Copertina
Autore Matteo Zambelli
Titolo Tecniche di invenzione in architettura
SottotitoloGli anni del decostruttivismo
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007, Saggi , pag. 302, ill., cop.ril., dim. 15,5x21,4x1,8 cm , Isbn 978-88-317-9301-8
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe architettura
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Indice

  9 Premessa

 11 1. Tecniche di invenzione in architettura

 11 Una delimitazione di campo: il decostruzionismo e
    il decostruttivismo
 13 Questioni teoriche
 21 La creatività
 28 Gli architetti e le tecniche di invenzione
 32 Rodari e Munari
 38 Metatecniche: un confronto fra Munari, Rodari e Purini

 43 2. Metafora

 45 Breve storia della metafora nel XX secolo
 47 Un'interpretazione critica: l'opera d'arte
    come paradigma dell'architettura
 48 Frank Gehry, Museo Guggenheim
 50 Frank Gehry, Uffici Nazionali Olandesi
 54 Daniel Libeskind, Museo Ebraico
 60 Steven Holl, Cappella di Sant'Ignazio
 64 Zaha Hadid, Cardiff Opera House
 66 Morphosis, Sun Tower

 69 3. Straniamento

 71 Una classificazione
 74 Frank Gehry, lo straniamento e il rapporto con l'arte
 76 Frank Gehry, Casa Gehry
 82 Frank Gehry, Camp Good Times
 82 Frank Gehry, Chiat/Day Main Street Headquartes
 84 Bernard Tschumi e lo straniamento del rapporto
    forma-funzione
 86 Bernard Tschumi, Bridge-City
 88 Bernard Tschumi, Bibliothèque Nationale de France
 90 Rafael Moneo, Auditorium e Centro Congressi Kursaal
 92 MVRDV, Cento residenze per anziani WOZOCO'S
 92 Agnosia visiva

 97 4. Between

102 Il between con preesistenze
102 Peter Eisenman, Wexner Center
104 Peter Eisenman, Aronoff Center
110 Bernard Tschumi, Centro Nazionale d'Arte Contemporanea
116 Il between senza preesistenze
116 Peter Eisenman, Chiesa per Roma 2000
118 Bemard Tschumi, Ecole d'Architecture
122 Bemard Tschumi, Lerner Student Center

127 5. Diagramma

128 UN Studio e la tecnica diagrammatica
131 Ben Van Berkel & Caroline Bos, Casa Möbius
132 Ben Van Berkel & Caroline Bos, Villa Wilbrink
134 Steven Holl e la tecnica diagrammatica
137 Steven Holl, Museo d'Arte Contemporanea Kiasma
140 Steven Holl, Bellevue Art Museum
142 Steven Holl, Addizione al Cranbrook Institute of Science
142 Toyo Ito, Mediateca
144 OMA-Rem Koolhaas, Biblioteca di Francia
144 OMA-Rem Koolhaas, Biblioteca Jussieu

149 6. Scomposizione o logica dell'elenco

150 Scomposizione letterale
152 Frank Gehry, Winton Residence
154 Frank Gehry, Casa Gehry
158 Scomposizione concettuale
158 OMA-Rem Koolhaas, Villa dall'Ava
172 OMA-Rem Koolhaas, Kunsthal
178 OMA-Rem Koolhaas, Two Patio Villas
178 OMA-Rem Koolhaas, Sea Terminal

183 7. Tecnica additiva: sovrapposizione

183 Aspetti teorici della tecnica additiva
    per sovrapposizione e accostamento
186 Tecnica additiva per sovrapposizione
187 Un po' di storia
188 Bernard Tschumi, Parc de La Villette
197 Peter Eisenman, Parc de La Villette
200 Peter Eisenman, Concorso per l'area di San Giobbe
204 Peter Eisenman, Residenze IBA
205 Peter Eisenman, Wexner Center
205 OMA-Rem Koolhaas, ZKM Center
208 MVRDV, Padiglione Olandese per l'Esposizione Universale
212 Zaha Hadid, The Peak
214 OMA-Rem Koolhaas, Casa a Bordeaux
214 Zaha Hadid, Villa a L'Aia

219 8. Tecnica additiva: accostamento

220 OMA-Rem Koolhaas, Parc de La Villette
228 Bernard Tschumi, New National Theather and Opera House
232 Bernard Tschumi, Aeroporto di Kansai
234 Bernard Tschumi, ZKM Center
236 Bernard Tschumi, Abitazione unifamiliare a l'Aia
238 OMA-Rem Koolhaas, Congrexpo
238 Jean Nouvel, Centro Congressi
240 Toyo Ito, Biblioteca Jussieu
244 Kazuyo Sejima, Multi Media Studio

247 9. Contrasto

250 Una classificazione
252 Elementi lineari vs elementi non-lineari
252 Steven Holl, Palazzo del Cinema
252 Steven Holl, Stretto House
254 Zaha Hadid, Cardiff Opera House
256 Scatole-piedistalli vs oggetti a reazione poetica
256 Rafael Moneo, Auditorium e Centro Congressi Kursaal
256 Steven Holl, Ampliamento del Museo d'Arte Nelson Atkins
260 Contrapposizioni, incontro-scontro
260 Zaha Hadid, Case IBA
260 Coop Himmelb(l)au, UFA Cinema Center
266 Frank Gehry, Sede centrale del Vitra
266 Frank Gehry, Museo Frederick Weisman
268 Scatole complesse
268 Zaha Hadid, Villa a L'Aia
268 OMA-Rem Koolhaas, Biblioteca di Francia
270 OMA-Rem Koolhaas, Biblioteca Jusseu

275 Note al testo
289 Bibliografia

 

 

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1.
TECNICHE DI INVENZIONE IN ARCHITETTURA



UNA DELIMITAZIONE DI CAMPO:
IL DECOSTRUZIONISMO E IL DECOSTRUTTIVISMO


Innanzitutto, decostruzionismo o decostruttivismo?

Per decostruzionismo in genere si intende la «traduzione» architettonica delle teorie filosofiche di Jacques Derrida, mentre il decostruttivismo nasce da una corrente del movimento moderno, il costruttivismo, di cui sarebbe una de-viazione, una de-formazione, da cui il «de» di de-costruttivismo.

Il decostruzionismo ha avuto come momento celebrativo l' International Symposium on Deconstruction alla Tate Gallery di Londra, in collaborazione con l'Accademy Group, dal marzo al maggio del 1988. Il decostruttivismo ha avuto il suo battesimo ufficiale il 23 giugno 1988 al MOMA di New York con la mostra Deconstructivist Architecture curata da Mark Wigley e Philip Johnson.

