Copertina
Autore Cristina Zagaria
Titolo Processo all'università
SottotitoloCronache dagli atenei italiani tra inefficienze e malcostume
EdizioneDedalo, Bari, 2007, Strumenti/Scenari 65 , pag. 330, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-220-5365-7
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe universita'
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Indice

Introduzione                                         7

Capitolo primo - Il male oscuro                     13

Sulla pelle dell'università                         13
Appelli e manifesti                                 16
Una legione di scontenti e
    una schiatta di raccomandati                    22
Accostamento ardito di due lettere:
    Gino Giugni e Paola Romano                      29

Capitolo secondo - Razza barona                     33

La storia di Antonina e delle regole bizantine      33
Asinus asinum fricat                                36
Guerra tra clan                                     43
Le catene parentali                                 52
I professori imbrogliano: c'è la prova matematica   58
La cupola di Firenze                                62
Pizzo, trucchi e «notule»                           65
Capiscuola e sistema di poteri                      76

Capitolo terzo - La tela del ragno                  83

Geni corrotti. Dal male oscuro al «cardio-gate»     83
Mafia contro mafia                                  89
Le buone regole: galateo di un concorso truccato    92
«Abbiamo bocciato il migliore», Pisa                96
La leggerezza dell'apparenza, Bari                  100
Dissidenti e fronde, Firenze                        108
Ritiri forzati, punizioni e crediti futuri          117
Apprensioni paterne                                 122
La «banda» di Gastroenterologia                     125
Cortocircuito nel sistema:
    le cattedre di Otorinolaringoiatria             132
Come anello di fidanzamento ti regalo
    un bel concorso su misura per te                137
Un concorso spericolato (e surrealmente innovativo) 143
Delinquenti pochi, molluschi tanti                  145
Il potere che genera potere e il cambiamento
    impossibile                                     150

Capitolo quarto - Al mercato degli esami            153

Mercato dei titoli                                  153
Duecentomila euro per un «pezzo di carta»           159
Il fante e l'ufficiale                              164
Libri «strettamente» necessari                      171
Lauree a luci rosse e dottorandi al limoncello      174
L'università delle donne                            183

Capitolo quinto - Università e politica             191

Il legame pericoloso                                191
Le libere università fai da te                      195
Le lauree d'esperienza                              203
Appetiti politici e poteri accademici:
    il caso controcorrente di Urbino                205
Decentramento uguale frazionamento:
    le fabbriche di posti                           208
Università polverizzata                             215
Autonomia: la politica delle non scelte
Dal punto di vista dei piccoli                      221

Capitolo sesto - False verità, idee e modelli
                 da sperimentare                    229

Un'università non migliore, diversa                 229
Un pugno di idee per «aggiustare» il sistema        233

Il genocidio dei baroni: impossibile
    La battaglia di Franco Frabboni                 234
Squadra sbagliata si cambia
    Chiacchierata con Alessandro Finazzi Agrò       237
Le riforme non sono rivoluzioni
    Il modello americano di Roberto Perotti         240
Il valore legale della laurea, pericoloso feticcio
    Pier Luigi Sacco e Alberto Pagliarini           245
Liste aperte di idonei, tra localismo e
    concorsi nazionali
    La teoria di Dario Antiseri                     249
La moralità non si può imporre per legge
    Il codice etico di Nicola Colaianni             252

Capitolo settimo - Arringa finale                   261

Il nuovo governo Prodi: programmi e sfide           261
Ad occhi aperti                                     273


Appendice

I.  Lettera di Walter Leszl alla professoressa
    di Harvard                                      279
II. Lettera di Quirino Paris                        285
III.Lettera di Oscar Di Simplicio                   287
IV. Dichiarazioni programmatiche di Fabio Mussi alla
    Commissione Cultura della Camera dei Deputati   289
V.  Intervento di Guido Trombetti,
    eletto nuovo presidente della Crui              307
VI. Il risanamento dell'università Lettera di
    Padoa Schioppa al «Corriere della Sera»         309
VII.Padoa Schioppa e le mie ragioni
    Lettera di Fabio Mussi al «Corriere della Sera» 311


Ringraziamenti                                      313

Bibliografia                                        315

Indice dei nomi                                     321


 

 

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Pagina 7

Introduzione


Professori che si tramandano le cattedre come fossero un'eredità di famiglia, come se l'istituzione fosse una cosa propria. Concorsi truccati, commissioni pilotate, nepotismo, ingiustizie, corse al potere. È questa l'università di «cosa nostra», che genera docenti tanto corrotti, quanto inefficienti, e studenti che un giorno, imparata bene la «lezione», saranno i loro replicanti.

