Copertina
Autore Anna Zafesova
Titolo E da Mosca è tutto
SottotitoloStoria della Russia che cambia e che non cambia
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2005, Contemporanea , pag. 196, cop.fle., dim. 150x230x17 mm , Isbn 978-88-7750-972-7
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe storia contemporanea , citta': Mosca , politica , paesi: Russia
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Indice

VII       Ringraziamenti

  3  I    Il passato
 19  II   Gli oligarchi
 33  III  La Chiesa
 49  IV   La corruzione
 65  V    La provincia
 81  VI   Xenofobia
 95  VII  La vita quotidiana
111  VIII Il popolo
131  IX   L'economia (domestica)
149  X    La cultura
165  XI   I giovani
185  XII  ... e da Mosca è tutto


 

 

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Pagina 3

Capitolo primo
Il passato



Si atterra su una pista enorme, larghissima, il triplo di una pista normale, e mentre rallenta la sua corsa l'aereo sobbalza sulle giunture delle lastre della pavimentazione. Sembra fatta per qualcosa di infinitamente più grande e meno fragile di un velivolo normale, la passerella di un gigante. Ai bordi della pista c'è la steppa, sterminata, piatta, battuta da un vento gelido e coperta da un cielo di scenografici nuvoloni. Da orizzonte a orizzonte l'occhio non riesce ad appigliarsi a nulla, salvo due ciminiere in lontananza e, a pochi metri, un baracchino dipinto di azzurro sbiadito con la scritta: «La via delle stelle».

Comincia da qui, da Baikonur, un quadrato di ottanta chilometri di lato nella steppa del Kazakhstan, il cosmodromo della conquista dello spazio made in URSS. È una terra deserta, arida, fredda, disabitata, dove il suolo rossiccio fa sbocciare solo ciuffi di erba tempestati da piccolissimi tulipani selvatici color giallo limone. Dal Caspio alla Cina lo sguardo non incontra nessun ostacolo, si perde l'orientamento, non ci sono riferimenti. «In quel paese i treni vanno da Est a Ovest e da Ovest a Est», diceva il refrain del Giorno che durò più di un secolo di Cingiz Ajtmatov, ambientato proprio qui dove il protagonista Edighej, un vecchio pastore di cammelli, osservava i missili che partivano verso lo spazio distruggere il suo mondo primitivo e integro pensando alla mitica tribù di uomini senza memoria

Alla desolazione del deserto si è sovrastampata la devastazione che il regime sovietico ha portato dovunque: per decine di chilometri la steppa è attraversata da linee elettriche che si perdono all'orizzonte e binari arrugginiti. Per chilometri non si incontra anima viva, né uomo, né animale, ma solo una natura selvaggia e avara e manufatti futuristici e fatiscenti: una rampa di lancio arrugginita e abbandonata, un edificio con le finestre rotte, un hangar con il tetto che perde, gusci vuoti di cisterne ammucchiate, chilometri di tubature bucate, distributori di benzina anni Cinquanta che sembrano scenografie abbandonate di un road movie americano.

La corsa dell'umanità verso le stelle è cominciata da qui, ma a guardarsi intorno non si riesce a crederci. Nello scenario da day after di Baikonur, Mad Max si troverebbe a suo agio. Nulla sembra essersi sottratto al degrado delle intemperie e della miseria, tutto è fatiscente, arrugginito, corroso, sbriciolato, gli impianti ancora funzionanti indistinguibili da quelli abbandonati. Anche la pista di lancio, la stessa, storica, dello sputnik, di Gagarin e di altri cinquecento decolli riusciti, ha le intelaiature su cui poggia il missile Sojuz corrose e i pilastri di cemento venati da crepe e viene il sospetto che il getto dei razzi del prossimo missile spazzerà via tutto. Gli accompagnatori impediscono di muovere un passo fuori dal percorso, chiamano piste e missili «oggetti» per vecchia abitudine alla segretezza sovietica e probiscono di fotografare gli immondezzai per «non dare brutta impressione all'estero», senza rendersi conto che Baikonur è tutta un ammasso di grandiosi rottami. E che il suo più grande segreto è come riesce a funzionare.