Nel simposio di Londra si parlava della decostruzione in rapporto non solo all'architettura, ma anche alle arti visive e alla letteratura. Nella mostra di New York si poneva il problema dell'architettura decostruttivista come tutto interno alla disciplina senza riconoscere nessun debito con la filosofia derridiana

A Londra il numero degli architetti di cui si è parlato è stato molto ampio, mentre a New York solo di sette: Frank Gehry, Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Coop Himmelb(l)au, Daniel Libeskind, Bernard Tschumi. Gli esclusi da questo evento, secondo James Wines, sono stati molti e fra questi, oltre agli stessi SITE, Nigel Coates, Michele De Lucchi, Ugo La Pietra, Gianni Pettena, Tatsuhiko Kuramoto, Morphosis, Eric Owen Moss, Gaetano Pesce e Stanley Saitowitz.


Alcuni distinguono fra decostruzione e decostruttivismo, altri li considerano sinonimi.

Certo è che se è difficile pensare ad una traduzione architettonica della decostruzione filosofica è altrettanto poco credibile che il decostruttivismo si rifaccia semplicemente alle esperienze non realizzate del costruttivismo russo. Come il decostruzionismo architettonico aveva già degli architetti decostruttori, che stavano decomponendo la tradizione senza conoscere nulla di Jacques Derrida, così è altrettanto vero che il decostruttivismo è depositario di tutta una tradizione che parte dal Dadaismo fino ad arrivare al situazionismo, passando attraverso Duchamp, Hans Arp, Tristan Tzara, Kurt Schwitters fino ad arrivare a Guy Debord; quindi il suo debito è molto più ampio di quanto i curatori della mostra di New York abbiano voluto far credere.

Le due interpretazioni sono delle astrazioni, attraverso cui da una parte si cerca una dignitosa veste filosofica e dall'altra un solido riferimento all'architettura del passato prossimo.


Decostruzione e decostruttivismo saranno qui considerati sinonimi, perché è evidente che la decostruzione e il decostruttivismo presentano una forte convergenza verso le stesse tematiche di ricerca, e, poi, perché vero è che tutti, decostruzionisti e decostruttivisti, partecipano dello stesso spirito del tempo.

In Deconstruction. A Student Guide Jorge Glusberg distingue fra decostruzionisti consapevoli e decostruzionisti non derridiani o riluttanti, ma, infine, riconosciuta la comunanza di temi e di problematiche, assimila le due diverse declinazioni.

Claudio Roseti ne La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e forma dell'architettura afferma che la sostanziale differenza fra la decostruzione e il decostruttivismo «consiste nella superiore entità dello spessore ideologico e concettuale attribuibile all'architettura decostruzionista che si origina da un progetto di pensiero dell'architettura», e che, senza un adesione cosciente e coerente alla decostruzione filosofica, si dà al decostruttivismo

l'imputazione corrente di mero stilismo e anzi di moda, indotta dal plusvalore generalmente ascritto all'immagine attraverso l'uso di cifre stilistiche connotate da rischiose invenzioni plastiche che ostentano la loro deflagrante trasgressività e aggressività.

In sintesi, per Roseti «non si dà decostruttivismo senza decostruzione».

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QUESTIONI TEORICHE



Jacques Derrida attacca le verità fondamentali:

il sospetto nei confronti dei valori superiori, dei grandi enunciati della morale, della metafisica, della religione, che Marx svelava come ideologie, cioè falsificazioni non consapevoli dirette alla difesa dei grandi interessi di individui e gruppi, Derrida lo radicalizza sulla traccia di Nietzsche; anche lui, come Nietzsche, non pensa che si possa davvero svelare la verità ultima degli errori dell'ideologia, giacché ogni esperienza è già sempre «seconda» rispetto ad un'origine che non è mai data in presenza [...] Derrida liquida il mito della presenza. Ogni esperienza che facciamo è sempre mediata dalla parola, dalla lingua, da un insieme di schemi che ereditiamo, e che «traducono» l'impressione immediata in rappresentazioni e concetti. [...] La nostra esperienza del mondo è dunque sempre mediata da codici, grammatiche, sistemi di aspettative che allontanano da noi la presenza immediata della cosa.

Anche l'architettura decostruzionista mette in crisi il portato e le presunte «verità» della tradizione architettonica. Il decostruzionismo afferma che non c'è «la via migliore», non c'è l'«International Style», non ci sono radici univoche dalle quali è sortita l'architettura, c'è invece una pluralità di interpretazioni che nascono dall'abilità del decostruttore nell'interrogare tutto, dal programma, alla struttura, alla forma...

La decostruzione nega anche l'idea che ci siano degli «dei dell'architettura»; le figure deificate di questo o qualsiasi altro secolo vengono ridimensionate.

i decostruzionisti non possono più idolatrare Le Corbusier, Mies van der Rohe, Wright o anche i suprematisti come Malevich o i costruttivisti come Tatlin, i fratelli Vesnin ecc. Come Derrida con i suoi scrittori-vittima, gli architetti decostruttivisti sceglieranno altri eroi e li tratteranno con totale mancanza di rispetto; li decostruiranno rispetto ai loro stessi termini di riferimento.

È solo in Psiché, nel saggio Point de Folie - Maintenant l'architecture, che Derrida affronta il tema dell'architettura e dei suoi principi storici fondamentali esaminati nella qualità di principi metafisici. Analizza cioè l'«architettura dell'architettura», ossia tutti quei valori che attraversando la storia dell'architettura hanno composto una sorta di assiomatica.

Derrida individua quattro invarianti tutte finalizzate al senso e alla significazione dell'architettura,

questi valori determinano anche simbolicamente la struttura, la sintesi, la forma e la funzione dell'architettura; sono inoltre basati su fondamenti archetipici e indirizzati teleologicamente in ordine a fattori non specificamente architetturali.

Un'invariante è costituita dall' oikos, ossia dal focolare: l'architettura serve per ospitare, per proteggere, per dare rifugio. Un'altra invariante è la gerarchia e la centralità dell'organizzazione architettonica legata a un'origine e un termine ben definiti, a dei fondamenti non solo fisici e costruttivi, ma anche giuridico-politici, religiosi e simbolici. La terza invariante è la teleologia dell'abitare con tutte le finalità etiche, politiche, religiose, utilitarie, funzionali. La quarta invariante è il valore totalizzante dell'armonia e della bellezza, seppure variabili in funzione dello stile e della cultura contingente. Tutte queste quattro invarianti formano, come dice Claudio Roseti,

un sistema totalizzante, continuo e permanente, un reticolo di valori che governa non solo la teoria e la critica dell'architettura ma anche, al di là di questa, dell'intera cultura occidentale.

