebbe fatta irrespirabile. E quindi, forse per avere Eyal sempre con sé, a partire dal giorno del funerale e fino a quello della sua morte, Shuli aveva soffocato con tenacia la propria sessualità e, di conseguenza, anche quella del marito. Come poteva infatti Yirmiyahu pretendere qualcosa dalla moglie sapendo che in ogni momento lei avrebbe potuto aprire una porta e chiamare il figlio col pensiero, vieni Eyal, torna da me, e io tornerò a piangerti? Come avrebbe lui potuto dire, mentre facevano l'amore, un momento figliolo, fermati, aspetta un secondo, sei arrivato troppo presto? Proprio come quella mattina all'alba, anche questa è una zona a rischio. Se farai un altro passo nei pensieri di questa donna nuda che tengo fra le braccia, aprirò contro di te un fuoco amico...

Gocce di pioggia scorrono sul parabrezza. Fino a qualche minuto prima splendeva il sole. La strada si addentra in una foresta di montagna e quando Yirmiyahu vede che la cognata, che lo ha ascoltato attenta, si chiude in un silenzio turbato, si volta lentamente, come a indicare che il momento delle confessioni è terminato, e non ha altro da dire.

Ma per Daniela la conversazione non è finita. Senza tentare di alzare la voce per sovrastare il rombo del motore si china in avanti, avvicina le labbra alla testa calva del cognato seduto davanti a lei, e mentre lui rimane immobile, gli dice quasi in un sussurro:

- È cosí dolorosa e comprensibile e naturale questa tua confessione. Anche noi, per settimane dopo la morte di Eyal, quando vi pensavamo, non eravamo in grado di toccarci. E per quanto Amotz sia un tipo focoso, in quel periodo si è guardato bene dall'insistere. Senza alcuna spiegazione ha rinunciato al sesso. E poi ha iniziato a comportarsi in modo strano, a piangere al cinema. È una cosa che gli succede ancora adesso, al buio, a volte per delle sciocchezze... e se io lo sbircio di sottecchi, lui si vergogna, si sente in imbarazzo...

Yirmiyahu sembra raggelato. Lentamente si volta indietro.

- Amotz piange al buio? Incredibile...

- Allora forse adesso capirai perché ho scelto proprio lui.

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- E credimi, - prosegue Yirmiyahu, - non mi è stato facile rinunciare a identificare il soldato che aveva sparato il proiettile mortale. Era molto importante per me conoscerlo di persona. All'inizio non nascondevo la mia intenzione di scoprire chi fosse, ma quando ho visto che andavo a sbattere contro un muro di silenzio, e che i soldati dell'unità di Eyal erano solidali l'uno con l'altro, ho tentato di scoprirlo per vie traverse. Eppure, nonostante mi fossi fatto piú accorto e avessi persino visitato il luogo della disgrazia e calcolato il possibile punto di partenza del proiettile in base alla traiettoria, non sono riuscito a identificare con certezza lo sparatore.

- Come mai?

- Perché tutti avevano paura, e hanno fatto il possibile per ostacolarmi. Temevano che volessi prendermela con quel soldato, che lo volessi accusare, trascinare in tribunale. O addirittura il contrario, che mi attaccassi a lui in modo ossessivo. Succede, a volte, e magari sarebbe successo anche a me. Non sono riuscito in nessun modo a convincerli che volevo sapere chi era perché ero preoccupato per lui. Perché nonostante Eyal fosse inequivocabilmente colpevole di quanto gli era capitato, quel suo commilitone avrebbe potuto, per eccessiva sensibilità, portarsi dentro un senso di colpa tale da avvelenargli la vita. Volevo tranquillizzarlo, dirgli: mio caro, io sono il padre di Eyal, però voglio rassicurarti che credo nella tua innocenza. Non sono solo i tuoi superiori ad assolverti, ma anche i genitori del ragazzo che hai ucciso per sbaglio. Vogliamo mantenere i contatti con te, per il tuo bene. Se fra qualche anno ti sentirai assalito da un senso di angoscia, o di colpa, per quel fuoco amico che hai aperto contro il tuo commilitone che aveva sbagliato a calcolare i tempi, potrai sempre venire a trovarci e noi ti aiuteremo a calmare quelle sensazioni, ad alleviare la tua angoscia.