Il cosmodromo è il luogo del futuro, dove il progresso più ardito mezzo secolo fa scacciò il misticismo dei nomadi della steppa per aprire una nuova frontiera all'umanità. Ma oggi Baikonur è un bacino del passato, i suoi recinti rinchiudono un parco naturale dell'URSS scomparsa. Lungo le strade, rettilinei tracciati da un capo del mondo all'altro, appaiono manifesti sbiaditi che recitano frasi tipo «il comunismo è la nostra meta». Nel resto della Russia sono ormai estinti, qui dove l'ideologia comunista ha prodotto il suo più grande successo, nessuno li ha tolti. Gli aerei che arrivano qui atterrano sulla pista costruita per il Buran, l'astronave che non ha mai volato.

Lo shuttle russo, inventato per contrastare gli americani in una competizione più ideologica che tecnologica, è andato nello spazio una sola volta, con pilota automatico, dopo di che il progetto è stato accantonato per insufficienze tecniche e soprattutto per mancanza di soldi. L'URSS stremata degli anni Ottanta non poteva più permettersi il lusso di combattere per l'egemonia spaziale. La navetta viene mostrata dagli addetti al cosmodromo con orgoglio. È issata in groppa al gigantesco vettore Energhia, una sorellina gemella dello shuttle USA, con la scritta CCCP sull'ala. Ce ne sono quattro: una al parco Gorkij a Mosca, a fare da attrazione nel luna park, altre due parcheggiate in mezze alla steppa sotto la neve a Baikonur. Quell'unica che ha sfiorato lo spazio ha avuto l'onore del garage coperto.

Il tetto dell'hangar perde e nelle pozzanghere sul pavimento, formate da un interminabile gocciolio dall'alto, si riflette la fiera sagoma bianca della navicella parcheggiata da quindici anni e per l'eternità. A dieci kilometri di distanza nel deserto c'è la rampa di lancio del Buran, maestosa e gigantesca come tutto il corredo di questo figlio ciclopico e deforme dell'industria spaziale sovietica. Alta quindici piani, la rampa è corrosa, le pareti screpolate, il cemento del vertiginoso fossato che doveva accogliere il getto dei razzi rigonfio e screziato, ai piedi delle scale traballanti un laghetto di acqua arruginita. Sembra il monumento a una civiltà scomparsa, una piramide moderna, il simbolo della competizione con lo shuttle persa prima di cominciare.

L'immagine della navetta torna ossessiva nei dépliant, nei manifesti, nello scheletro di un altro Buran abbandonato nel deserto, quasi fosse un caro estinto di cui preservare la memoria. Affondata nell'oceano l'ultima stazione orbitante sovietica Mir, oggi a Baikonur ci si limita a mandare nello spazio spedizioni finanziate per lo più con i soldi americani ed europei. Nel 2013 il Kazakhstan indipendente minaccia di riprendersi le sue terre, e molti abitanti stanno già abbandonando il cosmodromo senza aspettare che il vento della steppa ritorni a essere l'unico padrone del luogo da cui l'uomo fece il primo passo verso le stelle.

L'URSS aveva mandato qui i suoi migliori uomini, i più geniali e motivati. Come Viktor, uno dei progettisti del Buran e oggi il guardiano triste delle sue rovine. Si sente ingannato, dice che la sua «madre terra» sovietica l'aveva spedito in questa steppa gelida ad accrescere la sua gloria e poi si è rimangiata le promesse. Odia Gorbaciov che secondo lui è il responsabile della chiusura di un progetto «magnifico e destinato a coronarsi con un successo», e non si capisce se parla del Buran o del Paese che non c'è più. Ma spera ancora che lo shuttle con la scritta CCCP un giorno ritornerà a volare, come i generali che si lamentano sempre che la vittoria sarebbe stata a portata di mano se non fosse stata dichiarata la resa. Quando gli si chiede quanto costava la sua navicella, prima non capisce la domanda, poi si stupisce e infine si irrita: «Non so, non ci ho mai pensato, non era un mio problema. Perché mi fate queste domande? Ora tutti parlano di soldi, ma non c'entrano niente, ci sono cose più importanti».

Dopo il crollo dell'Unione Sovietica il cosmodromo è passato al Kazakhstan e ora la Russia affitta questo lembo di terra per 120 milioni di dollari all'anno. Baikonur è la versione povera di Guantanamo che vive di orgoglio e rancore, abitata da 80 mila figli di un'economia che non conosceva il valore del denaro. È il posto più desolato della Russia che pure ne offre un'ampia scelta.