Fino a trent'anni fa, l'università era il luogo in cui cresceva e si formava la classe dirigente, le donne e gli uomini, che avrebbero occupato i posti chiave dell'economia, della politica, della medicina, dell'informazione. Oggi, invece, sempre di più la laurea ha valore solo in quanto «pezzo di carta».

Negli atenei italiani non c'è selezione e quindi manca anche la competizione. In tutt'Europa, l'obiettivo è quello di creare isole di eccellenza, in cui si concentrano i docenti più preparati e glí studenti più promettenti, in modo da dare una spinta alla ricerca. In Italia succede l'esatto contrario: le risorse pubbliche cadono a pioggia, indistintamente, su tutti gli atenei. Così, nel timore di creare disuguaglianze, si scivola nell'omogeneità mediocre.

Alcune università che sono alla disperata ricerca di studenti, oltre a fare pubblicità, utilizzano i risultati della customer satisfaction per catturarli andando incontro ai loro desideri. Se gli studenti rispondono che una materia è difficile la eliminano, se un professore è troppo esigente lo isolano, insomma fanno di tutto perché il corso di studi diventi sempre più facile, in discesa. È il principio di Pinocchio. Sappiamo tutti che Pinocchio, simbolo universale dei ragazzi, non aveva voglia di studiare e, fra andare a scuola e a uno spettacolo di burattini, preferiva il secondo. Così, seguendo la sua personale customer satisfaction, non finisce nel paese della cultura, ma in quello dei balocchi e diventa un somaro.

Questo è uno degli effetti dell'autonomia (senza responsabilità) degli atenei. E di un'università, guarda caso, completamente incapace di attrarre studenti e professori stranieri e spesso polverizzata in sedi decentrate, una miriade di nuovi atenei che oscillano tra superlicei e dottorifici.

Non ci sono i risultati. E la qualità si abbassa, generazione dopo generazione. Così, chi vuole davvero tentare il salto di qualità deve andare all'estero o seguire costosissimi master post laurea. Il titolo di «dottore» serve solo dopo il cognome sull'elenco telefonico o sui biglietti da visita, ma se un neo-dottore vuole lavorare deve ricominciare tutto daccapo, a trentatrentacinque anni. Anche se poi, a dispetto dell'evidenza, chi propone di abolire il valore legale del titolo di studio, per aprire a un regime di «concorrenza», viene considerato quasi come un eretico.

L'abolizione del valore legale del titolo di studio è dunque un argomento tabù: in Italia il pezzo di carta è sentito come una protezione in uno degli ambiti a cui i giovani si rivolgono con maggior facilità per cercare un posto di lavoro, quello dei concorsi pubblici. Nel pubblico, infatti, il valore legale del titolo di studio assicura una certa protezione; nel privato, invece, è tutto diverso.

È Giancarlo Cesana, ordinario di Medicina del lavoro presso l'università degli studi di Milano «Bicocca», che tenta di rompere i tabù in un articolo su «Atlantide» in cui chiede ai suoi colleghi di non nascondersi dietro finte verità:

Per cercare di capire quale possa essere l'importanza di questo tema, dobbiamo riflettere sui concorsi per l'accesso alla docenza universitaria, che oggi, dopo la riforma Moratti, sono indetti su base nazionale, per correggere l'insufficienza dei concorsi locali: chi non è ipocrita sa che l'ingresso nell'università è avvenuto e avviene per cooptazione, anche con i concorsi e nonostante essi.