- Che strano...

- Sí, che strano, eppure è la verità. Ero ossessionato dall'idea di stringere la mano di colui che aveva premuto il grilletto, come se quel ragazzo fosse stata l'ultima persona che aveva toccato l'anima di Eyal. Sí, Daniela, nei primi mesi pensavo ancora in termini di spirito, di anima, fino a che ho lasciato perdere tutte queste sciocchezze.

Sul piatto di Daniela sono rimasti dei pezzi di carne che lei non osa toccare. Uno dei cuochi canticchia fra sé un allegro motivetto africano, tamburellando sulla pentola per scandirne il ritmo, e di tanto in tanto lancia un'occhiata di sottecchi ai due bianchi. Sono entrambi sfiniti, lei senza un motivo apparente, forse a causa della lontananza dal marito, ma Yirmy ha decisamente diritto a un po' di riposo: qualche ora dopo il ritorno da Dar es Salaam è partito per un urgente viaggio al sito degli scavi ed è tornato a notte fonda. Però l'ascolto comprensivo e commosso della cognata accresce il suo desiderio di confidarsi.

- In teoria non avrebbe dovuto essere difficile identificare il cecchino. Eyal non era stato ucciso da colpi partiti da un cannone, o da un elicottero, che, per quanto diretti a un obiettivo preciso e a dispetto di tutti i dispositivi sofisticati di oggi, non si può mai sapere con certezza matematica se e come sono andati a segno. Nel suo caso la vicenda era semplice, quasi banale: i colpi erano partiti dai suoi commilitoni, un drappello di soldati scelti, otto in tutto, compreso il comandante responsabile dell'appostamento, un simpatico ufficiale di nome Mikha che dopo questa storia è quasi diventato di casa da noi. Anche lui si è laureato prima del servizio militare, in giurisprudenza, e nel cuore della notte aveva mandato Eyal sul tetto di una casa di Tul Karem per tenere d'occhio i dintorni nel caso il «ricercato» fosse sfuggito all'imboscata che gli avevano teso. Gli appostamenti erano due, uno a nord e uno a sud del palazzo, a distanza di cinquanta-sessanta metri l'uno dall'altro. Ecco, è tutto chiaro, semplice. Tu ti ricordi cosa si era detto allora?

- Mi pare di sí.

- Allora ammettilo: non ho assillato la famiglia con inutili dettagli. Shuli non ha voluto sapere com'erano andate le cose fin dall'inizio, e a ragione. Io invece non facevo che rincorrere altri particolari, frugare qui, rovistare là, ero in preda a una sorta di frenesia che forse si addice a un certo modo maschile di vivere il dolore. Ad esempio, dopo qualche tempo ho cominciato a essere ossessionato dall'idea di sapere chi fosse il «ricercato» a cui era stato teso l'agguato quella notte sciagurata, cosa avesse fatto di tanto importante da dovergli sguinzagliare dietro otto soldati.

- Che ti importava saperlo?