La decostruzione interroga tutto questo patrimonio per sovvertire la tradizione architettonica, senza però distruggerla, cercando di svelarne l'ignoto, sfruttandone le debolezze al fine di turbarla. La decostruzione architettonica ha una sensibilità diversa rispetto ai valori di ordine e di purezza, di unità geometrica e formale, di armonia compositiva, di ordine strutturale, da sempre coltivati nella storia dell'architettura; destabilizza le tradizionali opposizioni come: forma/decorazione, astrazione/figurazione, origine/termine, forma/contenuto, forma/funzione, interno/esterno, figura/sfondo; revoca in dubbio i concetti di contesto, antropocentrismo e visiocentrismo.


Dell'ordine e della purezza. Il decostruzionismo destabilizza la purezza della forma e dell'ordine. La maggior parte degli architetti ha sempre sognato la forma pura, di produrre oggetti dove l'instabilità e il disordine fossero esclusi. Gli edifici sono sempre stati costruiti usando prevalentemente forme geometriche semplici – cubi, cilindri, sfere, coni, piramidi, ossia le cosiddette forme primarie – combinate fra di loro, seguendo delle regole compositive per prevenire ogni possibile conflitto: non era possibile che una forma ne distorcesse un'altra. Tutti i possibili conflitti venivano risolti. All'idea di ordine corrispondeva una visione del mondo meccanicamente organizzata e armoniosa. Nell'idea di purezza era connaturata l'idea della stabilità strutturale. L'architettura veniva intesa come una disciplina che produceva forme pure e le proteggeva dalla contaminazione. Nel decostruzionismo si afferma una sensibilità diversa:

L'architetto decostruttivista mette in questione le forme pure della tradizione architettonica e identifica i sintomi di una impurità repressa. L'impurità viene tratta alla superficie con una combinazione di gentile coazione e violenta tortura: la forma viene interrogata.

Ora le forme pure vengono usate per creare composizioni geometriche «impure», distorte, contorte, determinando una geometria inquieta, instabile. Non ci sono più assi o gerarchie di forme, ma fitti grovigli di assi e forme sovrapposte e in competizione fra loro. A una visione del mondo meccanicistica, a cui corrispondeva un universo determinato, lineare e prevedibile, succede una visione per la quale il mondo è simile ad un organismo o ad un uragano che si autogenera, passando da un livello di complessità all'altro in modo imprevedibile. «L'universo è qualcosa di più fortemente creativo, dinamico e vitale di quanto i modernisti, con le loro teorie della materia morta, abbiano mai creduto possibile».


Della forma e della decorazione. Il decostruzionismo si propone di raggiungere una geometria irregolare non solo attraverso il conflitto di forme pure. L'irregolarità è interna alle forme stesse:

le forme stesse sono infiltrate con le caratteristiche della geometria sghemba e distorta. In questo modo la tradizionale condizione dell'oggetto architettonico è radicalmente disturbata. Questo disturbo non dipende da una violenza esterna. [...] L'architettura decostruttivista disturba le figure dall'interno. [...] È come se un germe avesse infettato e distorto la forma dall'interno.

È come se la sua distorsione fosse sempre stata latente nella forma, ma solo l'intervento dell'architetto fosse riuscito a farla emergere. L'aspetto paradossale è che la distorsione della struttura interna della forma non distrugge la forma.

La forma in qualche modo rimane intatta. Questa è un'architettura della disgregazione, della dislocazione, della deformazione, della deviazione e della distorsione piuttosto che della demolizione, dello smantellamento, del decadimento, della decomposizione e della disintegrazione.

Se la forma sopravvive a tutte queste operazioni, perché è lei stessa che le provoca, allora non è più chiaro che cosa arriva prima, se la forma o la deformazione. Ad uno sguardo attento risulta difficile capire qual è il discrimine che divide la forma dalla sua distorsione ornamentale, dove finisce la forma perfetta e dove inizia la sua imperfezione: forma e decorazione sono inestricabilmente intrecciate.


Dell'ordine strutturale. Il decostruzionismo declina in modo diverso l'ordine strutturale, scoprendo aspetti diversi della tradizione costruttiva. L'archetipo strutturale del sistema trilitico viene revocato in dubbio, la maglia strutturale, fatta di elementi verticali e orizzontali, viene distorta, contorta, inclinata per essere più coerente rispetto alle dinamiche delle forze resistenti determinate dalla configurazione dei volumi «impuri» e per rispondere in modo più appropriato ai nuovi materiali. «La struttura viene scrollata, ma non collassa». Viene semplicemente spinta fino ai suoi limiti di resistenza, attraverso equilibri «statici» che producono un senso di insicurezza non solo per la loro debolezza, ma anche per il modo non familiare in cui sono organizzati, spiazzando le normali attese delle tradizionali soluzioni strutturali.


Del contesto. Il decostruzionismo mette in crisi il contestualismo mimetico e pittoresco di tanta architettura postmoderna. Il rapporto con il contesto, afferma Wigley, «è stato usato come una scusante per la mediocrità, per un ottuso servilismo verso gli aspetti familiari». I progetti decostruzionisti, invece, cercano elementi repressi o trascurati all'interno di ciò che si presenta come familiare. I progetti decostruzionisti «non ignorano il contesto, non sono anticontestuali», semplicemente defamiliarizzano gli elementi del quotidiano estraniandoli.

Mentre il movimento moderno si rapportava al contesto in modo astratto ed elitario, basandosi sulla scoperta dissonanza e sulla tabula rasa, la decostruzione assume un atteggiamento spiazzante attuato con la dislocazione e con la distorsione. Un tipo di distorsione, per esempio, è quella tipologica, per cui le torri non sono più erette, ma vengono rovesciate su di un lato (come nel progetto The Peak di Zaha Hadid), mentre i ponti si sollevano per diventare torri ed elementi sotterranei erompono dal sottosuolo alla superficie.

Ogni progetto assume i connotati di una presenza straordinaria, aliena dal contesto da cui deriva, sconosciuta, ma allo stesso tempo familiare, «una sorta di mostro dormiente che all'improvviso, nel bel mezzo di una giornata qualsiasi, si risveglia».