Insomma, l'università non piace a chi la frequenta e a chi ci lavora, e l'aspetto più drammatico è che nonostante questo senso di frustrazione diffuso, tutti, docenti e studenti, si adeguano.

Tutto sommato non c'è da stupirsi. Perché l'università non è un universo astratto, un mondo a sé. Riproduce solo lo schema di una società altrettanto malata, in cui i pochi cambiamenti che si tenta di introdurre, incontrano ostilità e impedimenti, più o meno mascherati. In fondo, nella vita quotidiana di chiunque, cosa c'è di diverso? Chi vuole lavorare in televisione, in un giornale, in un grande studio legale che chance ha di dribblare il sistema di cooptazione nepotistica? Quasi nessuna.

Nepotismo, cordate, ma c'è anche da parte dell'università un'assoluta mancanza di controllo. Non a caso, forse. Perché l'assenza di controllo è funzionale all'intero sistema.

Tutto comincia con i docenti: scelti spesso per il loro cognome o la loro fedeltà, e non per merito, e che quindi si circonderanno di mediocri per paura del confronto con i propri eredi. Mediocrità e paura, due parole che ritorneranno spesso nelle prossime pagine, parole indissolubilmente legate da una spinta a nascondere più che a capire.

Poi, gli studenti. Demotivati, con una formazione liceale scadente con un livello culturale generico

Sono ammalati gli insegnanti. Si ammalano gli studenti.

C'è nell'università italiana «un perverso effetto di trascinamento verso il basso» dice Aldo Schiavone, «che riguarda il percorso degli studenti come dei professori».

Così, a fronte di un'università incapace di controllare se stessa, sembra che il difficile compito di fare le verifiche sia stato affidato alla magistratura, come spesso accade in altri campi della vita sociale. Quanto più i meccanismi di controllo interni sono inefficienti, tanto più le inchieste giudiziarie sembrano essere l'unico argine in una società di «fazioni» in lotta. E così intercettazioni telefoniche, confessioni, conversazioni rubate con microspie e denunce raccontano in presa diretta il volto malato dell'università. Che tutti vogliono nascondere, negare, minimizzare.

Ecco il perché di questo libro, in cui tento di sollevare il velo sull'università nascosta e le sue leggi sotterranee: l'affiliazione (per diritto di sangue, fedeltà, convivenza, amicizia, ricatto), lo ius loci (l'ereditarietà della cattedra), la cooptazione forzata, la migrazione (in altro ateneo, per svincolarsi dalla tutela del maestro), lo scambio di favori, l'omertà, la difesa a oltranza della casta. Leggi «bizantine» difficili da mettere in discussione, ma che allo stesso tempo spregiudicatamente vengono piegate, modificate, adattate in un'università in cui i singoli casi non sono eccezioni.

Questo lavoro non vuole prendere posizione, né dare soluzioni; che l'università italiana sia gravemente malata, è una diagnosi che tutti condividono e ripetono. Né serve lo scandalo fine a se stesso. Questo libro vuole solo avere il coraggio di capire cosa sta succedendo, senza finti pudori. È una ricostruzione per atti giudiziari. Un immaginario processo all'università, in cui accusa e difesa si alternano. È un tentativo di ricostruire una storia dell'università partendo da tante storie di singoli che, al di là della cronaca, diventano esempi generali. Uno sguardo ad occhi spalancati, senza censure né paure, su un'università in cui esiste un «galateo» delle buone regole per truccare i concorsi, nella quale in una logica tribale si accavallano e si sovrappongono leggi di «territorio», «di sangue», «di fedeltà», e dove comunque vince quasi sempre il potere. Il potere che fa gola. E nelle aule universitarie non si respira più il desiderio di imparare, non c'è più tempo. Tutti sono troppo impegnati nella corsa a far parte di una casta, quella che conta.

È un meccanismo perverso che fa andare avanti solo chi se lo può permettere (i baroni e la loro genia) e fa sopravvivere chi si piega alle regole, corrompendo così anche chi all'università magari ci va per studiare. Nelle aule universitarie, tra i professionisti del domani e i loro educatori, nasce l'idea, la convinzione che chi non ha alleati potenti non sarà mai nessuno.