È una provincia profonda dove l'unico divertimento sono i lanci dei missili e tutti gli abitanti di questo luogo metà paese e metà base militare si radunano sull'unica altura nel raggio di tre mila chilometri per osservare la Sojuz o il cargo Progress che decollano con un rombo assordante. I notabili locali hanno posti riservati in una tribuna: le donne cotonate e ossigenate con trucco pesante e tacchi a spillo, gli uomini in giacche grigie e cappotti di pelle, lo chic secondo i canoni degli anni Ottanta sovietici. Il popolo osserva dallo stesso punto superando una barriera di cemento apparentemente invalicabile ma piena di buchi, accompagnando lo spettacolo del decollo con un picnic sull'erba. Gli uni e gli altri si scambiano notizie, complimenti e pettegolezzi in un'atmosfera da sagra paesana, e abbandonano lo show – che si consuma in pochi secondi spaventosi e travolgenti – commentando che il lancio di due settimane prima era stato più bello.

È una provincia povera e disagiata: nella bacheca di un ufficio ci si imbatte in un foglio che illustra le precauzioni che deve prendere un malato di tubercolosi e la cadenza dei passaggi del treno si misura non in ore ma in giorni. Nella terra del futuro oggi funziona un'industria che si mantiene senza svilupparsi, facendo da rent-a-car di lusso per NASA e agenzie spaziali europee e asiatiche, in bilico tra approssimazione e avanguardia. È una provincia lontana, una colonia sovietica remota nel tempo e nello spazio, un'isola del giorno prima abitata da una tribù che più di ogni altra cosa ha paura di perdere la memoria.

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Capitolo sesto
Xenofobia



Il 26 marzo 2000 il colonello Jurij Budanov, comandante di un battaglione di fanteria di stanza a Tanghi, Cecenia, ha festeggiato la vittoria alle elezioni presidenziali di Vladimir Putin. Fino a notte inoltrata nell'accampamento si era brindato al leader che aveva promesso di «inseguire e ammazzare i ceceni anche nel cesso».

A un certo punto il colonello si è alzato, fulminato da un'idea improvvisa, ha chiamato un paio di suoi uomini ed è montato su un blindato. In pochi minuti i militari avevano raggiunto il villaggio e fatto irruzione in casa Kungaev. I genitori, Vissa e Rosa, erano fuori, a badare ai piccoli c'era la quindicenne Elsa. Sotto i loro sguardi atterriti Budanov ha afferrato Elsa, l'ha caricata su una spalla nonostante la ragazza avesse cercato di divincolarsi con tutte le sue forze, le ha infilato un sacco sulla testa e se l'è portata via.

Il giorno dopo il cadavere di Elsa è stato ritrovato nel bosco, seminudo, con segni di violente percosse. La giovane era stata strangolata. Budanov ha ammesso di averla uccisa: secondo lui, Elsa era una cecchina, una di quelle cecene micidiali che nessuno ha visto, ma che le leggende che circolano tra i soldati russi dipingono come valchirie spietate, demoni senza cuore con facce da angeli. Un informatore avrebbe mostrato al colonello una foto della presunta cecchina e Budanov l'ha riconosciuta in Elsa Kungaeva. L'ha rapita, l'ha portata nella sua roulotte nell'accampamento, l'ha interrogata e l'ha picchiata per farla confessare. Dopo un paio d'ore ha chiamato un soldato e indicandogli il corpo martoriato della ragazza gli ha ordinato di nascondere il cadavere. Secondo la versione del colonello, la ragazza aveva opposto resistenza e lui a un certo punto aveva perso la testa uccidendola in un raptus di rabbia. Ma i testimoni di quella notte terribile affermano che Budanov aveva violentato Elsa e l'aveva uccisa per evitare lo scandalo.

Storia di ordinaria violenza, in una Cecenia dove saccheggi, rapimenti «pulizie» di interi villaggi e bombardamenti a tappeto sono all'ordine del giorno. Ma la rabbia dei Kungaev e il senso di giustizia di alcuni magistrati russi ha impedito che venisse archiviata nel silenzio che circonda le atrocità quotidiane in Cecenia. Il processo Budanov ha spaccato il Paese: ogni mattina il colonello entrava nel tribunale facendosi strada tra una folla di sostenitori con cartelli che inneggiavano a lui come «eroe della Russia», mentre i Kungaev venivano coperti di insulti.