- È proprio quello che mi ha chiesto l'ufficiale dei servizi di sicurezza quando sono andato a strappargli informazioni su di lui. «E cosa cambia se le dico il nome? Per un ricercato che va ce n'è uno che viene, e ce ne sarà sempre uno da braccare. Manca poco che tutti i palestinesi diventino dei ricercati per noi». Ma io insistevo: «Perché volevate arrestarlo? Che cosa ha fatto?» «Per spedirlo all'altro mondo», aveva riso l'ufficiale, senza darmi altre informazioni. E a ragione. Perché un dettaglio se ne porta dietro un altro e tutte quelle informazioni non avevano nessuno scopo, visto che Eyal era già morto. Ma io mi trovavo ancora in una specie di turbine che voleva risucchiare tutto ciò che era avvenuto quella notte. Mi rivolsi alla redazione del telegiornale di una rete televisiva per avere la videocassetta del funerale militare di Eyal, che loro avevano ripreso, e fui accontentato. Era un servizio brevissimo, di nemmeno un minuto. Di notte, quando Shuli dormiva, guardavo e riguardavo quel video, non per rivedere il nostro strazio, e il dramma di Nofar, che sembrava volesse lanciarsi nella tomba con Eyal, ma per esaminare attentamente le facce dei soldati del picchetto d'onore che avevano sparato la salva di tre colpi riservata a tutti i caduti, anche a quelli che hanno provocato per sbaglio la propria morte. Guardavo e riguardavi le facce di quei soldati, di cui ormai già conoscevo il nome e la storia, perché pensavo che forse, in base alla loro espressione nel momento in cui premevano il grilletto, avrei scoperto chi era il responsabile del fuoco amico.

- È assurdo...

- È assurdo, è vero. Ma è cosí. Che posso farci? È anche normale, e naturale. Nei primi mesi del lutto si vive in una spirale di assurdità. All'apparenza si mantiene il controllo ma dentro di sé ci si crea fantasie al limite dell'assurdo. Fino a che, una notte, sul tetto della casa di Tul Karem dove era morto Eyal, ho avuto un'illuminazione definitiva, filosofica: sono riuscito a liberarmi da tutte quelle assurdità e a dare inizio al progetto del grande oblio.

Vedi, gli amici di Eyal non ci hanno abbandonato. Dopotutto noi non siamo americani o giapponesi che mandano telegrammi di cordoglio e dicono addio e non arrivederci. Abbiamo tradizioni consolidate per quanto riguarda il lutto: non si abbandona la famiglia del soldato, e si mantengono i contatti con i suoi parenti sia su un piano istituzionale che personale. I soldati del battaglione di Eyal venivano a trovarci di tanto in tanto ed erano diventati un po' di famiglia, ci invitavano alle loro ricorrenze, ci raccontavano di sé, ci coinvolgevano nelle loro esperienze. All'inizio venivano in gruppo: ragazzoni impacciati che si stringevano in salotto come per proteggersi a vicenda, per non lasciarsi sfuggire qualche parola incauta. Ma dopo aver imparato a conoscerci si sono resi conto che eravamo persone civili, la tragedia non ci aveva privati della nostra umanità, e allora si permettevano di venire per visite private - in gruppetti di tre, in coppia, persino da soli - mentre i miei sospetti rimbalzavano dall'uno all'altro, avanti e indietro, come una palla, e anche dopo il congedo alcuni di loro hanno continuato a venirci a trovare e il mio tentativo presuntuoso, patetico e insulso di identificare chi aveva sparato a Eyal diventava ogni giorno piú difficile e complicato. Il fuoco di uno solo diventava il fuoco di tutti, collettivo, e da militare si trasformava in civile, generico, fino a che pure chi aveva fatto fuoco quella notte non era ormai piú sicuro di aver sparato per sbaglio sul suo compagno. E a quel punto mi sono detto. Se le cose stanno cosí, bisogna cambiare direzione, e anziché inseguire un'ombra per proporre un perdono a chi non lo cerca e non ne ha bisogno, pretenderò dall'esercito di vedere il luogo dove è avvenuta la disgrazia: arriverò al tetto di quella casa di Tul Karem per capire cosa ha portato mio figlio a sbagliare. Ma questa è un'altra storia. Non adesso. Ora voglio dormire. Cosa mi volevi dire tu?

- Per favore, Yirmy, non dire piú che Nofar voleva solo far finta di buttarsi nella fossa... voleva farlo davvero, ne sono certa. Era disperata al funerale, e non si è ancora ripresa.

- Scusa, Daniela, - si commuove lui, - non volevo... certo che desiderava farlo per davvero... Nofar è una ragazza stupenda... e anche il suo amore per Eyal era una cosa stupenda.

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