Del concetto di protezione. Il senso di protezione (l' oikos a cui fa riferimento Derrida) di una stanza o di un edificio viene distrutto. E l'effetto non viene raggiunto semplicemente rimuovendo muri, aprendo lo spazio e liberandolo dalle sue partizioni. Si crea piuttosto una condizione di stress, di disagio, di tensione, rompendo, inclinando, ruotando i muri in modo ambiguo. Non ci sono più semplicemente finestre, ma tagli, squarci e piegature, che sconvolgono anche il tradizionale senso del piano di appoggio orizzontale, delle pareti verticali, delle coperture e delle aperture.


Dell'opposizione interno/esterno. I progetti decostruzionisti rimettono in questione l'opposizione interno/esterno perché la forma non divide più semplicemente l'interno dall'esterno. Ci sono progetti in cui l'esterno entra all'interno dell'edificio, non solo attraverso la trasparenza e l'alleggerimento delle pareti, ma attraverso altri meccanismi e strategie. Frank Owen Gehry nella propria abitazione fa continuare l'asfalto della strada dentro la casa per significare la continuità fra interno ed esterno. Nelle villa a Bordeaux Rem Koolhaas costruisce il piano intermedio in modo che le pareti possano sparire del tutto e la stanza diventi uno spazio coperto all'aperto in continuità con la collina. Sempre Koolhaas, nel progetto per la Biblioteca Universitaria Jusseu di Parigi, riprende l'idea del boulevard e la ripropone, attorcigliata, all'interno dell'edificio in continuità con i percorsi all'aperto. Una tendenza che inizia con l'architettura decostruzionista è anche la riproposizione della variegata morfologia della superficie della crosta terrestre nel piano di calpestio degli edifici, sancendo così l'unione di artificiale e naturale.


Dell'opposizione forma/funzione. Il funzionalismo affermava: «La forma segue la funzione», oggi il decostruzionismo sostiene: «La funzione segue le deformazione», ossia il programma funzionale viene posposto all'organizzazione formale, viene dopo ogni soluzione volumetrico-formale: le funzioni si ricavano dentro le forme. Corollario dello slogan funzionalista era la convinzione che le forme migliori per assolvere le funzioni dovessero essere semplici e pure; il decostruzionismo ritiene invece che la complessità funzionale non possa che avere una risposta complessa, capace di rispondere alle diverse condizioni locali.


Dell'opposizione forma/significato. Derrida osserva come l'architettura è sempre stata caratterizzata dalla coincidenza di significante e significato, che ha trasformato la tradizionale opposizione in una gerarchizzazione, dove la forma viene sempre subordinata al significato. In realtà Bernard Tschumi (nelle Folies del parco de la Villette) e Peter Eisenman (nelle prime Carboard Houses) affermano che il significato non è immanente alla forma e alla struttura, ma è prodotto socialmente e autonomamente (entro certi limiti).

Per Derrida non c'è una netta intelligibilità della parola, un unico significato condiviso. I significati dell'architettura sono molteplici e dipendono dagli interpreti, i quali possono attribuirle altri significati, che neppure l'autore stesso aveva immaginato, tali da ampliare il senso dell'opera: il decostruzionismo postula la molteplicità interpretativa. Accettata questa condizione, si comprende perché le architetture possano combinare linguaggi diversi, perché una stessa architettura accolga, insieme, due progettisti diversi, che operano nello stesso progetto ognuno pressoché indipendentemente dall'altro. Si comprende così il senso della molteplicità di forme e l'aspetto non finito di molte architetture; il valore dell'ibrido, ossia l'essere insieme l'uno e l'altro e contemporaneamente qualcosa di diverso, combinato con il piacere per le contaminazioni e per le ambiguità; l'amore per le condizioni confuse, lanuginose: il decostruzionismo predilige l'essere «tra», piuttosto che una posizione univoca.

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L'architetto è quindi costretto a usare le tecniche di invenzione come euristiche, ossia strumenti incerti, «deboli», per riuscire a sondare lo spazio del problema mal definito che si presenta nella progettazione. L'architetto non solo sonda lo spazio del problema, ma attraverso le tecniche di invenzione lo circoscrive, lo riduce; le euristiche sono fondamentali per minimizzare lo spettro delle scelte possibili in modo tale da evitare la paralisi per le troppe possibilità e consentire di dare avvio al processo progettuale con alcune linea guida.

Dotarsi di euristiche significa discriminare, preventivamente, fra gli infiniti possibili che se non venissero ridotti porterebbero alla stagnazione del processo progettuale.

L'euristica deve possedere, almeno in architettura, delle caratteristiche apparentemente contraddittorie: deve essere orientata ma sufficientemente vaga e imprecisa. All'inizio opera selettivamente, per delimitare il campo del problema, poi possiede un effetto moltiplicatore all'interno, però, del dominio (spazio del problema) ormai circoscritto. La sua azione sembra incoerente, nel senso che da principio riduce, riuscendo a organizzare o facendo emergere dal magmatico magazzino della memoria del progettista alcuni materiali appena predisposti, dopo di che diventa un catalizzatore/moltiplicatore capace di suscitare questioni nuove (ovviamente all'interno del percorso vagamente predisposto e strutturato nella prima fase), di attirare nuove relazioni strutturate fra pezzi di conoscenze che giacciono ancora immerse nella memoria del progettista e di tutte le persone che direttamente o indirettamente partecipano alla progettazione, e, quindi, di guidare il progetto alla sua conclusione.

L'euristica, in architettura, potrebbe corrispondere al «generatore primario». Secondo quanto riporta Emanuele Arielli, Jane Darke, intervistando diversi architetti, ha constatato che tutti tendono a scegliere un'idea semplice e generale già nelle fasi iniziali della progettazione, vincolando le scelte successive a questa prima decisione.

Essi partono da uno spunto, un'immagine o un principio che permette loro di generare un ventaglio molto ristretto di soluzioni possibili che poi vengono messe al vaglio.
In altri termini non è vero che il designer inizia facendosi una panoramica di tutti i fattori e vincoli, cercando di affrontarli in modo comprensivo. Spesso si fa ricorso a uno schema soggettivo, autoimposto [...]: queste decisioni non sono il prodotto dell'analisi del problema, bensì precedono l'analisi stessa. Darke ha chiamato «generatore primario» questa tendenza a usare un principio organizzatore o un'idea dominante di partenza, come un dettaglio che viene sviluppato in uno stile, oppure un concetto astratto o un'immagine.