E da qui, dall'università, bisogna ripartire per spezzare il sistema delle omertà e dei ricatti, e restituire al merito scientifico il valore di criterio guida.

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Pagina 233

Un pugno di idee per «aggiustare» il sistema

Vorrei chiudere questo processo a un'università colpevole, cercando di sfatare cinque false convinzioni: 1) i baroni saranno sconfitti; 2) i concorsi nazionali sono molto più trasparenti di quelli locali o viceversa; 3) le riforme universitarie sono rivoluzioni; 4) l'università è un mondo a sé che gode di licenze speciali; 5) la moralità si può imporre per legge. Miti da demolire, grazie alle proposte di chi nell'università vive. Non si tratta di riforme, né di leggi, ma di idee per «aggiustare» il sistema, pareri raccolti in lunghe chiacchierate a volte di persona, altre via e-mail, con un gruppo di «saggi» e di «baroni», perché no, che sui giornali, nelle aule universitarie, nei forum on-line, in rubriche, da tempo propongono nuovi modelli da sperimentare e si battono per un'università «diversa».


Il genocidio dei baroni: impossibile


La battaglia di Franco Frabboni

Ma i baroni esisteranno sempre? Sì. E questa è la prima verità dietro cui è inutile nascondersi. Non si può promettere lo sterminio dei poteri forti. Il problema è, come al solito, l'intensità del fenomeno. Se il potere diventa strapotere. «Alla stampa e in televisione il ministro Moratti ha dichiarato che questa legge toglie il potere ai cattedratici, introducendo una ventata di democrazia all'interno delle stanze accademiche. Qui sta la bugia».

A dirlo è un gruppo di professori in una lettera a «la Repubblica», docenti che provocatoriamente si firmano «i baroni».

Secondo i firmatari:

L'ispirazione gerarchica della legge attribuisce invece a noi «baroni», dal ministro esecrati, un potere assoluto. Questo perché in un'università «precarizzata» (contro la quale molti cattedratici si sono battuti) diventa impraticabile la pluralità e la pariteticità delle diverse figure di docenza che in esse operano. La vistosa logica verticalistica con cui il Ministero ha ridisegnato la ricerca (consegnata ai privati) e i corsi di laurea (consegnati alla domanda del mercato) allontanerà per sempre l'università italiana dalla comunità scientifica internazionale.

Il primo firmatario della lettera è Franco Frabboni, ordinario di Pedagogia e preside della facoltà di Scienze della formazione a Bologna, che tenta di difendere l'università dagli effetti delle «picconate» della Moratti:

Questa riforma si materializza in un attacco a tutto campo al nostro sistema di formazione superiore, reso «povero» (a partire dall'ingiustificata disseminazione del «numero-chiuso» d'ingresso all'università) della sua ricchezza democratica e culturale (la conoscenza e la formazione sono capitali culturali di cui ogni paese industriale non può fare a meno) e «derubato» della ricerca scientifica (data generosamente in mano a neofiti atenei privati). Dunque, reso «nudo» perché lasciato troppo solo, in questi mesi di dura contrapposizione, ai picconatori del Regime di centrodestra. La «solitudine» di cui soffre l'università (dove sono le forze democratiche e progressiste che hanno fatto tanti girotondi in difesa della scuola pubblica?) la sta indebolendo nella difesa delle sue vesti più nobili: il pari credito formativo e investigativo delle sue aree culturali (umanistiche e tecnologico-scientifiche) e la sua ontologica autonomia: sia quale spazio di pensiero e di libertà intellettuali, sia quale antica identità di laboratorio permanente di costruzione di nuovi paradigmi – anche dirompenti e inattuali – di cultura e di scienza.