Generali e politici venivano nell'aula a stringergli la mano attraverso le sbarre. Diversi partiti hanno proposto di candidarlo deputato. Per tre anni, tra rinvii, perizie psichiatriche, colpi di scena e pressioni politiche, il colonello ha osservato il processo dalla sua gabbia con sguardo cupo, fermo, rabbioso, ogni tanto scuotendo la testa rotonda infastidito da una replica della difesa.

Si è sempre considerato vittima e non carnefice, un capro espiatorio: faceva il suo dovere, il suo lavoro, il suo sporco mestiere, sinceramente incapace di comprendere il principio secondo il quale anche una potenziale cecchina è ritenuta innocente fino a che non è stato dimostrato il contrario, e in ogni caso non è un buon motivo per stuprarla e strangolarla. Una macchina da guerra, Budanov: in vent'anni di servizio non si era guadagnato nemmeno una casa, non sapeva addirittura di quale Paese fosse cittadino: aveva servito l'Unione Sovietica, sballottato tra guarnigioni diverse, adottato dall'esercito, aveva passato la vita in caserma e non aveva mai pensato di farsi rinnovare i documenti dopo il collasso dell'impero. I suoi soldati lo temevano, ma lo stimavano: aveva debellato il nonnismo nel suo battaglione sostituendolo con una feroce tirannia personale. La notte del delitto aveva picchiato brutalmente e buttato in una fossa che nell'accampamento faceva da prigione per i disobbedienti uno dei suoi ufficiali che aveva osato contraddirlo, e aveva maltrattato un altro che si era opposto al ratto di Elsa. I due hanno testimoniato al processo descrivendo Budanov come soggetto a improvvisi e violenti attacchi di ira, forse conseguenza dei pesanti traumi cranici che aveva riportato nelle guerre che la patria lo aveva mandato a combattere.

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Capitolo ottavo
Il popolo



Nel villaggio Zheleznodorozhnij, regione di Ivanovo, la popolazione si è rifiutata di andare a votare per le elezioni dei deputati alla Duma. E non è stata una protesta silenziosa: uomini e donne, vecchi e meno vecchi si sono radunati nella piazza del paese, un ammasso di casermoni di mattone cresciuti attorno a uno snodo della ferrovia in una delle zone più depresse della Russia centrale.

Con qualche striscione scritto a pennarello e molta rabbia hanno esposto il motivo della loro ribellione: l'amministrazione locale ha aumentato il costo dell'acqua e del riscaldamento, salito oltre le possibilità delle tasche della gente. Un caso come ce ne sono decine nella sterminata provincia russa e che, se non fosse per la stagione elettorale, sarebbe stato probabilmente ignorato. Ma l'originale idea del boicottaggio delle elezioni ha attirato l'attenzione sui poveracci di Ivanovo. Strizzando gli occhi alla luce delle telecamere, le babushke del villaggio hanno vissuto i loro quindici minuti di celebrità spiegando che non andranno a votare perché hanno perso la fiducia nel potere.

Un piccolo incidente che però probabilmente entrerà nei manuali di politologia, emblematico delle elezioni alla russa. Le apparenze di elezioni democratiche, dopo quindici anni di voto libero, ci sono tutte: nella scheda elettorale figurano decine di liste e partiti, la televisione ospita dibattiti e spot, esistono regole per la pubblicità e il finanziamento dei partiti, con la Commissione centrale elettorale che vigila e osservatori internazionali che monitorano il voto. Nella scheda elettorale è prevista perfino una casella che permette di votare «contro tutti» e spesso questo voto nichilista raggiunge risultati che farebbero onore a un intero partito.

Ma la ricchezza della scelta rimane potenziale e dopo essersi visti aumentare la bolletta gli elettori di Ivanovo, invece di votare per un partito dell'opposizione o un leader populista dalla promessa facile, hanno annunciato di voler boicottare le urne.