L'elezione della/e tecnica/che di invenzione, ossia di una euristica, da usare nel processo progettuale è del tutto autoimposta e autosufficiente, risponde solo a se stessa. La scelta è un atto sempre pressoché arbitrario, difficile da spiegare, se non a posteriori, quando è l'architettura stessa (o qualsiasi altra opera creata) che aiuta a capire e chiarire le ragioni che l'hanno generata.

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RODARI E MUNARI (RIFERIMENTI EXTRADISCIPLINARI)


La Grammatica della fantasia di Gianni Rodari e Fantasia di Bruno Munari sono due libri scritti con la convinzione che la creatività, la fantasia e l'immaginazione possano essere stimolate con tecniche riconoscibili e trasmissibili. Come afferma Munari, «l'analisi di casi elementari e di quelli complessi dell'attività fantastica dovrebbe servire a capirne il meccanismo, lo strumento e il modo di fare».


Gianni Rodari nel 1973 scrive Grammatica della fantasia. L'arte di inventare storie. Il libro è frutto di una rielaborazione di alcuni appunti scritti per un ciclo di conferenze, dal titolo Incontri con la fantasia, tenute dall'autore a Reggio Emilia. Grammatica della fantasia parla di alcune tecniche-stratagemmi per inventare favole e di come queste tecniche-stratagemmi possano aiutare i bambini a inventarsi storie da soli. Questi tecniche-stratagemmi sono «trucchi, per mettere in moto parole e immagini», che Rodari aveva scoperto scrivendo fiabe. Gli stessi trucchi, suggerisce l'autore, possono essere produttivamente utilizzati da altre discipline.

Rodari descrive diverse tecniche, e di seguito ne verranno prese in esame solo alcune cercando di riferirle a esempi tratti dall'arte e dall'architettura.

La prima tecnica è il binomio fantastico. Una storia, afferma Rodari, può nascere solo da un binomio fantastico. Il tema fantastico nasce da una parola che si associa a un'altra parola, che però è il suo antipolo:

occorre una certa distanza tra le due parole, occorre che l'una sia sufficientemente estranea all'altra, e il loro accostamento discretamente insolito, perché l'immaginazione sia costretta a mettersi in moto per istituire una loro parentela, per costruire un insieme (fantastico) in cui due elementi estranei possano convivere.

Dal punto di vista architettonico si potrebbe pensare ad un progetto che si fondi sull'opposizione di elementi, di materiali, di colori, di funzioni...

Il binomio fantastico usa un altro trucco: lo spaesamento e lo straniamento. Le parole non vengono usate nel loro significato quotidiano, ma sono gettate in un contesto non quotidiano. In pittura questa è una strategia impiegatissima, fra gli altri, da Marcel Duchamp, da Giorgio De Chirico, da René Magritte, ma anche in architettura tanti architetti la usano.

Un'altra tecnica è il che cosa succederebbe se...

Per formulare la domanda si scelgono a caso un soggetto e un predicato. La loro unione fornirà l'ipotesi su cui lavorare. Sia il soggetto «Reggio Emilia» e il predicato «volare»: che cosa succederebbe se la città di Reggio Emilia si mettesse a volare? Sia il soggetto «Milano» e il predicato «mare»: che cosa succederebbe se improvvisamente Milano si trovasse circondata dal mare?

Questa tecnica fu impiegata con successo nel racconto di Kafka Metamorfosi.

Che cosa succederebbe se un ponte diventasse un edificio per appartamenti (Le Corbusier ad Algeri); che cosa succederebbe se una pista di atletica fosse messa a coronamento di un edifico (progetto di Bernard Tschumi per la Biblioteca di Francia); che cosa succederebbe se una pista automobilistica fosse messa sopra un edificio (Mattè Trucco al Lingotto di Torino); che cosa succederebbe se un binocolo rovesciato diventasse l'ingresso di un edificio (Gehry per il Chat Building)...

L'errore creativo. Rodari racconta che la scarpina di Cenerentola avrebbe dovuto essere di vaire (che in francese è una sorta di pelliccia) e solo per un fortunato refuso diventò di verre (vetro in italiano). Come l'errore ortografico, se ben considerato, può dare origine a storie interessanti, così in architettura può succedere che il modellino di un progetto caduto e andato in frantumi, o solo inclinato in maniera inconsueta, suggerisca nuove idee e spunti più originali: un rendering sbagliato può fornire delle soluzioni inattese, una sovrapposizione casuale di piante potrebbe originare un layout migliore...

L' insalata di fiabe funziona mescolando e ibridando favole note:

se Pinocchio capita nella casetta dei Sette Nani, sarà l'ottavo tra i pupilli di Biancaneve, introdurrà la sua energia vitale nella vecchia storia, costringendola a ricomporsi secondo la risultante delle due regole, quella di Pinocchio e quella di Biancaneve.

Allora in architettura si può provare a ibridare Le Corbusier con Ludwig Mies van der Rohe. Utilizzare pilastri di Aldo Rossi in un'architettura dei Coop Himmelb(l)au.

Le fiabe a ricalco. Un gioco più complesso è quello della trama a ricalco con cui si ottiene da una vecchia fiaba una fiaba nuova, in varie gradazioni di riconoscibilità, o con un totale trasferimento su un terreno straniero.

La prima operazione consiste nel ridurre la fiaba a pura trama, la seconda nel ridurre ulteriormente la trama a una pura espressione astratta. A vive in casa di B, stando con B in un rapporto diverso da C e D che pure convivono. Mentre B, C e D...

Dando a questa relazione astratta una nuova interpretazione, si può ottenere una nuova fiaba. Le due operazioni consentono un certo grado di distacco, che garantisce la possibilità di introdurre elementi nuovi e varianti nella storia.

Il momento essenziale del «ricalco» è l'analisi della fiaba data. Operazione che è insieme analitica e sintetica e va dal concreto all'astratto e di qui torna al concreto. La possibilità di un'operazione del genere nasce dalla natura stessa della fiaba: dalla sua struttura fortemente caratterizzata dalla presenza, dal ritorno, dalla ripetizione di certi elementi compositivi che possiamo chiamare «temi».

Un esempio noto di trama a ricalco in architettura è quello analizzato da Colin Rowe che ha dimostrato la sostanziale coincidenza tra le piante di Villa Foscari di Palladio e Villa Stein di Le Corbusier.