Frabboni si sente una campana stonata nell'intero mappamondo accademico e boccia sia sul metodo che sul merito la riforma Moratti. Sul metodo:

Indossando una volta ancora un abito «autoritario» (di cui ha già fatto sfoggio durante la Riforma della scuola: legge 53/2003), il ministro Moratti cambia sia il volto culturale e formativo (la qualità dell'insegnamento), sia il volto intellettuale e scientifico (la qualità e la libertà della ricerca) dell'università italiana. A partire dalla rottura della stretta relazione esistente, da sempre, tra didattica e ricerca, il cui «addio» facilita la precarizzazione, la gerarchizzazione e la ricentralizzazione della vita accademica: spogliata di autonomia la cultura e la scienza sono costrette a inginocchiarsi al potere politico,

Passando dal metodo al merito, Frabboni è convinto che la Moratti «voglia assestare all'università di casa nostra due violenti colpi di piccone allo scopo di smantellarla quanto a libertà di pensiero e di ricerca». Il primo colpo di piccone, la mission dell'università:

La legge non ha nel mirino lo Stato giuridico dei professori universitari. Non apre bocca sui «diritti» dei docenti (è preoccupante il silenzio che ricopre la libertà di insegnamento e di ricerca) e sui loro «doveri» (è grave la liberalizzazione per tutti dell'esercizio delle attività professionali esterne, che provocherà una crescente indisponibilità dei professori ordinari ad assumere cariche di governo istituzionale e di conduzione dei corsi di laurea). L'obiettivo è un altro. Duplice. Da una parte, quello di separare la didattica (l'insegnamento) dalla ricerca (la produzione scientifica). La prima resta nelle università pubbliche, tramutate in superlicei col compito di assicurare un'elevata formazione professionale: tanto da giustificare, nel nome del fabbisogno del mondo del lavoro, logiche meritocratiche e di dura selezione. La ricerca verrà invece finanziata in neofiti atenei privati e Centri di eccellenza (sempre privati) controllati dal potere politico. L'obiettivo del governo del Polo è quello di poter decidere (restando al governo) l'accelerazione o la decelerazione dei singoli settori scientifico-disciplinari. Probabilmente, saranno instradate su binari-morti le aree umanistiche e buona parte di quelle scientifiche, mentre sarà offerta l'alta velocità agli ambiti tecnologico-informatici. Indossando una volta ancora una veste aziendalistica, il ministro del Miur mira a demolire l'attuale architettura degli studi postsecondari, ridisegnandola su nuova ingegneria piramidale e centralistica.

Il secondo colpo di piccone, la precarizzazione:

Con l'esaurimento, l'attuale ruolo dei ricercatori si pone contro i giovani che per l'eccellenza dei loro esiti di laurea e di dottorato dispongono del pass per intraprendere la carriera accademica. Abolendo la terza fascia universitaria (per l'appunto quella dei ricercatori), i giovani talenti vengono costretti a entrare nel tunnel della precarizzazione dei contratti di collaborazione a tempo determinato. Una stabile collocazione nel mondo accademico potrà scoccare – se tutto filerà liscio – poco prima del loro mezzo secolo di vita. Questo significa che la fuga dei cervelli si farà endemica. Assumendo una metafora calcistica, il nostro paese, probabilmente, disporrà di un ricco «vivaio» di talenti che esporterà (con quali contropartite?) all'estero. La precarizzazione è figlia di primo letto di una visione aziendalistica della scienza e della cultura, governata da pochi (il potere tutto in mano ai cattedratici: ai baroni) e gestita secondo la spietata legge della competitività-concorrenzialità codificata dalla new economy. Il tutto, senza rendersi conto che una macchina formativa e investigativa verticalistico/piramidale, resa inferma da una diffusa instabilità della maggioranza di coloro che produrranno ricerca e nuove professionalità, non potrà che andare a due cilindri: arrancando nelle retrovie della scienza e rischiando una diffusa corruzione concorsuale. Dunque, un'università pubblica sempre più costretta a lasciare il passo ai neofiti Centri privati di ricerca (infioccati con il titolo di eccellenza dal ministro: e perché?). Il tutto oscurato da Finanziarie che disinvestono cinicamente sulla formazione, sulla cultura e sulla ricerca scientifica: di base e applicata.

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