A dissuaderli ci hanno provato tutti. A Zheleznodorozhnij sono arrivate le troupe televisive da Mosca, gli operai della ferrovia e le madri di famiglia sono stati allineati nella piazza sotto la luce dei riflettori, intirizziti dal freddo, con la neve che scendeva sui colbacchi di coniglio nero e sui foulard di lana. Hanno resistito stoicamente, in piedi sotto la neve, mentre da uno studio di Mosca diversi politici hanno cercato di conquistare le pecorelle smarrite della provincia. Il liberale ha esposto un programma complicato e ineccepibile di riforma del monopolio statale dei servizi che avrebbe reso i consumatori liberi di scegliere da chi approvvigionarsi. Il comunista si è scagliato contro il «regime antipopolare» del Cremlino che succhia il sangue della gente comune rievocando le meraviglie assistenziali sovietiche. Il nazionalista ha spiegato minuziosamente i disastri provocati dalla privatizzazione che ha concentrato la ricchezza nelle mani degli oligarchi e ha promesso che se votavano per lui si sarebbe applicato per una ridistribuzione dei profitti petroliferi a favore di larghi strati di popolazione.

Le facce sono rimaste impassibili. «Avete capito?», si è rivolto a loro il conduttore del talk-show. Il popolo di Ivanovo ha scosso la testa: «No. Vogliamo sapere come fare a pagare le bollette e nessuno di questi ce lo dice».

Qualcuno dei politici presenti ha avuto uno nervoso scatto di esasperazione, mentre il conduttore spiegava pazientemente agli spettatori che il parlamento non emette bollette né aumenta salari. Ma anche quest'ultimo tentativo di ricorrere alla ragione è fallito e sul volto della folla affiorava un'incredulità ormai nemmeno celata e la voragine che si era aperta tra i politici nello studio e il popolo che ambivano a rappresentare diventava un abisso.

«L'abbiamo sempre saputo», ha commentato una donna di mezz'età con in testa uno scialle di colore reso incerto da anni di lavaggi, «sono soltanto dei chiacchieroni». All'epoca sovietica, ha aggiunto una sua compagna più anziana, i deputati servivano almeno a qualcosa, gli si poteva scrivere, lamentarsi, potevano intervenire per far riparare un tetto pericolante, aprire una scuola, riparare un torto, raccogliere una petizione da portare a Mosca. Un retaggio della monarchia sovietica, quando l'interazione del popolo con il potere non era il voto, né la protesta di piazza, né i gruppi di pressione o i partiti, ma la supplica. L'80 per cento della posta del Cremlino è composto da lamentele, richieste di favori, denunce di ingiustizie, preghiere di aumenti di pensione, installazione del telefono, assegnazione di medicine, invocazioni di interventi del deus ex machina onnipotente.

Le elezioni alla Duma sono state vinte con largo margine da Russia Unita, il megapartito putiniano la cui unica politica dichiarata è applaudire le iniziative del Cremlino. Il mese di dibattiti elettorali è stato riservato agli «altri»: Russia Unita si è rifiutata di discutere faccia a faccia con i concorrenti, definendo le tribune politiche «populismo» indegno di chi è già al potere. Con lo slogan «Insieme al presidente» il partito del potere ha occupato i media, tappezzato le mura di tutte le città, diventando onnipresente anche grazie ai suoi iscritti, quasi tutti della nomenclatura.

A Mosca a imporre l'affissione dei manifesti elettorali di Russia Unita nei negozi e nei locali erano i funzionari comunali addetti alla supervisione degli esercizi commerciali (il sindaco Luzhkov è uno dei leader del partito presidenziale). A Pietroburgo un funzionario del dipartimento istruzione ha imposto agli studenti dei licei un tema sulle intenzioni di voto del loro genitori.

E il leader del partito Borys Gryzlov alla vigilia delle elezioni ha interrogato in TV i governatori sul riscaldamento e la luce nelle loro regioni, abusando in pieno di quello che nel gergo politico russo si chiama «risorsa amministrativa».

Il senso della stagione politica probabilmente viene riassunto al meglio dallo spot di Russia Unita, dove una signora corpulenta scelta a rappresentare «il popolo», quasi indignata esclama: «Tutti parlano di elezioni! Scegliere, scegliere, ma cosa c'è da scegliere? Io sto con il presidente!». L'hanno capito le babushke di Ivanovo che interpretano il loro voto, come ai tempi sovietici, come un avvallo – o meno – al potere esistente. Anzi, al potere in quanto tale, visto che in Russia non è mai avvenuta un'alternanza di governo per voto democratico: Mikhail Gorbaciov è stato deposto con il disfacimento dell'URSS e Vladimir Putin si è seduto sul trono di Boris Eltsin dopo che quest'ultimo l'ha nominato suo «erede» e presidente ad interim.

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