Un esempio più recente nasce dal confronto fra le Two Patio Villas di Koolhaas e la Casa Farnsworth di Mies van der Rohe, la cui planimetria è praticamente coincidente, cambia solo la «pelle».

È possibile studiare le costanti della fantasia, dell'invenzione e della creatività? È possibile cercare di capire come «nasce» un'idea?
In questo libro ho cercato di elencare e di analizzare quelle che io credo siano le costanti elementari, le più semplici di questo fenomeno.

Così esordisce Bruno Munari in Fantasia, libro in cui cerca di capire, indagandone i meccanismi e le costanti, come funzionano la fantasia, la creatività e l'invenzione, con il duplice scopo di imparare e di insegnare a essere creativi, togliendo i veli di ineffabilità ad una disciplina che difficilmente si interroga sui propri strumenti inventivi. Una disciplina che difficilmente rivela come nasce un'idea o come si sviluppa un'opera d'arte, una disciplina che mostra semplicemente il prodotto finito.

Per Munari la fantasia è la facoltà più libera di tutte le altre, perché non si preoccupa se ciò che ha pensato funziona, è realizzabile, ha un valore economico, se è di pubblica utilità o quant'altro: «È libera di pensare qualunque cosa la più assurda, incredibile, impossibile».

«L'invenzione è tutto ciò che prima non c'era ma esclusivamente pratico e senza problemi estetici». Quindi «l'invenzione usa la stessa tecnica della fantasia, cioè la relazione fra cose che si conoscono, ma finalizzata ad un uso pratico».

Chi inventa, per Munari, non si preoccupa del lato estetico della sua creazione, gli basta che la cosa inventata funzioni e serva, sia utile. «Inventare significa allora pensare a qualcosa che prima non c'era», a differenza di scoprire che «vuol dire trovare una cosa che prima non si conosceva ma che esisteva».

La creativita è un uso congiunto della fantasia e dell'invenzione, però in modo globale. La creatività è un modo per inventare libero come la fantasia, però esatto come l'invenzione. Comprende in sé tutti gli aspetti del problema. Cura non solo l'immagine, come la fantasia, e la funzionalità, come l'invenzione, ma anche gli aspetti sociali, psicologici, umani, economici.

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UN'INTERPRETAZIONE CRITICA:
L'OPERA D'ARTE COME PARADIGMA DELL'ARCHITETTURA


Lo zigzag del Museo Ebraico non è una novità per Libeskind, la sua scultura intitolata Lines of Fire (1987) possedeva la stessa forma ed era stata realizzata per commemorare il tragico incendio che aveva bruciato altre sue opere; anche le Writing Machine (1986) preludevano al giardino di E.T.A. Hoffmann. L'architetto di origine polacca, quindi, aveva già concepito e realizzato, anche se a una scala e con una funzione diverse, le forme degli elementi che avrebbero poi caratterizzato il Museo Ebraico.

Le ricorrenti incursioni nella scultura e nella pittura sono tipiche non solo di Libeskind, ma anche dei Coop Himmelb(l)au, di Zaha Hadid e in un certo qual modo di Gehry. La scultura e la pittura sono il terreno privilegiato dove provare a sperimentare forme, materiali, colori... Queste escursioni extradisciplinari si configurano come esercitazioni compositive vere e proprie, e alimento indispensabile per la pratica architettonica, perché nella scultura e nella pittura ci sono gradi di libertà maggiori, difficili da trovare laddove ci si deve confrontare con problemi economici, funzionali, gestionali...

Il continuo trapasso da un campo disciplinare all'altro ha avuto come conseguenza l'offuscamento dei reciproci confini, conducendo a una sorta di indistinzione fra le arti che riecheggia Boccioni quando affermava che «non v'è pittura, né scultura, né musica, né poesia, non v'è che creazione». Oggi si vedono architetture che sembrano sculture e viceversa, sculture che sembrano architetture, oppure architetture in cui la superficie di rivestimento assume tale importanza da configurarsi come un quadro o il monitor di un computer su cui è possibile fare esperimenti d'arte elettronica.

Questi architetti-artisti hanno capito un'altra cosa, ossia che se le loro architetture godono lo statuto di opere d'arte – perché il museo di Berlino è un'opera d'arte, così Bilbao, così la Steinhaus di Domenig ecc. –, questa condizione le preserverà dalla rapida obsolescenza e dalla distruzione, essendo l'opera d'arte uno dei pochi valori di sicurezza oltre che di redditività indotta. La prospettiva di vita di un edificio non dipenderà dalla sua funzionalità o da ragioni utilitaristiche, ma dal suo status di opera d'arte e in quanto tale degna di essere preservata.

Progettare edifici come opere d'arte, capaci di catturare l'interesse e la fantasia del grande pubblico, è una sottile strategia per assicurarsi un futuro e avere garanzie di continue commesse.


FRANK GEHRY, MUSEO GUGGENHEIM, BILBAO, SPAGNA 1991-97


Per il Museo Guggenheim si sono sprecati gli aggettivi e le interpretazioni critiche. Qui si vuole solo dimostrare come la metafora abbia avuto traduzione nell'architettura di Gehry, superandosi continuamente nella moltiplicazione dei significati.

Gehry per primo durante le fasi di costruzione dei plastici di studio, fatti di assemblaggi di forme plastiche e stereometriche, chiama i principali volumi con nomi propri, quasi a definirne la personalità: Nemo, Zorro, Fish, Potemkin. Questa caratterizzazione già prepara alla molteplicità di significati per le interrelazioni possibili fra le «personalità» in gioco.

Un articolo di presentazione del Guggenheim recita così: «Costruito in titanio, pietra e cristallo, curvilineo e carnoso, il Museo di Gehry somiglia a una scultura gigantesca, a un animale mai visto».

Quindi l'edificio è un animale, carnoso e curvilineo. Ma che animale è? È sicuramente un animale acquatico, perché l'edificio sorge in riva al fiume Nervion ed è rivestito di squame in titanio, sembra una balena per le sue dimensioni e un serpente per la sua flessuosità.

Però il Guggenheim sorge, oltre che in prossimità di un fiume, vicino a dei cantieri navali: il museo non potrebbe essere una nave da carico? Il grande volume che si spinge sotto il Pont de la Salve è la piattaforma e gli elementi che si sviluppano in verticale (corrispondenti all'atrio) la cabina di comando.

Solo che il volume dell'atrio centrale sembra piuttosto un'esplosione, oppure un fiore fatto di petali minutissimi (il rivestimento in titanio), ripreso per fotogrammi istantanei mentre sta per sbocciare.

Allora esplosione o fiore? Di fatto un fiore che sboccia è un'esplosione, allora forse le due interpretazioni coincidono: il museo è un fiore che esplode per sbocciare.

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FRANK GEHRY, CASA GEHRY, SANTA MONICA, CALIFORNIA, USA 1977-78

C'è un progetto che rappresenta la sintesi fra la scomposizione letterale e quella concettuale: è la casa che Gehry costruisce per se stesso e per la propria famiglia.

È una scomposizione letterale perché è un assemblaggio eccentrico di materiali di risulta enunciati come in un computo metrico, ma nello stesso tempo è una scomposizione concettuale perché Gehry decostruisce (anche se non lo riconoscerà mai) tutta una serie di icone tradizionali:

la poetica del grazioso americano muta in un'estetica del casuale, l'ordinato assemblaggio del balloon frame esplode nei contrasti dei materiali, il senso tradizionale – importantissimo nel mondo anglosassone – del fronte e retro (l'uno formale e omologante, l'altro informale e idiosincratico) si ribalta. Il vecchio, il preesistente, la norma classica e convenzionale non si annullano, ma cambiano completamente significato.

Come viene progettata la casa? Gehry acquista un lotto con una casa colonica olandese di colore rosa a due piani più mansarda, ma non decide di abbatterla per ricostruirne una ex novo, l'accetta come condizione di partenza, dimostrando un atteggiamento di amore e odio per la sua immagine: la odia, perché la comprende entro le coordinate del gusto piccolo borghese dei suoi vicini, ma nello tempo la ama perché non la distrugge.

L'edificio originale viene avvolto da una sorta di carapace a «U», Si salva solo un lato della vecchia casa, che emerge fra una pioggia di forme, di pannelli di lamiera e compensato, di reti, di vetri fatti precipitare di sopra, di sotto e di fianco: un libero assemblaggio di piani e volumi, di forme sghembe e oblique.

Gehry ricorda un bricoleur. Sembra di vederlo armato di sega, martello e chiodi intento a costruirsi il proprio rifugio ritagliando i pannelli di lamiera corrugata e di compensato marino secondo certe forme, così da poter inquadrare quella vista; piegando la lamiera in un certo modo per ottenere quel certo effetto spaziale; inserendo quel cubo di vetro a mo' di lucernario perché porti la luce direttamente in cucina.

La spazialità interna della casa viene completamente deformata, pur mantenendo integra la struttura portante; al piano terra viene aggiunto un nuovo ingresso, il lato lungo della «U» diventa la zona della cucina e del soggiorno; sul giardino retrostante la forma si completa con una galleria portico. Al piano superiore l'addizione forma camminamenti e terrazzi da cui emerge un caleidoscopico insieme di forme, volumi, reti, vetri, metalli. L'interno vede pareti e controsoffitti trafitti da tagli e squarci che aprono a nuove viste.


Dalla decostruzione-scomposizione della casa borghese finiscono ed emergono nuovi valori e idee. Finisce il senso della composizione in pianta e in alzato. Finisce l'idea del progetto inteso come unità armonica di parti a cui non è possibile togliere o aggiungere nulla senza guastare l'insieme: la casa dà l'impressione di un cantiere-laboratorio in continua evoluzione (tanto è vero che Gehry l'amplierà e la modificherà): il non finito diventa valore.

La residenza fece subito scalpore nell'ambito del vicinato di Venice, dove è ubicata, perché è tutto fuorché una casa; è piuttosto una baracca fatta con materiali di risulta e di bassa produzione industriale: rete metallica, macadam, asfalto, lamiera ondulata, lamiera zincata, compensato marino non colorato e non trattato, tutto «messo lì» brutalmente. Forse ai vicini non saltò all'occhio per inconsce rimozioni, ma, come già accennato, Gehry ha operato una scelta contestuale ante litteram, perché tutti quei materiali «scandalosi» sono presenti in molte case del circondario: nei recinti dei campi da tennis e delle piscine, nei garage per le macchine e per le roulotte, nei depositi degli attrezzi da giardinaggio, nelle cuccette per i cani... Insomma, per quanto possa sembrare paradossale Gehry definisce una nuova forma di contestualismo, senza ricorrere alle tipologie esistenti, per quanto parlare di tipologie a Los Angeles sia un azzardo, ma prendendo a prestito i materiali delle desolate periferie angelene e usandoli in un modo e con una sensibilità del tutto diversi.

Con questo progetto Gehry indica nuove possibilità espressive e la nuova via per una ricerca architettonica aperta all'universo dei segni degradati e compromessi del paesaggio urbano delle periferie e delle zone di margine, al «cheapscape: il paesaggio povero, di un quotidiano perplesso e angosciato, svincolato da idoli e canoni, insicuro e aperto a qualsiasi ipotesi rischiosa».

Gehry – afferma Zevi – impersona il concetto che separa la modernità dall'inerzia tradizionale. Non vuole che l'architettura assuma un mero valore compensatorio e consolatorio rispetto alla vita, rifugiandosi nelle apparenti certezze della geometria elementare, dei parallelepipedi, degli angoli retti, degli ambienti chiusi, che esprimono la paura del nuovo, del diverso, dell'instabile e del disarmonico, del disordinato e del nevrotico represso. [...] Sa che l'esistenza è conflittuale, densa di slanci e cadute, contraddittoria, e intende presentarla nell'ambito di una progettualità «disturbata», mutevole.

Dalla casa si possono trarre alcuni insegnamenti.

Primo. È possibile rinnovare la ricerca architettonica usando un linguaggio affrancato da costrizioni e da regole: il grado zero della scrittura, cioè una lingua più libera e aderente alla realtà dei fatti perché meno compromessa da canoni stilistici e da apparati retorici consolidati.

Secondo. L'interesse verso la materialità e le potenzialità espressive dei materiali contemporanei non ancora connotati da valori già dati. I materiali di scarto aprono a nuove potenzialità una volta decontestualizzati dal solito impiego.

Terzo. La rottura degli steccati disciplinari. Dietro il cheapscape è possibile intravedere il legame con alcune correnti artistiche, il Dadaismo, il Noveau Réalisme e le esperienze dell'Arte Povera, e in particolare con alcuni artisti come Kurt Schwitters, Jean Tinguely e César.

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9.
CONTRASTO



Il contrasto è una tecnica molto usata nella progettazione per efficacia e chiarezza di impiego; consiste nel gioco degli opposti: caldo-freddo, luce-ombra, pieno-vuoto, scatola-spirale, leggero-pesante, alto-basso, apollineo-dionisiaco...

È una tecnica costruita sulla dialettica fra due polarità. Rodari l'ha definita Binomio fantastico, Munari Il mondo alla rovescia e Franco Purini e Laura Thermes Associazione concettuale di elementi diversi.

Abbiamo visto nascere – dice Gianni Rodari – il tema fantastico – lo spunto per una storia – da una singola parola. Ma si è trattato, più che altro, di un'illusione ottica. In realtà, non basta un polo elettrico a suscitare una scintilla, ce ne vogliono due. La singola parola agisce («Buffalo. E il nome agì... » dice Montale) solo quando ne incontra una seconda che la provoca, la costringe a uscire dai binari dell'abitudine, a scoprirsi nuove capacità di significare. Non c'è vita, dove non c'è lotta.

Ciò dipende dal fatto che l'immaginazione non è una qualche facoltà separata dalla mente: è la mente stessa, nella sua interezza, la quale applicata ad un'attività piuttosto che a un'altra, si serve sempre degli stessi procedimenti. E la mente nasce nella lotta, non nella quiete. [...] Una storia può nascere solo da «binomio fantastico». «Cavallo-cane» non è veramente un «binomio fantastico». È una semplice associazione all'interno della stessa classe zoologica. All'evocazione dei due quadrupedi l'immaginazione assiste indifferente. È un accordo di terza maggiore, non promette niente di eccitante. Occorre una certa distanza tra le due parole, occorre che l'una sia sufficientemente estranea all'altra, e il loro accostamento discretamente insolito, perché l'immaginazione sia costretta a mettersi in moto per istituire tra loro una parentela, per costruire un insieme (fantastico) in cui i due elementi estranei possano convivere.


Nel contrasto è fondamentale che l'antipolo sia distante dal polo di partenza per creare una bipolarità – tra regola ed eccezione, tra ordine e disordine, tra forme geometriche e forme naturali –; se così non fosse la tecnica non funzionerebbe.

Le architetture del contrasto sono esprimibili, dal punto di vista lessicale, dalla congiunzione «e tuttavia»; l'omissione del famoso «o-o» di stampo funzionalista a favore del più intrigante «e-e» porta a evidenziare un certo grado di ambiguità insita nella dialettica fra due poli riuniti nello stesso progetto.

La contraddittorietà si contrappone all'omogeneità e si coniuga con la disgiunzione e la discontinuità. Disgiunzione dalle attese normalizzanti del progetto. Discontinuità rispetto ai progetti risolti attraverso euritmie, simmetrie, relazioni geometriche e proporzionali, tracciati regolatori. Discontinuità rispetto ai progetti totalizzanti e conclusi.

Un'ambizione totalizzante che anche a livello filosofico non ci appartiene più. David Harvey nell'introduzione a La crisi della modernità descrive infatti così la nostra condizione filosofica:

in senso più positivo, i responsabili della rivista di architettura «PRECIS 6» considerano il postmodernismo una reazione legittima alla «monotonia» della visione del mondo propria del modernismo universale. «Visto generalmente come positivistico, tecnocentrico e razionalistico, il modernismo universale è stato identificato con la fede nel progresso lineare, nelle verità assolute, nella pianificazione razionale di ordini sociali ideali e nella standardizzazione della coscienza e della produzione». Il post-modernismo, al contrario, predilige «eterogeneità e la differenza delle forze liberatrici nella ridefinizione del discorso culturale». La frammentazione, l'indeterminatezza e la profonda sfiducia in tutti i linguaggi universali o «totalizzanti» (per usare l'espressione preferita) sono il contrassegno del pensiero postmodernista.

Sempre Harvey cita un passo di Terry Eagleton in cui il critico letterario afferma che

ci stiamo ora risvegliando dall'incubo della modernità, con la sua ragione manipolatrice e il feticcio della totalità, per passare al pluralismo ripiegato su se stesso del postmoderno, quella schiera eterogenea di stili di vita e di giochi linguistici che ha rinunciato all'imperativo nostalgico di totalizzare e legittimarsi... La scienza e la filosofia devono liberarsi dalle loro grandiose ambizioni metafisiche e considerarsi, più modestamente, semplicemente un'altra serie di narrazioni.


I progetti basati sul contrasto esprimono la condizioni plurale, indeterminata e frammentata dall'attuale condizione filosofica e sociale. E se già in sé esaltano le differenze, spesso le fanno esplodere, insieme alle loro contraddizioni, nel confronto con la città, che diventa il luogo privilegiato dove manifestare la propria diversità.


Nonostante la tecnica del contrasto possa caricarsi di risvolti filosofici, bisogna fare due considerazioni.

La prima. Munari riconosce che i principi duali sono connaturati all'uomo, appartengono a un atteggiamento tipicamente umano:

noi sappiamo che l'individuo ha memorizzato, da più di tremila anni, delle coppie di contrari, il bene e il male, la luce e il buio, il caldo e il freddo e via dicendo. E i cinesi ci hanno tramandato fin dai tempi antichi il famoso Yang-Yin che è una unità a forma di disco, formata da due elementi uguali e contrari, uno bianco e uno nero, uno in un senso e uno a rovescio rispetto al primo. Questi elementi rappresentano l'equilibrio instabile della vita, equilibrio che ogni individuo farebbe bene a preoccuparsi di conservare, correggendo gli squilibri man mano che si presentano nel tempo. Un contadino, abituato a vivere in mezzo al verde, sceglierà istintivamente (e molti lo fanno) una tinta rosa per la sua casa. Un'altra persona fugge dal traffico cittadino e va a cercare il suo equilibrio in un posto tranquillo in mezzo alla natura. Una persona che lavora tutto il giorno con i numeri, troverà il suo equilibrio nella pittura. Tutti questi elementi equilibratori sono esattamente i contrari di ciò che ha causato lo squilibrio. È naturale quindi, è spontaneo, che una persona pensando a una cosa, pensi anche al contrario.

La seconda considerazione si svolge in ambito architettonico. Il contrasto non è una nuova tecnica di invenzione, basti pensare alla nota dualità lecorbusieriana fra le «forme primarie» e «oggetti a reazione poetica». La tecnica è talmente frequente nel caso di Le Corbusier da poter costituire una delle chiavi di lettura del suo lavoro.

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